Pochi soldi, piccoli gabbati: sostegni peggio dei dl Ristori

I nuovi ristori allo studio del governo saranno sempre un cantiere aperto, il cui ammontare degli aiuti susciterà malumori: troppi pochi soldi stanziati in un arco temporale troppo lungo, mentre imprese e professionisti restano in ginocchio, stravolti da un anno di chiusure o da orari di lavoro ridotti. Il copione si ripete dal maggio del 2020, lungo i quattro decreti che hanno stanziato i contributi a fondo perduto per compensare la diminuzione di fatturato causata dall’emergenza Coronavirus. E con le stesse accuse, la scorsa settimana, si è chiuso anche il più travagliato dei decreti, il “Sostegni”. Ma le categorie produttive coinvolte, dopo aver lungamente protestato per gli esigui contributi ottenuti, ora già rimpiangono i decreti precedenti che hanno previsto aiuti più elevati. E aspettano che il premier Mario Draghi attivi altri interventi. Si parla di un sesto decreto (e un nuovo scostamento di bilancio) che detterà anche le nuove regole per stabilire l’effettivo ammontare dei contributi a fondo perduto che, questa volta, dovrebbero andare solo alle imprese costrette a ulteriori misure più restrittive. Insomma, un piano di ristori che è l’esatto contrario di quello seguito dal decreto Sostegni che, abolendo i codici Ateco, da oggi distribuirà 11,5 miliardi di euro a una platea più ampia di beneficiari agevolando perlopiù le imprese che fatturano oltre 5 milioni di euro e lasciando ai piccoli le briciole. Tagliati fuori anche imprese e professionisti con un calo di fatturato minore del 30% tra il 2019 e il 2020.

Per capire meglio le accuse di ristoratori e negozianti, abbiamo chiesto alla Fondazione studi dei Consulenti del lavoro di elaborare una tabella di simulazione sui vari ristori messi in campo nell’ultimo anno per fare una comparazione. I decreti sono il dl Rilancio che, approvato nel maggio 2020, ha stanziato 6 miliardi di euro di contributi a fondo perduto, il dl Ristori dell’ottobre 2020 (12,4 miliardi), il dl Ristori bis del novembre 2020 (1,4 miliardi) e il dl Sostegni (oltre 11 miliardi). Non è stato considerato il decreto Natale che ha stanziato 645 milioni di euro ai soli titolari di partita Iva interessati dalle restrizioni imposte nelle zone rosse durante le festività natalizie. Se i dl Rilancio, Ristori e Ristori bis hanno preso come base di calcolo la differenza tra l’importo della media mensile del fatturato del mese di aprile 2020 su aprile 2019 delle attività previste dai codici Ateco, il dl Sostegni ha invece calcolato l’ammontare del contributo applicando una percentuale di ristoro in base alla differenza di quanto fatturato tra l’anno 2020 e il 2019. Perché questa differenza? Per ampliare la base dei beneficiari, il dl Sostegni ha notevolmente ridotto la base di calcolo, facendo diminuire anche gli importi erogati. Contestazione che arriva dal Servizio del Bilancio del Senato. Ma per i tecnici di Palazzo Madama ci sarebbe anche un problema di stanziamenti: i soldi del decreto del governo Draghi potrebbe non bastare avendo esteso i ristori anche alle maxi attività che fatturano fino a 10 milioni.

Bar. Prendiamo un bar con fatturato pre-Covid di 100mila euro e un crollo del 50% nel 2020. Se il suo fatturato nell’aprile 2019 è stato di 17 mila euro, esattamente un anno dopo ha registrato zero durante il lockdown. La prima tornata di ristori, che hanno praticamente riguardato tutte le attività, hanno permesso al barista di prendere 3.400 euro (il 20% dei ricavi). Importo salito a 5.100 euro a fine ottobre con il dl Ristori che ha tenuto la stessa base di calcolo, aumentando però le percentuali dei ristori. La nuova tranche di soldi del dl Sostegni (il dl Ristori bis ha previsto contributi solo ai codici Ateco esclusi dal decreto precedente) è quindi crollata a 2.500 euro.

