Arriverà a giugno il passaporto. Ue per salvare l’estate

Dal 15 giugno potrebbe essere disponibile in Europa un passaporto vaccinale che permetterà una maggiore libertà di movimento a chi ha ottenuto la vaccinazione contro il Covid-19. Lo ha annunciato il commissario europeo all’Industria Thierry Breton intervistato in Francia da radio Rtl, dall’emittente tv Lci e dal quotidiano Le Figaro.

Il “certificato” vaccinale disponibile a livello europeo sarà sia in formato cartaceo, sia digitale, ha spiegato Breton. Dotato di codice Qr, indicherà “il tipo di vaccino ricevuto”, “se sei stato portatore della malattia” e “se si hanno gli anticorpi”. Questo documento può essere richiesto per prendere un aereo, partecipare a un “evento importante” o entrare in un luogo pubblico, ma non è obbligatorio, ha precisato il commissario. “Allo stesso tempo, stiamo sviluppando la capacità di eseguire test antigenici rapidi”, ha affermato Breton, spiegando che in mancanza di un certificato sarà richiesto un test negativo al Covid-19.

L’obiettivo, ha spiegato il commissario europeo, è quello di “ritrovare la capacità di convivere senza essere un rischio” e “avere la capacità di riaprire le attività. Dobbiamo organizzarci molto rapidamente”, ha ribadito.

Del nuovo “lasciapassare” ha parlato anche il presidente dell’Europarlamento David Sassoli a In1/2ora su Rai3: “Il passaporto vaccinale sarà uno strumento per una riapertura ordinata, soprattutto una certificazione delle persone che possiamo considerare fuori pericolo e meno pericolose. Il Parlamento europeo voterà questo provvedimento il 26 aprile, anche noi come il commissario Breton pensiamo che a giugno sia uno strumento per riaprire alcune attività e consentire agli anziani, che sono i primi vaccinati, di riprendere anche una vita normale”.

Breton è stato anche rassicurante sulla campagna di vaccinazione: “In Europa c’è la capacità di produrre e fornire le dosi del vaccino necessarie a raggiungere l’immunità collettiva rispetto al coronavirus a metà luglio. Si sta aprendo una nuova fase della lotta contro la pandemia, e dopo un periodo di adattamento la produzione industriale di vaccini sembra ora procedere senza intoppi”. Il commissario europeo ha quindi affermato con “certezza” che “360 milioni di dosi” del vaccino anti Covid saranno consegnate in Europa alla fine del terzo trimestre, oltre 420 milioni a metà luglio. Numeri “necessari per iniziare a parlare di questa immunità collettiva”.

In Italia esulta la Coldiretti, secondo cui l’arrivo del passaporto vaccinale Ue salverà il turismo straniero nel nostro Paese che ha già subito un buco di circa 27 miliardi nelle spese dei viaggiatori dall’estero crollate del 61% nel 2020 rispetto all’anno precedente, toccando il minimo da almeno venti anni. “Una svolta – sottolinea la Coldiretti – per salvare il turismo estivo dopo che sei viaggiatori stranieri su dieci (59%) hanno dovuto rinunciare a venire in Italia nel 2020 per un totale di 57 milioni di turisti bloccati alle frontiere dall’emergenza. E nel lockdown di Pasqua è praticamente azzerato anche quello nazionale con un italiano su tre (32%) che aveva programmi di viaggio per vacanze, gite fuori porta o visite a parenti e amici durante le feste di Pasqua e Pasquetta. Non è un caso che nel 2020 a far registrare il risultato più negativo nei consumi sono stati gli alberghi ed i ristoranti con un calo del 40,2% seguiti dai trasporti che si riducono del 26,5% e dalle spese per ricreazione e cultura che scendono del 22,8%”.

La Lega è confusa: dice no al decreto, poi Salvini ci ripensa

La spaccatura nella Lega è anche una questione di agenda. Giancarlo Giorgetti, l’anima leghista nel governo Draghi, si è già messo pancia a terra a lavorare sui prossimi ristori alle attività che resteranno chiuse anche ad aprile. Come dire: le chiusure ormai sono un dato di fatto. Ma Matteo Salvini, che di Giorgetti sarebbe il numero uno, non si dà pace. “Adesso basta con le chiusure – si è sfogato venerdì con i suoi fedelissimi dopo la cabina di regia – non abbiamo sostenuto Draghi per fare le stesse cose di Conte e Speranza”. E solo chi conosce bene il segretario del Carroccio sa quanto può essergli costato accostare il suo acerrimo nemico all’ex presidente della Bce per cui si è battuto e ha rischiato tutto a costo di farsi sorpassare a destra da Giorgia Meloni. Ma il dato di fatto resta: su aperture e chiusure la “discontinuità” chiesta dal leghista non c’è. E allora, dopo l’ennesimo schiaffo di venerdì in cui la cabina di regia ha deciso che anche aprile sarà il mese delle chiusure, Salvini non ci ha visto più. Per due giorni, fino a ieri mattina, ha minacciato di votare contro il decreto che arriverà in consiglio dei ministri a metà settimana ma poi nelle ultime 24 ore ha in parte abbandonato i toni barricaderi con un video registrato ieri all’ora di pranzo. Trentotto secondi per dire tutto e il suo contrario: “La Lega lavora con e per Draghi” ha detto Salvini per mandare un messaggio distensivo al premier.

Ma un attimo dopo è tornato ad attaccare l’esecutivo: “L’obiettivo è riaprire dopo Pasqua le attività nelle città italiane fuori dall’emergenza” ha spiegato Salvini ai suoi follower su Facebook. Oggi il governo consulterà prima le Regioni e poi il Cts e a metà settimana il decreto arriverà in cdm. E se il premier non si schioderà dalle sue posizioni pro-chiusure prima di quel giorno, in quel caso, l’ordine di scuderia di Salvini è quello di dare battaglia contro l’asse “chiusurista” formato da Roberto Speranza e Dario Franceschini. La mediazione potrebbe essere quella di una “verifica” dei dati epidemiologici dopo le vacanze per capire se ci sono le condizioni per alleggerire le restrizioni: riaprire bar e ristoranti a pranzo, cinema e teatri e le scuole superiori. Un contentino che potrebbe far cantare vittoria alla Lega. Tant’è che nel pomeriggio fonti del Carroccio fanno sapere che la chiusura per tutto il mese di aprile “non è scontata” perché le decisioni saranno prese “valutando i dati”. Anche il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, molto vicino a Salvini, a Sky Tg24 spiega che “la Lega non vuole rompere” e “coltivare la prudenza ma non la paura” ma “se i dati lo consentissero si dovrebbe ragionare sulle riaperture”.

