Pranzo in terrazza: Marattin prende la multa anti-Covid

Lui che è il capo, Matteo Renzi, era in Bahrain a gustarsi il Gran premio di Formula 1 accanto a tutti gli ospiti d’onore della prima gara del Mondiale automobilistico del 2021. E liquida così gli italiani, imbufaliti a vederlo spassarsela come se il lockdown fosse solo cosa loro: “Non ho violato alcuna legge”.

L’altro, il suo fedelissimo, Luigi Marattin, invece è rimasto a casa a Roma, ma gli è costato caro, come a un quisque de populo qualunque: il dì di festa lo ha passato alle prese con i carabinieri che lo hanno multato per aver ricevuto gente sulla sua terrazza a due passi da piazza Barberini. Vietatissimo per via dei limiti imposti dal Covid, mica come volare al Gran premio.

E così quella appena trascorsa, per il leader di Italia Viva è stata più che una domenica delle Palme, proprio una Pasqua degna del miglior Marchese del Grillo: “Io so’ io e voi non siete un c…o”. Mentre Marattin, deputato di stretta osservanza renziana, detto anche “lo sgobbone”, pare più Gasperino: pizzicato in castagna, manco fosse il carbonaro. Anche se la Madama proprio non se l’aspettava, come confessa al Fatto. “Sono arrivati i carabinieri avvertiti per via degli schiamazzi e della musica a tutto volume di chi si era riunito nella terrazza di fianco alla nostra. La mia fidanzata aveva invitato cinque amici… Sa, il momento, per via delle restrizioni, è difficile per tutti”.

Tutti tutti no, a guardar Renzi, che come fioretto quaresimale ha scelto il paddock di Manama. Tutt’altro spartito per Marattin costretto a offrire il petto su Facebook dove ha sentito il dovere di scusarsi pubblicamente con un post “sull’importanza di essere umani e quindi imperfetti”. Eccolo: “Ieri pomeriggio (domenica, ndr) nella mia abitazione a Roma si è registrata una violazione della normativa anti-Covid, nella forma di un pranzo non consentito (non ha alcuna importanza se tale violazione riguardasse o meno il sottoscritto, visto che sono ovviamente responsabile di ciò che accade e di cui sono a conoscenza). Le forze dell’ordine – che erano alla ricerca di una violazione ben più grave in un appartamento della zona, ma che si sono per caso imbattute nella nostra – sono intervenute e hanno irrogato le sanzioni conseguenti”, ha spiegato mortificato. Ringraziando le forze dell’ordine per il loro lavoro e non è tutto: “Chiedo scusa. Un parlamentare ha l’obbligo di dare il buon esempio e certamente così non è stato in questo caso”. Chapeau.

Epperò il web non perdona: c’è chi apprezza il beau geste, chi gliene scrive di tutti i colori. Dicendo peste e corna di lui, dei politici in generale e pure di Renzi. Altri per la verità lo invitano a darsi una mossa per convincere il governo a mettere fine a zone rosse e lockdown che costringono i ristoranti a rimanere chiusi, anche se poi ci si attrezza come si può: chi in terrazzo, chi in Bahrain.

Marattin incassa e si prepara al salasso per le bisbocce di domenica. “Macché bisbocce. Io quando sono arrivati i carabinieri ero in camera a lavorare”. Su quelle sudate carte che maneggia essendo presidente della Commissione Finanze della Camera dove si discute la riforma dell’Irpef che non gli dà tregua. Neppure per il tempo di dare una sbirciatina in tv al Gran premio di automobilismo? “Giuro, io la Formula 1 neppure la seguo: ho smesso di guardarla da quando Michael Schumacher non gira più”.

Formula 1: Renzi non vuole dire il perché del viaggio in Bahrein

Il viaggio in Bahrein era per sport. Matteo Renzi rivendica la libertà di poter girare il mondo in pandemia anche solo per guardare la Formula 1. Di usare una prerogativa dei parlamentari – viaggiare all’estero senza quarantena – per uno svago privato. Sappiamo grazie al tampone effettuato in aeroporto, reso pubblico dal suo staff, che l’ex premier è arrivato a Manama sabato pomeriggio attorno alle 15, poi è andato al circuito a vedere le qualificazioni. La trasparenza del viaggio finisce qui: Renzi non vuole rendere pubblici gli incontri e le motivazioni della sua trasferta nel Golfo Persico. Se si accredita la sua versione, quella in Bahrein è stata una vacanza.

Ne ha diritto? Tecnicamente le norme non glielo impediscono. I parlamentari si muovono come agenti diplomatici. Possono viaggiare e rientrare anche da Paesi extraeuropei senza doverne rendere conto. Il tema è stato sciolto da un parere del direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, Giovanni Rezza, che ha stabilito la deroga all’obbligo di quarantena per onorevoli e senatori “per proseguire il mandato parlamentare”. Un’esenzione che in origine doveva “sanare” la situazione degli eletti all’estero, costretti a viaggi frequenti. Poi è stata interpretata in modo estensivo. Sarebbe logico e opportuno che queste missioni siano per l’esercizio delle funzioni parlamentari, ma non è un obbligo. Renzi sfrutta con disinvoltura questa opportunità.

La questione vaccino. Su alcuni media è circolata l’ipotesi che l’ex premier potesse accedere al Gran premio solo in quanto vaccinato o immunizzato dal Covid. Non è così. Dalla Bahrein International Circuit Company, la società che gestisce il circuito dove si è svolta la corsa, fanno sapere che solo gli spettatori paganti avevano l’obbligo di essere vaccinati (compreso il richiamo) o di aver già contratto il Covid ed esserne guariti, mentre la regola non si applicava a chi stava nel paddock, come Renzi. Per loro bastava il tampone negativo. Renzi – tramite il suo staff – conferma di non essere vaccinato.