Ferramenta. Stessa doglianza del barista arriva dal proprietario di una ferramenta (fatturato di 300 mila euro nel 2019 e di 210 mila euro nel 2020; con entrate di 15 mila euro ad aprile 2020 e 40 mila nel 2019) che ha preso solo 5 mila euro a maggio 2020 e ora 3.750 euro. Dal momento che la sua attività, considerata servizio essenziale, è rimasta sempre aperta, non ha percepito altri ristori. “I dati parlano da soli. L’ultimo decreto è un mini-sostegno che a piccoli e medi imprenditori non basterà a pagare un mese di affitto dei locali, ma ha accontentato le imprese che fatturano fino a 10 milioni, prima escluse da tutte le disposizioni”, commenta Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro.

Negozio di abbigliamento. Salendo con i fatturati si nota, infatti, che un negozio di abbigliamento che a maggio 2020 ha preso oltre 15 mila euro di ristoro, ha poi incassato il doppio a novembre e ora prenderà 11.600 euro.

Concessionaria di auto. Con il caso di scuola per chi fattura fino a 5 milioni di euro: una concessionaria d’auto. Esclusa dal Ristori e dal Ristori bis per il limite di fatturato, ha ottenuto 50 mila euro sia a maggio scorso sia ora con il dl Sostegni. Ma sono le imprese più grandi a rifiatare di più con l’aumento del tetto di fatturato da 5 a 10 milioni di euro: così oggi a richiedere i ristori, 66 mila euro, potrà essere per la prima volta anche un’azienda che produce plastiche.

“Shopper, contratto antisindacale”

L’ennesima sberla giudiziaria stampata in faccia alle piattaforme di consegne a domicilio viene dal Tribunale di Milano. È una netta bocciatura del contratto collettivo degli shopper, gli addetti che portano la spesa a casa dei clienti per Supermercato 24 e le altre app. Non tanto nei contenuti, ma nel modo in cui è stato negoziato: firmato il 28 gennaio da un solo sindacato, di comodo, per altro sostenuto dall’impresa stessa.

L’aver sponsorizzato la sigla allineata è “un’indebita ingerenza del datore di lavoro nel campo del necessario conflitto tra organizzazioni”, scrive la giudice Sara Manuela Moglia, quindi una “condotta anti-sindacale”. Gli shopper sono i “cugini” dei rider di Deliveroo e Glovo. Il loro compito è recarsi al supermercato, riempire il carrello e lasciare le buste a casa del consumatore. Sono inquadrati come autonomi, pagati “a consegna” e sprovvisti dei diritti come ferie e malattia. Proprio come per i rider, le imprese del settore vogliono consacrare questo modello in un contratto collettivo. L’Assogrocery, che le rappresenta, ci ha provato a dicembre con la Fisascat Cisl, che ha dapprima accettato le condizioni ma si è poi sfilata poiché l’accordo ha avuto via libera solo dal 30% degli shopper. Un’insolita consultazione: è stata l’azienda – Everli (Supermercato 24) – a inviare il comunicato Cisl a tutti i suoi addetti, raccogliendo adesioni al contratto. Come detto, non sono arrivate a un numero tale da convincere la Fisascat a firmare. Everli ci ha riprovato a fine gennaio. Con un video dell’amministratore delegato Federico Sargenti, ha chiesto ai lavoratori di dare mandato di sottoscrivere l’accordo all’Unione shopper Italia, sindacato amico nato poche ore prima allo scopo di accettare le condizioni aziendali. Il testo firmato è lo stesso inizialmente accettato la Cisl: niente assunzione, paghe a cottimo, indennità per maternità solo alle donne con almeno 500 consegne portate a termine prima della gravidanza. Il sistema adoperato fino a quel momento con qualche concessione in più.

