Mafia nigeriana: il crimine nasce nelle aule universitarie

Tratta di esseri umani, riciclaggio, droga, sfruttamento della prostituzione, reati violenti. La mafia nigeriana è un’organizzazione criminale feroce, per certi aspetti triviale. Durante gli ultimi vent’anni, dopo essere partita in sordina e all’ombra della narrazione criminale italiana, si è ritagliata il suo spazio nel panorama mondiale, trovando anche una sorta di equilibrio con le organizzazioni criminali autoctone. Il gruppo africano parte dal delta del Niger e trova terreno fertile ovunque decida di estendere le proprie attività.

Nasce dai “cults”, le confraternite delle università nigeriane fondate intorno alla metà del secolo scorso sul modello di quelle statunitensi, con lo scopo di combattere l’apartheid e ogni forma di razzismo. Successivamente il fenomeno è degenerato in potenti associazioni criminali. Fino ad arrivare ai giorni nostri, dove la piovra nera ha aggiogato l’interna nazione, da Caltanissetta a Treviso, e si è triforcata in tre gruppi, Axe, Eiye e Viking (e i più contenuti Maphite), che fanno capo a un’unica struttura in Nigeria. “L’organigramma e le gerarchie sono quelle ’ndranghetiste e anche la suddivisione del territorio, come i processi decisionali, sono tipiche delle cosche italiane”, spiega al Fatto un agente della Dia (Direzione investigativa antimafia), che preferisce rimanere anonimo. “In Nigeria fa affari con la politica, all’estero stringe accordi con i narcos per importare cocaina ed eroina e con gli albanesi per la marjuana. Mentre in Italia – continua l’agente – si raccorda con una decina di mandamenti, dalla mafia barese alla Sacra Corona Unita. Senza contare le relazioni europee con la camorra marsigliese e la mafia russa”.

Dalle grandi città universitarie nigeriane, si sono poi spostati nel mondo occidentale, distinguendosi nella gestione partecipata del narcotraffico transcontinentale. Il denaro guadagnato “viene inviato in Nigeria tramite corrieri o sistemi hawala o reinvestito nel traffico di droga”, racconta l’agente della Dia, “e non è un caso se nel primo trimestre del 2020 sono tra le etnie in Italia che hanno più rimesse verso il Paese d’origine, circa 55 milioni”. Tra i mercati più redditizi c’è quello di Roma, diventato un centro di smistamento di tonnellate di marijuana provenienti da Valona, in Albania. Centinaia di chili che ogni mese partivano dalla stazione Tiburtina e che hanno portato a inizio marzo all’arresto di cinquantacinque persone in molte città italiane, in Albania e in Germania, in quello che gli inquirenti hanno definito un sodalizio tra mafia nigeriana e albanese.

“Tra mafie italiane, straniere e nigeriane senza dubbio c’è un patto di non belligeranza. La grande adattabilità della mafia nigeriana è il suo punto di forza e le modalità operative diverse per ogni gruppo fanno sì che agli inquirenti resti difficile perseguire la loro attività criminale”, puntualizza Vincenzo Musacchio, giurista e ricercatore della Scuola di studi strategici sulla criminalità del Royal United Institute di Londra. Come riesce ad essere tanto potente quanto invisibile? L’omertà assoluta è la caratteristica dominante della mafia nigeriana: “Tra i membri del clan vige la legge del silenzio quando sono arrestati, e questo la rende impenetrabile”, spiega Musacchio. Le organizzazioni nigeriane si distinguono anche per l’uso della forza e il ricorso alla violenza, anche al suo interno, e per entrare a farne parte “bisogna sottostare a rigidi codici e superare violenti riti di iniziazione, come il rito “magico” juju, o subire pestaggi, frustate o bere sangue, e pagare una tassa”, svela invece l’agente.

A questo si aggiunge il processo di reclutamento che avviene spesso davanti gli Sprar e ai centri di accoglienza, diventati per l’organizzazione un ufficio di collocamento. Come è successo per Paul Frankphat: entrato in Italia e spedito al Centro di accoglienza di Mineo, venne picchiato proprio dai Vikings perché si rifiutò di diventare un affiliato. Dopo il ricovero in ospedale, Paul venne spedito a Ferrara a spacciare. Ma qui decise di ribellarsi e denunciare le vessazioni. Proprio Ferrara nel frattempo è diventata un importante snodo operativo dei Vikings nigeriani, e lo scorso ottobre assieme a Torino è stata teatro di un blitz con 70 arrestati (tra cui il “boss” Emmanuel “Boogye” Okenwa).

