Affari in Svizzera del manager amico dell’ex premier

Paolo Campinoti, l’imprenditore toscano che domenica scorsa si trovava in Bahrein insieme a Matteo Renzi, non ha solo la passione per i motori. Gli piace molto anche la Svizzera. Le società anonime svizzere, in particolare. A due passi dal confine, in Canton Ticino, il presidente di Confindustria Toscana Sud ha infatti parecchi interessi. È noto che fino a una decina di anni fa gestiva infatti la Pramac Swiss, attiva nel settore fotovoltaico, fallita lasciandosi alle spalle un buco da 144 milioni di franchi e 130 dipendenti. Il crac ha attirato l’attenzione dei magistrati della Confederazione elvetica, che nel 2014 hanno aperto un’inchiesta per bancarotta fraudolenta e altri reati finanziari nei confronti di Campinoti e di alcuni suoi collaboratori.

Ignota finora era invece un’altra azienda svizzera dell’imprenditore amico del leader di Italia Viva. Si chiama C-Invest SA, sede a Lugano. È una società anonima fondata nel 2007. Si occupa ufficialmente di compravendite immobiliari e gestioni di quote finanziarie. Il fatturato non è noto: in quella che fino al 2018 è stata la patria del segreto bancario, ancora oggi non è permesso leggere i bilanci delle imprese. I documenti disponibili raccontano però alcune coincidenze. L’impresa elvetica del rappresentante di Confindustria è vigilata dalla Dreieck Fiduciaria SA. È la stessa società a cui era intestata la scatola panamense Gleason SA. Lo raccontano gli atti dell’inchiesta della Procura di Milano sulla Lombardia Film Commission e sui commercialisti della Lega, Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni e Michele Scillieri. In quel caso la fiduciaria Dreieck schermava proprio Scillieri: era lui il beneficiario della Gleason, secondo quanto ricostruito dai magistrati lombardi. Prima della Dreieck, ad amministrare la società svizzera di Campinoti c’era un altro nome noto alle cronache giudiziarie italiane: Davide Enderlin. È l’avvocato ed ex politico ticinese finito nello scandalo di Banca Carige e del suo allora presidente, Giovanni Berneschi. Enderlin era stato arrestato nel 2014 con l’accusa di aver riciclato in Svizzera parte del tesoro distratto da Berneschi all’istituto genovese: 23 milioni di euro usati per comprare quote di un hotel alla periferia di Lugano. Condannato in primo grado a cinque anni e sei mesi, poi assolto in Appello, il professionista ticinese è tornato sul banco degli imputati l’anno scorso dopo che la Cassazione ha stabilito che il processo di secondo grado è da rifare. Ma le sue grane giudiziarie non finiscono qui. Secondo quanto ricostruito dal Fatto, Enderlin è indagato attualmente anche in Canton Ticino insieme a Campinoti: l’inchiesta della magistratura elvetica sulla presunta bancarotta fraudolenta della Pramac Swiss è infatti ancora aperta.

Di certo l’imprenditore toscano – al Corriere della Sera ha assicurato che con Renzi in Bahrein non ha parlato di affari – a Lugano ha ancora molti interessi. La sua C-Invest SA, controllata dall’azienda di famiglia, l’italiana Ifc, è iscritta a bilancio per un valore di 2 milioni di euro. Non è chiaro se il merito sia proprio della società basata in Svizzera, dove le imposte sono notoriamente più leggere rispetto all’Italia, ma nell’ultimo bilancio disponibile (2019) Ifc ha messo a segno un risultato invidiabile. A fronte di un risultato operativo di 4,4 milioni, ha registrato utili netti per 4,3 milioni. Ha pagato insomma solo 57mila euro di tasse. Merito di una particolare voce del rendiconto, chiamata “altri proventi”. Quali siano precisamente questi altri proventi, però, nel bilancio dell’azienda di Campinoti non è spiegato.

“Matteo untore”: la paura corre al Senato tra i colleghi

“Ma Renzi viene?”. Ma soprattutto: “Sì sarà fatto il tampone?”. Quello di ieri doveva essere il giorno del voto sull’assegno unico per i figli, ma in Senato si parla di tutt’altro: i viaggi di Matteo Renzi all’estero e il suo ritorno a Palazzo Madama dopo il weekend in Barhein. Nel salone Garibaldi molti senatori sono terrorizzati di incontrare il collega fiorentino che aveva annunciato la sua presenza in aula per votare il provvedimento. “Il rischio dell’untore c’è” allarga le braccia rassegnate un senatore non troppo lontano da Renzi sui banchi del Senato (“ma mi tenga anonimo per carità”). Questo è il clima, mentre il vicepresidente Ignazio La Russa apre la seduta. “Io da Renzi ci sto lontano” mette in chiaro l’ex M5S Emanuele Dessì mentre Paola Binetti, che aveva presentato un’interrogazione al ministro della Salute per chiedere il vaccino ai senatori, chiede: “Renzi ha fatto il tampone?”. Non si sa, senatrice. “Viaggiare fuori dall’Italia è un grosso fattore di rischio” bacchetta.

