Marocco, il “caso Monjib”. L’uomo che fa paura al Re

Maâti Monjib è uscito dalla prigione di Al-Arjat, nella periferia di Rabat, martedì scorso, dove era incarcerato dal dicembre 2020, molto dimagrito, dopo 20 giorni di sciopero della fame. “Le accuse contro di me sono state montate dalla polizia politica. Ora che sono in libertà provvisoria – ha detto – mi impegnerò per la liberazione degli altri detenuti”. L’intellettuale e giornalista, 60 anni, che ha anche la nazionalità francese, è uno dei maggiori esponenti della lotta per i diritti umani in Marocco. Nel 1999 era rientrato a Rabat dopo un lungo esilio all’estero, durante il quale aveva insegnato negli atenei d’Europa e Stati Uniti, con l’arrivo al potere del figlio di Hassan II.

Come tanti aveva creduto alle promesse di democrazia del giovane re Mohamed VI, non mantenute: i marocchini stanno ancora aspettando la loro “primavera”. Monjib è diventato subito uno dei bersagli del regime per il suo impegno alla testa dell’associazione Freedom Now e per i suoi testi di denuncia sugli abusi di potere e sull’assenza di democrazia pubblicati sul magazine online Zamane o sulle pagine di Alquds Alarab, a Londra. Monjib è stato arrestato in un ristorante di Rabat il 29 dicembre con un pretesto: “riciclaggio di denaro”. Il 27 gennaio, senza neanche potersi difendere in aula, è stato condannato a un anno di reclusione per “frode” e “attentato alla sicurezza dello Stato” nell’ambito di un processo senza prove iniziato nel 2015, ma rinviato più di venti volte. Il procedimento riguarda la gestione dei fondi della scuola di giornalismo da lui fondata, il Centro Ibn Rochd, e la sua Associazione marocchina per il giornalismo investigativo, che hanno formato centinaia di giovani reporter, tra l’altro all’uso di applicazioni come Story Maker. Considerate scomode dal regime, sono state chiuse nel 2015. L’udienza in appello si terrà il 6 aprile. Il 4 marzo, smettendo di mangiare, Monjib ha scritto: “I miei articoli critici verso il sistema politico e le mie attività in favore dei diritti umani: ecco perché le autorità mi perseguitano”. L’11, i suoi legali francesi hanno sporto denuncia a Parigi per “attentato alla libertà individuale e alla vita altrui” rinviando ai trattati internazionali “calpestati dalla giustizia marocchina”. Il 22, i militanti di Reporters Sans Frontières si sono radunati davanti all’ambasciata del Marocco a Parigi per chiedere la liberazione del dissidente dalla salute fragile. Tra loro anche la moglie di Monjib, Christian Darde, anche lei attivista, che su Twitter si è rivolta a Macron perché mettesse fine al suo “incomprensibile silenzio”: “La salute di mio marito è in gioco. Intervenite”.

Parigi ha finito col proporre a Monjib la “protezione consolare”. Il 26, finalmente, il giornalista è stato rimesso in libertà, ma non per questo è al sicuro: “Tutte le accuse contro di lui e contro gli altri giornalisti accusati a torto devono essere abbandonate al più presto, prima che altre vite siano messe in pericolo”, ha dichiarato Christophe Deloire, segretario generale di RSF. Altri cinque giornalisti sono in prigione. A settembre, il giornale online Mediapart aveva potuto sentire Monjib sul caso di Omar Radi, un collega in detenzione provvisoria da giugno con accuse di stupro. Monjib aveva denunciato l’“atmosfera irrespirabile” che regna in Marocco dove “è la polizia politica a governare”. Aveva detto di sentirsi sempre “pedinato”, anche all’estero: ”Mi rendono la vita un inferno. Sono stato minacciato più volte per strada. Mi hanno fatto capire che dovevo chiudere il becco. Anche casa mia è sotto sorveglianza”. Nella classifica mondiale della libertà di stampa compilata ogni anno da RSF, il Marocco è al 133° posto su 180 paesi. Tanti intellettuali preferiscono andare in esilio. “Il Marocco – ha scritto Human Rigth Watch nel suo rapporto 2020 – ha intensificato la repressione contro chi interviene sui social e contro gli artisti e giornalisti che esprimono opinioni critiche nei confronti della monarchia. In questi ultimi anni – si legge – il Marocco ha arrestato e imprigionato attivisti e giornalisti per motivi molto dubbi”. La Ong denuncia il ricorso abusivo al codice penale per sanzionare i dissidenti. Ogni tipo di accusa, tra cui stupro o frode, è usata pur di imbavagliare le opposizioni. Raduni e manifestazioni sono vietate e ancora di più da un anno a questa parte, per via della pandemia.