Amicizie e affari. Domenica l’ex premier non si è fatto problemi a mostrarsi alle telecamere in Bahrein. Rivendica il diritto al viaggio e il fatto di averlo pagato di tasca sua, “senza pesare sui contribuenti”. Ma non vuole parlare dei suoi incontri e delle sue relazioni con gli altri “vip” del paddock (o fuori dal circuito). Le foto pubblicate con l’ex ferrarista Jean Todt lo mostrano a colloquio con il principe del Bahrein, Salman ben Hamad Al Khalifa. Ancora il leader di uno Stato che ha una situazione drammatica sul fronte diritti umani, dopo il famigerato duetto in Arabia Saudita con Mohammad bin Salman e l’incontro con il presidente senegalese Macky Sall (anche lui contestato in patria per la gestione autoritaria del potere). Renzi inoltre era nel paddock insieme a Paolo Campinoti, imprenditore senese che dirige la Pramac Racing Ducati, scuderia di Moto Gp e presidente di Confindustria Toscana Sud. Campinoti e Renzi sono ottimi amici (pure con Stefano Domenicali, amministratore delegato della F1) e hanno più di un interesse in comune: tra le altre cose, il primo è stato grande sostenitore del raddoppio dell’aeroporto di Peretola, a Firenze, storico cavallo di battaglia renziano. Paolo Campinoti ha fatto il colpaccio nel 2016. Renzi era al governo. La Pramac – l’azienda di famiglia Campinoti che produce generatori elettrici – è stata comprata dall’americana Generac, colosso del settore quotato a Wall Street, un fatturato di 2,5 miliardi di dollari (nel 2020). A far gola agli americani è stata soprattutto la presenza di Pramac nei mercati arabi, in particolare quelli del Golfo Persico. Proprio l’area dove Renzi si è recato spesso negli ultimi mesi. Campinoti oggi è vicepresidente esecutivo di Generac, responsabile per tutto il mercato mondiale a eccezione del Nord America. I motivi del viaggio di Renzi non sono noti, ma il venticello che lo spinge verso i Paesi arabi pare sempre un po’ lo stesso.

L’effetto Brian

Giuro che non ce l’ho con Draghi. Scrivo per il suo bene, alla luce dei sondaggi che lo danno in calo per colpa non sua (è lì da un mese e mezzo), ma dei suoi amici di lingua che si stanno rivelando i suoi peggiori nemici. Mi spiego: se tutti scrivono ogni giorno che “accelera sui vaccini” col famoso “cambio di passo” e le inoculazioni traccheggiano, la gente non pensa che sia per le poche dosi e per le solite Regioni: pensa di avere scambiato un freno a mano per un acceleratore, cioè che sia colpa sua. Se poi qualunque banalità esca dalla sua bocca (quandoque bonus dormitat Homerus, ed era Omero) diventa una frase geniale ed epocale, nessuno si accorgerà di quelle geniali ed epocali. È l’effetto Brian di Nazareth, il personaggio dei Monty Python scambiato per il Messia da una turba di squilibrati che gridavano al miracolo per qualunque sua banalità, anche se diceva che le bacche di ginepro crescono sui cespugli di ginepro. Se i media annunciano il “blocco delle esportazioni dei vaccini”, “scoperto il deposito segreto dei vaccini ad Anagni”, “lo schiaffo di Anagni” come se AstraZenaca fosse papa Bonifacio VIII e Draghi fosse Gino Bombaci, la gente pensa di aver risolto il problema: valle a spiegare che le fiale erano ad Anagni perché dovevano essere ad Anagni e tutto continua come prima.

Se Draghi dice che il Mezzogiorno è importante, sai che novità: lo dicevano già Franchetti e Sonnino nel 1876. Giusto, per carità, ma aprirci paginoni con titoli roboanti tipo “Draghi, missione Sud: ‘La ripresa dell’Italia passa dal meridione’” (sempre Rep) e “Draghi: spinta per il Mezzogiorno” (Corriere) fa ridere. Se “Letta parla con Draghi” (Foglio) è normale, ci parlano in tanti, mica gli è apparsa la Madonna. Domenica mi ha affascinato, rapito, paralizzato un’intera pagina del Corriere dal titolo: “Il messaggio di Draghi a (tutti) i partiti: se mi convince un’idea intendo seguirla” (sottinteso: mecojoni!). L’ho letto e riletto, girato e rigirato. Ma – confesso la mia inadeguatezza – non sono proprio riuscito a capire dove fosse il lampo di genio. Anche a me, nel mio piccolo, capita di seguire le idee che mi convincono e, viceversa, di ignorare quelle che non mi convincono. Anzi, dirò di più: mi parrebbe strano il contrario e mi preoccuperei se il Premier Migliore seguisse idee che non lo convincono. Ma non mi sono mai sognato di candidarmi a Bankitalia, alla Bce o a Palazzo Chigi per così poco. E ho il vago sospetto che lo stesso atteggiamento mentale che condivido con Draghi ci accomuni ad alcuni miliardi di esseri umani. Poi, certo, ci sono pure gli spiriti bizzarri che seguono rigorosamente ed esclusivamente le idee che non li convincono. Ma non si può avere tutto, dalla vita.

Scacco al potere (per ricordarci chi siamo)

Con periodicità regolare i satiri si danno delle gran grattate. Per “satiri” non intendo creature con corna, zoccoli e zufoli che vagano per le campagne cercando di accoppiarsi pure coi sassi. “Satiri” è ormai convenzionalmente accettato come abbreviazione di “satirici”, categoria comprensiva di persone senza corna (se le hanno non sono organiche ma acquisite) che invece di scegliersi mestieri più sicuri e deresponsabilizzanti quali il casellante autostradale o il rappresentante di droni, che li traghetterebbero a una serena pensione dopo una vita senza debiti e querele milionarie, si buttano come kamikaze a fare i disegnatori, gli scrittori, gli autori e gli attori satirici, cioè dedicano la vita a pigliare per il culo il prossimo, con quest’ultimo che molte volte ci passa sopra, anzi lo considera un vanto (mi prendono per il culo, sono uno che conta), ma altre volte manda gente ad aspettarli sotto casa, quando va meglio gli sputa in un occhio di persona, quando va peggio li sbatte in galera o li accoppa direttamente.

