Clochard, dischi bruciati e folletti: “Aqualung” dei Jethro Tull compie mezzo secolo

“Complesso, ritmicamente variegato e irregolare, ma allo stesso tempo accessibile”: è così che Ian Anderson, frontman dei Jethro Tull, descrive Aqualung, il disco di maggior successo della band, in una diretta organizzata su Youtube qualche giorno fa con i fan, per celebrarne i 50 anni dalla pubblicazione.

Un album che rappresenta una pietra miliare nella storia del Progressive Rock, che avrebbe meritato tutt’altro tipo di onori e festeggiamenti, se non ci si fosse stata di mezzo la pandemia, ma che per l’occasione è stato ristampato in un formato deluxe.

La leggenda legata a questo album nasce inizialmente attorno alla copertina, realizzata da Burton Silverman, dove da subito sono in molti a vedere nel clochard ritratto, l’immagine di Ian Anderson. Complice il fatto che nelle sue esibizioni dal vivo Ian si presentasse con palandrana, sguardo allucinato, lunghi capelli incolti e barba lunga a incorniciare il suo volto da folletto, in realtà si tratta di una foto scattata dalla ex moglie di Anderson, Jennie Franks, in occasione di un suo reportage sui senzatetto londinesi. Fu lei infatti a dargli l’ispirazione per scrivere questo disco-capolavoro, in cui la scelta di un barbone come protagonista era perfetta per esprimere una forte critica alla società del tempo.

La band sfoggia le proprie abilità artistiche sin dalle prime note del disco – celebre è il riff iniziale della title track –, ma è in Cross-Eyed Mary che si manifesta per la prima volta la spavalderia che il flauto di Anderson apporta alla musica dei Jethro Tull. Figura centrale del disco è Aqualung, un barbone vagabondo dal respiro affannato, il cui nome discende dal respiratore che utilizza e che, per il suo modo di atteggiarsi, è percepito dalla gente come un pericolo pubblico, un potenziale molestatore dallo sguardo languido. “Come album, Aqualung era una sorta di documentario sociale che affrontava argomenti reali”, dice Anderson parlando delle undici canzoni che lo compongono. “La povertà e i senzatetto erano e continuano a essere una preoccupazione. Così come la religione”, che viene sottoposta a un esame approfondito nei brani My God e Hymn 43, con Ian che non fa mistero dei suoi sentimenti nei confronti di coloro che usano la religione come strumento di potere e controllo. E a chi gli chiede se da questo gli siano mai arrivati problemi o sia stato all’origine di controversie, seraficamente risponde: “Oh sì, alcune copie dell’album sono state bruciate negli Stati Uniti, ma questo è tutto. L’ho fatta franca. Nessuno si è fatto male per quanto ne so”.

La leggenda del pianista epurato dai comunisti

“Al mio tavolo un russo, un pianista in gioventù, una celebrità dimenticata”. Così prende avvio Autoritratto con pianoforte russo del tedesco Wolf Wondratschek, in libreria per Voland.

Siamo in un caffè di Vienna. Un anonimo scrittore austriaco ascolta i ricordi di una vita di “un signore non troppo alto ma robusto, massiccio, uno con la barba alla Lenin”. Si chiama Suvorin. Trascina la sua esistenza in solitudine, (“Com’è essere soli? Quanto si è soli quando si è soli?”) dissipata dal comunismo e dall’alcol, nel solco di una inguaribile malinconia per la moglie prematuramente scomparsa. Le sue mani non toccano più i tasti del pianoforte, ma in fondo continua a esibirsi. Se un tempo c’erano le note, ora sono le parole a metterlo al centro del proscenio. La sua è un’autobiografia, scansionata in monologhi erratici, che schiva l’intralcio del genio.

Suvorin dice di sé: “Nei giorni buoni ero un pianista, in quelli cattivi suonavo il pianoforte. Non ero mai perfetto”. Un artista che si ritrova suo malgrado a indossare l’elmetto da dissidente nella Leningrado degli anni 60 e 70. La sua avversione per gli applausi è un affronto per il regime sovietico. “L’ultima nota deve ancora sfumare che subito: urla, strepito, bravo! Non un attimo di silenzio. Che ignoranti! Che barbari! Nemmeno ascoltano l’eco, non vi si soffermano, non sono scossi, pieni di stupore”. Un funzionario del Comitato centrale lo inchioda al verbo della rivoluzione: “Rifiutare la gioia degli applausi significa rifiutare la gente”. Ma Suvorin è un amabile on svoloc’, una testa di cazzo, e butta alle ortiche la sua carriera con la provocazione di “suoni dilaniati e disturbanti. Una musica senza melodia, una musica che ti annienta, fatta di secondi dilatati”.

Ecco Suvorin nemico del popolo e la sua inevitabile fuga dalla patria. “Lo chiamavano Padre Piano” ci svela l’io narrante, l’anonimo scrittore austriaco che restituisce in 170 pagine questa parabola del Novecento. Un’allusione a Padre Pio per l’abitudine di Suvorin, al termine dei suoi concerti, di portarsi le mani al petto e di congiungerle a mo’ di preghiera. Un dettaglio utile a penetrare il senso di un romanzo che in effetti accosta il talento a una religione che tiene in scacco i suoi fedeli. Trarre musica dal silenzio è il dono di un Dio spietato, che richiede per paradosso il sacrificio di rinnegarlo per guadagnarsi la salvezza.

