Il Merlo beccato: per dire “burino” a Conte inciampa su Teodosio & C.

Un editoriale di Marco Travaglio (27 marzo) ci ricorda ancora una volta, citando una serie di ìnaudite denigrazioni di Conte, con che stampa abbiamo a che fare: ed è inutile ricordare a quelle “firme” eccellenti che Conte vola nei sondaggi, perché è proprio questo che scatena il loro rozzo livore. Rozzo? Rileggiamo Francesco Merlo su Repubblica

: Conte è “come Teodosio che davvero credette di poter fare l’imperatore di Roma pur essendo un ispanico, un provinciale, un burino”. In realtà, è Merlo che crede di poter fare il giornalista pur essendo, apparentemente, un non-scolarizzato. Se avesse frequentato una qualsiasi scuola, avrebbe dovuto vedere sulle pareti della sua aula (un tempo c’era sempre) una carta dell’Impero Romano al massimo della sua espansione, cioè all’età di Traiano (98-117 d.C.): quello che il Senato definì “optimus princeps

” era anche lui nato in Spagna, ben prima di Teodosio. Dunque anche Traiano era un burino? E lo era anche il successore Adriano (117-138 d.C.), colui che riorganizzò quell’immenso territorio? Ma torniamo a Teodosio, imperatore fra 379 e 395. Era il difficilissimo periodo dell’impero tardoantico, ma riuscì a padroneggiare gli eventi: è noto come “Teodosio il Grande” (se lo annoti, Merlo). Nel 380 pubblicò un editto che obbligava i sudditi a vivere nel Cristianesimo. Non mancò (come molti, purtroppo) di macchiarsi le mani di sangue, ma era uno che volava alto: memorabili i suoi rapporti con Sant’Ambrogio, con cui condivise la lotta all’eresia ariana, ma con cui ebbe anche momenti di fortissima tensione. Praticò un’illuminata politica di buoni rapporti con i Barbari, accogliendoli all’interno dell’Impero e arruolandone molti nell’esercito. Poi potremmo aggiunger grossi interventi architettonici e urbanistici a Costantinopoli. Merlo, un consiglio non richiesto da parte di un attempato professore: smettetela, Lei e i Suoi colleghi, di sparare la prima cosa che vi passa per la testa, guidati da un solo criterio: più è odiosamente insultante, meglio è. Oltretutto non serve a nulla (si riguardi, appunto, i sondaggi). Buon lavoro.

Siccità dalla Sicilia al Po, sott’acqua dal Perù all’Australia

In Italia – L’irruzione fredda dell’Equinozio di primavera – intensa ma non straordinaria – ha rilasciato copiose nevicate sull’Appennino meridionale (oltre 20 cm domenica scorsa a Potenza, simile all’evento del 2018 nello stesso periodo), ripetutesi fino a mercoledì anche a quote di 300 metri su Gargano e Murge. Più inconsuete le gelide temperature minime al Nord, localmente le più basse in un trentennio nella terza decade di marzo (-6,5 °C presso Verona), con danni ai frutteti fioriti. Tanta pioggia in Sicilia, ma la punta meridionale dell’isola, che più avrebbe avuto bisogno di acqua, anche stavolta è rimasta quasi a secco. Pure al Settentrione la siccità avanza: l’Autorità di Bacino del Po segnala che la portata del fiume a Pontelagoscuro (Ferrara) è scesa sotto i 1.000 metri cubi al secondo e i deflussi di marzo sono 24% sotto norma, tuttavia la fusione della neve sulle Alpi dovrebbe in parte bilanciare la carenza di precipitazioni. Nella seconda metà della settimana l’alta pressione si è consolidata con cieli soleggiati e temperature fino a 20-22 °C al Nord e in Sardegna.