Ma, in questo clima di smarrimento, nel Carroccio non si esclude la possibilità di una prova di forza che potrebbe spaccare l’esecutivo: “Matteo non ha problemi a far votare contro in cdm” minaccia chi in queste ore ha parlato con Salvini. Il leader però su questo fronte è stretto nella morsa, da una parte, di Meloni che ha gioco facile a paragonare il Conte II al governo Draghi e, dall’altra, dei suoi alleati che non accetterebbero la rottura: FI, tramite la ministra Mariastella Gelmini, ha fatto capire che le chiusure saranno accettate se legate ai ristori e nemmeno i governatori leghisti del centro-nord – da Luca Zaia a Donatella Tesei fino ad Attilio Fontana – sostengono il segretario sulle riapertur. Epperò il leader della Lega sta ascoltando anche gli ultimi “giapponesi” come Claudio Borghi e Armando Siri che lo spingono ad opporsi al nuovo decreto: ieri il deputato anti-euro ha detto a Repubblica che la Lega dovrebbe votare “no” perché “le decisioni che riguardano la vita di milioni di italiani” vengono “demandate a tecnici nelle cabine di regia”. Borghi poi in una diretta Facebook ha spiegato che la Lega è pronta a dare battaglia anche sul metodo: “Voglio che diverse opinioni siano portate in Parlamento e dopo ci sia una decisione politica – ha detto – Se si va in Parlamento e il Pd, il M5S o FI votano per le chiusure, i cittadini devono sapere”. Per questo sta preparando un emendamento al decreto per subordinare le nuove chiusure alle comunicazioni del premier alle Camere con tanto di voto finale. Una minaccia nemmeno tanto velata.

Lo studio: “I test rapidi non trovano le varianti” Ora domina la “inglese”

I test antigenici si perdono le varianti, non quella inglese o quella brasiliana che riguardano la proteina Spike (S), ma altre, quelle dell’antigene N, che rischiano così di diffondersi. Potrebbe essere successo in Veneto nella cosiddetta seconda ondata che lì è stata particolarmente virulenta (7.000 morti tra ottobre 2020 e febbraio 2021) e accompagnata da numerose mutazioni, anche locali.

È la conclusione di uno studio atteso, firmato dal professor Andrea Crisanti e da un gruppo di ricercatori dell’università e dell’ospedale di Padova. Farà discutere. In Veneto, perché lì il presidente Luca Zaia ha moltiplicato i test antigenici (nello studio sono indicati come il 67,4%) a volte anche in ospedali e Residenze per anziani. Ma anche a Roma: ieri gli istantanei erano 107.762 su 272.630 tamponi registrati in Italia e sono stati proprio Zaia e altri a ottenere, dal 15 gennaio, che fossero inseriti nel bollettino. Costano meno dei molecolari ma comunque fanno girare centinaia di milioni di euro solo in Italia. Non è l’ennesima polemica Crisanti-Zaia, è uno studio disponibile in preprint su medrxiv.org e in corso di revisione da parte di una prestigiosa rivista britannica.

I ricercatori hanno analizzato 1.441 tamponi eseguiti all’ospedale di Padova tra il 15 settembre e il 16 ottobre 2020, il 44% del totale di quel mese. Sintomatici o contatti stretti di positivi. A tutti hanno fatto il test antigenico (l’Ancov Panbio della Abbott) e quello molecolare Rt-Pcr (Dncov Simplexa di Diasorin). “Il test antigenico ha mancato di identificare correttamente la presenza di Sars-Cov-2 in 19 dei 61 campioni che mostrano un chiaro segnale positivo nella Rt-Pcr (molecolare, ndr) . Comparandolo con la Rt-Pcr, Panbio mostra una specificità del 99,9% (99,6-100) e una sensibilità del 68,9% (55,7-80,1)”. La sensibilità è la capacità di evitare falsi negativi, che ovviamente è un problema serio: Abbott dichiara il 93,3%. Secondo lo studio il “valore predittivo positivo” è tra l’82% e il 48,7% a seconda che il margine d’errore sia 0,005 o 0,001. Cioè si perdono fino a metà dei positivi.

Alcuni infetti sono sfuggiti all’antigenico “nonostante un’elevata carica virale nei test Rt-PCR”, scrivono i ricercatori di Padova. Specie in presenza di “sostituzioni amminoacidiche dirompenti nell’antigene N (la proteina virale rilevata nel test dell’antigene)”, e delle “mutazioni A376T accoppiate a M241I”, una delle varianti venete più aggressive a fine 2020. “Le sequenze di virus con questa mutazione erano sovrarappresentate nei campioni negativi al test antigenico e positivi alla Pcr e sono aumentate progressivamente in Veneto, una regione italiana che ha aumentato in modo aggressivo l’utilizzo dei test antigenici”. Il loro “utilizzo di massa” può “creare una pressione di selezione sul bersaglio che potrebbe favorire la diffusione di varianti virali non rilevabili.” Cioè, si rischia di lasciare tempo e spazio alla trasmissione delle varianti non rilevate. E’ un pericolo già segnalato a febbraio nella circolare del ministero della Salute, a firma del direttore della Prevenzine professor Gianni Rezza, che invitava le Regioni a una specifica sorveglianza di quelle mutazioni. Non è solo un problema del test Abbott, anche altri cercano l’antigene N. Il virus muterà all’infinito, ripetono gli esperti, quindi possono radicarsi anche varianti che sfuggono ai vaccini.