Enrico, un comico serissimo. Gli amici ricordano Vaime

Anche di fronte alla morte di un umorista, è inevitabile, si diventa seri. È successo anche domenica sera quando l’atmosfera di studiata leggerezza di Che tempo che fa si è incupita all’arrivo della notizia della scomparsa di Enrico Vaime. Ironia sempre lieve della sorte, la morte di uno dei più celebri autori della tv italiana è stata annunciata (quasi) in diretta, da Fabio Fazio che con Vaime aveva mosso i primi passi, dai microfoni del programma radiofonico Black out.

“È un grande dolore. La scomparsa di un amico”, dice al Fatto Simona Marchini, che è stata una delle voci comiche della batteria della trasmissione, mentre l’amico e collega Pippo Baudo lo ricorda come “un primo della classe, un numero uno”.

La sua comicità resse anche il confronto con un concerto di Francesco De Gregori. “Una volta andammo persino a una Festa dell’Unità a Bologna – racconta Marchini –. Era l’esperimento di portare la radio sul palcoscenico. Il festival era pieno di gente ed eravamo terrorizzati. La nostra non era una trasmissione pensata per lo spettacolo dal vivo”. Ma soprattutto, continua Marchini “più avanti, su un altro palco c’era Francesco De Gregori. ‘Capirai’, ci siamo detti, ‘e adesso da noi chi ci viene’. Invece ci siamo ritrovati davanti una piazzale gremito. Tanto era richiamo del programma, evidentemente”.

Nato a Perugia il 19 gennaio del 1936, Vaime è entrato in Rai nel 1960 con un concorso. “Entrarono con me Liliana Cavani, Giuliana Berlinguer, Francesca Sanvitale, Carlo Fuscagni, Giovanni Mariotti, Leardo Castellani. A quel punto hanno capito che era rischioso e non ne hanno fatti più”, ha detto una volta scherzando. Poi si staccò preferendo una collaborazione esterna come autore. Per avere le mani più libere. Ha firmato centinaia di programmi, nell’affermato duo con Italo Terzoli tra gli anni 60 e 70 e poi anche da solo.

Dopo vent’anni di frequentazione professionale con Vaime, grazie a Simona Marchini si può provare a dare una definizione alla vena ironica di Vaime. Anche a costo che abbia “i minuti contati” (Flaiano docet): “Il suo era un umorismo acre, ma che mostrava sempre anche un certo pudore. Non oltrepassava il limite della cattiveria. Secondo me questa cosa ci accomunava, oltre all’amicizia. Chissà, forse è un retaggio delle nostre comuni origini umbre”. L’amicizia tra i due è stata a volte sodalizio artistico. Come nel caso della pièce teatrale Dossier Trovatore. “Nel 1990 – ricorda l’attrice – mi chiamarono dal festival di teatro di Parma per commissionarmi un adattamento comico del Trovatore di Verdi. Mi vennero i brividi. Subito corsi da Enrico, che in quel momento era in vacanza sul Trasimeno. Abbiamo scritto ininterrottamente per tre giorni, seduti a un tavolino. Fu sua l’intuizione di aggiungere ‘dossier’ al titolo, per trasformare l’adattamento della trama tragica di Verdi in una sorta programma televisivo di cronaca nera”. (La trama è quella di una zingara che rapisce un bambino per vendetta, ma poi per uno scambio uccide il suo stesso figlio).

Tutt’altro che fortuito il successo, ma esercizio ripetuto e quotidiano, a sentire chiunque Vaime l’abbia visto lavorare. Per esempio il regista tv Duccio Forzano, che con Vaime ha condiviso il programma Amore mio (diciamo così) con Claudio Amendola (su Rai 1 nel 2003: “non se lo ricorda più nessuno ma che a me ha dato molto”) rievoca questa figura “chiuso in camerino a scrivere in una nuvola di fumo”, ma anche dedito alla convivialità con i colleghi, alla chiacchiera e al racconto di aneddoti tratti spesso e volentieri dalle sue esperienze con i mostri sacri della letteratura italiana (del resto aveva sempre cominciato con Flaiano e Zavattini).

Anche un comico della generazione successiva come Marco Presta, che ha conosciuto Vaime da vicino (“su una dedica a uno dei suoi libri mi ha scritto ‘al mio quarto figlio’”) sottolinea la sua capacità di leggere l’attualità e condensarla in una battuta. “L’ho conosciuto quando avevo 26 o 27 anni. Si può dire che ho fatto scuola da lui. Mi ricordo questa sua brillantezza mentale che gli permetteva di prendere le notizie dal giornale e tradurle in una frase arguta”. Perché l’umorismo è un punto di vista sul mondo. “Era come le sue massime – commenta ancora Forzano –. Era un personaggio che viveva di parole”. E infatti è stato anche un prolifico autore di romanzi, rimasti in ombra rispetto alla sua carriera nello spettacolo. “Se l’umorismo non fosse considerato un genere minore, in questo Paese probabilmente Enrico meriterebbe di stare nei libri di testo”, dice Presta. Intanto, Paola Cortellesi twitta: “I cretini non sono più quelli di una volta… Poveri noi, senza di te. Grazie Enrico. Mi mancherà tutto. Mancherai a tutti”.