La Filcams e la Nidil per la Cgil, con UilTemp e UilTucs Lombardia, hanno presentato ricorso al Tribunale di Milano, con gli avvocati Bidetti, De Marchis, Santoro e Vescovini. L’ingerenza del dirigente di Everli, aggiunge il magistrato, è stata “concreta e pregnante” nella parte in cui ha minacciato ripercussioni in caso di mancata firma: “Saremo costretti – diceva – a ridurre la nostra presenza sul mercato”. Aver tifato per Unione shopper Italia ha avuto due effetti: ha violato il divieto di sostenere sindacati, imposto dallo Statuto dei lavoratori, e ha permesso all’azienda di “conoscere chi, tra gli shopper, chi ha seguito le sue indicazioni e chi le ha rifiutate”. Per lo Statuto è vietato raccogliere informazioni sulle scelte sindacali dei lavoratori. Ora Sargenti dovrà girare un altro video, in cui legge la decisione del Tribunale.

Rifiuti, rischio caos a Roma. I flop della Regione Lazio

L’inchiesta della Procura capitolina a carico di una dirigente regionale e del re delle discariche laziali Valter Lozza, entrambi accusati di corruzione, spinge Roma e il Lazio a un passo da una nuova emergenza rifiuti. In virtù di un piano regionale impostato quasi per intero sugli impianti di proprietà dell’imprenditore finito ai domiciliari. E nonostante l’emergenza Covid abbia portato la Capitale, nel 2020, a ridurre di oltre il 40% la produzione giornaliera di immondizia.

Il flop della Regione guidata da Nicola Zingaretti sul fronte dei rifiuti è riassunto nelle cinque righe di missiva con cui la Mad srl di Valter Lozza, il 25 marzo, comunica a Campidoglio e Pisana che nel mega-impianto di Roccasecca (Frosinone), “le volumetrie residue disponibili sono stimate per circa 5 giorni lavorativi e pertanto sarà possibile conferire fino all’esaurimento della capacità residua”. Tradotto: dal 1° aprile il Comune di Roma e quelli della provincia di Frosinone dovranno cercarsi nuovi impianti dove portare i rifiuti. Che però nel Lazio non ci sono, perché quelli aperti sono tutti della Mad. Gli altri sono stati chiusi oppure mai autorizzati. L’annuncio arriva pochi giorni dopo l’arresto di Lozza, il 16 marzo, accusato di aver corrotto il capo dell’area regionale Ciclo dei rifiuti, Flaminia Tosini, la quale secondo la Procura di Roma era “totalmente asservita agli interessi dell’imprenditore”. A seguito degli arresti, la Regione ha sospeso tutti gli atti amministrativi firmati da Tosini e riguardanti Lozza, fra cui l’iter di ampliamento della discarica di Roccasecca.

Ma perché i rifiuti di Roma finiscono a Frosinone? Facciamo un passo indietro. Il 28 novembre 2019 Zingaretti firma un’ordinanza che impone alla sindaca Raggi di individuare, all’interno dei confini comunali, “uno o più siti” dove costruire la nuova discarica. L’ordinanza si basa su due presupposti. Il primo, la bozza di piano rifiuti che avrebbe imposto a ogni provincia e a Roma Capitale di trovare un impianto di smaltimento. Il secondo, la chiusura improvvisa della discarica di Colleferro, a due passi dalla Capitale – impianto di proprietà della Regione – decisa con un anno di anticipo rispetto alle volumetrie disponibili. Qui, qualche mese dopo, ci sarebbero state le elezioni e sarebbe stato inaugurato il nuovo hub Amazon del centro Italia. Ne nasce un braccio di ferro fra Comune e Regione che porta Virginia Raggi, con le spalle al muro, a cedere e a firmare, il 31 dicembre, la delibera di Giunta per la nuova discarica di Monte Carnevale, a ovest della città. Un sito su cui – secondo i pm – grazie alle manovre di Tosini, avrebbe messo le mani, pochi giorni dopo, proprio Lozza.