Un dato significativo è anche quello che indica, nel biennio 2018-2019, i cittadini nigeriani, tra gli stranieri, quelli con il più alto numero di denunce o arresti per reati di associazione mafiosa. E anche nei primi 9 mesi del 2020, nonostante la battuta d’arresto dovuta alla pandemia, tra le etnie maggiormente denunciate-arrestate c’è quella nigeriana. Sono stati, per esempio, 47 i fermi per associazione mafiosa eseguiti a metà 2020 dalla Polizia di Stato di Teramo contro la Eiye. A Palermo, dove una piccola area del mercato di Ballarò è diventata zona esclusiva della mafia nigeriana, a fine 2020 con l’operazione Sister white sono state arrestate 13 persone, e pochi mesi dopo ne sono state catturate altre otto, tra cui il presunto capo dei Viking, Churkwuma Parkinson.

Insomma, le vecchie pratiche primitive stanno per cedere il passo alle realizzazione di sistemi finanziari paralleli, ma i numerosi arresti sono sinonimo “di una mancata infiltrazione tra le maglie politiche del nostro Paese”, confessa Federico Varese, criminologo dell’Università di Oxford. “Detto ciò, è un grande errore sottovalutare la sua ferocia e la sua preoccupante evoluzione” conclude Varese.

 

“Un esercito di San Giorgio (senz’armi) a sfidare il Drago”

LGiovedì scorso, Twitter ha bloccato il mio account, nientemeno che per “violazione delle regole contro la violenza esplicita della foto del profilo e i contenuti per adulti nelle immagini del profilo”, specificando che viene considerata “violenza esplicita qualsiasi forma di contenuto multimediale che raffiguri sangue, correlato a morte, lesioni gravi, violenza o procedure chirurgiche”. Tutto bene, se non fosse che l’immagine incriminata era il dolce e sognante San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, dove un pudico rivolo rosso scende dalle fauci di un drago dalle ali di farfalla, tenuto al guinzaglio da una filiforme damina di porcellana orientale in babbucce rosse.

Guai se sul profilo avessi messo un Caravaggio sanguinolento, un qualunque Sebastiano sforacchiato dalle frecce: per non dire un Cristo in croce. Non metterebbe conto intrattenersi sulla notissima stupidità degli algoritmi né sull’ipocrita perbenismo dei loro gestori, ma i messaggi che hanno fatto seguito alla singolare notizia mi hanno fatto capire che non pochi utenti di Twitter non avevano per nulla gradito la trasparente allusione di quella immagine alla mia non travolgente simpatia per il governo Draghi. Anzi, mi è parso di capire che il mio profilo sia stato segnalato ai gendarmi virtuali proprio da qualcuno che trovava irriverente, irrispettoso, indecente scherzare sul cognome del presidente del Consiglio. È bene dire chiaramente – vista la poca ironia in circolo – che non c’è nemmeno la più remota volontà di associare la persona di Mario Draghi ai draghi infilzati che popolano la nostra storia dell’arte. È solo un modo – pacifico, disarmato, minoritario: ironico, appunto – per far capire che non tutti lo considerano, sul piano politico, un messia, un redentore, un uomo della Provvidenza. Ma anche questo è difficile, visto il clima di forzosa, pelosa unità. Un altro esempio: oltre un mese fa (l’8 febbraio, quando Draghi non aveva ancora sciolto la riserva), mi permisi di postare su Instagram l’immagine di una scritta su un muro trovata in rete (e chissà se davvero esistente nella realtà), che recitava (absit iniuria verbis): “Draghi ha già rotto il cazzo”. Una scritta geniale (a quella data precocissima, e a fronte della terrificante canonizzazione a testate unificate) che così, ironicamente, commentavo: “Allora l’alluvione di servile melassa che trabocca da giornali e tv, le grida del mucchio selvaggio fasci inclusi, non hanno del tutto spento l’indomito pensiero critico degli italiani. Qualche speranza (con la minuscola) c’è”. Ebbene, pochi giorni fa una canea fascista – guidata dal Secolo d’Italia, e rimbalzata in varie fogne della rete – ha chiesto per quel post nientemeno che le mie dimissioni da professore universitario e da tutti i comitati scientifici (peraltro gratuiti) in cui mi trovo, una campagna che ha trovato strumentale ascolto tra i più servili frequentatori del Ministero della Cultura. L’estrema destra sente evidentemente questo governo come il proprio, e non ha ancora realizzato che è stato abrogato il giuramento di fedeltà dei professori al regime: la critica è libera, anche nelle forme più radicali. Ma una cappa di destra è scesa su tutto il Paese: nessun dissenso deve turbare l’amorosa ammucchiata dei partiti e dei giornali. Nessuno: nemmeno quello di una piccola “scrittura esposta”, tutta costruita sull’espressione che Gigi Proietti ha elevato in poesia. Perché, mi viene ormai da pensare, era evidentemente san Giorgio il cavaliere nero a cui proprio no, “nun je devi cacà er cazzo”. E allora, come ai tempi della Repubblica di Genova, mi piacerebbe veder garrire ovunque le bandiere di san Giorgio: un cavaliere medioevale che oggi rinasce come allegoria del dissenso che difende la principessa (l’Italia, va da sé) dal veleno del drago (l’oligarchia finanziaria al governo, è ovvio), infilzando quest’ultimo con la lancia affilatissima del pensiero critico. E c’è solo l’imbarazzo della scelta: anche perché (ironia nell’ironia) i draghi sono sempre stati simboli delle pestilenze, dei virus. Da qui l’alluvione dei san Giorgi, liberatori e guaritori: da quello cerimoniale, elegantissimo, di Pisanello a quello allucinato di Cosmé Tura a Ferrara, che uccide il suo drago con un “gesto fragile, sventato” (Longhi); da quello rampante di Crivelli a quello di Carpaccio, che carica al rallentatore in una vallata punteggiata dalle ossa aride delle vittime del drago, a quelli di Raffaello, atletici e impassibili, a quello di Tintoretto, che finisce il drago sullo sfondo, sotto un cielo stravolto. L’elenco potrebbe continuare: tanto a lungo da far saltare qualunque algoritmo da animalisti fantastici.