Chiarita la masochistica, eroica, non destinata alla ricchezza, figura lavorativa del satiro (pure se quando mi chiedono di che campo e rispondo “disegnatore satirico”, la replica è “No, dicevo di lavoro”), vado a motivare l’assioma di inizio. Perché i satiri si danno delle gran grattate (di palle, che altro?) a mano piena, attenzione alle unghie? Perché con periodicità regolare qualcuno, opinionista, filosofo, satiro depresso, sentenzia, grave, “La satira è morta”. Motivi: non ci sono più i satiri (senza corna) che c’erano anni fa, quelli sì che. I satiri sono sempre quelli che c’erano anni fa, basta. Non ci sono giovani all’altezza dei vecchi, che meno male resistono, incrollabili. Ci sono tanti giovani bravi, ma i vecchi non li fanno emergere, pensassero agli acciacchi. Non c’è più voglia di antagonismo, di lottare, tutti si vendono per soldi e visibilità. Non si può ancora giocare a fare gli antagonisti in lotta con tutto, il mondo è mutato, i soldi non sono il diavolo ma il merito. O addirittura, mi piace la satira di tizio perché non fa il piacione, mi piace la satira di caio perché è telegenico. Per districarsi tra queste forze centrifughe e magari individuare qualche orizzonte a breve/media distanza, di più non è pensabile visti i tempi farciti di mascherine e vaccinazioni (ben organizzate, a singhiozzo, alla paracula), s’è mossa nientemeno che la Fondazione Feltrinelli, che per la sua nuova stagione, s’è inventata Sarabanda 2021 (cito) “percorso di incontri e ricerche per mobilitare energie e ridisegnare la società con le idee della politica, dall’ecologismo sociale all’economia che garantisca meno disuguaglianze e più diritti, agli immaginari, arti e creatività che accompagnino il bisogno di sociale”. Non c’è da farsi intimorire dall’altisonanza delle parole, il progetto è concreto, lucido e prezioso in un Paese dove ancora ci si imbatte in grandi fratelli, naufraghi di lusso su isole non deserte e amici di una tizia che litigano favore camera. Sarabanda 2021 sarà (ricìto) “dibattiti, workshop, webinar (conosco tante parolacce, questa mi mancava), percorsi espositivi e Festival,”.

Proprio in un Festival estivo, uno spazio rilevante sarà dedicato alla Satira, alle sue funzioni e contraddizioni, alla verifica della sua attuale rilevanza sociale (mi interessa molto capire se posso smettere di grattarmi) e al suo ruolo, se non proprio di faro-guida (ogni tanto mi piacerebbe essere un faro-guida), sicuramente di sensore di problematiche e malaffari. “Scacco al Potere” sarà una ricca mostra dedicata alle maggiori testate satiriche internazionali e nazionali, come Krokodil, Liberation, Solidarnosc e i nostri Ca Balà, Lotta Continua, Vernacoliere, il Male, ovviamente Cuore che ci mancò poco ci candidassero alle elezioni a furor di popolo e Il Misfatto, inserto satirico per me affettivo del giornale che avete in mano. Iniziativa ghiotta, da maggio mascherina d’ordinanza e tutti a Milano. Anche se, altro che morta, Satira e Satiri sono come i foruncoli, ne sparisce uno, ne spuntano altri venti. Dai tempi di Orazio bonanima.

Russia. Suez, Mosca trasforma la crisi in opportunità

Il mega containerEver Givern che si è messo di traverso nei giorni scorsi nel Canale di Suez, ha fatto venire molti mal di testa. La Russia è tra i maggiori esportatori di greggio attraverso il canale, ed è stata travolta da questa crisi inaspettata. Secondo la società Vortexa, per quel canale di comunicazione passano 546 mila barili di petrolio, il 5% circa della produzione totale di petrolio russo, con un valore di mercato di quasi 35 milioni di dollari. Al Moscow TimesArthur Richier, analista di Vortexa, ha confermato che nel mega ingorgo su acqua sono state coinvolte sei petroliere che erano partite dai porti russi: trasportano3,2 milioni di barili di petrolio per un valore di circa 195 milioni di dollari, e 1,2 milioni di barili di nafta, del valore di altri 95 milioni di dollari. L’affare ora puzza, e non è solo un eufemismo. Con il pragmatismo di una nazione che si sente sempre in competizione col resto del mondo, a Mosca qualcuno sta già pensando come trasformare il guaio in una opportunità, così un gruppo di funzionari sta promuovendo una rotta alternativa: quella del Mare del Nord che attraversa l’Artico. Il percorso, secondo i dati russi, potrebbe ridurre del 40% le distanze di viaggio tra Cina ed Europa. A confermare questa tendenza è stato l’ambasciatore Korchunov all’agenzia Interfax: “È necessario pensare rotte diverse al Canale di Suez e la prima soluzione è quella del Mare del Nord”. A confortare questa prospettiva c’è anche il cambiamento climatico; gli analisti dell’Accademia delle scienze ritengono che la Russia potrebbe triplicare il trasporto lungo la rotta del Nord nei prossimi quattro anni, se il ghiaccio dell’Artico continuerà a sciogliersi. Ma i più concreti invece guardano all’incidente di Suez come a un argomento per scardinare le perplessità sul Nord Stream 2, il gasdotto della discordia che ha attirato le sanzioni degli Stati Uniti. Dice ancora Richier al Moscow Times: “Se le raffinerie europee non possono ottenere il loro greggio dall’Arabia Saudita o dall’Iraq, la miscela degli Urali è un ottimo sostituto. Gli occidentali potranno fare affidamento sui porti russi nel Mar Baltico e nel Mar Nero”. Insomma, l’intoppo di Suez ha fatto perdere il sonno a mezzo mondo, ma a Mosca qualcuno già fa i conti e sorride.