Aspi, Cdp invia la nuova offerta: Atlantia alla fine dovrebbe dire sì

Ieri il cda di Cassa depositi e prestiti ha licenziato in tarda serata l’ultima versione dell’offerta per rilevare, insieme ai fondi Blackstone e Macquarie, l’88% di Autostrade per l’Italia in mano ad Atlantia e chiudere così lo scontro aperto dopo il disastro del ponte Morandi.

Breve riassunto. Il 10 marzo il cda della holding che controlla Aspi e a sua volta è controllata al 30% dai Benetton, aveva bocciato l’offerta di Cdp e soci chiedendo “miglioramenti sostanziali”. L’offerta fissava un valore per Aspi di 9,1 miliardi al lordo di una serie di manleve legali pari a 1,5 miliardi: 800 milioni per una vecchia vicenda relativa ad Aeroporti di Roma (assai poco probabile l’escussione) e 700 per il Morandi (assai più a rischio). I Benetton hanno deciso di accettare l’offerta, ma devono superare l’ostilità dei grandi hedge fund azionisti, come l’inglese Tci (10%), che per Aspi chiedono 11-12 miliardi. Finora il cda ha respinto le offerte e avviato un piano per scindere Aspi e cederla sul mercato.

Mentre andiamo in stampa, il consiglio di Cdp è ancora in corso ma i contorni sono chiari. L’offerta sale di prezzo grazie a un maquillage in cui vengono conteggiati anche i nuovi ristori Covid per i cali di traffico, calcolati nel 2021 in 400 milioni. Sulle manleve legali viene chiarito che gli 800 milioni per Adr non ci sono, mentre quelli per il Morandi calano da 700 a 500 milioni. Insomma, lo sconto vero pare essere di 200 milioni, ma basta per parlare di miglioramento.

Ora la palla passa ad Atlantia. Lunedì toccherà all’assemblea straordinaria dei soci che deve decidere se prorogare la scadenza del piano di scissione. Serve l’ok dei due terzi del capitale: Edizione, la cassaforte dei Benetton, e Fondazione Crt di Torino hanno il 35% e sono contrarie, questo basta a bloccare tutto. Con loro dovrebbe schierarsi anche il fondo sovrano di Singapore (8,3%). Giovedì, poi, dovrebbe riunirsi il Cda, che dovrebbe rimettersi a un’assemblea da convocare ai primi di maggio: se basterà, come pare, la maggioranza semplice, Benetton e soci vinceranno la partita, chiudendo un braccio di ferro durato 3 anni.

Approvato il “tampone di Bezos”

La capacità di Amazon di cadere in piedi sempre è infinita: oltre a essere una delle poche attività che dalla pandemia ha tratto il maggior profitto possibile, ora ha deciso di espandere il proprio “potere” anche nel campo dei test sul Covid e in generale del comparto sanitario. Nelle scorse ore, il gigante dell’e-commerce ha infatti ricevuto il via libera della Food and Drugs Administration (Fda) statunitense per l’utilizzo e la diffusione di un suo test per il Covid-19 fatto in casa (e da poter utilizzare a casa). Nei mesi scorsi, infatti, è emerso che ci sono stati almeno 20mila casi di positività tra i suoi dipendenti.

A realizzarlo, in realtà, è un’azienda sussidiaria di Amazon e l’ok dell’Fda è il preludio anche al suo utilizzo su larga scala, dopo centinaia di campioni di prova già fatti dall’azienda e altri che continuerà a fare (la forza lavoro globale è pari 1,2 milioni di unità). Per ora, però, Amazon sembra essere intenzionata a utilizzarlo solo nei suoi stabilimenti. Il tampone potrà essere effettuato dai dipendenti sia sotto la supervisione di personale medico sia a casa, mentre delle analisi si occuperanno i laboratori di STS Lab Holdco, un’azienda sussidiaria del gruppo. Il kit fai-da-te prevede infatti un involucro protetto da inviare ai laboratori, che restituiranno i risultati dei test online non appena le analisi saranno pronte. Un approccio che dovrebbe così garantire ai dipendenti controlli a tappeto e periodici che, si specifica, saranno su base volontaria.