Saverio De Bonis, ex M5S oggi tra gli “Europeisti”, si sfoga con il questore Antonio De Poli dell’Udc: “Se vuole fare come Blair si dimetta”. Poi spiega: “Se oggi Renzi viene in Aula è imprudente”. In quel momento, nel salone Garibaldi arriva Francesco Bonifazi, che di solito si presenta al fianco dell’ex premier. I presenti si irrigidiscono. Ma Bonifazi è da solo. Si trattiene per una mezz’ora davanti alla buvette parlottando con i colleghi: “Ma lui è vaccinato” ricorda un ex renziano. Sui cellulari dei senatori gira la comunicazione del 30 ottobre inviata al Senato dal dg del ministero della Salute, Giovanni Rezza, secondo cui i parlamentari possono viaggiare all’estero, indipendentemente dai motivi, senza fare la quarantena. Maurizio Gasparri si permette di dubitare: “Renzi in aula? Forse era un po’ presto”. Renzi alla fine si palesa in aula, ma non passa dal Transatlantico. I senatori tirano un sospiro di sollievo.

Gran record di bombe dove arriva il bomba

Matteo Renzi viaggia come se non avesse mai lasciato Palazzo Chigi. La sua carriera da conferenziere attinge al network di rapporti coltivati negli anni da premier. Le aree visitate nell’ultimo periodo, Africa e Golfo Persico, sono le stesse in cui il suo governo ha costruito un record storico in uno specifico settore: l’export di armi. “In tre anni, dal 2014 al 2016, il suo esecutivo ha sestuplicato le autorizzazioni per esportazioni di armamenti”, spiega Giorgio Beretta, analista dell’osservatorio Opal. L’Italia è passata dai 2,1 miliardi di euro del 2013 ai 14,6 miliardi del 2016. Le cifre riguardano tutto il mondo, ma la crescita è concentrata nelle due aree citate: Golfo Persico e Africa Subsahariana.

Africa. I numeri elaborati da Beretta mostrano una tendenza cristallina: negli anni di Renzi, in parallelo alle numerose visite del premier ai leader del continente, le esportazioni di armi verso gli Stati africani sono aumentate in modo esponenziale. Le aziende italiane hanno fatto affari in Etiopia, Congo, Nigeria e Angola, ma il record è in Kenya (dove il senatore ha programmato uno dei prossimi viaggi). Il traffico in direzione Nairobi è iniziato nel 2015 per poi esplodere nel 2017, l’anno in cui l’Italia ha consegnato al governo kenyota tre aerei da trasporto tattico C-27J Spartan prodotti dalla Alenia (per oltre 160 milioni di euro), tre elicotteri AW-109 per impiego militare di Agusta-Westland (44 milioni di euro), 1.500 fucili d’assalto Arx-200 e mille pistole mitragliatrici Mx4 fabbricate dalla Beretta (3,7 milioni di euro). Al governo c’era Gentiloni, ma le autorizzazioni per questi tre grandi contratti risalgono tutte all’anno precedente, l’ultimo di Renzi a Palazzo Chigi.

Qatar. I flussi verso il Golfo Persico sono ancora più consistenti. Nel 2014, la ricca monarchia qatariota era al centro del dibattito internazionale per le accuse di sostegno ai gruppi dell’Isis in Siria – protagonisti di crimini brutali anche contro civili e occidentali – per rovesciare il regime di Assad. Il canale con Doha viene aperto dalla visita del 2014 dell’ex vice ministro degli Esteri, Lapo Pistelli: “Il Qatar non è solo un attore imprescindibile per la stabilizzazione della regione – dichiara –, ma anche un Paese molto ricco, dove è più che opportuno esplorare ogni possibilità di collaborazione”. Nello stesso periodo, nel Paese è volata anche la ministra della Difesa, Roberta Pinotti. A gennaio 2016, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani viene ricevuto a Roma da Renzi e dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nemmeno sei mesi dopo, a metà giugno, la ministra Pinotti e il suo omologo, Khalid bin Muhammad al Attiyah, siglano il Memorandum per la cooperazione nel settore navale, con la Difesa qatariota che firma anche un contratto con Fincantieri e Mbda per la fornitura di cinque navi militari per circa 5,3 miliardi di euro. L’accordo farà schizzare il valore delle autorizzazioni del 2017 verso il Qatar a oltre 4,2 miliardi e quelle del 2018 a oltre 1,9 miliardi di euro (nel 2015 erano appena 35 milioni, nel 2016 invece 341).