 

“Bin Salman è un dittattore, le femministe sono in galera”

Loujain Alhathloul è stata in prigione quasi 3 anni per aver difeso il diritto di guidare l’automobile delle donne saudite. Il 10 febbraio, la giovane donna, 31 anni, è stata scarcerata e ha ritrovato la sua famiglia. Ma non è libera. Si trova in libertà condizionale per 3 anni e le è stato vietato di lasciare il Paese per i prossimi cinque. Né può intervenire pubblicamente perché la “State Security”, la polizia segreta di Mohammad bin Salman, MBS, il principe ereditario saudita, le impone il silenzio sugli anni di prigionia. Non può parlare ai giornalisti delle torture e delle violenze sessuali che ha subito. “Lo scopo del regime saudita è di annientarla”, osserva Lina Alhathloul, sorella minore di Loujain, che, insieme ad un’altra sorella, Alia, vive in Belgio.

Lina, il 10 febbraio hai postato sui social l’immagine dell’incontro virtuale tra te e tua sorella Loujain. Che cosa hai provato?

Dapprima, un grande sollievo. Quando Loujain mi ha chiamato in video non credevo ai miei occhi. Ci sono voluti alcuni secondi per capire che era tutto vero. Ma da allora provo anche una profonda angoscia perché so che mia sorella rischia di tornare in prigione in qualsiasi momento.

Quali sono state le sue prime parole?

Per alcuni minuti abbiamo riso così tanto che non siamo riuscite a dire nulla. Poi le ho fatto delle domande banali: “Come stai? Come ti senti?”. Mi ha detto che stava bene e che aveva solo voglia di passare del tempo in famiglia. Ma ho insistito più volte: anche quando era in prigione, e la torturavano, ci diceva che andava tutto bene. Ma per mesi è stata attaccata al sistema di elettrocuzione pronto ad attivarsi non appena avesse parlato delle sue condizioni di detenzione.

Come sta oggi, fisicamente e moralmente?

Ha perso molto peso a causa dei due scioperi della fame che ha fatto. Ma adesso sta meglio. Loujain è una donna forte e resiliente. Non parla spesso delle sue paure. Continua a portare avanti la sua battaglia. Ma dopo tutto quello che ha subito e che continua a subire, psicologicamente è esausta.

Il regime ha imbavagliato tua sorella. Ma tu, parlando con noi e con gli altri media, non corri dei rischi? E non temi di farne correre alla tua famiglia?

Ovviamente corro dei rischi. Abbiamo visto negli ultimi anni che il regime saudita esercita la repressione anche fuori dal Paese e che è pronto a tutto pur di mettere a tacere chi denuncia i suoi crimini. Ma ho deciso di non avere più paura e di parlare. Cerco di soppesare le mie parole, ma di una cosa sono certa: niente è peggio del silenzio. Il nostro silenzio avrebbe potuto uccidere mia sorella. Ovviamente tutto ciò che dico o faccio rappresenta un rischio potenziale per la mia famiglia, costretta a restare in Arabia Saudita.

E tu, correresti dei rischi a tornarci?

Correrei innanzi tutto il rischio di non poterne più uscire. E poi rischierei di andare in prigione. Le accuse rivolte contro Loujain, “essere in contatto con Ong come Amnesty International e giornalisti occidentali”, potrebbero essere rivolte anche contro di me.

Loujain è stata arrestata nel maggio 2015 insieme a altre attiviste alcune settimane prima dell’abolizione della legge che vietava alle donne saudite di guidare. Per mesi aveva combattuto contro questa legge retrograda, pubblicando dei video di sé al volante. È stata arrestata per aver svolto “attività vietate dalla legge antiterrorismo”. L’impegno per i diritti umani e delle donne è considerato terrorismo dallo Stato saudita?

Il tribunale antiterrorismo processa chiunque disturbi il regime. Nelle accuse contro Loujain figurano: il contatto con diplomatici europei, inglesi e olandesi, e con delle ONG, e la partecipazione “a conferenze internazionali per parlare dello status delle donne saudite”. L’hanno accusata anche di essersi candidata a un posto nelle Nazioni Unite. Abbiamo pubblicato la liste delle accuse per intero, in inglese e arabo, sul sito loujainalhathloul.org. Per la prima volta l’Arabia Saudita riconosce che per lei l’attivismo è una forma di terrorismo.

Dobbiamo parlare di dittatura?

Mi si spezza il cuore, ma sì, l’Arabia Saudita è una dittatura. Ed essere femminista in Arabia Saudita è pericoloso. È così da molto tempo.

Qual è l’aspetto dell’emancipazione femminile che spaventa di più?

MBS non ha alcuna legittimità e ritiene quindi che ogni forma di libertà può essere di ostacolo alla sua ascesa al trono. Ogni opinione per lui è sinonimo di dissenso e deve essere repressa. E il femminismo è di gran lunga il movimento che si sta facendo sentire di più in Arabia Saudita, e quindi è il più represso.

Mohammad bin Salman è visto spesso all’estero come un riformatore progressista, per esempio quando ha aperto gli stadi di calcio alle donne. A che punto stanno davvero i diritti delle donne in Arabia Saudita?

Innanzi tutto, di che riforme parliamo? MBS ha autorizzato le donne a guidare, ma è una battaglia che dura da molti anni e per la quale decine di donne hanno pagato un caro prezzo dal 1993. C’è anche il diritto di viaggiare sole, senza previo consenso del tutore. Ma il sistema di tutela imposto alle donne, considerate minorenni per tutta la vita, e obbligate ad avere il consenso del padre, del marito o del figlio, per ogni decisione importante, persiste. E se il tutore decide che viaggiare da sola è una forma di “disobbedienza”, può sporgere denuncia in base alla legge della disobbedienza. La donna viene quindi arrestata e rinchiusa in una care home, che, nei fatti, è una prigione, da cui può uscire solo con il consenso del tutore. La condizione delle donne non è cambiata. L’uomo ha il diritto di veto su tutte le nuove libertà concesse.

Come continuare a lottare per i diritti delle donne senza finire in prigione?

Oggi è impossibile lottare apertamente per i diritti delle donne in Arabia Saudita. Twitter è l’unica piattaforma, insieme a Club House, in cui le donne saudite si possono esprimere sotto pseudonimo. Ma il regime saudita tenta di imbavagliarle anche sui social, insultandole su profili pro-governo.