Chissà se non si sarebbe schermito, se gli fosse capitato in vita. Magari citando una precisa massima di Flaiano: “il peggio che può capitare a un genio è essere compreso”.

Meb e la sindrome Meghan: un po’ Heidi, un po’ Lexotan

Se c’è una grande qualità che bisogna riconoscere a Renzi e ai suoi fedelissimi, è la profonda empatia col Paese. Questa capacità di comprendere le ferite dei cittadini, di prenderli per mano nei momenti duri, di nuotare nel loro stesso mare. Questo fine settimana, mentre Draghi ci diceva di tenere duro, Matteo si trovava al Gp del Bahrein e Maria Elena negli studi di Verissimo.
Lui per evidenti ragioni lavorative (tra un pit stop e l’ altro, i meccanici della McLaren hanno misurato la pressione del suo ego trovandolo pericolosamente oltre i 6 bar), lei per ragioni d’urgenza nazionale: la sua storia d’amore con Giulio Berruti. Una vita a dire “giudicatemi per il mio ruolo in politica” e poi in piena pandemia ce la ritroviamo dalla Toffanin come una Belen qualunque. Anzi, come una Meghan Markle qualunque, un po’ entusiasta perché ha trovato il principe e un po’ afflitta perché si sa, la gente è cattiva. Va premesso che per reggere la visione dell’intervista senza cadere nella letargia del gatto anziano ho dovuto pensare a cose raccapriccianti, tipo Renzi vestito da arabo a bordo pista in Bahrein, l’autovettura che gli sfreccia accanto e la gonna che gli si alza fino al mento.

È stata una delle conversazioni più soporifere della storia della tv, roba che ho quasi pensato con nostalgia al momento monologo della biologa Barbara Gallavotti a DiMartedì. L’intervista comincia con un già ficcante “Sono contenta di essere datté, ti seguo sempre daccasa!” con la Toffanin che ha già lo sguardo raggiante di chi pensa “oggi una delle due ne uscirà come una fortunata aiutata da un potente e non sarò io”. E così sarà, in effetti. “Abbiamo fatto il tuo ritratto in una scheda”, annuncia la conduttrice a Maria Meghan Boschi. Si inizia subito col suo ruolo istituzionale, ovvero la pagina Instagram, in cui la Boschi – dice la ficcante giornalista – cita Alda Merini: “Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire”. Sì, quelle tipo: “Bin Salman è il mandante dell’omicidio Khashoggi”, ecco perché si intende con Renzi. E poi, sempre nella puntuta scheda: “Ha la riservatezza femminile di una ragazza capace di reagire alla critiche”. Giuro. E lei, riservata ragazza di 40 anni, ex ministro, ha sorriso. Mancava solo “fresca, spigliata, bella e anche brava, fa delle torte buonissime”. A quel punto, nella scheda c’è l’inversione a U: “Maria Elena ha proposto un nuovo modello di politica, lontano dagli stereotipi!”, che uno dice “vabbè, ora arriverà la parte in cui ci raccontano cose che non sappiamo, tipo che entrava alla Camera su una moto Guzzi sgasando”. Invece si passa a “quando si tratta di vita privata ancora una volta va per la sua strada e si innamora di chi? Di un uomo famoso, bello, desiderato: l’attore Giulio Berruti!”. Ma tu guarda che anticonformista, si poteva innamorare di un precario con la faccia da verme cilindrico e invece si è innamorata di un attore bello e famoso. Magari le piacciono pure i letti comodi e gli inverni miti. Si passa a mostrarle quello che Giulio Berruti, settimane fa, ha detto di lei a Verissimo, cioè “ho scoperto una persona vulnerabile, che è una cosa che a me piace moltissimo in una donna”. Insomma, a lui piacciono le donne fragili, se una per caso dovesse avere autostima e risolutezza, al massimo “migliore amica”. E Maria Meghan Boschi, già ragazza, già di femminile riservatezza, ora anche fragile, ha sorriso. Di nuovo. Fin qui si è vista la parte pruriginosa dell’intervista. Poi si passa al Lexotan in compresse da due etti. Credetemi, i 10 minuti successivi erano roba da far bollire la tv nel radiatore dell’automobile.

“Sono cresciuta tra i vitellini e coniglietti, avevo frutta e verdura a portata di mano, le Barbie, ho fatto la chierichetta!”. Poi passa a parlare dei nonni che “dopo la guerra hanno ricominciato daccapo, ho imparato tanto dalloro”. Cosa? E qui la solita risposta controcorrente: “Che la cosa che conta è dare amore”. Questo è il momento in cui ho chiamato Giovanni Floris, mi sono fatta dare il numero della biologa Barbara Gallavotti e l’ho chiamata scusandomi se ogni tanto dopo 75 minuti di suo monologo a DiMartedì ho detto “ok brava, bello però mo’ basta”.