Certo non si tratta del primo caso negli Usa. Come racconta The Verge, che ha diffuso la notizia, su Amazon è già in vendita questo tipo di tamponi (con annesse analisi). Quelli della casa farmaceutica californiana DxTerity costano circa 100 dollari l’uno. Ad Amazon conviene che, se anche i soldi debbano girare, lo facciano tra le sue mura.

La lettera di autorizzazione della Fda è stata indirizzata a Cem Sibay, il vicepresidente di Amazon Labs. La scorsa estate, aveva rivelato Business Insider, Amazon aveva contattato Sibay per costruire il suo laboratorio di test Covid-19 interno e a ottobre aveva dichiarato di avere l’infrastruttura per eseguire ogni giorno decine di migliaia di test per i dipendenti.

Al momento l’azienda non sembra essere intenzionata a mettere in vendita i suoi test, anche se gli osservatori più attenti hanno percepito il crescente interesse nel campo medico e ipotizzato che questa mossa rappresenti una sorta di test di massa sui dipendenti come presupposto di una diffusione commerciale e su larga scala (per ora, la controllata può processare circa 50mila unità al giorno). Nel 2018, ricordano in molti oggi, l’azienda di Bezos aveva mostrato interesse per una start up di diagnostica medica. Che stia tornando d’attualità un vecchio pallino?

Il Grande fratello Amazon: ora tocca ai dati biometrici

Mentre in Italia nei giorni scorsi è andato in scena il primo sciopero nazionale contro Amazon, negli Usa il colosso hi-tech sta obbligando 75mila fattorini di 800 aziende appaltatrici che guidano i furgoni per le sue consegne a firmare un modulo di “consenso biometrico”. L’alternativa è il licenziamento. Il documento – rivelato da Vice – concede all’impresa il permesso di installare e usare sui suoi furgoni telecamere gestite da intelligenza artificiale per accedere al riconoscimento facciale, alla posizione, ai movimenti e ai dati biometrici dei conducenti. È solo l’ultima applicazione dell’intelligenza artificiale applicata alle telecamere utilizzata da Amazon, che già impiega queste tecnologie per controllare i lavoratori nei suoi magazzini e i clienti nei suoi negozi Amazon Go.

A febbraio Amazon aveva annunciato l’intenzione di installare le telecamere prodotte da Netradyne in tutti i furgoni. Le telecamere, sempre in funzione, hanno quattro obiettivi che inquadrano la strada, il conducente e i lati del veicolo e segnalano le infrazioni alla sicurezza, tra cui la mancata fermata allo stop, l’eccesso di velocità, le distrazioni alla guida, se un guidatore sbadiglia o non indossa la cintura di sicurezza. Secondo una portavoce di Amazon “la tecnologia è stata sperimentata da aprile a ottobre 2020 su oltre due milioni di miglia con notevoli miglioramenti per la sicurezza: gli incidenti sono diminuiti del 48%, le violazioni degli stop del 20%, la guida senza cintura del 60% e quella distratta del 45%”. A febbraio, cinque senatori hanno scritto all’azienda esprimendo preoccupazioni sulla privacy: “Sebbene Amazon intenda usare le telecamere per migliorare la sicurezza, questa sorveglianza potrebbe creare pressioni significative sui conducenti”. Amazon gli chiede loro di usare un’app per smartphone chiamata Mentor che monitora il loro comportamento di guida. Secondo alcuni conducenti l’app è invasiva e i bug potrebbero portare ad azioni disciplinari ingiuste.

Amazon utilizza già telecamere dotate di intelligenza artificiale nei suoi magazzini Usa per registrare violazioni del distanziamento dei lavoratori. Ma l’intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale e biometrico è usata dal gigante hi-tech negli Usa e nel Regno Unito anche nella sua catena di trenta minimarket Amazon Go e negozi alimentari Amazon Fresh che diverranno presto oltre 2mila nel mondo. In questi punti vendita il cliente, scaricata un’app, viene registrato da telecamere e sensori mentre si muove, prende gli oggetti e li ripone in una borsa. All’uscita non c’è cassiere: una volta fuori, gli acquisti vengono fatturati sulla carta di credito.