Ma chiudiamola nel modo gentile con cui i catalani festeggiano san Giorgio, il 23 aprile: regalandosi rose rosse. Rosse come quella che così si tinse nel sangue del drago ucciso dal santo, rosse come quelle che doniamo idealmente all’esercito degli amici dei draghi. Spine incluse, s’intende.

Trionfi d’estate. La stagione dei premi inutili “Grazie assessore per la Scamorza dorata!”

Fra un po’ arriva l’estate con tutto quel che segue: vacanze, file sulle autostrade, giornate da bollino rosso, spiagge affollate, ma soprattutto premi! In estate si premia chiunque, al di là dei meriti o delle opere realizzate, basta esistere, essere al mondo, e il gioco è fatto.

L’oggetto è già lì in bella mostra: statuette pesantissime dalle forme più spaventose, divinità greche o romane, spesso tirate fuori da depositi polverosi dove giacciono da anni, realizzate dal noto artista Pasquale Santonocito o Salvatore Lavermicocca ecc. pronte a ricevere ringraziamenti e lacrime di commozione: “Grazie, ho sempre sognato di salire su questo palco, ed è veramente un onore per me ricevere la Scamorza dorata!” (o la Lattuga d’argento o il Finocchio bronzeo).

E via con file di assessori, vicesindaci, presidenti di pro-loco, di circoli culturali, a nome della Provincia o del comitato, dell’assessorato o del patronato, è uguale. L’importante è assegnare il premio e assicurarsi che qualcuno se lo prenda, orgoglioso di essere lì e di commuoversi quanto basta o fingere di farlo. “È tutta la vita che aspettavo questo prestigioso riconoscimento. Oh, se potesse vedermi mia nonna!”.

Premi elargiti a chiunque: fornai, bagnini, vigili urbani, ballerini incapaci, attori sfiatati disoccupati da anni, tutte persone che non hanno fatto mai nulla di speciale, ma hanno solo tempestivamente comunicato il loro nome onorato. Il pubblico semi addormentato applaude comunque, aspettando la cena in piedi che, dicono, “sarà buonissima”, anche se conquistata a fatica sgomitando in una massa di disperati, pronti a tutto pur di addentare qualsiasi cosa.

Il “premio” poi troneggerà per anni nelle credenze delle case dei “prescelti”, avvolto in una busta di cellophane perché non si impolveri, a futura memoria di una serata estiva indimenticabile.