Oggi si dovrebbero conoscere i risultati della terza indagine dell’Istituto superiore di sanità sulle varianti inglese, brasiliana e sudafricana, che però riguardano la proteina Spike (S) e non l’antigene N. Quella inglese, secondo le prime stime in attesa dell’arrivo di tutti i dati dalle Regioni, potrebbe essere arrivata al 70/80% partendo dal 54% rilevato sui positivi del 18 febbraio: non sarebbe una cattiva notizia, secondo diversi specialisti, perché non offre particolare resistenza ai vaccini. Si potrà oggi rivalutare la sua maggiore capacità di diffusione, che nell’ultima indagine Iss-Salute era stimata al 39% rispetto al ceppo un tempo prevalente, che in Italia e in Europa è detto “spagnolo” e in alcune zone del Paese, oggi, è quasi introvabile. Preoccupa di più la variante brasiliana, che è alla base di diversi casi di infezione di persone vaccinate, in genere non gravi: potrebbe aver raggiunto il 20% dei casi in alcune aree dell’Italia centrale. Studi condotti nel Paranà, in Brasile, e non ancora pubblicati dicono che ha provocato un aumento della mortalità nell’ordine del triplo tra i 20/29enni e del doppio tra i 30%59enni.

Ma mi faccia il piacere

Animal House. “Differenze clamorose tra Lombardia e Lazio? Da noi non girano i cinghiali…” (Ignazio La Russa, senatore FdI, sulla campagna vaccinale nella sua Lombardia, 23.3). Solo i somari.

Telefono azzurro. “Finito di vaccinare l’ultimo lombardo torno negli spogliatoi e ricomincio a fare il nonno” (Guido Bertolaso, coordinatore della campagna vaccinale per la Regione Lombardia, Corriere della Sera, 23.3). Lo dice per tranquillizzare i nipotini.

Lui può. “La Direttiva del servizio sanitario della Lombardia: ‘Ospedali, occupatevi soltanto del Corona’” (Libero, pag. 4 in alto a sinistra, 25.3). “Berlusconi torna a casa dopo tre giorni di ricovero al San Raffaele di Milano per accertamenti di routine” (Libero, pag. 4 in alto a destra, 25.3). Non sappia la destra ciò che fa la sinistra.

Consenso. “Se ancora non fosse chiaro, a Draghi non interessa né del consenso, né delle beghe tra i partiti. A lui interessa portare a casa i risultati. Scusate se è poco” (Myrta Merlino, Twitter, 26.3). Non avere elettori aiuta.

Memoria. “Draghi la libertà delle parole, Conte (e Casalino) parole in libertà” (Marco Follini, Twitter, 26.3). E Follini ex vicepremier di Berlusconi.

Carrette&cravatte. “In Italia è già iniziata la cravatta mania per le conferenze stampa di Draghi” (David Carretta, giornalista Agi, Twitter, 26.3). Sì, ma occhio alla bava che te la macchia, la cravatta.

Monsieur de Pompadur. “Super Mario parla da vero leader europeo. Toni asciutto, scevro dalla retorica pomposa” (Augusto Minzolini, Giornale, 27.3). Quella ce la mette la tua Minzolingua, molto pomposa, pure troppo.

Provincia di Lecco. “Ci sarebbero molte ragioni per leccarsi i baffi dopo aver ascoltato le risposte fornite ieri da Mario Draghi…” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 27.3). Poi, non trovando i baffi, ha optato per i piedi.

Almeno. “I tanti che meditano su Draghi capo dello Stato dovrebbero considerare quanto sarebbe più significativo vedere l’Italia di nuovo protagonista o co-protagonista in Europa grazie al governo da lui guidato almeno fino al 2023” (Stefano Folli, Repubblica, 27.3). E dopo che si fa: si aboliscono le elezioni?

Le Vacciniadi/1. “Agli anziani chiediamo scusa. Sui vaccini ora si corre” (Letizia Moratti, vicepresidente e assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Repubblica, 24.3). Chi arriva primo, anche in carrozzella, vince una dose.

Le Vacciniadi/2. “Sull’attività di vaccinazione non soffriamo di complessi di inferiorità e rivendichiamo con orgoglio il lavoro che stiamo portando avanti” (Letizia Moratti, Foglio, 27.3). Nel campo dell’avanspettacolo.

Ritardi. “Travaglio ha scritto che certe cose le capisce anche ‘un bambino ritardato’… Voglio solo che si sappia che questa cultura di odio, di aggressione, di violenza verbale è una vergogna” (Matteo Renzi, senatore e leader Iv, 25.3). Vero, ma purtroppo gli adulti ritardati certe cose proprio non le capiscono.

Sostegni. “Decreto Sostegni, la discontinuità di Draghi” (Giampaolo Galli, Riformista, 23.3). Vuoi mettere: prima lo stesso decreto si chiamava Ristori.

Salvataggi. “Stanno arrivando milioni di dosi, ora un patto di salvezza nazionale” (Maria Stella Gelmini, ministra FI agli Affari regionali, La Stampa, 23.3), Dalla Gelmini, si spera.

Rimbalzo. “L’apprezzamento dell’esecutivo e del presidente Draghi… risulta in flessione… diminuisce di 6 punti per il governo e di 7 punti per il premier. Più che la fine della luna di miele … si può parlare di una sorta di ‘rimbalzo tecnico’” (Nando Pagnoncelli, Corriere della sera, 27.3). Tipo il rimbalzo tecnico di Willy Coyote quando precipita dal dirupo, con la nuvoletta.

L’ideona. “Processo mediatico, l’Italia deride l’Ue e la Costituzione. Dal 2016 saremmo tenuti a recepire il testo che vieta ai pm di additare gli imputati come colpevoli. Lo impone pure la Carta. Ma il M5S non vuole” (Giorgio Spangher, Il Dubbio, 25.3). Vostro onore, premesso che l’imputato è innocente perchè non posso additarlo come colpevole, sennò poi Spangher s’incazza, chiedo che sia condannato all’ergastolo.

Il titolo della settimana/1. “Così le Procure bloccano le vaccinazioni” (Foglio, 24.3). Ah ecco perchè non arrivano i vaccini: i soliti pm No Vax.