Nel mondo – Nei periodi “La Niña” come l’attuale, il Pacifico orientale è freddo, troppo caldo invece il settore occidentale, dal quale l’evaporazione si intensifica alimentando piogge colossali nel Sud-Est australiano, alle prese negli ultimi giorni con le peggiori alluvioni da un sessantennio. A Bellwood, tra Sydney e Brisbane, dal 18 al 24 marzo sono piovuti ben 1.079 mm d’acqua (due terzi della media annua in una settimana), e varie località stanno vivendo il marzo più piovoso nelle lunghe serie di misura. Diciottomila evacuati, quattro vittime, il nuovo ponte di Windsor – inaugurato solo un anno fa presso Sydney e definito “flood-proof” – sormontato dal fiume Hawkesbury. Ora i diluvi si sono attenuati ma ci vorranno giorni per smaltire inondazioni così vaste. Sott’acqua anche parti di Indonesia, Pakistan, Perù, Colombia e Brasile. Violenta ondata di tornado tra Alabama e Georgia, uno dei quali giovedì ha ucciso cinque persone. Una tempesta di polvere con raffiche a circa 70 km/h è all’origine dell’incagliamento dell’enorme portacontainer Ever Given nel Canale di Suez, che ha generato un ingorgo di quasi 300 navi bloccando un’arteria marittima per la quale transita il 12 per cento dei commerci globali. Basta un soffio di vento, e il nostro mondo iperconnesso, ma non resiliente, va in tilt. Peraltro la regione è al centro di una storica ondata di caldo che sta colpendo dal Sahara all’Asia centrale con 38 °C in Turkmenistan e 44,6 °C in Kuwait, nuovo record di marzo per tutta la penisola arabica; improvviso caldo precoce anche negli Stati Uniti orientali, 27,8 °C a New York, mentre il freddo tardivo di una settimana fa in Europa si è mosso verso Est portando neve a bassa quota in Turchia. Con gli scenari di ulteriore riscaldamento globale, entro fine secolo le stagioni della fascia temperata boreale subiranno profondi cambiamenti, le estati dureranno quasi sei mesi mentre gli inverni si ridurranno ad appena un mese con pesanti effetti sull’agricoltura e le fasi vitali di animali e piante, “tarate” da millenni sui cicli stagionali noti finora. Lo dice lo studio Changing Lengths of the Four Seasons by Global Warming pubblicato da scienziati cinesi su Geophysical Research Letters. Per ribadire la gravità dei cambiamenti climatici antropici e l’urgenza di affrontarli con efficaci strategie di mitigazione e adattamento, in occasione della Giornata Mondiale della Meteorologia (23 marzo) 43 società e organizzazioni meteorologiche da tutto il mondo hanno diramato il Joint International Climate Communiqué, tradotto in italiano su www.nimbus.it. La comunità scientifica continua a sgolarsi, ma chi l’ascolta?

 

Domenica delle Palme. Entusiasmo popolare contro i soliti “poteri forti”

Oggi, domenica delle Palme, si apre la Settimana Santa che, attraverso il Giovedì Santo, che ricorda l’ultima cena e l’arresto di Gesù, e il Venerdì Santo, che ricorda la sua crocifissione, porta alla domenica di Pasqua. Si chiama domenica delle Palme in riferimento ai rami di palma con cui una gran folla saluta l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (Giovanni 12,13). I racconti evangelici sono concordi nel riferire l’entusiasmo popolare contrapposto alla grande preoccupazione dei “poteri forti” che ormai lo considerano un avversario pericoloso. Così pericoloso che proprio in quel giorno scatta l’operazione per eliminarlo fisicamente e con un’accusa infamante in modo da fargli perdere ogni consenso. Il Vangelo di Luca, però, è l’unico a riferire un particolare: “Quando fu vicino, vedendo la città, [Gesù] pianse su di essa, dicendo: ‘Oh se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi’” (19,41-42).

Non deve stupire questo Gesù profondamente rattristato, che piange mentre molti fanno festa – esaltati dalla prospettiva dell’imminente vittoria del loro campione, del Messia – e altri, i suoi avversari, sono invece scandalizzati per questa manifestazione messianica imprevista, tanto da ingiungere a Gesù di sgridare i suoi discepoli (“Maestro, sgrida i tuoi discepoli!”, 19,39; sgridare nel senso di mettere a tacere, è il verbo con cui Gesù mette a tacere i demoni in 4,41 e anche la tempesta sul lago in 8,24) e di porre fine a quella che loro consideravano una provocatoria e pericolosa sceneggiata. Ma né quelli che gioivano né quelli che erano scandalizzati vedono la verità profonda delle cose, quella verità che anche le pietre – umili testimoni di ogni fatto e misfatto – avrebbero potuto gridare (“Ma Gesù rispose: ‘Vi dico che se costoro tacciono, le pietre grideranno’”, 19,40).