La questione è che oggi monitorare il lavoro significa sempre più controllare i lavoratori a casa loro. I controlli a distanza crescono grazie al boom del telelavoro causato dalla pandemia. Nel Regno Unito Teleperformance, una delle maggiori società di call center mondiali che impiega 380mila persone in 34 Paesi, sta diffondendo webcam dotate di intelligenza artificiale per monitorare il personale a domicilio e registrare eventuali pause o “infrazioni”. Le telecamere saranno configurate con il riconoscimento facciale per rilevare se qualcun altro è alla scrivania.

Il monitoraggio dei dipendenti è legale negli Stati Uniti grazie all’Electronic Communications Privacy Act del 1986. Negli Usa ora il 42% dei lavoratori lavora da casa, a fronte del 39,6% nella Ue e del 50% in Italia. Secondo un’indagine del 2019 su 239 grandi aziende, oltre il 50% usava già tecnologie di monitoraggio a distanza e molte altre si preparano a farlo. In Italia il controllo con telecamere è vietato dallo Statuto dei lavoratori, ma il Jobs Act di Renzi ha introdotto deroghe.

Il tennis, gli scacchi, il gelato di Charlot: che botta di battute!

Ogni atto non pertinente al contesto, se lo percepiamo come uno scherzo, provoca in noi una reazione divertita. La settimana scorsa, nel suo torneo di scacchi, Magnus Carlsen ha affrontato un altro Gran Maestro, Hikaru Nakamura. Carlsen, col Bianco, fa la prima mossa: 1 e4. Nakamura risponde con la mossa simmetrica 1… e5. A questo punto, mentre Nakamura attende concentratissimo la seconda mossa del Bianco, Carlsen, serio, muove il Re: 2 Ke2. E Nakamura scoppia a ridere. Quell’apertura, infatti, è considerata un errore da principiante, poiché contraria a ogni principio strategico degli scacchi (non controlla il centro, mette il Re in pericolo, blocca le diagonali all’alfiere e alla Regina, fa perdere al Re la possibilità di arroccare, e sciupa una mossa), al punto che è chiamata bongcloud, cioè talmente assurda che potrebbe farla solo chi ha la testa fra le nuvole perché ha fumato cannabis da un bong: non è una mossa da torneo fra Gran Maestri. L’altro motivo della risata di Nakamura, oltre al sacrilegio improvviso contro la seriosità di un torneo di scacchi, le cui partite sono sempre cariche di tensione, è che, nel fare quella mossa, Carlsen ha citato Nakamura, noto nell’ambiente per aver vinto partite lampo usando quell’apertura. L’analogia con la gag di un comico (atto scherzoso non pertinente al contesto = risata) è confermata dalla reazione del Gran Maestro Wesley So, battuto da Carlsen in ottobre con un’altra apertura bongcloud (1 f3 2 Kf2): “È umiliante perdere con uno che apre così e ti straccia. Psicologicamente è dura”. È ciò che accade a chi è bersaglio di una gag. Freud (1905) distingueva nelle gag linguistiche quelle innocenti da quelle tendenziose; e, in queste, le gag oscene dalle ostili: la gag ostile vuole fare male, è una botta, appunto una “battuta”. Questo vale anche per le gag ostili non verbali. Commentando una gag in cui Charlot fa cadere una cucchiaiata di gelato da una veranda sulla schiena nuda di una matrona in abito di gala e filo di perle, Chaplin dice che se il gelato avesse colpito una modesta massaia, le risate sarebbero state minori, perché “se il gelato cade sul collo d’una riccona, il pubblico pensa: ‘Ben le sta!’” (Robinson, 1995). La risata di Nakamura conferma che la gag bongcloud è stata percepita come uno scherzo fra amici. Wesley Ho, umiliato dalla gag bongcloud, è il terzo della relazione triadica (un comico, un pubblico, un bersaglio) che fonda la logica di ogni gag (Freud, 1905). Questa relazione, e i suoi elementi, a loro volta sono in relazione con un contesto. Un discorso, infatti, è determinato dalle pratiche di una comunità umana (usanze, convenzioni, regole, metodi). Le norme del discorso sono anonime, e repressive: definiscono le sue condizioni di esercizio in una sociocultura (Foucault, 1969). La comicità svolge un ruolo indispensabile nello strutturare i rapporti interpersonali, e procura, nel comico e nel suo pubblico, un senso giocoso di liberazione dalle costrizioni (interne edesterne) che condizionano la vita in una comunità umana, e dal dolore sempre in agguato; l’euforia che ne consegue è come suggellata dalla risata.

