Camper, figli, lavoro da trovare. Il futuro incerto degli “esodati”

Esodati, eccedenti. Futuri dimissionati, oppure rinunziatari. Il prossimo Parlamento si rimpicciolirà: trecento in meno. Cambierà il peso dei singoli partiti. Cambieranno le fortune politiche. E la vita di molti. Di seguito una breve rassegna di chi ha già deciso di lasciare e di chi invece vorrebbe raddoppiare.

“Montecitorio mi ha fatto conoscere il mio compagno e mi ha regalato un bimbo. Mattia ha cinque mesi ed è figlio di questo Palazzo” (Maria Pallini, deputata dei 5Stelle, ha conosciuto tra le poltrone della Camera Giovanni Currò, anch’egli deputato del Movimento. A ottobre il suggello della loro unione con la nascita di Mattia).

“Da tempo mi preparo all’addio. Ho fatto cinque legislature, non posso dire niente: tutte le soddisfazioni che cercavo le ho trovate. Si poteva fare meglio? Si poteva fare anche peggio” (Luigi Vitali, senatore di Forza Italia).

“Se avessi saputo che sarebbe finita così, non mi sarei nemmeno ricandidato. Inutile stare qui se non puoi ottenere ciò che ti sei ripromesso. Noi dovevamo cambiare l’Italia, poi – appena messo piede nel Palazzo – ci siamo fatti cambiare. Meno male che li ho lasciati in tempo” (Andrea Colletti, deputato, fuoriuscito dai 5Stelle).

“Oddio, una nuova vita mette sempre un po’ di ansia, quel senso di smarrimento. Sono certa che non vedrò lo stipendio di cui godo ora. Sono senza rete di protezione. Mi sto dando da fare per impiantare un’attività che si occuperà del benessere degli animali” (Michaela Biancofiore, deputata già di Forza Italia).

“Ho in testa un viaggio in camper con mia moglie. Un viaggio lunghissimo, in giro per il mondo a vedere, incontrare gente. Io e lei soltanto. Aspetto solo che il sogno si avveri” (Emanuele Fiano, deputato del Pd).

“Ho i miei affari, le mie aziende, gli alberghi” (Domenico De Siano, senatore di Forza Italia).

“Farò il medico legale” (Gianni Pittella, senatore del Pd).

“Quando nel 2013 il partito non mi volle in lista ci rimasi male. Fu un periodo terribile, ero sempre nervoso, irascibile. È stata veramente dura. Mi ritrovai depresso. Poi per fortuna Berlusconi nel 2018 mi ha ripescato e in qualche modo ridato alla vita, a quel successo cui aspiravo. Ma questa è l’ultima legislatura. Affronto l’epilogo con serenità. Non sente che le rispondo con leggerezza?” (Vitali, Forza Italia).

“In tutta sincerità se fosse possibile proverei a fare la seconda legislatura” (Pallini, 5Stelle).

“Devo anche dire che ho i miei voti a Bolzano, la mia terra. I partiti, se vogliono interessarsi a me, possono valutare qual è il mio peso, la forza del mio radicamento. Ho sempre dato tanto alla politica, e mi sono conquistata il seggio con una fatica matta. Ora mi trovo fuori da Forza Italia senza un perché. Sono stata decisamente boicottata, ecco”. (Biancofiore, ex di Forza Italia)

“Comunque l’ozio uccide. Uno come me abituato in quarant’anni a consumare il tempo correndo da una città all’altra, a macinare chilometri, incontrare gente, con una tabella di marcia paurosa e a ricoprire incarichi di responsabilità a Roma come a Bruxelles, non può pensare alla campagna, al buen retiro. Deve costruirsi qualcosa, deve vivere” (Pittella, Pd).

“Ho le mie aziende, l’ho detto e lo ripeto” (De Siano, Forza Italia).

“Non ho il minimo dubbio di sapere inventarmi – quando sarà – qualcos’altro di ugualmente appagante. Nutro un grande ottimismo e tanta fiducia nelle mie possibilità” (Fiano, Pd).

“Ho tenuto sempre aperto il mio studio legale. Una fortuna e un impegno. Lì ritornerò, nella mia Pescara. È quasi un moto di liberazione” (Colletti, ex M5S).

“Fare l’avvocato ad Avellino non è la stessa cosa che fare la deputata a Roma. Dobbiamo essere onesti e dircelo. È questione di gratificazione professionale ed economica. Cambia il sistema di relazione, ti ritrovi in qualche modo retrocessa: un po’ di disarticolazione c’è” (Pallini, M5S).

“Mia moglie dice di pensare ai figli. Basta con la politica” (Vitali, Forza Italia).

“Io sono single” (Biancofiore, ex Forza Italia).

“I miei figli sono grandicelli, sarò più libero. E farò quello che mi è sempre piaciuto: guardare il mondo” (Fiano, Pd).