Arabia Saudita. Il commercio di armi è fiorente anche verso l’Arabia Saudita, il Paese del “Nuovo Rinascimento” e di Mohammad bin Salman, “amico” di Renzi e mandante dell’omicidio Khashoggi secondo la Cia. La vetta è nel 2016, con il via libera al famigerato export di bombe prodotte dalla Rwm di Domusnovas verso Riyad, protagonista nel sanguinoso conflitto nello Yemen. L’accordo prevede l’esportazione di circa 20mila bombe Mk80 per un valore di 411 milioni di euro: è la maggiore commessa italiana per munizionamento pesante dal dopoguerra. Come suggerisce il numero di licenza MAE45560 l’autorizzazione è del 2014. L’affare arriva dopo una serie di intensi incontri sull’asse Roma-Riyad: nel 2015 il ministro degli Esteri Adel al Jubeir è in Italia, a novembre dello stesso anno Renzi vola nella Capitale saudita per incontrare, tra gli altri, re Salman e l’allora vice principe ereditario Mohammad bin Salman, a ottobre 2016 a Riyad arriva invece Pinotti. L’export di bombe verso l’Arabia Saudita è stato sospeso nell’estate del 2019 e revocato definitivamente nel gennaio 2021.

Kuwait. L’11 settembre 2015 – pochi mesi dopo una visita di Pinotti nell’emirato –, Renzi riceve a Roma il primo ministro della monarchia, Jaber Mubarak al Hamad al Sabah. In quei giorni viene anche firmato un accordo intergovernativo che porterà, il 5 aprile 2016, all’intesa tra Finmeccanica e Kuwait City per la fornitura di 28 caccia Eurofighter Typhoon. Un affare da oltre 7 miliardi di euro.

AstraZeneca: nuovo alt tedesco

In Germania il ministro della Salute, Jens Spahn, e i rappresentanti dei Länder si sono accordati ieri all’unanimità per somministrare il vaccino di Astrazeneca solo a persone dai 60 anni in su, a meno che non appartengano a categorie ad alto rischio per Covid-19 e abbiano concordato con il loro medico di usarlo. Lo stop all’uso di Astrazeneca per gli under 60 giunge nel mezzo di nuovi timori per casi di trombi sanguigni, in particolare dopo che il panel tedesco indipendente di esperti sui vaccini ha espresso una raccomandazione in tal senso. La decisione è stata presa dopo la mossa della città-Stato di Berlino che per prima ha fermato le vaccinazioni per tutti gli under 60. A seguire anche il Land del Brandeburgo, che circonda la Capitale tedesca, e poi Monaco di Baviera hanno preso in seguito la stessa decisione. Quindi la stessa modalità è stata estesa in serata a tutta la Germania. La decisione tedesca giunge dopo che l’ente regolatore medico della Germania ha diffuso nuovi dati che mostrano che fino al 29 marzo sono stati registrati 31 casi di trombi sanguigni rari in persone che avevano ricevuto di recente le dosi, e nove di queste persone sono morte. “Dopo diverse consultazioni la Stiko (commissione permanente tedesca sui vaccini) ha deciso a maggioranza di raccomandare il vaccino Astrazeneca solo per le persone di 60 anni e più, sulla base dei dati attualmente disponibili sul verificarsi di effetti collaterali tromboembolici rari ma molto gravi”: è quanto scrive in un comunicato la commissione permanente tedesca sul sito del Robert Koch Institut. In Germania sono state già somministrate in totale circa 2,7 milioni di dosi del vaccino Astrazeneca. E dall’altra parte dell’Atlantico, il Canada ha sospeso le somministrazioni agli under 55. Nella stessa giornata della nuova tegola sulla multinazionale anglo-svedese, madre del vaccino realizzato in collaborazione con l’italiana Irbm, è arrivata anche la notizia del nome “vero” del siero, che sarà “Vaxzevria”. La denominazione è stata approvata dall’Ema il 25 marzo a seguito di una richiesta da parte del gruppo farmaceutico, si legge nel sito dell’agenzia europea del farmaco, in cui è stato pubblicato anche il nuovo bugiardino. Tra gli effetti collaterali, vengono aggiunti i rarissimi casi di trombosi. “Dare un nome a un farmaco nuovo è una consuetudine. Ed è un processo che avviene in maniera separata dall’approvazione normativa e regolatoria del farmaco stesso”, precisa Astrazeneca in merito alla denominazione decisa del vaccino, che sarà chiamato Vaxzevria. “La sigla ‘Covid-19 Astrazeneca vaccine’, non era il nome del farmaco. Ora ha un nome che come prassi è stato registrato”.