Una gag, per funzionare, deve essere l’espressione più breve possibile, in modo che l’attenzione del pubblico non venga distratta nel frattempo; deve essere facilmente intellegibile; e deve calamitare con uno stile fatto di suspense, quello del capro espiatorio pericoloso. “Il genio dei grandi comici è che non sai mai cosa stanno per dire o per fare. Lenny Bruce, Richard Pryor, Bill Hicks, Joan Rivers: tutti emanavano un’energia irrequieta che li rendeva magnetici, mercuriali, quasi minacciosi sul palco” (Hennigan, 2020). Per tutti questi motivi, la mossa di Carlsen (2 Ke2) è una gag perfetta.

Una gag equivalente ebbe a che fare con la mossa di apertura di un altro sport, il tennis: ai French Open del 1989, Michael Chang a sorpresa servì da sotto, come un principiante, contro il numero uno del mondo, Ivan Lendl, aggiudicandosi il punto (shorturl.at/zJOV9). Di recente, Chang ha detto: “Chiaramente lo sorpresi. Ma credo di averlo anche un po’ scosso perché, dopo quel punto, fu non solo una battaglia fisica, ma pure mentale.” Lendl subì la battuta, e le risate del pubblico; Chang, che aveva perso i primi due set per 6-4, conquistò i successivi con un triplo 6-3, approdando ai quarti di finale. (Giorni dopo, vinse il trofeo). Significativo un commento dell’agenzia Agi sull’exploit di Chang: “Il servizio da sotto, nel tennis, suona come la famosa pernacchia di Totò: è fuori luogo, sbagliato, provocatorio, offensivo”. La pernacchia fa ridere, ma se viene usata per irridere, come quando batte da sotto Nick Kyrgios, un tennista il cui servizio da sopra raggiunge i 200 km/h, il pubblico disapprova e fa buu, come accade quando un comico fa una battuta contro i deboli. (Una delle tante regole non scritte della comicità: never punch down, mai colpire verso il basso; quando un comico lo fa, partecipa della stessa ideologia che mandava ai forni chi, con disprezzo, definiva ritardati, mongoloidi, froci, negri zingari, ebrei. Ride solo chi è razzista come lui.). (Sì, c’erano anche dei neri nei campi nazisti. Cfr. Bilè, 2005).

Rinfrancato dalla riuscita della sua prima gag contro Lendl, il diciassettenne Chang conquistò le simpatie del pubblico francese con altre due gag: si mise a fare un pallonetto dietro l’altro (shorturl.at/dsDX7: sentite le risate al secondo lob, appena il pubblico capisce la gag), e nel punto decisivo si posizionò in mezzo al campo per rispondere alla battuta dell’avversario potente e famoso, che, deconcentrato, colpì la rete e perse il match (shorturl.at/zJOV9). Davide contro Golia, Charlot che beffa il poliziotto. Potenza dell’immaginario, di cui esploreremo le strutture in una delle prossime puntate.

(49. Continua)

Uccide la moglie, la prescrizione lascia figlie senza risarcimento

Nessun risarcimento e una querela bloccata tra i faldoni del Tribunale di Palermo. È la triste storia che accompagna l’omicidio di Lisa Siciliano, uccisa a Palermo 9 anni fa dal marito carabiniere Rinaldo D’Alba che poi si è tolto la vita. Una tragedia che forse poteva essere evitata se qualcuno avesse ascoltato gli appelli della 37 enne. Chi doveva ascoltarla, e non l’ha fatto, è proprio quell’Arma dei carabinieri, colpevole, a dire della famiglia, di essere rimasta inerme di fronte alle richieste d’aiuto.

Lisa aveva segnalato invano, più volte, i maltrattamenti e le percosse del marito ai suoi superiori. Per questo i familiari – Michele Meli, il cognato della donna che ha adottato le due figlie della coppia – hanno denunciato per le presunte omissioni i ministeri della Difesa e della Giustizia, e alla presidenza del Consiglio dei ministri. Un’azione che è stata respinta perché, argomenta il giudice, è “decorso del termine di 5 anni dalla data dell’omicidio”. Tutto prescritto. “La denuncia era stata presentata entro i termini – sostiene Meli – ma non è stata evasa dal tribunale ed è rimasta imbalsamata per 6 anni negli scaffali. Lisa aveva avvisato i suoi superiori e tutti sapevano”. Al centro della vicenda c’è un audio di 23 minuti indirizzato al giudice per il divorzio, mai preso in considerazione nel processo: “Mi ha preso a pugni davanti alle bambine – diceva Lisa – mi ha preso a calci”.