Ma non era ancora abbastanza. Dopo il momento “Heidi che corre felice nel prato” arriva quello Meghan Markle da Oprah. “Mi hanno fatto fotomontaggi, mi dicono cose brutte, mi insultano”. Poi passa a raccontare una sua recente scoperta: “Le critiche vanno bene, però chi esagera lo denuncio, prima non lo facevo, poi l’ho imparato negli anni, se si esagera ci sono dei magistrati che dicono se una cosa è un reato”. Ma tu pensa. Ha scoperto il ramo in cui si è laureata e specializzata: la legge. Veniamo all’amore e lo studio si fa incandescente. “Io sono goffa, Giulio è ‘un aggeggino’”. Abbiamo pregato insieme. È bello, ma soprattutto buono, voglio tre figli, per sposarsi bisogna essere in due”. La Toffanin ha la faccia attenta di quella che sta pensando “Non ho detto alla filippina di pulire la piscina in mansarda”, poi si sveglia di botto tipo Andreotti dopo il memorabile black-out dalla Perego e la saluta tra mille sorrisi. E quando uno pensa che finalmente sia finita, Maria Meghan Boschi aggiunge con il sorriso renziano:

“Auguro tanta serenità a tutti”.

Insomma, state sereni. E buona grattata a tutti.

Floyd, l’America rivive la tragedia: i 9 minuti finali in diretta sul web

Proiettato ai giurati, il video dell’agonia di George Floyd ha aperto il processo al poliziotto che ne causò la morte, Derek Chauvin, 45 anni, agente per 19. Il video è stato visto in diretta tv da tutta l’America: il processo è trasmesso da Court Tv, una rete che diffonde processi a getto continuo e che ha installato tre camere nell’aula, con il vincolo di non inquadrare mai i giurati. Il processo s’è aperto con le raccomandazioni del giudice distrettuale Peter A. Cahill ai 12 giurati, sette uomini e cinque donne, sei neri, quattro bianchi, due di etnia mista, con due bianchi di riserva. La selezione della giuria è stata laboriosa: è difficile trovare a Minneapolis qualcuno che non si sia già fatto un’idea su quanto accadde il 25 maggio 2020, quando l’agente Chauvin tenne il ginocchio per 8’46” premuto sul collo di Floyd, anche quando era ormai esanime, anche quando il personale dell’ambulanza cercava di soccorrerlo. L’uccisione di Floyd, 46 anni, arrestato perché cercava di spacciare 20 dollari falsi, ha innescato una nuova fase del movimento Black Lives Matter. I discorsi del pm, Keith Ellison, un nero, ex deputato, il cui figlio è un leader di Defund the Police, e dell’avvocato Eric J. Nelson hanno chiarito ai giurati gli obiettivi di accusa e difesa. “L’agente Chauvin – ha detto Ellison – ha fatto un uso eccessivo della forza contro un uomo che non era una minaccia. Non può essere considerato innocente. Ha tradito la divisa”. Nelson ha sollevato dubbi sulle cause della morte di Floyd, dicendo che la vittima era sotto l’influenza di stupefacenti e che s’era rifiutato due volte di restituire le sigarette acquistate con i soldi falsi.

La Marina è ostaggio di Mosca

La perfetta macchina da guerra tedesca è in mani russe. A rivelarlo è il quotidiano Bild, secondo cui il sistema di navigazione Navi-Sailor 4100 sarebbe stato installato su almeno 100 navi della Marina Militare di Berlino, compresi un paio di sottomarini fin dal 2005, durante il cancellierato del socialdemocratico Gerhard Schröder, attualmente presidente del consiglio di amministrazione del progetto del gasdotto Nord Stream 2 del Mar Baltico della società russa Gazprom. I dispositivi sono stati sviluppati dalla società Transas, fondata a San Pietroburgo nel 1990 e – sebbene nel 2018 la società sia stata acquistata dalla finlandese Wartsila – il settore ‘difesa’ secondo Bild è rimasto nelle mani di Mosca. Il quotidiano tedesco rilancia: la crittografia dei dati del sistema Transas non è conforme agli standard di sicurezza militare della Nato, di cui la Germania è membro. Un disastro in termini tattici. “In caso di attacco informatico, nel peggiore dei casi, i dati di navigazione potrebbero essere violati e la nave potrebbe perdere completamente l’operatività”, ha spiegato a Bild un ufficiale. Il rapporto sottolinea anche che la Russia a volte effettua manovre navali vicino alla costa tedesca del Mar Baltico, probabilmente per verificare i tempi di risposta della Nato. Oltre che sulle navi, il sistema di navigazione incriminato è stato installato su due sottomarini, l’U35 e l’U36, resi operativi rispettivamente nel 2015 e nel 2016, grazie all’approvazione dei governi che hanno seguito quello di Schröder. Si tratta di sottomarini di classe 212A di costruzione tedesca dotati di sei tubi lanciasiluri. Quanto alla vulnerabilità del sistema Transas, il governo di Angela Merkel ha risposto a Bild che “sta compiendo grandi sforzi per garantire la sicurezza informatica e crittografica”. I Verdi dal canto loro con il rappresentante al Bundestag, Tobias Lindner, membro della Commissione difesa, hanno espresso la loro preoccupazione al Parlamento: “I vertici delle Forze Armate devono garantire che il software di navigazione della Marina non rappresenti una falla nella sicurezza. Il ministero deve spiegare rapidamente perché non viene utilizzato il software di un produttore dei Paesi della Nato”, ha detto Lindner. E mentre la Norvegia blocca la vendita di strumenti a un’altra società russa per un problema simile di sensibilità tecnologica, sul sito web di Wartsila si legge che la filiale Transas fornisce il 35% dei sistemi di carte elettroniche utilizzati dalle navi e dai porti mondiali e il 45% delle apparecchiature di simulazione mondiale, tipicamente utilizzate per l’addestramento. ”Le apparecchiature e i servizi dati marini sono utilizzati su più di 13.000 navi commerciali e motovedette delle flotte navali e della Guardia Costiera di oltre 100 nazioni” sostiene Wartsila. I russi ringraziano.