Con Colleferro chiusa e Monte Carnevale in itinere, per Lozza si spalanca così il business dei rifiuti romani. Il Campidoglio è infatti costretto a conferire gran parte dei rifiuti a Frosinone e a Civitavecchia (altra discarica targata Mad). Nel frattempo, in Regione si lavora per l’ampliamento di Roccasecca, anticipato dall’autorizzazione alla soprelevazione che Tosini ottiene da Palazzo Chigi il 20 aprile 2020, collegandosi in streaming – si apprende dagli atti dell’inchiesta – da casa di Lozza. Non solo. Il 7 agosto 2020 il Consiglio regionale approva il piano rifiuti, che però non tiene conto dei patti fra Zingaretti e Raggi e costringe Roma a dover rispettare il principio della “territorialità”. “Roma non può pagare anche per le province, quante altre discariche dobbiamo fare?”, tuonò la sindaca in quell’occasione.

Cosa accadrà ora? Lozza, pur dai domiciliari, ha il pallino del gioco in mano, nonostante oltre l’inchiesta per corruzione, i pm abbiano chiesto per lui il rinvio a giudizio nell’ambito di un’altra indagine in cui è accusato di traffico di illecito di rifiuti proprio nella discarica di Roccasecca. Oggi si svolgerà una riunione con i tecnici di Regione, Roma Capitale, Arpa Lazio e, probabilmente, ministero della Transizione ecologica e Prefettura di Roma. L’obiettivo è evitare, da giovedì, che le strade della Capitale si riempiano di immondizia.

A quanto risulta, la soluzione sarà probabilmente quella di prorogare l’apertura della discarica di Roccasecca. E, forse, riaprire l’iter per l’autorizzazione all’ampliamento.

Il Tar dà ragione alla Rai: annullata la multa di Agcom

Il Tar del Lazio annulla la sanzione Agcom da 1 milione e mezzo alla Rai, ritenuta colpevole di mancato “pluralismo” e di carenze “nella completezza di informazione”.

La vicenda, a suo tempo raccontata con ampio spazio sul Fatto, risale al febbraio 2020, quando l’Autorità garante per le comunicazioni multò Viale Mazzini ritenendo che alcuni servizi del Tg2 certi talk show, come #Cartabianca su Rai3, non avessero rispettato le norme sulla corretta informazione. Alla trasmissione condotta da Bianca Berlinguer, in particolare, si contestava una frase pronunciata da Mauro Corona, che invitava gli italiani “a mettere i soldi sotto al materasso” in previsione di un possibile utilizzo del Mes.

E così era arrivata la pesante sanzione, contro cui la Rai ha fatto ricorso al tribunale amministrativo che ieri ha riconosciuto le ragioni del servizio pubblico: “I rilievi sui quali è stata fondata la valutazione della violazione degli obblighi di servizio, e la conseguente applicazione delle misure previste dall’art. 48 comma 7 del Tusmar (diffida e sanzione pecuniaria), non risultano, coincidenti con quelli oggetto dell’atto di contestazione”.

Multa annullata, dunque, per la gioia tra gli altri del consigliere d’amministrazione Rai Giampaolo Rossi, in orbita FdI: “Il tempo è galantuomo, come si suol dire, e dimostra che la frettolosità nei giudizi, specialmente se animata da matrice ideologica e intenti strumentali, non rende mai un buon servizio a nessuno”.

Il riferimento è alle polemiche politiche che provocò la multa dell’anno scorso, dato che in molti – soprattutto dal Pd e da Italia Viva – chiesero le dimissioni dell’amministratore delegato Fabrizio Salini e del direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano.

Il Riesame conferma: gli strumenti di bordo della Mare Jonio rimangono sotto sequestro

Documenti, computer e strumenti di bordo della Mare Jonio resteranno sotto sequestro. Lo conferma il Tribunale del riesame di Ragusa, accogliendo la richiesta della procura ragusana che indaga per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione alle norme del codice di navigazione. Sotto accusa ci sono l’armatore Beppe Caccia, il comandante Pietro Marrone, l’attivista Luca Casarini e il regista romano Alessandro Metz. Secondo i pm, avrebbero favorito l’accordo economico tra la mercantile danese Maersk Etienne e la Idra Social Shipping, armatore della Mare Jonio che in mare agisce per la ong Mediterranea Saving Humans (non indagata). La Idra avrebbe ricevuto 127 mila euro per farsi carico dei 27 migranti che i danesi avevano salvato il 5 agosto 2020. “Domani potremmo essere con lo champagne a festeggiare perché arriva la risposta dei danesi”, si legge in un’intercettazione tra Casarini e Merz. “Contro di me si è attivata la macchina del fango”, replica Casarini. I legali della Mare Jonio presenteranno ricorso.