“Virus, dati falsi per evitare il rosso: è un input politico”

Il 5 novembre scorso, il governatore Nello Musumeci attaccava il governo Conte per la decisione di inserire la Sicilia in zona arancione. Una scelta “scriteriata”, diceva all’Adnkronos. Eppure, il giorno prima, alcuni dirigenti regionali al telefono parlavano di come “spalmare” i dati sull’andamento della pandemia nell’isola, che dovevano essere trasmessi all’Istituto Superiore di Sanità. Quelle comunicazioni sono finite al centro di un’inchiesta della Procura di Trapani. Ad esempio proprio quel 4 novembre, per gli investigatori, venivano comunicati all’Iss “solo 19 decessi a fronte dei reali 26”. Quel 19 è un numero che per i pm non teneva conto dei sette morti di Biancavilla (Catania). “Mario, me li controlli i 7 morti a Biancavilla, mi sembra esagerato…”, dice Maria Letizia Di Liberti, dirigente generale del dipartimento regionale per le Attività sanitarie dell’assessorato alla salute. “No, sono che li ha mandati oggi perché prima non c’erano e li ha mandati oggi… e quindi che facciamo, non li diamo? Non sono tutti di oggi”, risponde Mario Palermo, referente unico della Regione per i dati Covid-19. “Quindi non sono morti tutti di oggi?” chiede la Di Liberti. E Palermo: “No, ce ne sono: 1 oggi, 2 ieri, 1 è dell’altroieri e 1 il 19, ma ce li dobbiamo mettere per forza… perché sennò alla fine ce li teniamo sulla pancia come l’altra volta!”.

Il 4 novembre, la Di Liberti parla anche con Ruggero Razza, l’uomo scelto dal governatore Musumeci come assessore regionale alla salute. “Biancavilla, i deceduti glieli devo lasciare o glieli spalmo?”, dice la Di Liberti. E Razza: “Ma sono veri?”. “Sì, solo che sono di tre giorni fa”, risponde la donna. L’assessore consiglia: “E spalmiamoli un poco”. Sono queste le intercettazioni che ieri hanno fatto esplodere una bomba sulla sanità in Sicilia, con Razza che, indagato per falso in atto pubblico, si è dimesso. E lo stesso reato è contestato alla Di Liberti, che invece è finita ai domiciliari con altre tre persone.

Per il gip Caterina Brignone quello che viene fuori dunque è un quadro “a dir poco sconcertante e sconfortante del modo in cui sono stati gestiti i dati pandemici regionali”, in una terra dove “le inefficienze, gli inadempimenti e le disfunzioni delle strutture periferiche” sono state “artatamente sfruttati in funzione della alterazione dei dati”. Ma perché comunicare a Roma dati falsi? Secondo gli investigatori, per evitare la zona rossa. Gli indagati, scrive il gip, hanno “operato nell’ambito di un disegno più generale e di natura politica”. “Si è cercato di dare – aggiunge il giudice – un’immagine della tenuta e dell’efficienza del servizio sanitario regionale e della classe politica che amministra migliore di quella reale e di evitare il passaggio dell’intera regione o di alcune sue aree in zona arancione o rossa, con tutto quel che ne discende anche in termini di perdita di consenso elettorale per chi amministra”. La politica, dunque. Come si evince da alcune conversazioni: “La terapia intensiva diminuisce perché ce li scotoliamo”, dice Ferdinando Croce, vicario capo di gabinetto dell’assessore della Salute, indagato per falso (non è destinatario di alcuna misura cautelare, come Razza). Proprio parlando con lui, il 4 novembre, la Di Liberti a un certo punto dice: “(…) Oggi è morta una, perché l’ambulanza è arrivata dopo due ore ed è arrivata da Lascari. (…) Perché? Perché sono tutte bloccate nei pronto soccorso (…) è morta per un infarto… che si poteva benissimo salvare…”. E di politica si tratta anche quando si creano i comunicati stampa. “Visto che c’è questa situazione di aumento di Messina, vorremmo bilanciare se c’è un buon dato sui guariti…”, dicono dall’ufficio stampa dell’assessore alla salute l’8 gennaio. E aggiungono: “Serve per bilanciare le polemiche su De Luca (Cateno, il sindaco di Messina, ndr), cioè quindi per fare bella figura”.

Ed è così che dalla Sicilia secondo le accuse per cinque mesi sono stati trasmessi all’Iss dati falsi sui alcuni decessi, sui tamponi (“ma mettici 2.000 di rapidi… fregatene!!!” dice la Di Liberti l’8 novembre 2020). E poi sui contagi: per esempio è il 10 gennaio scorso quando si parla di comunicare un tasso di positività su Messina pari al 17%. In realtà era del 35%. “Neanche ai tempi del colera c’era un rapporto percentuale così alto”, dice un addetto stampa. Chi paga sono i cittadini, perchè, scrive il gip, è “altamente probabile che” l’alterazione dei dati “abbia impedito l’adozione di misure di contenimento più severe ed efficaci”. Ma l’indagine con le misure di ieri non è conclusa. La carte saranno trasmesse a Palermo che dovrà verificare anche la posizione del commissario all’emergenza Renato Costa, non indagato ma che per il gip è stato “consapevole della prassi di ‘diluire’ i dati dei contagi”.