Il titolo della settimana/2. “Con Draghi la svolta, ma avrei preferito senza Lega” (Giuliano Pisapia, ex deputato Rifondazione Comunista, ex sindaco arancione, ex legale di parte civile contro Silvio Berlusconi, ora eurodeputato Pd, Corriere della sera, 26.3). Però, dài, meno male che Silvio c’è.

Il titolo della settimana/3. “In 3 anni liberazione condizionale solo per 38 ergastolani” (Il Dubbio, 23.3). Un po’ pochini: ci vorrebbe la liberazione incondizionale. O incondizionata.

Il titolo della settimana/4. “Non lascio Italia Viva: noi decisivi nel 2023” (Renzi, Messaggero, 26.3). Uahahhaahhahah.

L’Archivio Rame-Fo è fermo da oltre 5 anni: ministro e istituzioni si sveglino a realizzarlo

Sono passati cinque anni dalla stipula della convenzione tra l’allora MiBacT, la Direzione generale degli archivi e la famiglia Fo che ha permesso di spostare presso la nuova sede dell’Archivio di Stato di Verona gran parte dei materiali che costituiscono l’Archivio Rame Fo, fortemente voluto dalla coppia e in particolare dall’attrice, che vi si è dedicata dal 1993 fino alla morte nel 2013.

Uno straordinario insieme di carte, immagini, oggetti di scena, opere pittoriche, oltre a testimonianze dei primi anni di vita di Dario Fo e tracce della famiglia Rame – una delle più antiche famiglie di teatranti girovaghi – risalenti al XVIII secolo, che permise anche l’inaugurazione del MusALab, museo-archivio-laboratorio che puntava a valorizzare quello che è un patrimonio riconosciuto non a caso “d’interesse storico particolarmente importante”. L’intesa raggiunta nel marzo 2016 si accompagnava alla promessa dichiarata di trovare presto una sede autonoma in grado di ospitare un polo archivistico-museale all’avanguardia, accogliendo tutto il materiale rimasto a Gubbio (Pg) – oltre 600 ore di teche e la documentazione dell’attività della coppia dal 2001 in poi – e le centinaia di opere del Premio Nobel rimaste negli scatoloni. “Io ci credo”, dichiarava lo stesso Fo, proprio poco prima di lasciarci il 13 ottobre dello stesso anno.

Ma da allora nulla è cambiato. Neanche il ministro a dire la verità: fatta salva la breve parentesi del governo gialloverde, oggi come allora si tratta di Dario Franceschini. Con il nuovo governo, la sua denominazione è diventata “ministro della Cultura”, ma del nuovo museo non c’è ancora traccia.

È per questo che, in coincidenza con il 95esimo anniversario della nascita di Fo (il 24 marzo) e sulla scia delle celebrazioni per i 50 anni di Mistero buffo, la Fondazione Fo Rame ha dato il via alla campagna “Un (vero) museo per Dario Fo e Franca Rame”, chiedendo al mondo della cultura di sottoscrivere l’appello che chiede di dare seguito alle promesse. Già numerose le adesioni, da Paola Cortellesi a Marco Travaglio, da Antonio Ricci a Roberto Vecchioni. “Ci rivolgiamo al ministro, ma anche ai Comuni che possono mettere a disposizione spazi idonei e a chiunque può contribuire – ci dice Mattea Fo, nipote della coppia e presidente della Fondazione –, siamo aperti al dialogo”. L’occasione è rappresentata anche dal rinnovo automatico della convenzione, che si avvia verso il secondo quinquennio. “Ma serve uno spazio più grande”, dice Fo. “Verona e il personale archivistico ci hanno dato molte possibilità, ma al momento lo spazio espositivo, allestito a nostre spese, può ospitare solo 40 opere. Sono 500 solo i quadri di Dario Fo ancora nei cassetti. Per non parlare dei tanti materiali audio e video che potrebbero confluire in un vero archivio integrato, aperto alla cittadinanza”. Assieme al padre Jacopo e al resto della famiglia, si batte a questo scopo da anni. Ma, dopo lo slancio iniziale, non sono arrivate vere risposte dalle istituzioni. “Fu lo stesso ministro a proporci di costituire una fondazione per avere un supporto economico, ma tuttora continuiamo a non ricevere finanziamenti pubblici”. Ora il nuovo tentativo. In un momento così difficile per l’arte, una svolta sarebbe senz’altro un segnale importante.

Elsa, il vero padre è Morante. Altro che figlia illegittima

L’archivista ingegnere Maurilio Di Giangregorio, che vive a L’Aquila, mi ha inviato il suo ultimo lavoro intitolato Elsa Morante, contributo per una biografia ragionata. Sette anni fa aveva pubblicato La famiglia Morante, in cui riproduceva i documenti sull’appartenenza a Castel di Ieri, paesino abruzzese, dei Morante. In quell’occasione il sindaco affisse una targa in onore della grande scrittrice.

Nella prefazione avevo denunciato l’assenza di una biografia italiana sull’autrice de La Storia, promessa da Patrizia Cavalli ma mai mantenuta, nemmeno dagli eredi. Nel nuovo libro, anch’esso fatto di soli documenti e stampato a sue spese, con molte foto, il mio amico Maurilio è tornato sulla paternità di Elsa. Il vero padre suo era dunque Augusto Morante e non l’amante della madre Francesco Lo Monaco.

Irma e Augusto si sposarono a Bologna il 30 maggio 1908 e si trasferirono a Roma nella nuova residenza registrata nello stato civile del Comune in data 20 febbraio 1912. Elsa nacque dunque a Roma il 18 agosto 1912. Era stata evidentemente concepita a Bologna, e Irma quando arrivò nella Capitale era incinta. Del resto a Bologna era nato il primogenito Mario, il quale morì dopo poco tempo. E questo smentisce la presunta impotenza di Augusto.