Peggiori per over80, ma prime per “salta-fila”: Sicilia e Toscana

Lo staff del governatore della Toscana Eugenio Giani ora dice che “entro il 25 aprile riceveranno la prima dose tutti i 320 mila over 80”. Nel frattempo, però, il Codacons ha denunciato la Regione, con un esposto nel quale ravvisa l’abuso d’ufficio, annunciando anche la promozione di una class action. La raccolta delle adesioni a un’azione risarcitoria collettiva “per conto di tutti gli anziani con più di 80 anni che ancora non hanno ricevuto il vaccino” è iniziata. Tutto ruota intorno al caso del personale giudiziario che in Toscana è stato già vaccinato: circa 8 mila persone (mentre gli anziani restavano quasi al palo). Tra loro avvocati e impiegati dei tribunali. E poi magistrati che, secondo l’Anm (che però in serata ha leggermente corretto il tiro), dovrebbero essere considerati categoria alla quale assicurare corsia preferenziale, pena la sospensione delle attività non urgenti. Il ministero della Giustizia ha ribadito il no che era già stato opposto dalla ministra Marta Cartabia il 18 marzo. Una questione di uguaglianza. E di rispetto dei criteri stabiliti dal governo, che ha deciso di procedere per classi di età, eliminando anche dalle disposizioni del ministero della Salute la voce “altri servizi essenziali” che l’8 febbraio aveva aperto alle Regioni ampi margini di discrezionalità. La strigliata del premier Draghi alle Regioni, accusate di aver favorito categorie professionali con potere negoziale a scapito degli anziani, non sembra aver sortito effetti allo stesso modo.

A dispetto delle dichiarazioni del commissario all’emergenza generale Figliuolo, che due giorni fa ha detto: “Siamo allineati al piano e non ci sono differenze tra regioni”. Ma se il piano non è cambiato ancora una volta ci sono Regioni che corrono e altre che arrancano. Non c’è solo il caso della Toscana, ultima in Italia per percentuale di over 80 vaccinati sul totale delle somministrazioni: 22,14%, contro una media nazionale del 32,15%, e con una fornitura di 709 mila dosi, 473.930 tra l’1 e il 25 marzo. La Sicilia le contende il primato, con il 22,21%, su 749.986 somministrazioni. Mentre nella categoria “altro” (nella quale non rientrano personale sanitario, ospiti delle Rsa, forze dell’ordine, personale scolastico e universitario) figurano ben 219.230 somministrazioni, il 29,3%: più degli anziani. Qui è stato vaccinato anche Gianfranco Miccichè, presidente dell’assemblea regionale. “Ma sono un soggetto vulnerabile perché cardiopatico”, ha spiegato. L’altra regione che procede al rallentatore è la Calabria: con il 26,96% di over 80 immunizzati. Quelli della categoria “altro”, sono invece il 24,5%. In pratica, quasi si equivalgono. E tra questi ultimi, come ha stabilito il commissario straordinario alla Sanità Guido Longo, oltre al personale sanitario c’è quello delle prefetture. La Sicilia, però, non ci sta a indossare la maglia nera: “Avevamo dato il via libera anche ad avvocati e giornalisti, ma abbiamo sospeso tutto perché si procede sulla base dell’età – spiega lo staff del governatore Nello Musumeci –, mentre nella categoria ‘altro’ ci sono soggetti fragili, disabili gravi e over 70. Sugli anziani siamo in ritardo perché attendiamo nuove forniture”. La Sicilia finora ha ricevuto 863 mila dosi, 355.110 dall’1 al 25 marzo; la Calabria in totale 323.990 (138 mila nell’ultimo mese). Corre, invece, il Lazio. Sul totale delle oltre 979 mila somministrazioni fatte, il 35,77% riguarda ultraottantenni. In questo caso, dopo la vaccinazione dei sanitari, è stato sempre adottato il criterio anagrafico, come spiega l’assessore alla Salute, Alessio D’Amato. Il Lazio ha anche replicato il metodo applicato da Israele, con hub monotematici, dove si somministra solo un tipo di vaccino, per evitare errori.