In tutto questo il governatore Musumeci (estraneo all’inchiesta), per il gip, è stato tratto in inganno “dalle false informazioni” riferitegli. Il 19 marzo viene intercettata una conversazione tra il governatore e Razza. Si parla di Palermo e il presidente è d’accordo nell’istituire una zona rossa. “Solo oggi superiamo i 400 casi solo a Palermo”, dice Razza. Il giorno dopo non è più così. E a Musumeci che gli chiede lumi, Razza dice: “No… era… con 250 per 100 mila! (…) No… ieri erano 400… ma nella settimana.. eh… (…) sono a 196 per 100 mila abitanti!”. “Va bene”, dice il governatore. Ma tanto bene per i siciliani forse non stava andando.

Salvini “strattona”. Giorgetti e strappa il suo contentino

Si tratta sul “meccanismo” che dovrebbe consentire dal 15 o dal 20 aprile un allentamento delle chiusure, come l’apertura di bar e ristoranti fino a una certa ora, forse le 16, in presenza di dati molto confortanti sull’andamento dell’epidemia. E soprattutto consentire a Matteo Salvini di salvare la faccia senza indispettire troppo Roberto Speranza, il Pd e il M5S. Ci sarebbe anche un via libera di Silvio Brusaferro e Franco Locatelli del Comitato tecnico scientifico. I tecnici di Palazzo Chigi trattano con Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico e leghista molto più di governo che di lotta, ma richiamato energicamente dal capo in un incontro della settimana scorsa: c’è chi giura che le urla si sentivano anche nei corridoi del ministero di via Veneto. Non gli va bene che il “suo” ministro condivida la linea “aperturista” e poi si trasformi in agnellino al tavolo del governo, di fronte a un’epidemia che galoppa e uccide. Ma insomma, sembra confermata l’abolizione delle zone gialle anche ad aprile, tutti in arancione o rosso, riaprono solo le scuole fino alla prima media in zona rossa e le superiori al 50% in arancione: alle Regioni potrebbe essere vietato di fare di testa loro. E le eventuali riaperture dopo metà aprile non saranno automatiche. Arriva anche un mezzo segnale di rigore sui viaggi all’estero, con una nuova ordinanza di Speranza: tampone e quarantena ma breve, 5 giorni, al rientro.

Oggi il governo farà il decreto. E le nuove norme sugli operatori sanitari che non si vaccinano: sospensione da lavoro e stipendio anche per chi non è a contatto quotidiano con i pazienti (centralinisti, tecnici, impiegati); potrebbe saltare il trasferimento a mansioni meno a rischio. Troveranno una quadra anche sul cosiddetto scudo penale, che limita la responsabilità dei sanitari a dolo e colpa grave. Si discute se debba coprire solo le eventuali reazioni avverse gravi (anche letali) alle vaccinazioni o tutti i casi di lesioni e omicidio colposi connessi all’emergenza Covid-19. Potrebbe essere limitata anche la responsabilità dei dirigenti e quella (civile) delle strutture sanitarie pubbliche e private: su questo il provvedimento naufragò l’anno scorso.

Sulla campagna vaccinale piove ancora uno stop ad AstraZeneca, il cui vaccino ora si chiama Vaxzevria. La Germania ha deciso di consigliarlo solo agli over 60, come avevano già fatto la Francia (solo over 55) e la Svezia (agli over 65). A Berlino hanno rilevato 31 casi di trombosi cerebrali – di cui nove letali – su 2,7 milioni di vaccinati, tutte donne tranne due, tra i 20 e i 63 anni: non c’è prova della correlazione con il vaccino, ma sono numeri superiori a quelli attesi nella popolazione generale. Vedremo cosa farà l’Italia. La Danimarca non ha ancora revocato il blocco. Sono in corso valutazioni dell’agenzia europea Ema, attese per il 5-6 aprile. Anche in Italia c’è chi pensa di darlo solo ai meno giovani.

L’epidemia ieri ha fatto registrare altri 529 decessi. Si muore anche per i ritardi nella vaccinazione degli over 80 e degli over 70. Corrono anche le varianti del virus. Quella inglese, come abbiamo anticipato, è largamente prevalente: la terza indagine del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità ne ha attestato ieri la presenza nell’86,7% dei 1.951 tamponi positivi del 18 marzo scorso, selezionati su base territoriale ma non per classi d’età. Un mese prima era al 54%, ai primi di febbraio al 17%. Ma la variante inglese è ormai nota e, per quando sia più contagiosa e secondo alcuni studi più letale, non sembra resistere ai vaccini. La variante brasiliana, che preoccupa per la presunta maggiore letalità e anche per il sospetto che resista maggiormente ai vaccini, sembra essersi fermata: a livello nazionale arretra dal 4,3% registrato il 18 febbraio al 3% dei casi del 18 marzo. È stata dunque contenuta, si è radicata solo nell’Italia centrale. È infatti al 20,5% nel Lazio, un caso su cinque. È al 32% in Umbria dove è ha colpito anche persone vaccinate sia pure senza gravi conseguenze almeno fra gli operatori sanitari; al 13,6% in Liguria, al 12,5% nelle Marche, al 10,1% in Toscana. Frena anche la sudafricana: 13,3% dei contagi solo Bolzano, dove è arrivata dal Tirolo, ma la media nazionale resta allo 0,6%.