Maurilio ha cercato inutilmente a Bologna l’atto di nascita di Mario. Per la verità Elsa confessò di voler bene ad Augusto, il quale la accarezzava, come ha riferito a Jean-Noël Schifano, che scrisse uno straziante memoir sul loro rapporto amichevole, nonché traduttore de La Storia in Francia. Sapere che il suo vero padre era Augusto non è poca cosa, trattandosi di una scrittrice che sull’ambiguità paterna firmò i suoi capolavori… Mi sono chiesto che cosa avrebbe scritto se Lo Monaco non avesse frequentato, sia pure raramente, la sua casa. E soprattutto, quanta sofferenza in meno. Sarebbe bastato fare un salto all’anagrafe romana e conteggiare i mesi dall’arrivo a Roma di sua madre e dalla successiva conoscenza di Lo Monaco per accorgersi che non poteva avvenire la sua nascita dopo sei mesi. I motivi per cui Irma confessò a Elsa che suo padre era il biondo siciliano restano misteriosi e comunque legati all’odio per il marito.

Il libro di Maurilio fa luce anche sull’eredità della Morante e le feroci polemiche che ne seguirono, soprattutto quelle di sua sorella Maria, deceduta nel 2017, che non ereditò nulla. Fu proprio la socialista e poi comunista Maria a raccontarmi dei suoi suggerimenti alla sorella mentre scriveva La Storia. Lei era stata una vera militante, aveva subito attentati in Abruzzo dopo la Seconda guerra mondiale e conosceva bene i luoghi di rifugio del popolo romano. Il libro parla anche della dispersione delle ceneri di Elsa. Fu cremata a Prima Porta. Le sue ceneri rimasero per molto tempo nel deposito del cimitero finché Carlo Cecchi, suo erede, pensò bene di trafugarle e disperderle nel mare di Procida. Ricordo ancora la disperazione di Moravia tornato anch’egli da quell’isola morantiana… Questa vicenda ebbe un risvolto giudiziario che si concluse con un non luogo a procedere. Non abbiamo una tomba dove portare un fiore, nemmeno al Verano, dove erano stati sepolti Irma e Augusto, la cui tomba fu vandalizzata da fascisti in un raid antisemita. L’ingegnere riporta poi gli articoli della polemica con Moravia che voleva che Elsa ottenesse la Bacchelli, una volta ricoverata in ospedale. Non sapeva che l’eredità di sua moglie ammontava a 600 milioni di lire. Ognuno vede che non è bastata l’autobiografia, sia pure volenterosa di uno scrittore francese, tradotta da Sandra Petrignani e pubblicata da Neri Pozza, per far luce persino sulle diverse abitazioni di Elsa bambina.

“Le prostitute di Torino, la rissa con Bisio ‘nazi’ e al casinò con i Moratti”

Il confine tra realtà, immaginazione, sogno, vero, verosimile e possibile è inutile, o sciocco marcarlo: “A volte non so più qual è la realtà oggettiva da quella frutto della mia testa: qualche tempo fa mi ferma un signore, si congratula e mi parla della famosa serata in cui al Derby arrivò la polizia per una retata. E io: ‘Allora è accaduto! La narro da talmente tanti anni che oramai credevo fosse la mia immaginazione’. ‘Due settimane fa ho visto il suo spettacolo. E mi sono ricordato di quella sera: ero presente’. Ho sorriso”.

Paolo Rossi è un uomo immerso nella sua arte, dedito a essa, maschera e persona non hanno confini, alcuna sfumatura: ogni angolo della vita diventa prospettiva, ogni attimo dell’esistenza una possibile miccia da condividere sul palco, e se vede per strada un gruppo di testimoni di Geova “vado da loro in cerca di storie da portare a casa”. Anche il suo ultimo libro, Meglio dal vivo che dal morto (edizioni Solferino), è così: onirico. Va letto cullandosi tra le suo onde mentali, l’unica àncora è il continuo dialogo con Shakespeare, per il resto passa da una digressione a un ricordo (strepitoso quello su Jannacci e Gaber e la tinta che cola, o l’amico artista che per evitare le domande scomode della moglie, alle cinque del mattino si lancia nei Navigli, e pieno di fango detta la linea: “Ora portami a casa”); oppure dallo stesso ricordo arriva al desiderio di non nascondere nulla, neanche “il periodo blu”, come lo definisce lui, dove droga e alcool imbrigliavano il resto. “Ora mi sveglio alle sei del mattino”.

Un tempo alle sei del mattino andava a letto…

Ho deciso di dormire quando mi pare, compresa la mezz’ora prima dello spettacolo.

Non sente l’adrenalina.

Quella viene dopo (squilla il telefono, è uno dei suoi figli).

Ha tre maschi.

Con loro ho un bel rapporto, ma li ho riempiti di scherzi, è il mio modo di comunicare; (ride) la mamma del terzo è eritrea, lui un giorno mi porta a vedere un film su delle donne di colore; all’uscita gli chiedo: “Perché?”. “Me l’avevano consigliato”. “Dobbiamo parlare”.

Quanti anni aveva?

Tredici, credo; insomma, ci sediamo al bar, io serissimo, con l’espressione da razzista: “Lo sai che non sei bianco, vero?”. “Non sono neanche nero, papà”. “I tuoi fratelli come sono?”. “Bianchi”. “Vi tratto diversamente?”. “No, abbastanza uguali; però io non sono nero, sono olivastro: in classe ci sono dei pugliesi uguali a me”. “Lascia stare i pugliesi”. A quel punto scoppio a ridere, lui capisce e mi manda a quel paese. Da lì siamo riusciti ad affrontare un discorso serio.

A modo suo.

Quello che nella vita mi ha salvato, è una certa coerenza, sia sul palco che fuori, non solo con i figli.

Li portava in camerino?

Ci hanno dormito, studiato, giocato; il teatro è un luogo semplice per impartire un’educazione severa: lì incidono regole rigide.

Disciplina.

Soprattutto auto-disciplina, come accadeva con il militare.

Sotto le armi ha subito il nonnismo?

(Ride) Mi inserirono in un battaglione operativo, tradotto in “punitivo”: nella mia camerata c’erano solo soggetti di Lotta continua, Autonomia operaia e similari; una sera i nonni provano a entrare, ma “casualmente” non ci sono riusciti e non li abbiamo più visti; stavo nelle retrovie, coperto da quelli del servizio d’ordine: ho dato una mano a smontare i letti di metallo, per creare spranghe.