I Vangeli riferiscono che Gesù ha pianto solo due volte. La prima volta, e possiamo non esserne stupiti, è alla morte dell’amico Lazzaro (Giovanni11,35), la seconda volta qui, e, sì, ne siamo stupiti. I sentimenti di quel giorno sono altri: festa, gioia degli uni; ira, scandalo degli altri. Gesù, invece, piange. Perché? Perché Gesù vede al di là della festa (e quanti tradimenti, allontanamenti, quanta mancanza di solidarietà dopo l’esaltazione della festa), e vede anche al di là della preoccupazione e dell’ira. Gesù vede una città lacerata, che non sa più che cosa vuole, che non sa riconoscere ciò che è essenziale, cioè la pace (il nome Gerusalemme significa “città della pace”): “Oh se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace!” (Luca 19,42). Gesù piange perché vede che la lacerazione di oggi si trasformerà domani in qualche cosa di peggio; vede ciò che è già presente ma che nessuno sa o vuole vedere. Gesù piange anche perché ama quella città e ciò che essa rappresenta per sé e per il suo popolo. Gesù, ebreo, era profondamente legato alle tradizioni ebraiche. In quelle tradizioni era radicata la sua educazione, la sua cultura, la sua visione della vita, la sua speranza, la sua relazione – unica – con il Padre. Insomma, Gesù piange perché soffre e soffre perché ama, ama di un amore immenso, sovrabbondante, persino scandaloso (come l’amore per i nemici, Luca 6,27), un amore capace di perdonare oltre ogni limite (“fino a settanta volte sette”, Matteo 18,22), di perdonare anche quelli che lo inchiodano alla croce (Luca 23,34). Un amore che interroga profondamente le nostre coscienze e da cui nasce la fede, la conversione, la possibilità e la capacità di vivere questa vita, l’unica che abbiamo, in modo diverso e sensato.

Tra migranti e sovranisti com’è “piccola” l’Italia

In Europa abbiamo legittime pretese: siamo tra i fondatori, da un’idea italiana nata nel confino fascista di Ventotene, e abbiamo partecipato abbastanza bene al suo diventare la vera nuova istituzione del mondo dopo il fascismo, cosa che non è riuscito in modo altrettanto compiuto alle Nazioni Unite. Ma il sovranismo, un tarlo che ha tormentato e poi seriamente danneggiato il capolavoro di un mondo nuovo, fatto di democrazie associate e senza tiranni, ha lasciato presto il suo segno negativo; in caso di necessità, fingere di non sapere il problema dell’altro, non condividerlo e lasciarlo al suo destino.

È ciò che è successo, con una forte collaborazione del sovranismo italiano, quando le migrazioni hanno cominciato a lasciare strisce di morti sulle acque occidentali del Mediterraneo e sulla terra da cui si arriva in Europa attraverso l’Oriente. È meglio notare subito che le migrazioni, che ci piace immaginare e descrivere come un grande e ricorrente fenomeno dell’umanità, sono state provocate soprattutto da uno sciame di guerre con forte partecipazione di potere estraneo e di benefici accumulati altrove, lungo una serie di percorsi strategico-commerciali che sono tuttora in funzione. Quando aumenta l’intensità di quei percorsi, aumentano le fughe disperate di migliaia di famiglie, che dalle nostre parti si esprime con l’osservazione che “di recente l’arrivo dei profughi sembra in aumento”, come se ci fosse una stagione come per le vacanze.

Di fronte a questo problema, che vuol dire un cimitero di morti sempre aperto (dal bombardamento in Siria al barcone rovesciato che ha chiamato tutti i porti del mare senza risposta), l’Europa, che vuol dire l’Italia e tutto il resto dell’Unione, ha adottato una decisione che sarà studiata a scuola come esempio di “errore a grappolo”, ovvero errore che continua a produrre errori.

Ecco l’elenco. L’Italia dice “No, basta. Da soli non possiamo”. È vero e non è vero, perché l’impossibilità è assoluta con governi sovranisti e meno assoluta con governi normali, cioè senza la componente fascista del “guardare in faccia la bella morte” (degli altri). Ma anche con i governi normali resta in sospeso. E si parla, con buona educazione, di “moderare i flussi” che vuol dire fermare le barche, che vuol dire niente Ong volontarie, niente risposte alle chiamate della Guardia costiera civilizzata (Italia) e nuove armi alla Guardia costiera dei pirati libici.

La Libia è come la pistola del Covid puntata in fronte all’Italia: c’è sempre febbre. Perché molto prima che l’Europa dica i suoi “no” indecorosi e disumani all’accoglimento di nuovi scampati, l’Italia manda il suo ministro degli Esteri in Libia in veste di gentile messaggero disposto a capire i problemi della Libia e a far sapere non di voler discutere il “che fare e come fare” (che comunque i libici non sanno e non vogliono) ma, per favore, di fermare “i flussi” (la parola suona bene, la realtà sono donne e bambini in mare), servizio ovviamente non gratuito.