Sulla scena internazionale c’è un pesante silenzio su tutto ciò che riguarda i diritti umani in Arabia Saudita. Emmanuel Macron ha chiesto più volte la liberazione di tua sorella, senza farne mai un casus belli. Ricordiamo che l’Arabia Saudita è stata nel 2010-2019 il terzo cliente della Francia nella vendita di armi…

Il presidente Macron si è unito al coro di domande di liberazione di mia sorella e gliene siamo grati. È anche vero che la Francia è stata riluttante a firmare le dichiarazioni del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che condannavano l’Arabia Saudita, mentre altri Paesi europei le avevano già firmate. Penso che la Francia possa fare di più. Sulle armi, mi sorprende che l’Arabia Saudita resti uno dei suoi principali clienti. Non è più così per il Belgio, la Germania e il Regno Unito. E di recente è in questo senso che si sono mosse l’Italia e l’amministrazione Usa di Biden. Capisco che sono questioni di politica e di diplomazia. Ma quando un regime imprigiona il primo ministro di un altro Paese (il Libano), o mette l’embargo contro un Paese vicino e alleato (il Qatar), i Paesi alleati non possono agire come se le condizioni non fossero cambiate. La Francia ha il dovere morale di cambiare la sua politica nei confronti dell’Arabia Saudita e di imporle il rispetto dei valori universali come condizione preliminare a ogni scambio.

A febbraio Joe Biden ha pubblicato un rapporto dei servizi segreti Usa che conferma la responsabilità di Mohammad bin Salman nell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Da allora i rapporti tra Washington e Riad si stanno ridimensionando. Sono state adottate sanzioni contro funzionari sauditi. L’arrivo di Biden alla Casa Bianca potrebbe invertire i rapporti di forza?

Certo. MBS era stato protetto dall’amministrazione Trump. Se l’Arabia Saudita ha rilasciato una dozzina di prigionieri politici, tra cui mia sorella, dall’arrivo di Biden, non è un caso.

(Traduzione di Luana De Micco)

Sussidiare le auto elettriche aiuta solo i ricchi: il caso Tesla

Bill Gates, nel suo nuovo libro Come evitare un disastro climatico, sottolinea l’importanza di intervenire nei settori dove il costo marginale per ridurre le emissioni nocive è inferiore. Spesso invece si sussidiano, per motivi elettorali, attività che più immediatamente colpiscono la fantasia dei “verdi”, anche se poco efficaci. Un buon esempio sono le auto elettriche.

Fare una graduatoria degli interventi più efficaci non è certo facile perché molto dipende dalle tecniche usate o dai luoghi. Dagli studi effettuati si possono però ricavare indicazioni sui valori massimi o minimi (l’Economist, 27 febbraio): il settore dove converrebbe più di tutto investire è la riforestazione; l’energia eolica può svilupparsi in alcuni luoghi anche senza sussidi, in altri il sussidio richiesto per ridurre una tonnellata di CO2 può superare i 200 dollari. Anche nel fotovoltaico il sussidio può variare da quasi nulla sino a 200-230 dollari, a seconda del luogo e della tecnologia.

Incentivare le auto elettriche è il modo mediamente più costoso tra tutti quelli considerati: si stima che il costo per ridurre una tonnellata di CO2 incentivando il passaggio dal motore tradizionale all’elettrico possa variare tra 350 e 630 dollari o più. Nell’Unione Europea i diritti per tonnellata di CO2 vengono scambiati a circa 40 euro: è questo l’incentivo di mercato alle imprese per ridurre le emissioni.

Poiché poi le auto elettriche sono generalmente assai più costose di quelle tradizionali questi incentivi sono anche regressivi. Chi ha acquistato, ad esempio, un’auto Tesla da 60 mila euro è certo un benestante che ha beneficiato di molte migliaia di euro di incentivi statali e regionali: una redistribuzione di reddito perversa che non pare giustificata dall’esiguità del miglioramento climatico ottenuto.

Oltre agli incentivi pubblici c’è poi un costo che deriva indirettamente dalle normative che impongono alle industrie automobilistiche di ridurre le emissioni nocive medie delle loro produzioni. Vi sono penalità a carico dei produttori la cui gamma di auto supera gli standard di inquinamento ammessi e “crediti regolatori” ai produttori che inquinano meno. Chi inquina meno può cedere questi crediti regolatori, che non gli costano nulla, a chi inquina di più, ad un prezzo che riflette il costo delle penali che questo avrebbe altrimenti dovuto pagare.

L’impresa che ha tratto maggiori benefici da queste normative è la regina delle auto elettriche, la Tesla. Tesla produce solo auto elettriche e quindi ha moltissimi crediti regolatori da vendere (non si considera quanto si inquini producendo elettricità né l’inquinamento delle batterie esauste). Pare ad esempio che la FCA abbia concordato di pagare alla Tesla 1,3 miliardi di dollari per l’acquisto di crediti regolatori sul marcato europeo per il 2021. Questi costi, che sfuggono alla percezione del pubblico, vengono poi ribaltati dai produttori soprattutto sulle auto tradizionali: alla fine a pagare sono quelli che comprano le auto meno costose.

Scorrendo il bilancio della Tesla si scopre che, nel 2020, a fronte di un utile netto di 721 milioni di dollari ha incassato 1.580 milioni dalla vendita di certificati regolatori: senza questi la società sarebbe stata in perdita. E senza tutti gli incentivi pagati dai vari governi a chi acquistava le sue costose auto anche le vendite di Tesla sarebbero state molto inferiori. La fortuna della regina delle auto elettriche è “drogata” perché interamente dovuta alle normative ed agli incentivi introdotti più per inseguire le fantasie dei “verdi” che per ridurre le emissioni di CO2.

L’urgenza di intervenire per arginare il riscaldamento del pianeta e limitare le emissioni nocive è molto sentita. Ma la gente comune non è certo in grado di valutare quali siano le misure più efficaci e meno costose per raggiungere quegli obiettivi. Dovrebbe essere compito di chi è al governo “far di conto” e scegliere gli interventi con costi marginali minori. Promuovendo invece quelli che più solleticano le fantasie della gente, senza “far di conto”, si può raccogliere consensi elettorali ma si finisce per tradire proprio l’elettorato “verde”.