Vaccini, adesso i medici di base non servono più

Dopo i medici di famiglia, con l’accordo tra ministero della Salute, Regioni, Federfarma e Assofarm è scattata la campagna di reclutamento dei farmacisti ai quali affidare le vaccinazioni, a partire dalla metà di aprile, sulla scia della sperimentazione avviata ieri dalla Liguria, che ha fatto da apripista. Non senza polemiche, visto che l’intesa non prevede la presenza del medico. Presenza che è invece indispensabile, secondo il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici Filippo Anelli, “per raccogliere il consenso informato, valutare lo stato di salute del paziente e gestire in maniera pronta eventuali effetti collaterali, così come prevede l’Aifa”.

E la platea dei vaccinatori è destinata ad ampliarsi, come ha spiegato ieri il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo alle commissioni Affari sociali di Camera e Senato. Non solo dando “impulso agli accordi con i medici di medicina generale” o avvalendosi di pediatri, specializzandi, odontoiatri, medici ambulatoriali e, appunto, farmacisti. Spuntano anche biologi, ostetriche, tecnici di laboratorio. “Le stiamo pensando tutte con il ministro Speranza – ha riferito Figliuolo –. Se vogliamo essere pragmatici si accettano piccoli rischi a beneficio di un bene supremo”. Peccato che, nel frattempo, ai medici di famiglia in molte regioni non vengono forniti i vaccini. Così in Lazio e Lombardia per esempio. Nonostante il protocollo nazionale siglato il 21 febbraio dai sindacati di riferimento con il governo e le Regioni (intesa seguita da accordi regionali) in base al quale l’approvvigionamento delle dosi “dovrà avvenire in tempi certi e in quantità tali da consentire a ogni medico la possibilità di garantire ai propri assistiti le somministrazioni del vaccino, coerentemente alle diverse fasi della campagna vaccinale”.

Anelli, ieri, si è appellato direttamente al premer Draghi e a Figliuolo, chiedendo di fare anche ricorso all’esercito per garantirne la distribuzione: “Mentre si apre ai farmacisti molti accordi con i medici sono rimasti in larga parte inapplicati – dice Anelli –. I vaccini da somministrare ai pazienti qualcuno ce li deve dare. Non riusciamo a capire come mai non ci vengano consegnati visto che il governo e Figliuolo tutti i giorni ci ripetono che le forniture concordate arrivano”. Nel Lazio è stato sospeso ai medici di base il rifornimento del siero AstraZeneca, vaccino al quale peraltro l’omonima casa farmaceutica anglo-svedese ha cambiato nome (ora si chiama Vaxzevria). Tutto per concentrare le dosi negli hub vaccinali, protestano i medici. Hub che tra l’altro, come rileva la Fnomceo, avrebbero un costo più elevato rispetto a quello di un medico di base, al quale per ogni somministrazione sono garantiti 6,13 euro lordi. Il problema deriva dai tagli alle forniture, replica la Regione Lazio: “Abbiamo dovuto sospendere il servizio, ma è stato riattivato con il vaccino Pfizer, i medici così potranno così vaccinare anche le persone con patologie e gli anziani a domicilio”. Stessa storia in Lombardia. “Molti di noi hanno dato la disponibilità ma ci tengono in panchina – conferma Paola Pedrini, segretaria regionale della Fimmg, sindacato dei medici di medicina generale –. Le aziende sanitarie ci dicono che mancano i vaccini e la maggior parte di noi è ferma. Vorrei capire perché vengono coinvolti anche i farmacisti se poi non ci sono i quantitativi necessari”.

“Sponsor per pagare gli hotspot”: finanza creativa nel Piano Draghi

Senato amaro per il generalissimo Francesco Paolo Figliuolo. Perché a sentir lui tutto marcia alla perfezione ed è misurato al centimetro. Ma il servizio bilancio di Palazzo Madama rischia di mandargli di traverso ogni ottimismo: ha messo il naso nella dotazione finanziaria che il governo di Mario Draghi gli accordato per far fronte all’emergenza, oltre 1,2 miliardi autorizzati per l’anno 2021 su cui è necessario fare chiarezza. Perché della gran parte di questi soldi si sa poco o niente. Solo che potranno esser spesi come i 20 milioni che Figliulo potrà destinare per la sua struttura commissariale. Per altre che potrebbero rivelarsi strategiche per rendere capillare la vaccinazione sul territorio, il governo prevede l’intervento di sponsor.