Mediator, oltre alla fame il farmaco toglieva la vita

“I laboratori Servier hanno venduto per anni un veleno con lo scopo di fare soldi. Questo è un crimine di ‘farmaco-delinquenza’”: così ha reagito Irène Frachon, sentita da France Info, al termine della lettura, durata diverse ore, nel tribunale di Parigi, del verdetto nel processo del Mediator, un farmaco per il diabete somministrato per oltre trent’anni come anti-fame, causando la morte di migliaia di persone. Era stata la pneumologa dell’ospedale di Brest a lanciare l’allarme dodici anni fa, rivelando quello che sarebbe diventato uno dei più grandi scandali sanitari in Francia. Dopo un processo-fiume iniziato nel settembre 2019 e prolungatosi più del previsto causa pandemia, ieri la giustizia le ha dato finalmente ragione: i laboratori Servier sono stati condannati per “frode aggravata” a 2,4 milioni di euro di multa perché “pur essendo a conoscenza dei rischi, non hanno preso i provvedimenti, ingannando i pazienti”.

Il principale responsabile della frode, Jacques Servier, potente fondatore della casa farmaceutica, è stato il grande assente del processo: è morto nel 2014 a 92 anni. Il suo braccio destro, Jean-Philippe Seta, è stato condannato a quattro anni di prigione con la condizionale e a una multa di 90 mila euro. Anche l’Ansm, l’agenzia del farmaco francese, che si era dichiarata colpevole, è stata condannata a 300 mila euro per “omicidio colposo” per aver “fallito nel suo ruolo di gendarme sanitario”. Secondo i giudici, la frode di Servier “ha minato la fiducia nel sistema sanitario”. Una fiducia difficile da ricucire in un Paese che ha conosciuto anche lo scandalo “del sangue contaminato” negli anni 80-90 e quello del farmaco antiepilettico Depakin che causò migliaia di malformazioni di feti negli anni 2000. Non sarebbe un caso se i francesi sono i più sospettosi in Europa nei confronti dei vaccini anti-Covid. Lo scandalo del Mediator ha rivelato un dramma umano. Il farmaco era stato messo sul mercato nel 1976 come anti-diabetico. In realtà apparteneva alla famiglia degli anoressizzanti o anti-fame, su cui Servier lavorava dagli anni 60 approfittando del business dell’obesità e malgrado fossero noti i gravi effetti collaterali: nel corso del processo, è emerso che il laboratorio ha venduto più di 134 milioni di compresse tra il giugno 1984 e il settembre 2010 realizzando introiti per circa 500 milioni di euro. Le prime allerte per rare ipertensioni polmonari e lesioni delle valvole cardiache legate alla somministrazione del Mediator furono lanciate nel 1999. Tutte insabbiate. Lo scandalo è venuto a galla solo nel giugno 2009 con il libro-choc della dottoressa Frachon, Mediator 150 mg, combien de morts, che aveva portato avanti la sua ricerca da sola su una quindicina di pazienti. Il farmaco fu ritirato a novembre 2009. Il processo ha rivelato numeri da paura. Il Mediator è stato somministrato “a 5 milioni di persone tra il 1976 e il 2009”. Ha causato “tra 3.100 e 4.200 ricoveri per insufficienza valvolare” e “tra 1.700 e 2.350 interventi per sostituzione delle valvole cardiache”.

Tra “1.520 e 2.100” persone sono morte, senza contare i pazienti che vivono portandosi dietro gli strascichi del trattamento. La sanzione di ieri è meno dura di quanto le 6.500 parti civili avevano chiesto: 1 miliardo di euro di indennità e il divieto per la casa farmaceutica di esercitare. Servier è anche sfuggito alla condanna per truffa per prescrizione. “Purtroppo le sanzioni penali per punire questo tipo di crimini restano scandalosamente frustranti – ha detto ieri Frachon a Bfm tv –. Data la gravità del crimine, la condizionale e una multa quasi irrilevante per un laboratorio come Servier sono incomprensibili”.