Ecco che cosa è accaduto. Il sovranismo italiano, che controlla ancora umori, giornali e partiti politici nel nostro Paese, ha reso piccola e irrilevante l’Italia. L’Italia va mestamente in Libia (va da un nuovo governo, ignoto come quello precedente) a chiedere un favore del tipo che gli italiani svolgevano per i tedeschi in Dalmazia, Serbia e Slovenia: fermare il nemico. Se l’Italia provvede da sé a questo terribile compito, l’Europa, naturalmente, tira il fiato e non si sente colpevole. E diminuisce ancora l’immagine e il peso della nostra Repubblica che era e resta un Paese che non ha una politica e cerca mercenari per il lavoro sporco che non può più rimproverare al silenzio europeo.

Il Parlamento Ue sembra voler funzionare solo da organismo amministrativo e non ha mai fatto sentire la voce forte di una nuova Europa. I ministri italiani a Bruxelles sembrano scrupolosamente schermati dalla definizione delle funzioni. La voce dei parlamentari italiani in Europa non si sentono mai se non, a volte, per esprimere rancori contro il proprio Paese. Brutto periodo in cui un’Italia “piccola piccola” pensa di dover andare in Libia a chiedere, pur non avendo un piano politico sulla Libia (dai tempi in cui quasi le stesse persone adesso al governo volevano, all’unanimità, un trattato di amicizia perenne, senza alcun tratto di reciprocità). Non sentirete alcuna comunicazione di rilievo dopo il viaggio del ministro degli Esteri italiano in Libia. Unica differenza (a crescere) il numero dei morti in mare, nonostante la presenza solitaria e sgradita delle navi di salvataggio Ong.

 

Lettere d’amore e fesserie. Quanto è dura la vita dei tecnici idroelettrici

Dai racconti apocrifi di Arturo Orvieto. In gioventù le aveva scritto una lettera d’amore, e ricevette un colpo terribile quando la lettera ritornò senza una parola di risposta, e con uno zero rosso accanto alla firma. Annientato, lacerò la lettera e, per dimenticare quella donna, si trasferì in Alto Adige, dove trovò un impiego come tecnico degli impianti idroelettrici. Ma non riusciva a dimenticarla. Tornò vent’anni dopo, e un giorno, per caso, la incontrò in un caffè. Un comune amico li presentò, e lei d’un tratto lo riconobbe. Gli sembrò piuttosto ironica, e quasi un po’ offesa. Offesa lei! L’offeso, semmai, doveva essere lui, dopo quello che era successo! Adesso era sposata, ma lui le chiese un incontro, dove affrontò chiaramente la questione in un colloquio esplicativo. E lei cominciò a ridere, dicendogli quanto era stupido, che non aveva capito niente. Ricordava benissimo quella lettera, e dopo averla letta, aveva voluto rispondergli nel modo più poetico e invitante: aveva applicato le labbra accanto alla sua firma, lasciandoci l’impronta della bocca. Era un bacio, non uno zero! E lui, come un imbecille, le aveva preferito gli impianti idroelettrici dell’Alto Adige! Libero dall’incubo, trovò la faccia tosta di chiederle: “E se te la scrivessi oggi, quella lettera, come mi risponderesti?”. “Non nello stesso modo. Adesso uso un rossetto che non lascia tracce”.

Qualche tempo dopo, la incontrai in una profumeria a Roma, stava comprando un rossetto. La commessa le raccomandò una marca speciale: “Questo è eccellente, signora, è assolutamente indelebile”. E lei: “Me ne mostri qualche altro tipo. Non importa se stinge”.