La soluzione di gran lunga migliore, anche se elettoralmente non pagante, sarebbe l’applicazione di una carbon tax con un’ampia base, lasciando che sia il mercato (imprese e i consumatori) a tagliare le emissioni laddove è meno costoso farlo, invece che siano politici o burocrati ad inventarsi cosa si debba sussidiare e che auto la gente debba comprare. Anche se in democrazia è inevitabile che si corteggi l’elettorato, si potrebbe chiedere però che, per ogni intervento, vengano almeno fatte e rese pubbliche delle stime di costi e benefici attesi.

Il Cr7 dei banchieri e le fusioni “costate” oltre 60mila addetti

Lo chiamano il Ronaldo dei banchieri. Andrea Orcel, dal 27 gennaio ad designato di UniCredit, ha in comune con il calciatore l’abitudine ad andare a segno e la paga milionaria: tra parte fissa e variabile guadagnerà sino a 7,5 milioni l’anno, abbastanza per entrare nel club dei banchieri più pagati. Ora lo attende un compito arduo: trattare con la politica che vorrebbe dalla banca milanese il sacrificio di un matrimonio che salvi il Monte dei Paschi, mossa che non trova d’accordo parte della compagine societaria, che preferirebbe alternative meno rischiose come Bper o Banco Popolare e definire una rotta industriale dopo le indecisioni del suo predecessore Jean Pierre Mustier.

Il nuovo Ceo, che entrerà in carica con l’assemblea del 15 aprile, vanta una carriera di successi personali che visti retrospettivamente però mostrano gigantesche distruzioni di valore. Nato il 14 maggio 1963 a Roma, Orcel si laurea con lode alla Sapienza con una tesi sulle acquisizioni ostili e si specializza alla scuola di business Insead in Francia. A 25 anni entra in Goldman Sachs, l’anno dopo passa a Boston Consulting e nel 1992 va a Merrill Lynch. Qui la sua carriera esplode: in un decennio Orcel orchestra fusioni tra banche per oltre 130 miliardi di dollari. È sua la mano che nel 1998-99 unisce Credit e UniCredito in UniCredit, così come l’operazione del 1999 tra le spagnole Banco Bilbao Vizcaya e Argentaria che dà vita a Bbva e quella del 2004-05 tra Santander e Abbey National. Nel 2007-08 porta Fortis, Santander e Royal Bank of Scotland a spartirsi l’olandese Abn Amro, operazione da 55 miliardi che gli frutta un bonus da 12 milioni. Poi aiuta Santander ad acquisire Alliance & Leicester e Sovereign Bank. È sempre lui a organizzare per Santander il passaggio di AntonVeneta da Abn a Mps: pagata poche settimane prima 6,6 miliardi dagli spagnoli, viene rivenduta a 9 più i debiti (verso Santander), per un totale di 16 deciso a scatola chiusa con una telefonata. Le sue consulenze fanno guadagnare a Merrill Lynch commissioni per 500 milioni: nel 2007 Orcel riceve bonus per 38 milioni, 34 l’anno dopo.

Grazie a Orcel, in quegli anni Merrill Lynch è protagonista in quasi tutte le operazioni bancarie, come il salvataggio di Italease. Operazioni lucrose per lui e Merrill che si trasformano in un disastro nel 2008 quando scoppia la crisi finanziaria globale: Royal Bank of Scotland viene salvata dal governo inglese con 46 miliardi di sterline. L’acquisto di AntonVeneta deciso nel 2007 viene chiuso a giugno 2008, quando Mps avrebbe ancora potuto chiamarsi fuori, e finisce per distruggere il Monte: gli stessi analisti di Merrill Lynch espressero giudizio negativo sugli effetti per Mps. Ma in quegli anni UniCredit si era fusa con Capitalia e Intesa con Imi, unico deal che non ha distrutto valore: l’acquisto di AntonVeneta fu spinto dalla paura che l’istituto, uno dei pochi rimasti sul mercato, sarebbe diventato preda della francese Bnp. Ancora nel 2011-12, durante la crisi del debito, Orcel sigla l’aumento di capitale da 7,5 miliardi di UniCredit. Nel 2016 aiuta un altro ex di Merrill Lynch, l’allora ad del Banco Popolare Pier Francesco Saviotti, nell’aumento chiesto dalla Bce e nello stesso anno offre a Mps un prestito di 5 miliardi per contrastare il piano del governo, ma viene respinto dall’allora ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan che oggi ritrova presidente in UniCredit.

Per quelle operazioni Orcel riceve bonus stellari sotto forma di stock option: quando ad aprile 2012 se ne va da Merrill Lynch, avrebbe dovuto lasciarle perché la sua uscita era volontaria, invece riesce a ottenerle dalla svizzera Ubs che gliele riconosce nel pacchetto d’ingresso come capo del corporate and investment banking (con 6,3 milioni di franchi in contanti e stock option per 18,5 milioni viene pagato di più dello stesso ad, Sergio Ermotti).

A settembre 2018, quando guadagna 18,5 milioni l’anno, lascia Ubs per Santander. La banca spagnola conferma la paga, ma Ubs rifiuta di versare le stock option differite perché l’uscita era volontaria. Santander deve così alzare il corrispettivo da pagare a Orcel a 50 milioni. A quel punto rompe l’accordo e a luglio 2019 Orcel fa causa alla banca chiedendo danni per 112 milioni.

Dietro di sé Orcel lascia una scia di tagli. Le fusioni che ha organizzato sono costate il lavoro a 60mila dipendenti: 39mila nel bail out di Rbos, 18mila in Abn, quasi 6mila nelle banche comprate da Santander, senza contare Mps-AntonVeneta. La verità, come dice chi lo conosce bene, è che Orcel è un banchiere d’affari che realizza fusioni ma non sa gestire le integrazioni bancarie. Sarebbe il compito che ora lo attende in UniCredit, dove molti già tremano.