 

Etica e capitale. Profitto, Dio del mercato, e l’eresia della responsabilità sociale (dimenticando Olivetti)

Franco Debenedetti, imprenditore, investitore, colto e cauto conservatore e – per un periodo – senatore Pds-Ds, pubblica un libro (Fare profitti, etica dell’impresa, Marsilio Editore ) che è come un manuale di navigazione.

Non offre norme, ma ambienta il lettore nei grandi e continui pericoli del mare e – come nei viaggi di Ulisse – delle sue seduzioni: l’imprenditore si deve far legare all’albero maestro della sua unica vocazione e missione, fare profitto, stando alla larga dalla contagiosa illusione secondo cui la ricchezza può tutto, anche invadere spazi vuoti e abbandonati dallo Stato, provvedendo a tutti i bisogni (salute, cultura). Tutto comincia, con il credo dell’economista Milton Friedman che, con una celebre frase – “c’è una sola responsabilità sociale dell’impresa (…) accrescere i suoi profitti” – inizia una predicazione che ha cambiato società e milioni di vite.

Il saggio di Debenedetti comincia da questa frase (e vi ritorna): un’idea che spazza – nelle intenzioni dell’autore – una vasta pianura produttiva coperta di rottami e di fallimenti: la cosiddetta responsabilità sociale dell’impresa. E’ importante chiarire che l’autore non fa il missionario. E’ un interprete competente e interessato. O anche: è avvocato di una delle parti. E come avvocato chiarisce il senso di questo atto di fede verso imprese che producono ricchezza per la ricchezza, non senza un fremito di irritazione per chi distorce il vero fine dell’azienda. Ma è inevitabile notare un’altra distorsione nel rapporto fra impresa e società, che non viene notata. L’impresa è molto forte quando nega ogni intervento sociale perché deve deve dedicarsi solo a creare ricchezza.

Ma, in Italia, non è infrequente che burocrazia o politica chiedano e ottengano dalle imprese comportamenti che danneggiano il profitto molte più di una casa popolare o di una colonia estiva ben disegnata di Adriano Olivetti.

Infatti un Friedman italiano non può farci niente se un dato governo italiano ha l’esigenza (spesso elettorale) di costruire in certe località sconvenienti, tagliare nell’editoria, chiudere ospedali ben funzionanti e indispensabili, accorpare scuole con indirizzi incompatibili. E forse il Friedman italiano non saprà mai che negli anni ’60 – quando metà dei prodotti Olivetti finiva in mostra al Museum of Modern Art di New York, come design esemplare – la Pubblica amministrazione italiana comunicava all’Ingegnere di Ivrea, manager e produttore di ricchezza su scala globale (la vendita infinita della Divisumma, la progettazione avanzata del primo calcolatore elettronico) di liberarsi del settimanale L’Espresso (appena fondato da Olivetti con Scalfari e Caracciolo) sgradito a un governo di allora. La ritorsione (un fatto della nostra storia politica e economica) sarebbe stata di non comprare più prodotti Olivetti, solo Ibm.

Inevitabile, dunque, tener conto delle distorsioni italiane nella grande causa di canonizzazione di Milton Friedman.

 

Fare profitti. Etica dell’impresa. Franco Debenedetti, Pagine: 208, Prezzo: 18, Editore: Marsilio

Fineco&C. Stop ai conti sopra i 100 mila euro? Meglio spostare i soldi che darli al risparmio gestito

La banca online Fineco si è tirata addosso insulti di ogni genere: un’estorsione bell’e buona, un atto incostituzionale, metodi staliniani. Parliamo della decisione di chiudere i conti correnti sopra i 100 mila euro, se slegati da investimenti o finanziamenti. Una scelta scortese, ma legittima e facilmente spiegabile. Si tratta di una banca interessata non ai prestiti, bensì al trading on line, all’intermediazione, alla gestione e via discorrendo. per cui non le conviene avere tanti soldi sui suoi conti correnti. Paga infatti interessi negativi, depositandoli presso la Banca Centrale Europea (Bce) o altre banche. Di regola però gli istituti di credito non mandano via i clienti meno graditi, anche se contrattualmente possono farlo.