Insomma, i tecnici di Sua presidenza Casellati hanno chiesto di sapere con che criterio sono stati fatti i conti, dal momento che ben 850 milioni, la maggior parte di questa tombola di danari pubblici a disposizione di Figliuolo, gli sono accordati praticamente sulla fiducia: non si sa a cosa dovranno servire. “Si osserva che la relazione tecnica (che accompagna il decreto Sostegni, ndr) non fornisce alcun dato in relazione ai criteri di stima dello stanziamento. Pur se la norma prevede che tali risorse siano da trasferire su richiesta del commissario e quindi non in modo automatico, sarebbe comunque necessario acquisire almeno informazioni di massima sulle modalità che hanno portato alla determinazione dell’importo. Vista anche la sua entità, più che doppia di quella prevista dalla precedente lettera a)”.

Eppure la lettera “a”, sì negletta, riguarda i fondi destinati alle iniziative per consolidare il piano nazionale sulle vaccinazioni: 120 milioni di euro a finanziamento dei costi delle attività per smistare i vaccini ai 500 centri di somministrazione locali dall’hub nazionale dove confluiscono tutte le dosi delle case farmaceutiche; 39 milioni per acquistare le siringhe, altri 33 per gli apparati tecnologici, 14 per la comunicazione ai cittadini, call center compreso. In tutto 388 milioni, di cui 180 per i centri vaccinali su cui è stata fatta una stima piena di incognite. Cosa succede se sarà necessario superare il numero di strutture territoriali previste? Si dovrà ricorrere, secondo quanto scritto dal governo nella relazione tecnica al decreto in conversione in Parlamento a “sponsorizzazioni o ad altre risorse non a carico della finanza pubblica”.

Il che non convince affatto il Servizio bilancio di Palazzo Madama che sottolinea a matita rossa la criticità ché, se alla fine non dovessero trovarsi i benefattori, sarà inevitabilmente lo Stato a farsene carico. Con buona pace delle stime di spesa: “In generale pur se la quantificazione appare formalmente corretta, molte voci di spesa elencate assumono maggiormente natura obbligatoria e difficilmente comprimibili e una loro eventuale sottostima porterà inevitabilmente a un aggravio degli oneri a carico della finanza pubblica”.

Ma se sui centri vaccinali le risorse sono limitate, sulle altre spese lo spartito è un altro. L’altra nota dolente evidenziata dal Servizio bilancio del Senato riguarda, come detto, gli 850 milioni di euro previsti a richiesta del commissario, per le effettive e motivate esigenze di spesa connesse all’emergenza pandemica: è certo soltanto che 20 milioni saranno destinati al funzionamento della struttura di Figliuolo. Che non è l’unico a cui fischiano le orecchie. Andrebbe giustificato anche l’incremento di 700 milioni di euro del Fondo emergenze nazionali, di cui 19 milioni da indirizzare “al ripristino della capacità di risposta del Servizio nazionale della Protezione civile”.

Sim Sala Bim

Se rinasco, voglio essere Beppe Sala. Conoscete un ragazzo più fortunato di lui? Io no. Fa il “city manager” a Milano nella giunta di destra della Moratti (dicesi Moratti) e tutti lo scambiano per un compagno e lo eleggono sindaco col centrosinistra, in cui decide chi entra e chi no, distribuendo gli appositi pass. Rilascia dozzine di interviste sul futuro del Pd, a cui però si scorda di iscriversi. Un mese fa, incassato il via libera del Pd alla ricandidatura a sindaco senza passare per le primarie, aderisce ai Verdi Europei (quelli italiani potrebbero riconoscerlo). E si traveste da Greta Thunberg che, se lo conoscesse, lo picchierebbe per le cementificazioni prima, durante e dopo l’Expo. Lui del resto, per farsela amica, l’ha paragonata ad Anna Frank, confondendo lo smog delle città con i lager della Shoah. Campione di legalità, all’Expo si scordò di quella polverosa pratica chiamata “bando di gara” e assegnò tutti gli appalti brevi manu. Uno lo truccò pure, retrodatando le carte, e fu condannato in primo grado a 6 mesi per falso in atto pubblico. Però, beninteso, “voglio l’assoluzione, non la prescrizione”: infatti in appello intascò la prescrizione e portò a casa. Ma nessuno se ne accorse: i giornali erano troppo occupati a lapidare Virginia Raggi, anch’essa imputata per falso, ma purtroppo assolta in primo e secondo grado. Peggio per lei. Fra l’altro lei, a inizio pandemia, si guardò bene dall’organizzare spritz corretti Covid e lanciare hashtag “Roma riparte” o “Roma città riaperta”, diversamente da lui a Milano: infatti, diversamente da lui, è una pessima sindaca. Né le venne in mente di dire “basta smart working, torniamo al lavoro”, come se gli smartworker poltrissero: roba che al confronto Carlo Bonomi è un illuminato imprenditore olivettiano. Fortuna che quell’ideona venne in mente a Beppe: Virginia l’avrebbero impiccata a Spelacchio.