Dalle novelle apocrife di Maurice Dekobra. Il vecchio professore di greco entrò nella tabaccheria affollata. Aveva in mano la ricevuta di un acquisto fatto il giorno prima. La commessa lo interpellò col malgarbo che è di protocollo nei locali dove le commesse sono le amanti del proprietario e si sentono padrone: “Dimmi”. Il professore le mostrò la ricevuta: “Salve. Ieri ho fatto acquisti. Materiali didattici per la scuola dove insegno. Ho speso 60.000 lire. Vede?”. “Embè?”. “Ho pagato con una banconota da 100.000 e lei ha sbagliato nel darmi il resto”. “E secondo te io mi ricordo quanti soldi ti ho dato di resto ieri?” fece la commessa. “Glielo dico io” disse il professore. Al che intervenne, come un dio omerico, il proprietario: “Ma la sua parola è interessata, non fa testo! Non può fare acquisti e poi tornare il giorno dopo dicendo che ci siamo sbagliati col resto e quindi le dobbiamo altri soldi. Se facessero tutti come lei, fallirei in un giorno! Hai capito, questo? Bello, lui. Se ne vada”. “C’è un equivoco”, replicò mansueto il professore. “Voglio dire… Lo sbaglio è a vostro danno. La signora mi ha dato dei soldi in più. Doveva darmi 40.000 lire, me ne ha dati 130.000”. “Cosa?”. “Me ne sono accorto solo quando sono arrivato a casa. La signora ha contato quattro da 10, ma una banconota era da 100!”. La commessa impallidì. “Scusatela” disse il proprietario basito, dopo averle diretto un’occhiataccia. “Con questa baraonda…”. Raccolse i biglietti che il professore gli porgeva, 90.000 lire, e non se la smetteva di ringraziarlo. La commessa, tutta gentile, gli domandò se voleva un tassì, e gli raccomandò di abbottonarsi il soprabito perché i primi freddi sono insidiosi. Il padrone aggiunse, accompagnandolo all’uscio: “Che il cielo la benedica! Di galantuomini come lei non ce ne sono più!”. Lo salutò finché il tassì non girò l’angolo. Poi tornò dentro e disse alla donna: “Caterina, dio bono, fai più attenzione un’altra volta! Di imbecilli come quello mica se ne trovano tutti i giorni!”.

Mail box

 

 

 

 

I problemi in Lombardia li pagano gli incolpevoli

Voglio condividere la tristezza di vedere la mia Lombardia in mano a incompetenti pericolosi e sprezzanti. Mia mamma ha 79 anni e una serie innumerevole di malanni che la rendono fragile e immuno-depressa. Da ieri si sente debole e ha la febbre. Siamo spaventati da cosa potrebbe accadere se, dopo oltre un anno di fortunata resistenza, a questo giro fosse successo quello che non riesco nemmeno a scrivere. Perché nessuno le ha ancora saputo dire quando la vaccineranno? Io sono stufo di vivere governato da questi incompetenti allo sbaraglio! O meglio, che mandano allo sbaraglio persone incolpevoli e indifese di fronte all’arroganza di chi passa sopra a tutto e tutti. Adesso basta, per pietà levatevi di torno!

Marco Gambarini

 

Vaccini, diamo a Cesare quel che è di Zingaretti

Caro Travaglio, io e mia moglie siamo stati vaccinati alla Nuvola con AstraZeneca. Dopo non poche perplessità abbiamo proceduto anche sull’onda della tua “confessione” a Otto e Mezzo. Desidero segnalare l’attenzione e l’estrema cortesia del personale sanitario con il quale mi sono complimentato. Roma non è solo ladrona come certa becera letteratura nordista vuol far credere. Questa volta mi ha regalato due “lucciconi”. Diamo a Cesare, compreso Zinga, quel che gli spetta!

Maurizio Dickmann

 

Perché la politica non si occupa di mafia?

Per Draghi/Carfagna tra i problemi del Mezzogiorno nessun accenno alle mafie. L’invocata lotta, cui non perde occasione di dare fiato il presidente Mattarella, la demandiamo ai Gratteri, magistrati in prima linea, e ai Ciotti di Libera? Lo Stato preferisce la trattativa? Ne è ancora coinvolto? Altrimenti, per quale motivo non è più obiettivo dei governi? Forse che la situazione della gestione sanitaria in Calabria non lo imporrebbe? E come si pensa di rilanciare il Mezzogiorno senza estirpare questo cancro? Domande che urlano bisogno di risposte.

Melquiades

 

Regeni, bene Don Ciotti male l’Unione europea

Ho ascoltato Don Ciotti rivolgere un pensiero al povero Giulio Regeni. A distanza di anni, ancora non si riesce a sapere il perché di quell’assurdo e brutale omicidio. L’Ue pensa a Navalny mentre per Regeni, cittadino europeo, non chiede nulla. La Francia loda Al Sisi con la Legion d’onore. Il governo italiano vende unità navali e armi e nessuno muove foglia. In Italia, ogni tanto qualche giornale si ricorda del povero Giulio, ma non chiede con forza al governo di risolvere la questione. I nostri politici dovrebbero continuamente ricordare che quanto accaduto a Regeni è accaduto a un cittadino europeo e come tale deve essere tutelata la sua memoria con sanzioni all’Egitto e non con regali a uno Stato senza diritti.