Stupisce peraltro che il numero uno di Fineco, Alessandro Foti, in un’intervista abbia dichiarato: “Non vogliamo diventare complici di un grande esproprio di ricchezza”. Questo però si verificherebbe solo in caso di bail-in o fallimento della sua banca, che – secondo le normative Ue – potrebbe costare prelievi sui conti superiori ai 100mila euro. Che Foti condivida la tesi che è prudente trasformare in banconote parte della liquidità sul conto corrente? Tesi sostenuta da molti Oltralpe: in Germania la ripete la banca centrale, l’arcigna Bundesbank, ma la condivide anche la Deutsche Bank, che è privata. Ci si guadagna infatti in termini di sicurezza. Diversamente dalla moneta bancaria, il denaro cartaceo è la moneta della Bce, che non può fallire. Non risulta però che i venditori di Fineco indirizzino i clienti verso i contanti. La minaccia di chiusura dei conti gli torna utile per piazzare polizze, fondi o altri prodotti del risparmio gestito e come tali da rifiutare.

Eppure tenere risparmi in liquidità resta una scelta ragionevole nella situazione attuale, contrariamente ai tanti consigli in malafede in senso contrario. Se Fineco non la gradisce sui propri conti correnti, la soluzione più radicale è appunto il prelievo di contanti. Quella più semplice è spostare la liquidità su altre banche, magari più sicure. Ci sono anche i buoni fruttiferi postali, che di fatto sono conti deposito non vincolati. Funzionano nella stessa maniera. La cifra versata è garantita, per giunta dallo Stato italiano e non dal fondo interbancario di tutela, ed è sempre prelevabile in giornata senza preavviso.

C’è poi una terza strada: richiedere un assegno circolare obbligatoriamente non trasferibile a proprio nome. Così si può portare il saldo sotto al massimo “consentito”. Si hanno poi tre anni di tempo per riversarlo sullo stesso conto o altrove. Ma è più prudente farlo ben prima, eventualmente chiedendone uno nuovo.

In ogni caso molti farebbero bene a darsi una calmata: il guaio è quando le banche portano via i soldi ai clienti col risparmio gestito e la previdenza integrativa, non quando li costringono a portarseli via perché per loro non sono convenienti.

 

 

Bonus 110%. Fatti solo 37 mila interventi, è corsa per la proroga

È stato lanciato come il bazooka per il rilancio dell’edilizia messa ko dal Covid, visto che il settore delle costruzioni ha subito un crollo degli investimenti del 10% nel 2020. Ma il superbonus 110% che lo Stato rimborsa a condomini e proprietari di villette che decidono di ristrutturare gli edifici per migliorare l’efficienza energetica di almeno due classi, diminuire il rischio sismico o migliorare le prestazioni ambientali, continua a deludere. Prima la lungaggine burocratica per la sua approvazione (le norme vigore dallo scorso luglio sono entrate nella piena operatività solo sei mesi fa quando sono state pubblicati tutti i decreti attuativi e le relative circolari con regole e requisiti tecnici) e, ora, le difficoltà oggettiva di istruire la pratica si sono concretizzate per la prima volta in numeri: non arriva ancora al mezzo miliardo il valore degli interventi di recupero realizzati con il superbonus del 110%. “Dal 15 ottobre al 28 febbraio ci sono stati 37mila interventi di recupero”, ha detto negli scorsi giorni il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini.

Gli interventi di recupero si riferiscono comunque ai contribuenti che hanno usufruito della cessione del credito o dello sconto in fattura da chiedere direttamente all’impresa o banche, istituti finanziari, enti. Il titolare della detrazione, cedendo il credito, rinuncia infatti alla detrazione fiscale spalmata in cinque anni e incassa subito il corrispettivo della spesa sostenuta per i lavori. Per avere, così, i numeri complessivi dei lavori effettuati e del valore bisognerà aspettare la dichiarazione dei redditi dove si cominceranno a portare in detrazione le spese sostenute.
Ma di tempo non è ne rimasto tanto. Se non ci saranno ulteriori proroghe (da settimane si ipotizza uno slittamento del 110% fino a fine 2023), restano poco più di 15 mesi per poter usufruire dell’agevolazione. Tempi stretti per rispettare i passaggi burocratici richiesti. Il primo vincolo per l’ottenimento dell’incentivo è il completamento di almeno il 60% dei lavori entro il 30 giugno 2022. Questa data è il punto di partenza per calcolare i tempi da rispettare per poter essere certi di ottenere l’incentivo fiscale. La solita speranza di proroga roroga dei termini di scadenza fino al 2023 arriva dalle note analitiche del Recovery Plan, promossa dai Servizi Studi della Camera e del Senato e approvata poi dal ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani.