I luoghi di caccia: dal Transaltantico fino al ristorante…

Creare un contatto, pianificare un incontro, frequentare i “luoghi del potere” e intercettare il decisore politico più adatto alla propria istanza. È la “dura” vita del lobbista che, per la sua attività, ha una geografia ben definita: ne parla Pier Luigi Petrillo, professore di Diritto comparato all’università Unitelma Sapienza e di teorie e tecniche del lobbying alla Luiss, in un capitolo del suo libro che si intitola proprio Teorie e tecniche del lobbying (Il Mulino, 2019).

Si parte dai luoghi delle istituzioni pubbliche, la dove “è decisivo focalizzare l’attenzione dell’interlocutore e sintetizzare contenuto e soluzioni dei problemi esposti”. Se il tempo degli incontri è breve, il tempo di attenzione e di lettura del decisore pubblico lo è di più: “Vale la pena spendere quel poco che si ha a disposizione in maniera ottimale”.

Il Parlamento, in Italia, è uno dei luoghi privilegiati. Se gli uffici dei parlamentari sono il luogo ideale, la frenesia dei tempi impone a volte ai lobbisti di utilizzare i momenti “morti” tra una discussione e una votazione. Magari davanti a un caffè. “Una buona occasione è data dalla buvette – scrive Petrillo – luogo più o meno accessibile a seconda del pass che il lobbista possiede. In quest’area riservata, avvengono spesso le scelte politiche sui provvedimenti d’importanza strategica”.

Un momento informale per scambiare due chiacchiere a ridosso del pranzo o di una pausa nella fitta agenda parlamentare del decisore politico. “Tra un boccone e l’altro può capitare di vedere un lobbista avvicinare il suo obiettivo d’interesse e provare a utilizzare i pochi minuti a disposizione per spiegare la propria posizione. Ovviamente è un approccio che serve più per realizzare un primo contatto, ma non certo per rappresentare correttamente l’interesse”.

Altra occasione di contatto è data dalle grandi sale dove i parlamentari vanno a prendere una boccata d’aria o a ripassare e concordare i passi successivi della loro azione parlamentare. Tra questi, c’è il cosiddetto “transatlantico”, un grande salone sul diametro dell’emiciclo dell’aula, che deve la sua denominazione alla presenza di particolari plafoniere alle pareti, tipiche delle grandi navi d’inizio 900. Oppure, i corridoi delle aule che ospitano le commissioni parlamentari. “Nella fase istruttoria e di discussione, i lobbisti sono fuori dalla porta, aspettano i parlamentari per conoscere in tempo reale gli sviluppi del dibattito, pronti all’occorrenza a scrivere emendamenti”. In più, considerata l’architettura dei palazzi di Camera e Senato e vista la contiguità delle aule delle diverse commissioni, spesso si può accedere anche alle commissioni nei pressi delle quali, in teoria, non si avrebbe alcun diritto di stazionare.

Altri luoghi d’elezione sono gli uffici dei direttori generali dei ministeri o delle Giunte degli enti locali come della Commissione europea. “In queste sedi, l’attività è più puntuale e attenta”. Così come negli “Uffici di diretta collaborazione” dei ministeri: il gabinetto, la segreteria tecnica, la segreteria particolare e l’Ufficio legislativo. “Talvolta gli incontri con gli assistenti o i consiglieri, o ancora, con i dirigenti e i funzionari, possono essere più decisivi di un incontro con il ministro, considerata anche la loro maggiore disponibilità di tempo e propensione all’ascolto. È nei loro uffici che, infatti, si istruiscono le decisioni, si abbozzano le eventuali modifiche, si motivano gli atti”.

Accanto ai luoghi istituzionali dei processi decisionali, esistono luoghi informali. Circoli, teatri, ristoranti “sono tutti luoghi in cui possono avvenire incontri conviviali di confronto tra decisore pubblico e lobbista. Ogni città, ogni paese ha la sua mappa: a Roma sono noti alcuni ristoranti attorno a Montecitorio, il cui grado di rilevanza per un lobbista muta da governo a governo”. Provare a farci colazione per credere.

Arrivano i soldi del Recovery, ma manca la legge sulle lobby

Il 1976 è l’anno dello scandalo Lockheed, che coinvolse i vertici delle istituzioni, e quello in cui per la prima volta in Italia si parlò di regolamentare le attività di lobbying, dei cosiddetti portatori di interesse che si interfacciano con la politica per indirizzarla verso gli interessi che rappresentano, siano essi più o meno utili alla collettività. Da allora sono state almeno 80 le proposte di legge avanzate, zero quelle approvate. Il dibattito sul punto non è mai del tutto decollato, ma oggi sarebbe più necessario che mai a fronte degli ovvi appetiti scatenati dai miliardi del Recovery Plan e della difficoltà, nonostante l’introduzione del reato di traffico di influenze illecite (legge Severino, poi inasprita), nel combattere efficacemente i fenomeni criminali. Semplicemente, manca una legge che stabilisca i confini tra ciò che è lecito e ciò che non lo è.

“Occorre fare i conti con alcune lacune che caratterizzano le rappresentanza degli interessi particolari presso decisori pubblici, il lobbying, e del conflitto d’interessi – ha detto in Parlamento la ministra della Giustizia Marta Cartabia – La mancanza di norme chiare, oltre a incidere sull’efficacia delle strategie di prevenzione, può complicare l’applicazione di alcune fattispecie penali recentemente riformulate come il traffico d’influenze illecite, consegnando al giudice penale il compito di reprimere la deviazione patologica senza che prima sia stato definito il perimetro della loro applicazione”.