“Mi sono fidanzato” (Colletti).

“Però ti resta dentro sempre quel sentimento, quella voglia di fare, di dare, di incontrare, mediare. La politica è proprio bella” (Vitali).

“È bellissima. A me piace tanto. Sono stati anni meravigliosi e intensi. Spero che continuino. Ho già detto, e mi ripeto: mi piacerebbe, se ne avessi l’occasione, di misurarmi di nuovo con la candidatura” (Pallini).

“Sa che la politica dà anche quello stress positivo che tiene alte le difese immunitarie? Quell’adrenalina che non ti fa pensare al giorno e alla notte, ai viaggi, ai treni. Si può dire quello che si vuole, ma è un mondo nel quale chi è nato non riesce a lasciarlo mai più” (Pittella).

“Ora che sono fuori dal Movimento, libero di fare l’opposizione e di proporre quel che mi sembra giusto, sono come rinato. È tutto un altro film. Sembra incredibile, ma adesso faccio il deputato con maggiore impegno, ci sono più soddisfazioni” (Colletti, ex M5S).

“Conservo ancora però un bellissimo rapporto con Silvio Berlusconi. Ha sempre creduto in me. Io per lui ci sono sempre, è chiaro” (Biancofiore).

Caso Azzolina, Bianchi revoca Vespa

Alla fine, il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, ha chiesto di revocare l’incarico a Pasquale Vespa, neo collaboratore del sottosegretario leghista del ministero Rossano Sasso.

La vicenda riguarda l’ex ministra del Movimento 5 Stelle, Lucia Azzolina, oggi deputata. Nei mesi scorsi Azzolina aveva denunciato le offese e gli attacchi ricevuti via social da Vespa, di conseguenza imputato in un processo che inizierà a Napoli il 9 aprile. Vespa, ha spiegato ieri la ex ministra al Fatto, “ha portato avanti una campagna quotidiana contro di me. È un sindacalista e un precario che però non vuole il concorso, ma chiede quella sanatoria per cui da tempo i leghisti si battono”. È anche per difendere queste posizioni e, soprattutto come simbolo “anti-Azzolina”, che è arrivato al ministero. Nell’ultimo anno, infatti, l’attacco dei leghisti alla ex ministra sono stati costanti su tutti i fronti. “Sui social ha condotto una guerra contro di me con post sessisti e minacce, da cui poi scaturivano commenti volgari e di cattivo gusto. Ha contribuito a far sì che fossi messa sotto scorta” ha detto Azzolina, che Vespa ha chiamato per mesi “BoccaRouge”.

Secondo quanto riferito da Viale Trastevere, il ministro Bianchi ha prima chiesto al sottosegretario Sasso di valutare “attentamente e rapidamente” l’opportunità della nomina di Vespa. Il ministro, dicono, ha quindi ricevuto dal sottosegretario la disponibilità del professor Vespa a sospendersi dal suo incarico, in attesa del chiarimento della sua posizione (in teoria la fine del processo). Di conseguenza, il ministro ha dato mandato all’amministrazione di procedere alla revoca dell’incarico, durato in tutto 48 ore.

non si tratta solo di un atto amministrativo formale, ma dell’epilogo di quello che è il primo vero e proprio scontro all’interno dell’esecutivo di Mario Draghi. L’incarico, infatti, sarà revocato a un consulente che è chiamato al ministero da un sottosegretario della Lega. Senza contare che allo stesso Sasso è stata affidata la delega al bullismo e al cyberbullismo: un paradosso meraviglioso. Nei corridoi del ministero, il clima creato dalla Lega è evidente a molti: da un lato c’è il sentimento di “rivalsa” contro l’ex ministra tanto criticata e con le promesse ai precari di assunzioni semplici e sanatorie, dall’altro la chiamata nelle fila di collaboratori provenienti dai presidi territoriali del Carroccio nel tentativa di utilizzare il ministero per una “campagna elettorale” permanente attraverso il mondo della scuola. Una vera e propria bomba a orologeria.

Intanto, ieri Lucia Azzolina ha ringraziato il ministro: “Ha fatto la cosa giusta. Permettere al sottosegretario Sasso di assumere al ministero dell’Istruzione la persona che mi ha minacciato per anni – e che per questo è a processo– sarebbe stato un segnale terribile per la stessa comunità scolastica. Non è solo con le norme, ma anche con gli esempi e i comportamenti che si può aiutare la scuola a formare i giovani nel rispetto e nella tolleranza. In queste ore ho ricevuto affetto e solidarietà da tutto il M5S, ma anche da Pd e Leu, che ringrazio. Dispiace invece che il sottosegretario Sasso non abbia compreso la gravità della cosa e si ostini a difendere l’indifendibile”.