 

Senza più partiti forti, è vitale avere buone regole

Alle 9 del mattino del 17 marzo 1981, quarant’anni fa quasi esatti, un nucleo della Gdf inviato dalla Procura di Milano entrava in una villa e negli uffici di un’azienda nell’aretino: i finanzieri ne usciranno con gli elenchi (incompleti) della Loggia P2 e molti documenti che raccontano il sistema di potere messo in piedi da Licio Gelli. Tra loro fascicoli intolati “Accordo finanziario Flaminio Piccoli-Rizzoli” (un leader Dc e un grande editore) e “Contratto Eni-Petromin” (le tangenti Eni ai sauditi avallate dal governo di allora) o l’appunto “Ubs-Lugano, c/c 633369, Protezione” (il conto riconducibile a Bettino Craxi che diventerà famoso con Mani Pulite).

L’Italia, come gli altri Paesi, da sempre conosce il difficile rapporto che corre tra il potere politico e i molteplici interessi economici (leciti e illeciti) di cui si compone la società. Forse lo conosce anche meglio perché i “poteri invisibili” (Bobbio) ne hanno condizionato la vita più largamente che altrove in Europa: e i poteri, si sa, anche quelli invisibili, mentre perpetuano se stessi, spesso non disdegnano l’arricchimento. Eppure, per decenni, il rapporto tra politica ed economia non fu quello servo-padrone che è il nostro pane di oggi: in passato i partiti – radicati nella società e nati da forti opzioni culturali e ideali – hanno bene o (molto) male garantito la mediazione degli interessi particolari con la loro visione del Paese e del bene collettivo, aiutati in questo anche da una forte industria pubblica. È, d’altronde, il compito che gli assegna la Costituzione e che oggi non sono più in grado di assolvere: ideologicamente confusi, poco o nulla radicati, a volte di schietta natura personale o proprietaria (FI, IV o, per altri versi, M5S), i partiti possono al massimo esprimere un ceto politico identificabile e poco altro. Una legge che regolamenti l’attività di lobbying – e consenta così di perseguire il traffico illecito di influenze – è dunque oggi vitale, come pure trasparenza e rigore sui profili di incompatibilità di chi ricopre incarichi pubblici. L’intreccio degli interessi, a volte indicibile, c’è sempre stato, ma la politica non ha più neanche la forza per provare a mediarlo: affidarsi alla dirittura morale o all’onestà del singolo non è mai una buona idea.

Leonardo, un assassino maledetto per fiction: era proprio necessario?

 

Per fiction/1. Sui social attaccano e minacciano Gianmarco Tognazzi colpevole di interpretare (e dunque di essere) l’allenatore Luciano Spalletti, nella serie Sky “Speravo de morì prima”. Secondo caso in pochi giorni: Greta Scarano, l’attrice che interpreta la giovane collega che fa perdere la testa a Montalbano, ha raccontato di venire insultata come “rovinafamiglie”. La cosa incredibile di tutto ciò è che queste persone riescono a connettersi e a trovare sui social i profili degli attori: se ne deduce che siano consapevoli di chi sono gli insultati e di che mestiere fanno. Quindi perché li insultano?

 

Per fiction/2. È andata in onda su RaiUno (con grande successo di pubblico, 28% di share) la tanto attesa fiction su Leonardo da Vinci. O meglio, una fiction spacciata per la storia di Leonardo, che con la vita del grande genio ha pochi elementi in comune. La fiction si apre con un cupissimo Leonardo recluso nelle carceri di Milano e accusato d’omicidio per aver ammazzato la sua musa e amica, Caterina da Cremona. Che non è mai esistita e dunque non può essere stata uccisa. “Leonardo è un pretesto ma il difficile sta nel distinguere il confine tra verità e fantasia, un lavoro che il telespettatore medio di una tv generalista non dovrebbe essere chiamato a fare”, ha scritto giustamente Michela Tamburrino sulla Stampa. Alessandro Vezzosi – uno dei maggiori studiosi e biografo del genio del Rinascimento e direttore del Museo Ideale “Leonardo da Vinci” – ha spiegato cosa non funziona dal punto di vista storico all’Adnkronos: “Ho visto la prima puntata della serie tv. E sono molto sorpreso del successo di pubblico. Semplicemente tutti gli elementi storici sono completamente stravolti. L’importante è che si sappia bene che questa fiction non ha niente a che fare con la vita di Leonardo da Vinci. Nel merito della produzione in sé non entro, può piacere o non piacere, anche se a me non è piaciuta”. La vita di Leonardo da Vinci è un film già da sola. Per capirlo basta guardare il bellissimo documentario di Sky “Io, Leonardo” (Luca Argentero protagonista, Francesco Pannofino voce narrante), dove la parte recitata da Argentero è testualmente presa dai taccuini di Leonardo. Solo al Corriere potevano esultare per il bacio gay in prima serata su RaiUno: uno dei più grandi geni della Storia ridotto a cliché (per fortuna poi ci hanno messo una pezza con un ottimo pezzo di Panza, in cui si mettevano in fila tutti gli errori e le “libertà artistiche” della fiction di RaiUno). Chi poco pensa, molto erra, direbbe il protagonista.