Soluzioni recenti. L’ultima evoluzione sul tema risale al 2017, quando la Camera dei Deputati istituì un registro per i lobbisti. Una innovazione “stravagante”: il registro infatti si limita a registrare i lobbisti, che da quel momento possono avere libero accesso a Montecitorio. Si mette fine al “mercato” dei tesserini (l’amico parlamentare che intercede per farti entrare) ma resta oscuro cosa accada una volta dentro. Uno dei registri trasparenti più efficienti finora è stato quello del ministero dello Sviluppo Economico, introdotto da Carlo Calenda e portato poi dal successore Luigi Di Maio anche al ministero del Lavoro. Si possono consultare gli incontri di ministri, vice e sottosegretari. Ma mentre quello del Mise dà ancora segni di vita, quello del ministero del Lavoro è inattivo. E poi c’è il tempo: l’elenco viene aggiornato – quando ci si ricorda – ogni sei mesi. Impossibile avere un quadro chiaro di ciò che accade.

La pratica virtuosa.L’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa, nel 2018 istituisce con un decreto ministeriale l’ “Agenda Trasparente” obbligando non solo ministri e sottosegretari, ma tutto lo staff, i dirigenti, i membri delle commissioni e i consiglieri giuridici a rendere pubblici gli incontri coi “portatori d’interesse”, dentro e fuori il palazzo, aggiornando ogni settimana l’elenco, pena una sanzione pecuniaria sullo stipendio. Oggi, quel registro è al nuovo ministero della Transizione Ecologica: il decreto di Costa, a fine 2020, è diventato codice di comportamento del dicastero, un obbligo per tutti con sanzioni fino al licenziamento. Eppure nessun altro ha pensato di adottarlo: basterebbe un decreto o una circolare di Palazzo Chigi.

I tentativi di legge.Muoiono anche i disegni di legge. Ad oggi, in commissione Affari costituzionali ce ne sono tre (Silvestri del M5S, Fregolent di Iv e Madia del Pd) su cui si prova a costruire un testo unificato. Hanno un obiettivo comune: garantire la trasparenza, individuare le responsabilità delle decisioni, favorire la partecipazione dei cittadini. Si chiede l’istituzione del registro per la trasparenza, con l’agenda degli incontri dei lobbisti e dei politici. Poi, un codice deontologico (ad esempio niente soldi), nonché obblighi di rendicontazione e una relazione annuale (Silvestri) su lavoro fatto, risorse economiche impegnate e decisori consultati. In caso di violazione, sono previste sanzioni economiche e professionali.

Il paradosso. A chiedere le regole sono spesso gli stessi lobbisti o per lo meno coloro che interpretano il lavoro come un arricchimento del dibattito democratico e del processo decisionale (si pensi alle istanze degli ambientalisti, degli animalisti, delle Ong o dei difensori dei diritti umani). Anche perché, se un lobbista non vuole operare in modo trasparente, troverà il modo comunque di raggiungere i suoi scopi muovendosi nell’ombra. Se si chiede allora quale sia il problema la risposta spesso è: la politica. Ce lo spiega Pier Luigi Petrillo (di cui trovate un interessante scritto nell’articolo qui accanto), professore di Teoria e tecniche del Lobbying alla Luiss Guido Carli e fino a gennaio capo di gabinetto di Costa all’Ambiente: “ Le lobby sono un feticcio che consente all’autorità politica a tutti i livelli, dai comuni al governo, di trovare un capro espiatorio perfetto: in assenza di regole chiare, le lobby sono senza volto e senza nome e così dietro di loro si nasconde la politica che non vuole assumersi la responsabilità della decisione. Se qualcosa non va, è colpa delle lobby”.

E così i disegni di legge non sono mai riusciti a superare lo scoglio delle commissioni. Nel 2013 già l’allora ministro per le Riforme costituzionali Gaetano Quagliariello, quando l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta propose una legge sulle lobby, rilevò che in Italia il fenomeno aveva un’accezione negativa. In pratica, uno dei rischi di rendere pubblici gli incontri potrebbe essere quello di svilire ancora di più l’immagine che i cittadini hanno della politica. Possibile, ma le norme potrebbero servire anche per avviare un dibattito. Quando Paola Severino fece la legge che porta il suo nome, già in aula rilevò che l’ipotesi di reato del traffico di influenze, che colpisce la mediazione illecita, reggeva solo se quella lecita fosse stata regolamentata. Sempre nel 2012, l’ufficio studi della corte di Cassazione esaminò gli effetti della normativa e ribadì lo stesso concetto.

Le leggi che ci sono. Alcuni accorgimenti, però, esistono già. Una legge del 1999, modificata nel 2005, impone al governo – quando discute un disegno di legge e lo propone alle Camere – di accompagnare il provvedimento con una relazione che si chiama Analisi di Impatto della Regolamentazione (Air) nella quale bisognerebbe dare atto dei portatori di interesse con cui ci si è confrontati (ad esempio Confindustria, Cgil, Eni etc). Una legge però quasi mai attuata. Le relazioni ci sono, ma manca la parte relativa alle consultazioni. Quanto ai parlamentari, ce ne sono che ancora non dichiarano gli interessi economici di cui sono portatori con la scusa che la legge del 1982 (ma attuata dal 2013) non parla di pubblicazione online.

La partecipazione.“La regolamentazione dovrebbe essere l’ossatura del rapporto tra società civile e istituzione. Mi stupisce che con l’arrivo di 210 miliardi di euro del Pnrr non ci si ponga il problema del rendere trasparenti i rapporti tra lobbisti e istituzioni – spiega Federico Anghelé, presidente di The good lobby, che lotta proprio per avere una legge efficace – In Germania è stata appena approvato un registro della trasparenza e di regolazione delle lobby. Qui non ci riusciamo. Senza una legge oggi chi conosce più persone e ha rapporti più consolidati riesce a farsi ascoltare, chi non ha questa capacità – e spesso riguarda i portatori di interesse più diffusi – soccombe e non riesce a farsi ascoltare”.

Insomma, solo le grandi aziende riescono a farsi sentire, i più piccoli no. “Ci stiamo battendo per avere una piattaforma di monitoraggio su come spenderanno i soldi del Recovery – dice Anghelé – ma nessuno ci degna di attenzione. È un piccolo esempio. La trasparenza servirebbe anche a far sì che tutti i portatori di interesse possano intervenire su un tema, invece oggi vige la precedenza delle conoscenze personali. Spiega anche perché le aziende spesso ingaggino ex politici per fare lobbying”.