Sembra M.A.S.H.

Fine Settanta, anni particolari, con situazioni tese.

Ha mai rischiato di finire con i “compagni che sbagliano”?

Probabilmente sì, ne ho conosciuti, ma non mi seducevano per intelligenza.

Era più affascinante il Derby di Milano…

Lì ho trovato “belle teste”, persone straordinarie, protagoniste di un fermento irripetibile; per me è stata una fortuna: sono arrivato all’ultimo tratto di una magia.

Silvia Annicchiarico sostiene che il Derby era pieno di criminali…

Verissimo, era un ambiente borderline, ma le battute migliori le offrivano loro; quando ci fu la retata uscì sul giornale “Derby drogato”, e a casa trovai mia madre in lacrime; e comunque Shakespeare lo sapeva benissimo.

Cosa?

Lui perse 608 repliche a causa della peste, e del contagio davano la colpa agli attori; fuori dal teatro c’era sempre un rappresentante del clero che invitava le persone a non entrare: “Lì ci sono gli untori”; oggi non abbiamo questa qualifica, però ci hanno reso invisibili e non so cos’è meglio; oggi siamo alla stregua di categorie cosiddette illegali: senzatetto, prostitute, carcerati.

Nel libro racconta di essere stato un magnaccia…

Ho un po’ esagerato, in realtà da militare frequentavo una casa chiusa, e siccome mi comportavo alla grande, quindi cucinavo e portavo in giro il cane, le signorine mi volevano bene; in più ci accompagnavo altri commilitoni con l’ormone alle stelle; (cambia tono) alla fine non mi sono comportato bene.

Che ha combinato?

Dieci anni dopo torno a Torino, avevo uno spettacolo e volevo invitarle: vado in quel quartiere, le intravedo, ma la vita le aveva massacrate. Non ho trovato il coraggio di avvicinarmi; (ora ride) sempre a Torino ho dato i biglietti a 20 rom conosciuti con Kusturica: in platea non so chi avesse più oro, se loro o le signore borghesi.

Nel libro parla spesso di donne…

Ne ho incontrate molte grazie alla mia professione, perché da attore mi era più facile togliermi di dosso la timidezza.

Quindi è timido.

Come molti del mestiere; da ragazzo mi chiamavano “Taciturno Joe”, poi sul palco mi trasformavo e tornare giù diventava più semplice.

Anche gli up e i down si imparano a gestire?

Con il tempo e se sopravvivi. Io sono un sopravvissuto. Per questo voglio restituire al pubblico e alla compagnia un conforto laico; la forma più alta di trasgressione è la lucidità.

Per quanto tempo non è stato lucido.

C’è stato un lungo periodo blu, ma l’alcool, con cui ho vissuto problemi, da un lato mi ha lasciato ammaccature, dall’altro mi ha salvato la vita.

Tradotto?

Molte delusioni che si accumulavano, soprattutto nel mio ambiente; i tradimenti peggiori arrivano sempre dalla tua parte politica. Oggi sono più lucido, anche politicamente.

Nel pratico?

Per lei è più politico portare in scena un bel monologo sulle periferie, il disagio, magari in un grande teatro, con un bel prezzo del biglietto, poi prendere l’incasso e andare alle Fiji, o girare con una compagnia di otto persone con le quali recito anche nei bar, nei cortili, nelle piazze, ovunque ci sia un pubblico che magari non può andare a teatro?

Niente palchi?

Uno non esclude l’altro.

Ieri hanno occupato il Piccolo…

(Sorride e sornione aggiunge solo…) Andrà tutto…

Si sente sottovalutato?

È un problema che non mi pongo, sono abituato alle montagne russe: in questo periodo sento di avere molte responsabilità, lo percepisco anche attraverso l’ascolto della strada.

Che dice, la strada?

Rispetto l’insegnamento di Gaber e Jannacci, quindi faccio la spesa: in fila sento le persone lamentarsi della mancanza dell’estetista, della palestra, dell’aperitivo. Mai una volta ho ascoltato una lagna sui teatri.

Quindi?

Non dobbiamo porci solo il problema della chiusura, ma anche del dopo, del dove e del come; (ci ripensa) sono stato sottovalutato e altre volte sopravvalutato, o mi sono preso sul serio, che è l’errore peggiore. E sono entrato in una profonda crisi.

A Gaber e Jannacci cosa ha rubato?

A Giorgio l’impegno rigoroso, ma non sono riuscito a imitarlo del tutto; mentre Enzo sosteneva che se non ti accade qualcosa nella vita, è difficile che ti venga in mente una commedia o una canzone; (abbassa la voce) secondo Gaber ero più attore che comico, e forse aveva ragione, e come Gaber lo credevano pure Enzo e Strehler; anzi per Strehler dovevo diventare Arlecchino, per fortuna mi sono rifiutato, altrimenti mi sarei sentito dentro una gabbia; (ci pensa) per l’Arlecchino non avrei neanche avuto bisogno di una maschera, il mio viso è già una maschera, e non è comica in assoluto: la comicità arriva dall’altezza, o dalla figura fisica. E poi non sono un attore tradizionale.

Chi è il tradizionale?

Quello che dopo le prove dell’Amleto torna a casa e rompe il cazzo alla moglie, ai figli, alla portinaia con i problemi del suo personaggio; con quelli della mia compagnia andiamo alle prove e rompiamo il cazzo al personaggio con i nostri problemi. Questo è il teatro popolare: Shakespeare sarebbe d’accordo con me.

Quando ha intuito che l’altezza e la struttura fisica erano congeniali?

Da ragazzo giocavo a calcio, sono arrivato fino alla Seconda categoria, ogni tanto mi uscivano gran numeri: l’altezza non era un problema, perché quando mi trovavo davanti un avversario enorme, mi fregavo le mani; poi c’è stato Dustin Hoffman con Il laureato: per due settimane sono andato al cinema tutti i giorni, ogni volta con una ragazza diversa, solo per dimostrare che esistevano protagonisti bassi. Comunque sul palco mi sento alto, così alto da essere pronto alla rissa.