 

Siria: l’Isis risorge con le “mantidi”

Fucili spianati, passamontagna calati e un respiro profondo un attimo prima di cominciare. Alle cinque in punto di domenica mattina è iniziata l’operazione per mettere in sicurezza il campo di Al Hol, nella Siria del Nord-Est, descritto dalle Nazioni Unite come il posto più pericoloso al mondo.

Seimila uomini e donne delle forze di sicurezza, tra cui le Forze Democratiche Siriane (Fds), sono entrati nel campo, svegliando i residenti della prima sezione, accompagnandoli in una zona per la raccolta di dati biometrici, e cercato tenda per tenda.

A tutti è imposto un coprifuoco dalle 5 alle 19. L’obiettivo è mettere in sicurezza il campo, schedare tutti i residenti e fermare le violenze. Infatti, ad Al Hol, dal 1° gennaio sono state uccise 47 persone per una popolazione di 62.000 persone, la maggior parte affiliate all’Isis. Una prigione a cielo aperto. Nelle sette sezioni del campo, ci sono per lo più cittadini iracheni e siriani, poi c’è l’Annex dove sono raggruppate le donne straniere che si sono unite a Daesh da tutto il mondo con i loro bambini. Nel campo c’è un clima di terrore e costante paura. Si cerca quindi, sezione per sezione. Una alla volta. Se il primo giorno è stato abbastanza tranquillo, il secondo ci sono state tensioni. Poi l’arresto di nove persone, tra cui Abu Saad Al Iraqi, un reclutatore molto attivo. “Erano tutte ricercate come cellule di Isis, e Al Iraqi era il leader del campo”, sottolinea Ali Al-Hassan portavoce dell’Asayish. L’operazione è stata supportata dagli Stati Uniti. “Abbiamo assistito i nostri alleati con addestramenti specifici e fornito equipaggiamento tecnico”, commenta il colonnello Wayne Marotto. Nei cieli sopra Al Hol volano i droni Usa. “Con gli americani c’è anche uno scambio costante di intelligence su i movimenti di Isis”, spiega uno dei portavoce delle Fds. A causa della continua instabilità della zona, gli attacchi della Turchia, e la frammentazione nella vicina Iraq, l’Isis sta guadagnando terreno nelle zone desertiche, più a sud, e continua a sferrare attacchi. Uno dei luoghi principali è proprio questo campo dove sono rinchiusi i cittadini che nessuno vuole, persone dimenticate dai loro governi i quali periodicamente ignorano le richieste dei leader locali a riprenderli. Prima di arrivare al campo di Al Hol, bisogna attraversare un piccolo centro abitato, dove il tempo si è fermato. I segni delle battaglie in questa lunga guerra, sono ancora tutti sui muri scrostati e porosi dalle tante tonalità di grigio. In linea d’area, l’Iraq è una dozzina di chilometri, la maggior parte dei residenti non è mai tornata dal 2014 quando qui comandava l’Isis. Sulla via principale pochi negozi aperti, due ristoranti, un alimentari e quasi niente altro. Poi si sale sulla collina, e alla fine di quella piccola salita comincia la lunga rete metallica di cui non si vede la fine. Il campo si estende su una spianata nel deserto, un mare di tende bianche e blu. Intorno solo terra arida, e qualche cespuglio molto basso. Quando sale il vento la polvere forma dei mulinelli che corrono lunghe le vie sterrata. D’estate fa un caldo infernale, di inverno il terreno si trasforma in una poltiglia di fango dalla quale è impossibile districarsi. Tra le tende e sulle strade colpiscono le sagome nere che si aggirano nel campo, donne che indossano il velo integrale nero (Niqab), alcune sono delle bambine. Hanno i guanti e la velina sugli occhi. Non mostrano niente di loro. Nell’ultimo anno ad Al Hol è stato ricreato lo Stato Islamico. In particolare nell’Annex, dove tutte le donne che hanno seguito il Califfato fino alla fine, sono state raggruppate dopo la sconfitta militare dell’Isis nel marzo 2019. Loro educano i loro figli al jihad (guerra santa), continuano a seguire la Sharia (la legge islamica più radicale) e non ammettono che altri non lo facciano.

Tra le tende, hanno ricreato il tribunale islamico che infligge le pene ai peccatori e la polizia morale che ne esegue le sentenze di notte. Per molte, l’obiettivo è continuare il jihad: una maniera è fare figli. “Abbiamo scoperto che molte di loro fanno sesso con iracheni o addirittura con minori solo per rimanere incinte”, spiega Nisrin Abdullah, portavoce delle Ypj, Unità di protezione del Popolo. “Sono come delle mantidi, dopo che hanno attenuto quello che volevano, uccidono l’uomo così non può raccontare a nessuno quello che è successo”, aggiunge un negoziante del mercato di Al Hol terrorizzato nel vedere il suo nome su un giornale anche se in un paese lontano. Le violenze sono all’ordine del giorno. Si è arrivato persino alla presa in ostaggio di staff sanitario delle Ong e delle organizzazioni internazionali che aiutano nella gestione del campo. Le forze dell’amministrazione autonoma sono troppo poche senza contare che questa non è l’unica situazione a rischio. Ci sono altre tre prigioni e due campi. L’Europa e il mondo occidentale rifiutano il rimpatrio dei suoi cittadini e allo stesso tempo non supportano il mantenimento del campo. Non solo, i vari governi hanno di fatto istituito un tribunale internazionale nel Nord-Est che porrebbe fine a questo limbo. Invece, a due anni dalla sconfitta dell’Isis, non è cambiato nulla. Solo la certezza che non si può più aspettare.