Vincenzo Frisenda

 

Serve un intervento sui contratti d’affitto

Le imprese commerciali che sopravvivranno a questi 3 anni (2020, 2021 e 2022), oltre alle perdite accumulate, avranno anche perso tre anni di contratto di locazione. Al riguardo, riterrei logico e necessario un decreto legge che stabilisca l’obbligo per il locatore di concedere alle stesse condizioni economiche tre anni di proroga contrattuale.

Aurelio Giorenghi

 

Una proposta “francese” per la legge elettorale

Vorrei sapere il vostro parere su un progetto di riforma elettorale che ho pubblicato su Rousseau. Nel primo turno, al 100% proporzionale, non si possono fare alleanze per “pesare” tutti i partiti, sbarramento al 2%. Nel caso che nessuno raggiunga la maggioranza assoluta del 50% +1 dei voti, si procede con un secondo turno maggioritario al ballottaggio. Prima di questo, i partiti potranno formare alleanze purché indichino programma e squadra. Un premio di maggioranza (massimo 5%) consentirebbe un governo stabile alla coalizione vincente e piena rappresentanza a tutti.

Calogero Carbone

 

Caro Calogero, è il modello francese. Ottimo!

M. Trav.

 

Pd, quella di Letta è una lotta con i Lotti

Letta è in lotta con Lotti per evitare ulteriori lutti a un partito di latta.

Mario A. Querques

Dazn-Tim, l’inflazione del pallone

 

 

“Il ruolo che nel calcio hanno assunto economia e tecnologia non è che il riflesso di una società che tende ad annullare l’uomo in loro favore. Ma anche l’enfasi che pervade il vasto mondo del calcio, a cominciare dai telecronisti e dai talk, non è che il riflesso di una perdita delle proporzioni e del senso della misura che permea la nostra società”.

Massimo Fini e Giancarlo Padovan, “Storia reazionaria del calcio”, 2019

 

 

Non mi accoderò alle espressioni di giubilo per Dazn-Tim che vince la partita dei diritti tv e segna evviva l’inizio dell’“Era del calcio online” (“Repubblica”). Non lo farò per almeno tre motivi. 1. Perché come consumatore abituale oltre al canone Sky per Champions ed Europa League, e a quello Rai per le partite della Nazionale (criptate sul satellite) dovrei ora aggiungere l’abbonamento Dazn-Tim. Si dirà che nessuno mi obbliga a sborsare altri quattrini per un’evasione (o un vizio). Giusto, voglio pensarci e come me credo che ci penseranno in molti. Infatti, soltanto alla vigilia della nuova stagione calcistica si valuterà l’impatto economico che l’esoso spacchettamento avrà prodotto sui bilanci degli italiani. E se, come auspicano i celebranti, i 2,7 milioni di abbonati alla Serie A Sky saranno davvero passati armi e bagagli alla fibra. Tutto per la modica cifra di 840 milioni e per cosa? Per continuare a foraggiare un carrozzone alla canna del gas (4,6 miliardi di debiti) che ancora una volta (forse l’ultima) potrà attingere a piene mani dal forziere delle tv per sperperare enormi risorse per i talenti senza talento o per sottostare ai ricatti dei procuratori e del circo sottostante? Quanto alla “trasformazione digitale” e all’“Internet ultraveloce” che, ci dicono, il pallone digitale trascinerebbe con sé, auguri sinceri di buon lavoro. Visto e considerato che sono 16 milioni le famiglie che oggi non usano servizi su rete fissa o non hanno banda ultra-larga. 2. Inutile negare che in questo triste anno pandemico, la visione delle partite in tv è servita a molti (a chi scrive certamente) per alleviare le pene del lockdown ed evadere un paio d’ore dalla mestizia virale. Non per questo lo spettacolo ci è parso meno avvilente, con il vuoto siderale degli stadi dove, con scarse eccezioni, la mediocrità del gioco e dei giocatori rimbombava amplificata dalle urla belluine dei suiveur. Siamo proprio sicuri che dopo questa sbornia scadente saremo pronti a svenarci per ingurgitare altri ettolitri di vino cartonato? Che torneremo ad affollare le tribune come prima? 3. Attenzione che così facendo il calcio è a rischio consunzione. Del resto, non è difficile distruggere la popolarità di uno sport di massa. Come dimostrano il tramonto della boxe (travolta dal mercato delle combine) e del ciclismo (affondato dal doping compulsivo). Massimo e Giancarlo hanno scritto il vero: la passione per il calcio si regge sull’emozione e sull’evocazione, sentimenti che pompati dagli ormoni artificiali dell’economia, della tecnologia e della comunicazione urlata tendono ad appassire e a snaturarsi. Sinceramente, non credo proprio che la partita sul cellulare mi restituirà mai le vibrazioni del transistor (e del cuore). Di quando la voce elettrica di Sandro Ciotti irrompeva in quell’attimo sospeso tra il timore e la speranza. Ma io sono anziano.