Per la famiglia, che ha sperato invano di avere risposte dalla giustizia, il silenzio domina la vicenda ancora oggi. E la ferita provocata da questi fatti, non si è mai rimarginata: “Emettere una sentenza con questa superficialità è offensivo nei confronti di due ragazze che soffrono la mancanza della madre e di chi ha perso una figlia e una sorella. Non si è voluto accertare la verità”.

Lavoro minorile, la piaga “resiste” al Covid E in Italia 502 casi di bambini sfruttati

Quando l’Onu proclamò il 2021 Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, il mondo non era ancora stato investito dalla pandemia. Era il 2019 e dai rapporti congiunti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) e dell’Unicef emergevano segnali di ottimismo: grazie a 20 anni di lavoro, 94 milioni di bambini erano stati liberati dallo sfruttamento e il lavoro minorile registrava un calo del 38%. A due anni di distanza, il Covid ha rimescolato le carte, determinando uno scivolamento delle condizioni di vita delle famiglie più fragili e riducendo drasticamente i fondi destinati alle iniziative per l’infanzia. Proprio in queste settimane si stanno moltiplicando gli allarmi di esperti, operatori sanitari, educatori, sulle cicatrici, fisiche e psicologiche, con cui la pandemia sta infierendo sui minori. L’anno scorso sono aumentati i bambini affamati, isolati, maltrattati. L’istruzione di centinaia di milioni di loro è stata interrotta: si parla di un miliardo in 130 Paesi del mondo. Da quasi un anno le scuole sono chiuse per oltre 168 milioni di scolari e circa un terzo di loro resterà lontano da ogni forma di apprendimento, anche da remoto. L’accesso ai servizi di protezione sanitaria, comprese le vaccinazioni di routine, è stato compromesso: 94 milioni di piccoli rischiano di perdere quelle contro il morbillo. Dallo scorso novembre si contano 140 milioni di bambini poveri in più, e in 59 paesi migliaia di piccoli rifugiati e richiedenti asilo non sono accedono più alla protezione sociale correlata al Covid-19, a seguito della chiusura delle frontiere e della crescente xenofobia. Prima della fine del decennio potrebbero verificarsi dieci milioni di matrimoni infantili in più. Non solo, secondo il report Covid-19 and child labour: A time of crisis, a time to act, milioni di bambini rischiano di essere spinti al lavoro a causa della crisi innescata dalla pandemia. Nel nostro paese, pur essendo il lavoro minorile vietato dal 1967, l’ultima ricerca nazionale – curata dall’Associazione B. Trentin della Cgil e da Save the Children e risalente, purtroppo, al 2013 – stima in circa 340.000 i minori di 16 anni con alle spalle esperienze di lavoro, di cui il 7% di nazionalità straniera. L’Ispettorato Nazionale nel 2019 ha accertato 502 illeciti, di cui 243 hanno riguardato la tutela fanciulli e adolescenti: non si tratta di bambini schiavi, ma di piccoli caduti in una zona grigia di abusi, maltrattamenti e sudditanza. Lo sfruttamento minorile non è associato solo ad alcune aree sottosviluppate e/o in via di sviluppo, e non rappresenta la conseguenza inevitabile della povertà: è una piaga diffusa in ogni parte del mondo e migliaia di piccole vittime vivono accanto a noi in condizione di soggezione, abbandono, precarietà. E a tutti loro è negata l’infanzia.