 

La solitudine del maratoneta

La popolarità di Giuseppe Conte, anche dopo la caduta del suo governo, continua a essere un enigma strano e dunque incomprensibile per gran parte dei giornali. Possibile che susciti tanti consensi, questo dilettante buttatosi in politica pur essendo sprovvisto di Visione e addirittura di Anima?

Il conformismo retorico, l’incredulità, la mancanza di curiosità regnano sovrani nella grande stampa italiana, e trasfigurando Mario Draghi lo usano e ne abusano. I commentatori spesso fanno politica invece di esplorare. Tanto più prezioso il libro di Rita Bruschi e Gregorio De Paola, che racconta quel che si conosce poco, dell’ex presidente del Consiglio: le letture, le convinzioni con cui è entrato in politica, il banco di prova che è stato il Covid e l’enigma, appunto, della sua persistente popolarità (Giuseppe Conte – Il carattere di una politica, ETS).

Mi soffermo su due momenti decisivi nel cammino di Conte, che sono stati la pandemia e l’Europa. Sono momenti che possono essere ricostruiti passo dopo passo nel libro, anche grazie ai numerosi link indicati in nota. E ricostruirli vale la pena, tanto grande è stata e continua a essere la disinformazione.

Il Covid innanzitutto, e cioè la parte più disconosciuta e inesplorata della sua popolarità. Conte è infatti divenuto popolare nonostante abbia inflitto sofferenze enormi agli italiani, con il lockdown (il primo in Europa) e le chiusure mirate che hanno tenuto a bada la pandemia. Proprio in occasione di quest’esperienza frastornante – la protezione della vita, unita a restrizioni della libertà mai viste nella storia repubblicana – tanti italiani hanno visto in Conte “l’avvocato del popolo”. Hanno apprezzato la sua straordinaria empatia, e la costante adesione ai pareri dei principali tecnici e scienziati: un’attitudine umile e feconda che lo distingue da Emmanuel Macron e che ci ha risparmiato gli innumerevoli, letali errori del capo di Stato francese. Hanno stimato le sue conferenze stampa e i suoi discorsi, che i giornalisti mainstream ricordano con irritazione, mettendoli a confronto con le abitudini oratorie di Mario Draghi. L’empatia non andava a caccia di “consenso sui social”, come affermò Matteo Renzi quando sfasciò il governo, ma era il laccio che teneva legati governanti e governati in un terribile momento della storia mondiale. Abissale e niente affatto machiavellica è l’ignoranza di questo momento mostrata dal capo di Italia Viva.

Il secondo momento è quello europeo. Secondo la vulgata, oggi abbiamo un presidente del Consiglio che può “battere i pugni sul tavolo” nell’Ue, visto che per anni ha presieduto la Banca centrale europea. La storia è ben diversa, se ripercorriamo il cammino di Conte nell’anno del Covid. Il piano Next Generation non è nato improvvisamente il 18 maggio scorso, quando Macron e Merkel hanno annunciato la messa in comune dei debiti nazionali. Si dimentica quel che ha preceduto il cruciale vertice franco-tedesco: l’ostinato, indefesso sforzo di Conte per convincere la Germania a superare l’antica avversione per il debito comune e gli eurobond, ad abbandonare la strategia dell’austerità che aveva piegato e umiliato la Grecia.

Le tappe di questo sforzo sono documentate con minuzia nel libro: dapprima la consapevolezza – già presente nel Conte 1 – che l’austerità era stata una strategia rovinosa per l’Unione. Poi il tentativo di far capire in Europa che i cosiddetti populismi andavano esplorati e capiti (compreso quello dei Gilet gialli, aggiungerei), perché esprimevano malcontenti dei cittadini cui bisognava dare risposte non ortodosse. Poi il dialogo con Angela Merkel e lo sforzo di spiegarle come mai l’Italia non chiedeva il Mes, ma il superamento – tramite il comune debito europeo – dei dogmi neoliberisti. “Il Mes è lo strumento che abbiamo – replicò la Cancelliera in uno dei vertici – “non capisco perché tu voglia minarlo”. Al che Conte: “State guardando alla realtà di oggi con gli occhiali di dieci anni fa. Il Mes è stato disegnato nella crisi dell’euro per Paesi che hanno commesso errori”. La pandemia colpiva tutti, veniva da fuori ed era simmetrica: doveva finire nell’Ue lo scontro distruttivo fra creditori e debitori, tra “frugali” e “spreconi”.