Antonio Padellaro

Povero fontana, abbandonato dagli amici

Per l’Attilio povero non bastano i disastri lombardi della gestione Covid che, date le evidenze, trovano ormai ampio spazio nel discorso pubblico. Ora ci si mettono anche gli amici a menare duro. Prendere, ad esempio, il Giornale di Alessandro Sallusti ieri, davvero senza pietà. Il povero presidente arranca e cosa gli si va a chiedere? Se per caso esista “un sentimento centralista che ha ripreso forza”. Una sberla a cui l’Attilio, però, reagisce come un leone: “Non è un sentimento – contrattacca – è qualcosa che va nella stessa direzione degli attacchi: una parte dei media e della politica sta cercando di imporre una visione diversa da quella che c’è in Lombardia”. Perbacco, davvero indecente. Non domo, l’intervistatore torna all’attacco: “Con questi attacchi si vuole colpire la Lega, Salvini, o mettere le mani sulla Lombardia”? L’Attilio barcolla ma non molla: “Entrambe – mena duro –. Sicuramente la Lega e Salvini, e sicuramente anche il modello. Mettere le mani sulla Lombardia vuol dire prendere la Regione più importante. Fa gola a tanti”. Stremato ma vincente, Attilio conclude: “Se la Lombardia vola basso, vola basso tutta l’Italia”. Ci permetta qui di darle ragione. Ma per davvero.

Boccia intercede con De Luca pro Fico

Enrico Letta sa che sul dossier Amministrative si gioca tutto. Fino a quella domenica di ottobre (presumibilmente il 3 o il 10), il segretario potrà cercare di imprimere un nuovo corso al Pd. Ma se dovesse arrivare una sonora sconfitta, le correnti sono pronte a chiedere di nuovo un congresso anticipato. A mettere in discussione quello che hanno acclamato come il Salvatore della Patria, ma che hanno già cominciato a soffrire.

Per questo, Letta ha mandato il neo responsabile Enti locali, Francesco Boccia, in missione nelle varie città italiane, per cercare di capire se è possibile presentarsi con un candidato unico da opporre al centrodestra. Questa settimana è toccato a Napoli, la prossima sarà la volta di Torino e Bologna.

La premessa e il mandato sono chiari: decidono i territori, ma lo schema proposto è quello di un campo largo con il Pd come perno, alleato con il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. Se finora la quadra non si è trovata, i cambiamenti all’interno di queste due forze politiche potrebbero spingere a una soluzione. Forse. Perché a ora i margini non sono chiari.

L’ex ministro è andato a Napoli, dove ha praticamente parlato con tutti gli esponenti della classe dirigente locale. Ma in particolare ha cercato di capire la posizione di Vincenzo De Luca, presidente della Campania. Lo stato dei fatti dice che c’è una disponibilità di massima (non formale) del presidente della Camera, Roberto Fico, a scendere in campo. Il Pd locale ha anche dato la sua disponibilità a questa candidatura, ma De Luca resiste. Niente di personale, assicura. “Io non ho un problema con Fico”, avrebbe detto il governatore a Boccia. La questione è più strutturale: “Per 5 anni, ho governato la Campania senza parlare con il sindaco di Napoli. E comunque, non c’è mattina che mi svegli senza essere attaccato dai Cinque Stelle”. De Luca, insomma, ha messo sul tavolo i suoi paletti e le sue perplessità, che possono essere superati solo dal riconoscimento da parte degli eventuali alleati (ora all’opposizione in Giunta) del suo mondo, che va dal Pd alle civiche. Un rapporto tutto da costruire.