 

Non classificati

Spending review porporata. Papa Francesco taglia gli stipendi al personale della Santa Sede, del Governatorato e di altri enti collegati. A cominciare dai cardinali e dai capi dicastero della Curia romana: il piatto cardinalizio dei porporati al servizio della Santa Sede prevede una somma tra i 4.500 e i 5.000 euro netti (in Vaticano non ci sono le tasse, ndr) e verrà ridotto del 10%. Va bene, apprezziamo il gesto, soprattutto in questo periodo di estrema crisi. Però al prossimo giro possiamo fare che paghiamo anche l’Ici sui beni della Chiesa?

Chi ha tempo non aspetti tempo. È arrivata Victoria, secondogenita dei coniugi d’oro Ferragnez: auguri! Scrive Repubblica che nella foto postata da Chiara e Fedez a poche ore dalla sua nascita, la piccola Vic fa già da testimonial per la collezione della mamma: “indossa una cuffietta parte della collezione ‘newborn’ in arrivo a maggio”. È appena nata e ha già un lavoro da influencer!

 

Senatore o Kamikaze? Renzi “masochista” elogia (ancora) l’arabia Saudita

Meglio perdere che straperdere. Una regola fondamentale al tavolo da gioco, che qualsiasi giocatore munito di un po’ di spirito di autoconservazione conosce molto bene, è “meglio perdere che straperdere”. Esiste un momento in cui raccogliere le proprie cose e salutare il croupier, invece di accanirsi con la sorte, può davvero fare la differenza e mettere in salvo un patrimonio. Ecco, Matteo Renzi quel momento l’ha perso e ha scelto di restare seduto al perdente tavolo saudita, a costo di dissipare il proprio patrimonio politico. Sotto attacco per il rapporto con il principe Bin Salman, per la sua presenza nel board saudita e per le affermazioni sull’Arabia come potenziale luogo di un nuovo Rinascimento, il leader d’Italia Viva invece di fare retromarcia e prendere le distanze da se stesso, ha optato per l’ostinazione: “Mohammad Bin Salman? È un mio amico, lo conosco da anni. E non c’è nessuna certezza che sia il mandante dell’omicidio Kashoggi”. E avanti con l’harakiri: “La frase sul nuovo Rinascimento la ridirei. Sono molto convinto che la questione sul nuovo Rinascimento arabo sia un tema molto interessante”. La caparbia di Renzi è ormai divenuta proverbiale, ma questa volta è decisamente autodistruttiva.

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Barcolla ma non molla. Davide Barillari, consigliere regionale del Lazio, già espulso dal Movimento Cinque Stelle a causa della divulgazione delle sue posizioni no-vax mediante un sito di sedicente controinformazione (il cui nome, Salute Regione Lazio, poteva essere facilmente scambiato per quello del sito ufficiale della Regione) e già promotore sui social della campagna-bufala che puntava a dimostrare come, in piena emergenza, i pronto soccorsi fossero vuoti a differenza di quanto raccontato dall’informazione, non si rassegna a smettere di propagandare in giro le sue improbabili posizioni. Forte del proprio ruolo politico, che rivendica attraverso l’intestazione dell’account, “Davide Barillari Consigliere Regione Lazio”, twitta affermazioni di questo tipo: “’Potete farvi tutti i vaccini del mondo, ma non vi faranno mai tornare liberi’ (A. Meluzzi, psichiatra). Siamo noi a chiuderci da soli in questo isolamento, a nutrirci di paura, a tenere la mascherina. Riprendiamo ad abbracciarci, a uscire e a respirare. Senza paura”. La paura in realtà ci assale al pensiero che un soggetto del genere ricopra una funziona pubblica, e sia chiamato a curare l’interesse della collettività. Una delle ultime esternazioni dell’irriducibile consigliere se la prende con gli inoculatori di vaccini: “IMPORTANTE: se proprio volete fare il vaccino (anche se non vi immunizza e dovrete continuare ad usare la mascherina) e state male, dovete DENUNCIARE il medico o il farmacista che ve lo ha fatto”. La risposta definitiva la dà a stretto giro un utente sotto il tweet: “Io vorrei denunciare lei perchè stando nel consiglio della Regione in cui vivo (e il suo stipendio è pagato anche da me) diffonde allarmismo che può minare la fiducia delle persone, ma il reato di stupidità purtroppo non esiste ancora… forse il procurato allarme? Devo informarmi”.