Aperture, Draghi (per ora) ferma il pressing delle Regioni leghiste

“Non si può fare” ha risposto Roberto Speranza ai presidenti di Liguria e Friuli-Venezia Giulia, Giovanni Toti e Massimiliano Fedriga, che chiedevano la “programmazione delle riaperture” e il ripristino della zona gialla, anche “rafforzata”, cioè con “bar e ristoranti aperti a pranzo e fino alle 16”, non più alle 18 com’era fino a qualche settimana fa. La Lega ora spera in un’apertura di Mario Draghi, insiste per l’attenuazione delle misure, “anche a livello provinciale”, dove i malati in terapia intensiva siano al di sotto di una certa soglia. Chiede una nuova “cabina di regia” oggi, Palazzo Chigi non conferma la riunione. Ma per ora ottiene solo la “verifica”, già promessa da Draghi, del perdurare di condizioni che richiedono in tutto il Paese le regole dell’arancione o del rosso. Si farà attorno al 15-20 aprile, ha detto Mariastella Gelmini, ministro degli Affari regionali.

Il nuovo decreto legge, domani, prolungherà le restrizioni fino al 1° maggio, o forse al 4. Riaprono solo le scuole fino alla prima media in zona rossa, come già annunciato. Speranza insiste sulla “prudenza” perché “ci sono le varianti” e “3.721 posti letto in terapia intensiva occupati”, cioè poco meno dei 4.848 di novembre e dei 4.068 del 3 aprile 2020, i picchi delle cosiddette prima e seconda ondata. Però iniziano a scendere sotto i 200 gli ingressi giornalieri nelle rianimazioni.

Draghi ha incontrato ieri i presidenti delle Regioni con Gelmini, Speranza, il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio e il commissario Francesco Paolo Figliuolo. Per fare pace dopo il richiamo sulle vaccinazioni degli over 80. Ha invocato “collaborazione” e “comune impegno” per “la sicurezza e la salute ma anche la ripresa dell’attività economica”; ha invitato ad “aver di nuovo il gusto del futuro” e ha ribadito che la Commissione europea assicura vaccini “più che sufficienti per raggiungere l’immunità per il mese di luglio in tutta l’Europa”. Ha anche promesso il personale che le Regioni richiedono per le vaccinazioni: ieri Speranza ha fatto l’accordo con i farmacisti, si tratterà di accelerare sull’impegno loro come di medici di famiglia, specializzandi, odontoiatri e altri, oltre a dottori e infermieri già assunti o di prossima assunzione con il bando dell’ex commissario Domenico Arcuri. Una ventina di minuti e poi il presidente del Consiglio se n’è andato. Le Regioni chiedono anche di programmare le forniture a 20 giorni anziché settimana per settimana, ma questo purtroppo dipende dalle aziende. E di togliere l’obbligo di scorte al 30%, cancellato solo nel piano del generale Figliuolo che non ha valore normativo.

Matteo Salvini cerca di non farsi male. Ieri mattina aveva riunito i suoi governatori per rimetterli in riga prima dell’incontro con il governo: “Chiudere tutto senza considerare i dati sanitari è impensabile” ha detto Salvini. Ma il lombardo Attilio Fontana non si esprime, il veneto Luca Zaia e l’umbra Donatella Tesei al massimo ipotizzano la riapertura delle scuole. Con il governo Zaia non ha neppure accennato alle restrizioni, solo dei vaccini “da prendere sul mercato”. Vedremo