In realtà, tra Nazareno e dintorni, si ragiona anche su eventuali piani B. In pole ci sarebbe l’ex ministro dell’Università, Gaetano Manfredi, che per ora non dice di sì. Dalla sua avrebbe di essere una figura di cerniera, che può vantare anche un ottimo rapporto con Giuseppe Conte. E De Luca non si opporrebbe.

Il dossier Amministrative, comunque, ha bisogno di altro tempo: non se ne parla fino a dopo Pasqua, perché il lavoro di “cucitura” (così lo definiscono nel Pd) ha bisogno di tempo.

A Roma, Letta ha aperto alle primarie. D’altra parte nella Capitale l’accordo con M5s (se non al secondo turno) è impossibile: Virginia Raggi non rinuncia. Tra i big da giocarsi, David Sassoli continua ad essere indisponibile e Nicola Zingaretti poco propenso. Roberto Gualtieri, invece, è pronto.

Da capire anche quanto peserà la disponibilità di Mattia Santori, il leader delle Sardine, a candidarsi a Bologna. Come si dice in gergo, le prossime settimane saranno decisive.

Con il diktat di Grillo si rischia l’esodo dal M5S

Qualcuno, forse un po’ troppo ottimista o forse semplicemente ferrato in matematica, ha già fatto il conto: 80 mila euro in più. Sono quelli che un parlamentare Cinque Stelle che decidesse di smetterla con restituzioni, rinunce alle indennità di carica e benefit vari, metterebbe in tasca da qui alla fine naturale della legislatura, nel 2023. E in tanti se li stanno facendo, questi conti, ora che Beppe Grillo ha detto che “il pilastro” dello stop dopo due mandati non si può buttare giù. E tanto vale, per quel centinaio di deputati e senatori a cui hanno chiarito che questo è l’ultimo giro, cercare di consolarsi in altra maniera. “L’esodo era già cominciato – racconta una fonte –, ora questa decisione è devastante, può succedere di tutto: di momenti di confusione ne abbiamo avuti tanti, ma questa volta è l’inferno vero”.

Ce l’hanno con Grillo, prima di tutto. Perché ritengono che la sparata sul limite dei due mandati – arrivata, a freddo, durante una call con gli eletti cui ha partecipato anche il ministro Cingolani – non sia stata meditata a sufficienza: “È completamente bollito – dicono a proposito del fondatore – e non capisce che questa regola adesso non serve a niente, anzi, invoglia i dubbiosi a lasciare il Movimento”. Esattamente il contrario di quello che si aspetta Giuseppe Conte, che sta elaborando da settimane il progetto di rifondazione dei Cinque Stelle e che aveva fatto appello ai tanti parlamentari in crisi: “Aspettate, non uscite: fatemi trovare ancora qualcuno quando arriverò”.

Non passa giorno, da quando M5S ha detto sì al governo Draghi, che non ci sia una defezione, alla Camera o al Senato. E il timore è che la mannaia calata dal garante acceleri irrimediabilmente il processo già in atto. Non è un caso che siano partite le manovre per le exit strategy. Pochi giorni fa, i sottosegretari Dalila Nesci e Carlo Sibilia hanno fondato l’associazione “Italia Più 2050” e, nonostante le smentite, in molti la considerano il potenziale simbolo sotto cui candidare gli esponenti del Movimento che hanno esaurito le fiches. Per ora non si pongono il problema che qualcuno li dovrà pur votare e sperano nel “traino” del partito guidato da Conte. Che pure, va detto, da questa grana dei due mandati (così come da quella su Rousseau) avrebbe preferito tenersi ben alla larga. A meno che non riesca a convincere Grillo che il punto vada messo in discussione, dovrà seguire la strada tracciata, con tutte le conseguenze che si porta dietro, a cominciare dal disimpegno di molti “big”, che già soffrono la totale autonomia con cui l’ex premier sta procedendo alla revisione delle regole interne. La scadenza di fine mese, che inizialmente era stata fissata per la consegna del “nuovo” M5S, è ormai slittata. Se ne parla come minimo dopo Pasqua, quando Conte incontrerà alcuni rappresentanti del Movimento per presentare (e, sperano, eventualmente emendare) il progetto di rifondazione grillina che verrà poi sottoposto al voto degli iscritti, probabilmente via email.

Può Conte reggere quest’onda d’urto? “Non lo sa nessuno”, rispondono sconfortati perfino i suoi fedelissimi. Segno che la situazione è talmente fuori controllo da non poter dare garanzie a nessuno: “Conte non può sostenere la linea di Grillo – ripetono dal Movimento – altrimenti rimane da solo”.