Metafora?

Il successo di Nemico di classe, lo spettacolo che lanciò me, Claudio Bisio, Antonio Catania, Silvio Orlando, Gabriele Salvatores e i “Comedians” era apprezzato dai critici, amato dall’ambiente, ma con pochi spettatori; fu grazie a un quasi arresto per colpa di Bisio, a una successiva rissa con il pubblico, più un semi-incendio in un albergo a trasformare lo spettacolo in un avvenimento.

Cosa accadde?

Interpretavo un naziskin, ovviamente in chiave ridicola, e presentavo una lezione reazionaria contro i meridionali; quel giorno il pubblico era composto da un migliaio di ragazzi e venivo costantemente applaudito, ma non per la recitazione, proprio per quello che sostenevo; a un certo punto mi fermo, e guardo la sala: “Sapete dove sono le teste di cazzo più grosse mai incontrate?”. E ho nominato la città dove stavamo; poi: “Potete andare affanculo”, e sono uscito. Gli altri della compagnia mi hanno seguito.

E lì?

Silenzio, non capivano; allora esce Antonio: “Non so se avete capito, ma per mille che siete potete andare a fanculoooo”. È scoppiata la bagarre.

Tutti solidali.

L’unico errore fu di Bisio: scappiamo dal teatro con le divise di scena, ci fermano a un posto di blocco e segue il poliziotto sostenendo “che non si deve mai abbandonare il proprio documento”; a quel punto gli urlo: “Lo dice il Soccorso rosso, non la Costituzione”.

Girerebbe un altro cinepanettone?

Se ho bisogno di soldi, sì; (ci pensa) porca vacca, Montecarlo Gran Casinò è l’unico film dove i miei figli ridono.

È giocatore?

Mi piace il poker e sono fortunato, altro che Gianni Morandi; quando abbiamo girato a Montecarlo, ho guadagnato più al casinò che grazie al film.

E come?

Ero diventato amico dei croupier, quindi applicavo il gioco-operaio: mi sedevo alla roulette e aspettavo le mani vincenti. E poi devi avere la forza di accontentarti e andare via; di solito, quando se ne accorgono, i gestori di casinò ti cacciano. Poi ci sono i colpi di culo.

Tipo?

Vado a Mosca con l’Inter, ospite dei Moratti: in albergo mi offrono 200 dollari per il casinò; cambio le fiches, una da cento e dieci da dieci, poi raggiungo il tavolo, lancio la fiche, convinto fosse quella da dieci, mentre era da cento. Grido “no”, ma rien ne va plus. È uscito il numero. A quel punto mi prende una vertigine e inizio a giocare, fino a quando arrivano alcune signorine che mi offrono un whisky che secondo me non era whisky, e non capisco più nulla, non reagisco. Per fortuna mi ha portato via il fratello di Moratti.

Quale vizio le è rimasto?

Le meringhe e le sigarette.

Comunque per la sua vita ci vuole il fisico…

Bestiale, un po’ come la canzone di Carboni. Che mi piace.

Chi è lei?

Non so rispondere. Mi appello al quinto emendamento.

(Canta Luca Carboni: “Ci vuole un fisico bestiale per resistere agli urti della vita…”).

 

Georgia, il Gop si vendica: più controlli sul voto dei neri

C’è lo zampino di Sidney Powell, avvocatessa delle cause elettorali perse, e di Marjorie Taylor Greene, neo-deputata ‘trumpiana’ cospirazionista, dietro la nuova legge dello Stato della Georgia che prevede restrizioni al diritto di voto e che di fatto può limitare l’accesso alle urne dei neri. Ma ci sono pure donne contro: Stacey Abrams, l’attivista democratica, e Park Cannon, la deputata statale arrestata per avere bussato alla porta del governatore Brian Kemp, perché non firmasse la legge. Powell venne allontanata dallo staff legale di Donald Trump quando la sua teoria del complotto, secondo cui l’ex leader venezuelano Hugo Chavez, morto nel 2013, sarebbe stato il grande vecchio dei presunti brogli di Usa 2020, finì per imbarazzare il magnate ancora presidente. Ora ha di nuovo trovato modo di farsi apprezzare da Trump. Per il presidente Joe Biden, la nuova legge è “uno spudorato attacco contro la Costituzione“: l’Amministrazione agirà contro di essa. Trump, invece, gongola: “Mai più elezioni farsa”, afferma. “I repubblicani – dice – hanno imparato la lezione delle Presidenziali del 2020”. In effetti, una soluzione, quando sei in minoranza, è impedire agli altri di votare. La Georgia è stata determinante nelle elezioni 2020: è stata vinta da Biden, dopo che i Repubblicani vi avevano sempre vinto nel XXI secolo, e ha dato ai Democratici il controllo del Senato, eleggendo due loro senatori nei ballottaggi del 5 gennaio. Il governatore Kemp e il suo staff resistettero alle pressioni di Trump per rovesciare l’esito del voto. Ma non si sono ora opposti alla nuova legge. Fra le norme ora introdotte, il divieto di dare cibo e acqua agli elettori in fila ai seggi, la limitazione delle cassette per il voto per posta e nuovi requisiti per l’identificazione ai seggi che rendono più facile escludere un cittadino dall’esercitare il diritto di voto.

Una decina di Stati repubblicani potrebbero seguire l’esempio della Georgia. Biden vede “un’ondata di leggi ripugnante e anti-americana”, di stampo razzista perché volta contro i neri: “È la Jim Crow del XXI secolo”, afferma, riferendosi alle leggi che tra il 1877 e il 1964 contribuirono a creare e mantenere la segregazione razziale in molti Stati.