Mentre rifiutava i prestiti del Mes, Conte tesseva dunque la sua tela. Anzi, li rifiutava per meglio tessere l’alternativa: come Spagna e Portogallo, solo che questi Paesi non sono stati colpiti come in Italia dalla marea retorica pro-Mes. All’inizio era solo. Poi il 25 marzo 2020 convinse sette governi europei a firmare una lettera a Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, in cui si chiedeva un nuovo strumento per fronteggiare i disastri del Covid e preparare insieme “il giorno dopo”. La lettera può essere letta come manifesto programmatico del Recovery Plan e fu firmata da Francia, Spagna, Belgio, Grecia, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo, Slovenia. “Non stiamo scrivendo una pagina di un manuale di economia – così Conte – stiamo scrivendo una pagina di un libro di storia”. Alla fine la pagina fu scritta, e Berlino accettò quello che non aveva mai accettato, e che ancor oggi purtroppo crea problemi: la messa in comune del debito, di nuovo contestata – nei giorni scorsi – dalla Corte costituzionale tedesca. Il Recovery Plan e i 209 miliardi di euro per l’Italia (prestiti e sovvenzioni a fondo perduto), sono stati decisi il 21 luglio 2020.

Conte era solo quando si batté per un’Europa solidale: “Si è mosso bene dentro un consesso di lupi”, scrisse lo storico Marco Revelli, che è tra gli ispiratori del libro. Era solo quando decise (contro il parere di chi gli era vicino), di andare a Taranto per parlare con chi lavora all’Ilva e al tempo stesso soffre gli effetti tossici dell’acciaieria. Era solo quando aprì alla Via della Seta cinese e rifiutò la guerra fredda con Mosca (forse paga anche per questo). Era solo in occidente quando annunciò il lockdown, il 20 marzo 2020. Parlando alla Bbc, spiegò il ritardo: l’Italia non è la Cina, “da noi limitare libertà costituzionali è stato un passaggio fondamentale che abbiamo dovuto ponderare, valutare attentamente. Se avessi proposto un lockdown o la restrizione delle libertà costituzionali all’inizio, quando avevo i primi focolai, mi avrebbero preso per pazzo”.

Questa somma di solitudini non è piaciuta ai poteri mediatici, che si son fatti portavoce di altri poteri, nazionali e transnazionali. Ma lo si deve a lui, se l’Italia piagata dal Covid sarà aiutata e non sarà sola, “il giorno dopo”.

 

Donne dem: competizione di potere

Bisogna essere grati a Marianna Madia e a Debora Serracchiani che nel contendersi la carica di capogruppo dei deputati del Pd stanno dimostrando una volta di più che le donne in politica non sono e non possono essere un apostrofo rosa gentilmente concesso da qualche uomo di potere. Per sostanziare questo concetto, mi affiderò a una succinta rassegna stampa di donne che sulla questione hanno autorevole voce in capitolo. “La scelta orrenda di Enrico Letta di regolare i conti interni al Pd attraverso la proposizione della questione di genere conferma che la sinistra utilizza questo metodo figlio di una grande ipocrisia”. Un tot di donne, purchessia. “Un tot di donne magari brave, altre magari amiche, altre ancora magari fidanzate. Un tot, una modalità di gestire il potere consociando spesso il genere femminile ma al livello più basso” (Lucetta Scaraffia intervistata da Antonello Caporale sul Fatto).

“Ciò che trovo infatti interessante e triste in tutta questa vicenda è che, nel momento in cui si sta finalmente ponendo la questione della rappresentanza femminile e del contributo che le donne possono portare al dibattito politico, sociale e culturale del nostro Paese, sembra di assistere a una delle centinaia di migliaia di polemiche cui si è assistito per anni quando i nomi in gioco erano maschili (…) Intendiamoci. Non voglio affatto suggerire che la donna, per natura, sia gentile, empatica, dolce e accogliente. E che l’uomo per contrapposizione, sia tutto il contrario. Anzi. Sono anni che mi batto per scardinare ogni forma di rigido dualismo e per promuovere il concetto di ‘ibrido’. Sto solo dicendo che il potere soffre ancora troppo del fatto di essere stato esercitato per decenni, solo attraverso ‘una modalità guerriera’”. (Michela Marzano, La Stampa). “Le donne si comportano, si legge con toni scandalistici, ‘come’ gli uomini. E certo! Appunto perché non c’è alcuna essenza femminile, il fatto di avere una donna in un luogo dirigente non risolve la questione dell’inospitabilità dei luoghi di potere verso le donne. Quel che sta succedendo nel Pd mostra la durezza di questo fatto: una o due donne non fanno primavera (…) Non ci sono ‘le donne del Pd’. Ci sono le donne afferenti a quel capo o a quella sigla” (Nadia Urbinati, Domani). Infine, a Enrico Letta va riconosciuto il merito di avere (forse con altre intenzioni) dimostrato che la parità di genere esiste poco purtroppo nei numeri, ma assai nelle modalità della competizione politica e delle scalate di potere. Si chiama eterogenesi dei fini.