Il governo domani farà anche le norme sul cosiddetto scudo penale per medici e infermieri e sugli operatori sanitari non vaccinati. Dovrebbe prevalere l’impostazione soft della Guardasigilli Marta Cartabia: sospensione da lavoro e stipendio per medici e infermieri non vaccinati solo se non è possibili trasferirli a mansioni in cui non siano a contatto con i pazienti, mentre la Salute è per la sospensione tout court. E la limitazione della responsabilità al dolo e alla colpa grave dovrebbe riguardare solo medici e infermieri coinvolti nelle vaccinazioni e in eventuali casi di reazioni avverse anche letali e non a tutti i casi di lesioni o omicidio colposo legati all’emergenza Covid-19, come vorrebbero alla Salute. Non dovrebbe essere invece limitata la responsabilità civile delle strutture sanitarie.

Conte, in bilico l’assemblea con gli eletti

Un’assemblea con i parlamentari prima di Pasqua, per spiegare a grandi linee il suo piano di rifondazione del M5S. Giuseppe Conte ci riflette da giorni, sollecitato dai gruppi parlamentari. Ma la riunione potrebbe slittare, perché a complicare tutto venerdì scorso è arrivato Beppe Grillo, con la sua tirata sui due mandati. Ribadendo l’intoccabilità della regola, il Garante ha provocato l’insurrezione di molti veterani. E di certo non ha aiutato Conte, a quanto pare ignaro di quanto avrebbe detto Grillo durante la videoconferenza con i parlamentari.

Per questo, l’ex premier riflette con la massima cautela sui prossimi passi. Partendo dall’assemblea con gli eletti, originariamente prevista per oggi, come raccontano fonti qualificate. Ma è stato tutto congelato. “Stiamo valutando, visto il clima interno” riassume un big. E a tenere alta la temperatura è arrivata un’agenzia dell’AdnKronos, secondo cui Grillo nelle scorse ore avrebbe rincarato la dose: “Se si deroga al limite dei due mandati alle prossime elezioni il M5S prenderà il 5 per cento”. A completare il quadro, la guerra di fonti (anonime) parlamentari, divise tra pro e contro la deroga al vincolo. Logico che Conte, come confermano persone a lui vicine, sia preoccupato. Non solo per la grana dei due mandati, che avrebbe voluto affrontare più avanti (“Non era questo il momento”). Ma anche per il proliferare di correnti, che sembrano possibili liste elettorali, fatte proprio per aggirare la norma. La più attiva rimane Italia più 2050, ideata da Dalila Nesci e Carlo Sibilia. Ma se ne muovono altre, da Innovare, vicina a Davide Casaleggio e fatta di eletti al primo mandato, a un’altra che starebbe prendendo forma tra i dimaiani. Ieri si parlava di Francesco D’Uva come promotore, ma il suo ufficio stampa smentisce (“Se ne dicono tante…”). Di sicuro però il M5S è frammentato in mille atomi. Un guaio per il rifondatore Conte.

M5S all’attacco: “Matteo dica se si è vaccinato negli Emirati”

Nei prossimi giorni i viaggi di Matteo Renzi all’estero – prima a Riyad, poi a Dubai e nel fine settimana in Bahrain – non rimarranno più una questione privata tra il senatore di Scandicci e i suoi interlocutori. Adesso arriveranno chiarimenti pubblici e in Parlamento. A commentare la domenica in Formula Uno di Renzi è soprattutto il M5S che in una nota durissima chiede al senatore di fare “un pit stop anche in Parlamento, visto che è pagato per quello” per sapere “se le voci di una sua vaccinazione a Dubai siano fondate o meno”. Il M5S sta preparando anche un’interrogazione o un’interpellanza al ministro della Salute sul tema. Attacchi arrivano anche da Paola Taverna (“allucinante mentre il Paese soffre”), Stefano Buffagni (“irrispettoso nei confronti degli italiani”), Angelo Bonelli dei Verdi (“Per assistere a Gp il vaccino è obbligatorio. Renzi si è vaccinato?”) ma anche da Elio Vito, componente di FI del Copasir, che ironizza: “Renzi fa bene a viaggiare. Prossime mete Myanmar e Minsk?”.