“Putin ricorre a violenze e bugie. Per lui la Russia si difende così”

L’ultimo cyber-attacco russo è firmato ‘Ghostwriter’ e, secondo la stampa di Berlino, l’ha programmato il Gru, il servizio segreto militare di Mosca. Scrive il giornale Spiegel che l’infiltrazione ha colpito sette membri del Bundestag e 31 parlamentari della Cdu, l’Unione cristiano-democratica della cancelliera Angela Merkel. Oltre all’offensiva digitale, in parallelo, una campagna di disinformazione proveniente dagli stessi siti ha sommerso il Web di false informazioni contro la Nato. Tecniche che conosce bene il giornalista Simon Kuper, autore di The happy traitor (Il traditore felice, la straordinaria storia di George Blake), dedicata all’agente segreto britannico che dall’MI6 passò al Kgb, dopo essere diventato comunista durante la prigionia in Nord Corea. “A quei tempi – dice lo scrittore – lo spionaggio era fatto dalle persone ed era quello l’unico modo. Oggi vi sono ben altri mezzi per sapere cosa sta facendo il nemico”.

Certamente all’epoca di Blake non esistevano hacker o cyber-attacchi: l’ultimo lo ha subito la Germania, in particolare il partito di Angela Merkel, da parte dei russi. Come è cambiato il mondo dello spionaggio?

Ci sono hacker seduti dietro uno schermo che possono dirti cosa stanno facendo in questo momento al dipartimento del Tesoro americano o al Pentagono. Per sapere che linea seguono bisogna chiedersi: di quali informazioni ha veramente bisogno il Cremlino in questo momento?

Era più difficile infiltrarsi di persona o vendere segreti con i vecchi sistemi che colpire da una tastiera?

Oggi è molto più facile essere una spia russa che vive a Washington o New York, mentre negli anni 50 era molto complesso. All’epoca di Blake non si poteva raggiungere certo il presidente Usa: a noi invece basta pensare all’Amministrazione Trump, dove molti del suo entourage hanno avuto contatti con emissari russi. Fra quelle persone vi possono essere state agenti dei servizi. Se hai a che fare con Putin, hai a che fare anche con il suo apparato di sicurezza. Sarà stato così anche quando in Italia, Berlusconi e Putin avevano contatti stretti.

Lei si è immerso nel mondo delle spie per scrivere il suo libro, ha incontrato George Blake a Mosca nel 2012. Oggi c’è un altro vecchio agente del Kgb che governa la Federazione russa: il nuovo presidente Usa, Joe Biden, lo ha definito “killer”.

Blake e Putin hanno in comune una cosa: entrambi hanno fatto parte del Kgb. Blake era un idealista, credeva che il comunismo fosse il sistema perfetto, ma quando poi è arrivato in Urss nel 1967, si è accorto che quel sogno era un incubo terribile. Putin è all’opposto: è un cinico, un gangster capitalista che ricorre a violenza e bugie. Però, anche se Blake era un sognatore e Putin è un nazionalista, entrambi direbbero “ammazziamo per le giuste ragioni”. Per gli scopi più diversi, hanno causato la morte di decine di persone. Blake per il sogno, Putin per proteggere la Russia. Inoltre entrambi hanno sperimentato l’orrore della guerra: Blake con la Seconda mondiale e la guerra in Corea, Putin è figlio di sopravvissuti dell’assedio di Leningrado. Per entrambi la sopravvivenza – dell’ideale o del Paese –, dipende dall’uccidere, che non è bello ma loro risponderebbero che non è un lavoro per sentimentali.

Per cui sarà sempre la Russia contro l’Occidente?

La Russia non vuole una guerra con l’Ovest, ma non diventeremo amici. Ogni presidente russo si opporrebbe alla Nato arrivata sull’orlo dei confini.

Che rapporti avevano Putin e Blake?

Blake lo odiava, anche se Putin lo aveva comunque omaggiato con la medaglia dell’ordine di Lenin, ma di Putin non ha mai voluto parlare: da lui dipendeva la sua pensione.

Nuovo massacro: “Forze Armate, una festa con 104 morti”

La “Giornata delle Forze Armate” diventa occasione per l’ennesimo massacro, quasi che i generali birmani stiano facendo a gara per passare alla storia per le loro nefandezze. La giunta militare che ha firmato il colpo di Stato l’1 febbraio scorso arrestando la leader Suu Kyi e i suoi collaboratori aveva avvisato che i soldati avrebbero sparato “alla testa o alla schiena” quanti avessero osato tornare in strada a contestare; secondo il sito d’informazione Myanmar Now, in poche ore nel Paese sono state ammazzate 104 persone, fra cui una bambina di 13 anni. Era prevedibile che la giornata di ieri sarebbe stata drammatica, ma non a questi livelli; il 27 marzo la Birmania festeggia l’inizio della resistenza contro l’invasione giapponese. Una data che per i generali rappresentava la “76esima Giornata delle Forze Armate” e per i dissidenti invece era una nuova occasione per dire ‘no’ al colpo di Stato. Una parata sotto tono, fra i diplomatici stranieri sul palco c’era solo il vice ministro russo della Difesa, Alexander Fomin. Se non vi fosse stato questo bagno di sangue, le parole del generale Min Aung Hlayng (nella foto) sarebbero suonate solo fuori posto. Nel suo discorso l’ufficiale ha detto che i militari proteggeranno la democrazia; tutto sembra stia accadendo in Birmania, tranne questo. Le uccisioni sono avvenute indiscriminate in tutto il Paese, e la lista dei bambini caduti per la violenza dei soldati si allunga: ormai sono 20 i minorenni che hanno perso la vita secondo i numeri forniti dall’Associazione di assistenza per i prigionieri politici. La vittima più giovane è una bambina di sette anni, uccisa il 23 marzo a Mandalay. Anche l’Unicef è intervenuta per denunciare “un tragico fine settimana per i bambini”. Amnesty invece attacca la comunità internazionale e la sua incapacità di intervenire: “Il continuo rifiuto degli Stati membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di agire in modo significativo contro questo orrore senza fine è spregevole” ha detto Ming Yu Hah, vice direttore regionale, precisando che “l’uccisione di quasi 100 persone ieri in Birmania è solo l’ultimo esempio della determinazione delle autorità militari di eliminare la resistenza nazionale al colpo di Stato. Questi orribili omicidi mostrano ancora una volta lo sfacciato disprezzo dei generali per l’inadeguata pressione esercitata finora dalla comunità internazionale”.