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Il Marchese Allegri divide i bravi dagli asini. Ma per battere l’Ajax serve Mister Gasperini

Si fa presto a dire (come recentemente ha fatto, in una sorprendente lectio magistralis molto pro domo sua, Massimiliano Allegri a Sky): “Nel calcio ci sono le categorie. Ci sono gli allenatori che vincono e ci sono quelli che non vincono mai”. Il che suona un po’ come il famoso “Io so’ io e voi non siete un cazzo” di monicelliana memoria. Eh sì. Si fa presto a dire che è bravo solo chi vince (come Allegri: 5 scudetti alla Juve e uno al Milan) mentre chi perde è un asino. In realtà a contare c’è ben altro: a cominciare dai soldi. Forse la bravura di un allenatore andrebbe valutata analizzando il rapporto tra soldi spesi dalla società e piazzamento del club a fine stagione. Vedremmo una foto diversa.

Il Cies, il centro con sede a Neuchatel che studia ogni aspetto del calcio mondiale, ha reso noto uno studio sui soldi spesi e incassati dai club dei cinque top campionati (Premier League, Liga, Bundesliga, Ligue 1, Serie A) nelle ultime 10 sessioni di mercato: le ultime cinque stagioni. Ebbene, contando i soldi spesi per gli acquisti e i soldi incassati per le cessioni, nella classifica “Attivo” sul podio troviamo due club francesi, il Lille con +191 milioni e il Lione con +151, e un club italiano, l’Atalanta con +133. Tra i club ancora in lizza in Champions League spicca il Borussia Dortmund di Haaland, 7° a +77 milioni; tra quelli ancora in lizza in Europa League il meglio piazzato, al 17° posto, è la Roma a +34. Domanda: è proprio sicuro, Allegri, che l’allenatore del Lille Galtier, quello del Lione Garcia e quello dell’Atalanta Gasperini (ma potremmo aggiungere Terzic del Dortmund, Fonseca della Roma e altri ancora) siano rispetto a lui di una categoria inferiore perchè magari non ce la faranno, a fine stagione, a vincere il titolo in patria?

Chi è più bravo: quello che vince lo scudetto col Psg degli sceicchi del Qatar o quello del Lille che viaggia a pari punti del Psg o quello del Lione che insegue a -3? Ed è più bravo Allegri a vincere titoli con la Exor alle spalle che gli compra prima Higuain e poi CR7 o Gasperini che arriva 3° con l’Atalanta dopo aver riempito di milioni la cassaforte del club? Vale forse la pena andare a leggere la classifica del Cies a testa in giù; capovolgendola. Vale la pena perchè tra i club che in questi anni hanno fatto il peggiore sbilancio di mercato, ai primi 5 posti troviamo il Manchester City (- 631 milioni), il Manchester United (-586), il Barcellona (-471), il Psg (-455) e l’Inter (-386). All’8° posto, con un passivo di 311 milioni, c’è il Milan; al 13°, a -249 milioni, la Juventus; al 19°, a -165, il Napoli. Tra i club ancora in corsa in Champions League, detto del virtuoso Dortmund (7° tra i club in attivo) il messo meno peggio è il Real Madrid con un passivo di mercato di -91 milioni. A -129 il Liverpool. A -171 il Bayern. Guardando solo alla Serie A italiana, nella classifica dei club con il peggiore sbilancio ai primi quattro posti troviamo, guarda caso, l’Inter prima in campionato, il Milan secondo, la Juventus terza e il Napoli quinto.

Se pensate che l’Atalanta, che in campionato è terza a pari punti con la Juventus e che già un anno fa arrivò terza in serie A e giunse a un passo dalla semifinale in Champions League, sta facendo tutto ciò avendo accumulato un attivo di 133 milioni negli ultimi 5 anni, la domanda che sorge spontanea è: ma davvero rispetto ad Allegri che andò a picco contro l’Ajax, Gasperini, che l’Ajax un anno dopo se lo mangiò, a voi pare così scarso?