Chiusa Roccasecca il Lazio rischia emergenza rifiuti

L’inchiesta che ha portato all’arresto del “re” delle discariche del Lazio Valter Lozza e della dirigente regionale delle politiche ambientali Flaminia Tosini rischia di innescare una crisi di tutto il sistema di smaltimento nella Regione. Due giorni fa infatti il Comune di Roccasecca ha presentato un’istanza di chiusura per la discarica del luogo, anch’essa gestita da Lozza, titolare della Mad. In questo sito, nella zona di Frosinone, l’imprenditore aveva ottenuto infatti un permesso di innalzamento dalla stessa dirigente finita agli arresti per corruzione. L’inchiesta riguarda i favori ottenuti per sbloccare le autorizzazioni per scaricare spazzatura a Monte Carnevale, progetto avversato dal sindaco Virginia Raggi, e che sarebbe dovuta diventare la nuova discarica di Roma. Ma il domino dell’indagine rischia di innescare presto una nuova emergenza rifiuti. Dal primo aprile la discarica di Roccasecca chiuderà i cancelli per esaurimento degli spazi. L’effetto immediato ricadrebbe sullo smaltimento delle 850 tonnellate giornaliere di immondizia prodotte nella Capitale, a pochi giorni prima dalla Pasqua. La Mad giovedì ha inviato una lettera alla Regione Lazio e a tutte le aziende che conferiscono i rifiuti trattati nell’impianto di smaltimento ciociaro, comunicando di avere a disposizione ancora cinque giorni lavorativi prima dell’esaurimento della capacità residua degli impianti. Insomma, la discarica sarà in funzione fino a mercoledì, poi chi la utilizzava dovrà provvedere in altro modo. Un annuncio che, a cascata, altre aziende di trattamento rifiuti che si avvalevano a loro volta di Roccasecca. La palla adesso passa nelle mani della Regione Lazio, di Roma Capitale, delle prefetture di Roma e Frosinone e forse anche del Governo. Questa potrebbe essere l’occasione per risolvere (in maniera piu’ radicale) la vicenda della discarica di Roma (e non solo di quella), che si è bloccata dopo il fascicolo aperto dalla Procura di Roma.

Inchiesta Ong, le telefonate di Casarini: “Coi soldi danesi beviamo champagne”

“Domani a quest’ora potremmo essere con lo champagne in mano a festeggiare perché arriva la risposta dei danesi”. Le parole che l’attivista Luca Casalini pronuncia ad Alessandro Merz, armatore della Mare Jonio, entrambi indagati (insieme al capo missione Beppe Caccia e al comandante Pietro Marrone) per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dalla Procura di Ragusa. Le intercettazioni, pubblicate da Il Giornale, mostrerebbero l’accordo tra la mercantile danese Maersk Etienne e la Idra Social Shipping, armatrice della Mare Jonio della Ong Mediterranea Saving Humans (non indagata). Per i pm, i 27 migranti trasportati dai danesi sarebbero passati alla ong in cambio di 125 mila euro. Casarini riferisce che coi soldi dai danesi, avrebbero “svoltato” e pagato “stipendi e debiti”. “Abbiamo fatto il botto”, dice in un’altra telefonata. Per gli inquirenti, la Mare Jonio era diffidata a compiere azioni di salvataggio, ma navigò verso Lampedusa per “consegnare 80 litri di benzina”. Al largo avrebbe imbarcato i migranti.

Uno e centomilamorti solitari

La pandemia ce lo ha insegnato. Quando muori intubato, circondato da un groviglio di fili, continui a respirare anche da morto, perché le macchine lo fanno per te. Il tuo respiro ha smesso di appartenerti e tu non sei più padrone del tuo corpo: “Quando il paziente si trova in rianimazione, sedato, ventilato e monitorizzato, sembra più una centrale idroelettrica che una persona umana. È connesso con tubi e cannette in cui passano aria, acqua, farmaci e corrente che traduce gli impulsi corporei in numeri e onde visibili sugli schermi”.

Nudi e indifesi, quei corpi non sono più responsabili di nulla, neppure del loro respiro. Questa testimonianza di Marta Foggini, un’anestesista che racconta la sua personale lotta contro le devastazioni provocate dal Covid-19, è una delle tante (una trentina) raccolte in un libro ( Il senso del respiro, a cura di Luciano Minerva e Ilaria Drago, Castelvecchi, 2021) assolutamente da leggere. È come se il virus ci abbia sbattuto in faccia una realtà che abbiamo sempre vissuto nella totale inconsapevolezza. Ogni giorno respiriamo più di 20 mila volte, 15-30 volte ogni minuto e il nostro cuore fa registrare più di 100 mila battiti. Automatismi, niente di più. E invece, ora che la malattia uccide bloccandoti il respiro, quelle operazioni non hanno più niente di automatico e siamo obbligati a viverle in modo diverso. È quanto, nel libro, invitano a fare quelli che hanno una lunga pratica di frequentazione virtuosa del respiro. Tra tutti: un apneista (Davide Carrera), che nelle profondità marine, “un luogo dove tutto rallenta”, accarezza “un po’ di eternità”; un jazzista (Paolo Fresu), che racconta di un concerto a New Delhi, nel 1984, in cui un flautista tenne per mezz’ora la stessa nota, aiutandosi con la respirazione circolare; un sub con le bombole (Bruno Rizzato), “sott’acqua il respiro si vede” con le bolle d’aria; una scrittrice (Sabrina Giarratana), “il respiro è la via attraverso cui il mondo entra a far parte di noi e noi entriamo a far parte del mondo”.