Ad agosto Sala incontrò l’altro Beppe, Grillo, ma i giornaloni si dimenticarono di domandargli cosa ci fosse andato a fare. Lo scoprì Barbacetto: voleva la benedizione per fare il capo di Tim2 per la rete unica e mollare finalmente Milano, che non l’ha capito. Grillo rispose che non dipendeva da lui, infatti non se ne fece nulla. Sala riscoprì un’improvvisa passione per Milano. E si ricandidò a sindaco col Pd senza chiedere niente al Pd (tanto non è iscritto) né tantomeno al M5S (“meglio correre separati”). Proprio come la Raggi, che però almeno al M5S lo disse. Infatti a lei rompono le palle perché non ha il permesso del Pd ed è un “ostacolo”, un “inciampo”, una “minaccia” per l’alleanza giallorosa. Invece a lui nessuno dice niente. Ieri ha annunciato un’imminente “Lista Volt”, ma pare che non sia l’abbreviazione di Voltagabbana.

Il patriarca stalker, la fame e i lupi dello “zar Putin”

Perbene. “Tutte le persone perbene hanno cominciato nei servizi segreti” (Henry Kissinger).

Scaffali. “Ero un bambino, alla fine degli anni Ottanta, e ricordo bene gli scaffali vuoti. Certi giorni si trovavano solo barattoli di alghe del Mare del Nord in salamoia. Mia madre mi mandava spesso a fare la spesa; a volte bisognava arrivare diverse ore prima dell’apertura del negozio, per non rischiare di vedersi chiudere la porta in faccia quando le scorte erano esaurite. C’era chi prendeva posizione alle tre del mattino e teneva il posto per tutto il proprio palazzo… Una volta, durante una di queste file interminabili, finii per svenire, tanto ero debole e denutrito; quando mi rialzai, una signora mi diede un pezzo di pane e mi disse qualche parola di conforto. Era come se fossimo in guerra”.

Chiesa. “Dopo la rivoluzione del 1917 i bolscevichi avevano annientato le strutture religiose, ma poi Stalin, quando ebbe bisogno del sostegno di tutti per combattere contro la Germania nazista, creò una Chiesa totalmente controllata dai servizi segreti dello Stato per sfruttarla come simbolo dell’apertura (finta, ovviamente) ai valori della società libera”.

Patriarca. “Putin scelse per il ruolo di patriarca della Chiesa ortodossa russa Vladimir Gundjaev, una persona che sin dai primi anni del suo servizio ‘spirituale’ era collaboratore del Kgb, e che negli anni dell’Urss fu persino inviato in Svizzera, a Ginevra, con una delegazione di agenti di sicurezza e spie sovietiche per rappresentare gli interessi della sua Chiesa e del governo sovietico sul palcoscenico internazionale. Subito dopo aver preso il controllo della struttura, il nuovo patriarca ha creato attorno a sé una cerchia di persone fidate, nominando agli incarichi più importanti suoi parenti e amici, di fatto trasformando l’istituto spirituale in una corporazione finanziaria a gestione familiare”.

Kirill. Il patriarca Kirill, persona di grande cultura, è di fatto uno degli oligarchi della cerchia del presidente. Mostra volentieri ai giornalisti i suoi lussuosi orologi, si lascia fotografare mentre scorrazza in mare sulla sua barca di lusso. I rapporti con Putin adesso sono peggiorati, Kirill subissa governo e presidente di richieste al punto che Medvedev, da premier, proibì ai propri collaboratori di rispondere alle sue telefonate.

Strada. “La strada di Leningrado mi ha insegnato una regola: se la rissa è inevitabile, picchia per primo” (Vladimir Putin).

Tv. “A volte, quando guardo i notiziari della tv russa, mentre la conduttrice con voce angelica racconta dell’ennesimo missile nucleare che abbiamo costruito, ancora una volta più potente e più distruttivo di quelli degli altri Paesi, ennesima dimostrazione della nostra supremazia, i miei occhi leggono il testo del messaggio che scorre nella striscia in basso sullo schermo: dice che un bambino in qualche regione sperduta della nostra grande patria sta morendo di una terribile malattia che la nostra medicina non è in grado di affrontare, quindi viene richiesto un aiuto, un sms, per portare quel bambino negli Stati Uniti, oppure in Germania, dove potrà essere curato”.

Sondaggi. “Secondo i sondaggi del Centro russo per lo studio dell’opinione pubblica, la popolarità di Putin è scesa dall’89,9 per cento del 2015 al 28 per cento di fine maggio 2020.

Cani. “Quando sono affamati, non c’è differenza tra lupo e cane” (proverbio siberiano).

Notizie tratte da: Nikolai Lilin, “Putin. L’ultimo zar”, Piemme, 189 pagine, 17,50 euro