Ora il governo Draghi sarà chiamato a rispondere per chiarire se Renzi abbia rispettato le norme anti-Covid (quarantena, tamponi…) e se abbia intenzione di intervenire con una legge sul conflitto d’interessi o una modifica del regolamento del Senato. Al momento le interrogazioni depositate tra Camera e Senato sono 6: 3 sono del M5S, una di Nicola Fratoianni (SI) e due degli ex M5S Simona Suriano (Camera) e Saverio De Bonis (Senato). Oltre al ddl sul conflitto d’interessi anti-Renzi depositato alla Camera dal M5S Francesco Berti, anche il senatore 5S Gianluca Ferrara ne depositerà uno a Palazzo Madama per evitare che deputati e senatori cumulino l’indennità parlamentare con i soldi incassati da enti esteri.

Conflitto di interessi e regole sulle lobby: l’Italia è ancora ferma

C’è ancora tanto da fare: è la brutale sintesi dell’ultimo rapporto del Greco, organo del Consiglio d’Europa che si occupa di lotta alla corruzione nell’Unione europea, sulle misure prese dall’Italia contro la corruzione dei parlamentari, nonostante le raccomandazioni fatte nel 2016. Due i principali punti deboli: l’assenza di una legge sul conflitto d’interessi e la mancanza di una regolamentazione delle attività di lobbying. I progressi, si legge, procedono “molto lentamente” e serve “un’azione più risoluta”.

Si parte dal Parlamento. Il Greco rileva che nonostante la buona volontà e alcune novità introdotte soprattutto alla Camera, ci sia ancora molto da fare come “sviluppare ulteriormente la gamma di sanzioni non penali per comportamenti non etici, in base al mandato parlamentare”. Molto carente il Senato: “Deve ancora intraprendere un percorso simile per promuovere un forte ethos di integrità tra i suoi membri, manca ancora un codice di condotta”. Vengono invece valutati come positivi gli impegni della Camera su “donazioni, doni, ospitalità, favori e altri benefici” anche in relazione all’“obbligo di dichiarare l’alloggio e le spese di viaggio coperte dagli sponsor”. Tuttavia, non basta. Si passa al conflitto d’interessi: mancano “norme chiare e applicabili per i parlamentari” anche attraverso “una sistematizzazione del regime di ineleggibilità e incompatibilità”. Serve che “il processo di verifica di ineleggibilità/incompatibilità sia ulteriormente snellito e quindi svolto in modo efficace e tempestivo”. Nessun seguito, è la nota, è stato dato alle “iniziative concrete prese dalla precedente legislatura per sistematizzare e snellire le norme sui conflitti di interesse”. Si fa riferimento alle leggi in discussione, come quella di cui è relatore Giuseppe Brescia (M5S) in commissione Affari costituzionali, ma ancora si sottolinea che “le norme esistenti in materia di conflitti di interesse e incompatibilità sono contenute in un elevato numero di leggi diffuse (e relative modifiche), e che questa mancanza di razionalizzazione crea difficoltà quando si tratta della loro pratica comprensione e applicazione”.

Bene invece le restrizioni di Montecitorio che vietano agli ex deputati di iscriversi al registro dei lobbisti nei 12 mesi successivi alla fine del mandato parlamentare. Servirebbe però vietare “altre funzioni che potrebbero essere svolte e che potrebbero anche dar luogo a conflitti di interesse”. Bisognerebbe identificarle ed eventualmente imporre restrizioni. C’è poi anche qui un appello alla redazione di una legge che regoli le attività di lobbying. Se alla Camera è stata ben accolto il registro, manca un codice di comportamento per i deputati. Al Senato risultano invece assenti sia l’uno che l’altro. “Il Greco comprende che ulteriori azioni in questo campo potrebbero aver luogo nel contesto dell’adozione di un quadro giuridico completo sul lobbismo – conclude Strasburgo – . I tempi sono maturi, la questione continua ad essere di attualità nell’agenda parlamentare”.