Chi dice che dalla pandemia usciremo migliori, azzarda una profezia; chi si augura che ne usciamo più consapevoli, esprime una speranza. Questo percorso si riferisce al respiro ma anche alla solitudine, un’altra delle caratteristiche della morte per Covid sulla quale ha richiamato l’attenzione recentemente lo storico Aurelio Musi (Storia della solitudine, da Aristotele ai social network, Neri Pozza, 2021). Musi racconta di una “fisiologia” e di una “patologia” della solitudine. Rispetto alla sua “coralità” nel passato, la morte in età contemporanea sembrava fisiologicamente destinata a essere rimossa dallo spazio pubblico, confinata nell’ambito domestico e, anche lì, a proporsi come “solitaria e finale”. In questo senso, mi sento di dire che quando la pandemia ci ha costretti alla solitudine, ne abbiamo avvertita tutta la “patologia”: l’impossibilità di un ultimo sguardo tra quelli che se ne vanno e quelli che restano è stata un’esperienza drammatica che, nel lutto, ha aggiunto dolore a dolore. I centomila morti di quest’anno ci hanno lasciati spegnendosi in solitudine e andandosene in solitudine, senza funerali, senza un saluto. Non era stata questa la loro vita. La stragrande maggioranza apparteneva a una generazione che ha vissuto in gruppo, si è divertita in gruppo, ha fatto scelte di gruppo, una generazione che si era riconosciuta fino in fondo in un noi di appartenenza e di identità collettiva. Una generazione di uomini e donne il cui ricordo è oggi anche un impegno a risarcirle e ad amarle.

Il ricordo e la memoria si affiancano così al respiro e alla solitudine, e sono le coordinate che segnano il perimetro in cui si colloca questa angosciante “morte di massa”. Nella solitudine finale ti restano i ricordi e quei ricordi ti costringono a un bilancio conclusivo, in cui a ognuno di essi si accompagna un segno + o un segno -, in un giudizio estremo e definitivo. Come il respiro e la solitudine, anche la memoria ci sollecita oggi a iniziare un percorso verso la consapevolezza: se come individui ci spinge ad anticipare i bilanci della nostra vita senza aspettarne gli esiti finali, nella sua dimensione collettiva impone alle istituzioni il dovere di risarcire i centomila morti della pandemia, anche restituendo ai loro addii la dignità smarrita in quei funerali con i camion pieni di bare.

Tutte le cerimonie che hanno accompagnato la giornata del 18 marzo dedicata alle vittime del virus si sono svolte all’insegna del “risarcimento”. Ma senza alcuna traccia di questa consapevolezza, lasciando piuttosto affiorare una ritualità stanca e ripetitiva. Piantare alberi ha riproposto i “parchi della rimembranza” del secolo scorso, quelli dedicati ai caduti della Prima guerra mondiale, un’esperienza legata a valori incapaci di intercettare e lenire le angosce del nostro presente. A Bergamo, la tromba di Paolo Fresu, per quanto sia bravissimo e abbia improvvisato, ha ripetuto lo schema del “silenzio fuori ordinanza” a cui siamo abituati da sempre. Così come gli interventi di Draghi (come prima di Mattarella) dialogavano più con gli interessi (l’impegno a vaccinare tutti, il risanamento da avviare nei ghetti delle Rsa, la determinazione nel varare i ristori) che con il dolore e con i ricordi. Erano tutti annunci doverosi, certamente. Ma l’esigenza del “risarcimento” nasce soprattutto dallo squallore di quegli addii solitari, dalla sensazione raggelante di essere stati privati di quell’ultimo spazio in cui “i vivi prendono congedo da chi se ne va”. Il Covid ci ha reso dolorosamente consapevoli della necessità di un rito del commiato, lasciando affiorare un nuovo bisogno collettivo che chiede alle istituzioni l’impegno a ripristinare i legami comunitari lacerati dalla solitudine di quelle morti. Respiro, solitudine, memoria: tre parole, tre concetti per ripartire.