La Russa fa entrare i fascisti in Senato per lo sfratto di FN

Senato, interno giorno: un mercoledì da leoni per Ignazio La Russa. Ché ha appena finito di incalzare in aula Mario Draghi sulla partita dei vaccini lo invita a far valere la sua autorevolezza in Europa. “Altrimenti – dice il numero 2 del partito di Giorgia Meloni – andrebbe benissimo un Conte qualsiasi”. Il clima si surriscalda, La Russa si svocia e ancora non è niente. Perché la giornata per lui è lunga: lo attende l’incontro con quelli di Forza Nuova che sono venuti a trovarlo in Senato dove è vicepresidente, giusto un gradino sotto Maria Elisabetta Alberti Casellati.

E allora ecco La Russa che fa accomodare i suoi ospiti nella saletta attigua all’ingresso principale di Palazzo Madama. Chi sono? L’ex europarlamentare Roberto Fiore, alle spalle una condanna poi prescritta per banda armata e associazione sovversiva. E Giuliano Castellino suo sodale in Forza Nuova e apostolo no-mask, a cui la questura di Roma ha inflitto la sorveglianza speciale con divieto di partecipare a pubbliche riunioni senza l’autorizzazione perché ritenuto soggetto pericoloso. Che ci facevano mercoledì a Palazzo?

Sono reduci da appena pochi giorni dall’occupazione della sede storica del Movimento sociale oggi assegnata a FdI di via Livorno a Roma. Al grido di battaglia, “è giunta l’ora di una nuova marcia che vede uomini e donne di nuovo uniti e decisi a riconquistare spazi”. Spazi che fanno litigare.

In via Livorno la faccenda si è chiusa bene, diciamo così. Perché subìto l’assedio, i meloniani avevano chiamato la polizia e si era temuto il peggio. Ma poi La Russa si era messo al telefono con Fiore e lo aveva convinto a sgombrare insieme a Castellino e a tutti gli altri. Con le buone e con la promessa di incontrarsi al più presto per risolvere una questione che si trascina da tempo: la sede di via Paisiello ai Parioli occupata da FN da anni e di cui la Fondazione di An vorrebbe al più presto rientrare in possesso.

Fiore non la molla. Forse lo farebbe sempre che la Fondazione (che ha in pancia un patrimonio ingente di lasciti e donazioni), si convincesse ad assegnargli un’altra sede. Certo non una qualunque: un posto che rappresenti qualcosa per la destra italiana.

“Prima di parlarne devono innanzitutto sgomberare via Paisiello che avevamo in origine concesso a Francesco Storace per ospitare la redazione del suo giornale. Storace poi ci aveva restituito le chiavi, ma nel frattempo l’immobile era stato occupato abusivamente da Forza Nuova. Per 17 volte l’ufficiale giudiziario ha tentato l’accesso: questo prima del Covid che ha bloccato tutto. Insomma, finora, per un motivo o per un altro non è stato possibile eseguire lo sfratto e vorremmo evitare di ricorrere alla forza pubblica”, dice La Russa, ripercorrendo la vicenda e le ragioni dell’incontro di mercoledì che a Palazzo Madama non è passato inosservato.

Perché a vedere Fiore e Castellino in compagnia di La Russa al Senato a qualcuno è venuto il sangue agli occhi. “Abbiamo lasciato i documenti e fatto i pass come fa chiunque altro che abbia un appuntamento. Del resto non è la prima volta che entro nei Palazzi, non capisco lo scandalo. Sono fascista, e allora?”, dice Castellino, che sulla trattativa in corso con La Russa non fornisce dettagli. Gli si scuce di bocca giusto l’indispensabile per capire l’aria: “Le sedi della Fondazione sono state donate alla comunità di destra per fare politica, non per altro. Noi di Forza Nuova con l’occupazione del 2011 abbiamo salvato via Paisiello dalla svendita: c’era il rischio che facesse la fine della casa di Montecarlo”. E l’incontro al Senato? “Direi un posto sordo e grigio, ma tant’è. Ho fatto tutti i controlli e firmato il foglio Covid. Il braccialetto elettronico? Il metal detector non ha suonato perché non ce l’ho: sono sorvegliato speciale mica sto ai domiciliari”.

Perché i sondaggi di Draghi sono in calo

La conferma è arrivata con il sondaggio di Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera: i numeri di Mario Draghi e del suo governo sono in flessione. Secondo Ipsos, il presidente del Consiglio passa in un mese dal 69 al 62% (-7 punti), l’esecutivo dal 62 al 56% (- 6). Pagnoncelli lo definisce un “rimbalzo tecnico”, ma le cifre dei principali istituti demoscopici confermano lo stesso trend: Draghi è partito da livelli di fiducia molto alti, ma nel primo mese ha disperso una parte di quel patrimonio politico. Le ragioni possono essere molteplici: l’esagerata esaltazione iniziale, le difficoltà nella campagna vaccinale, la mancanza di “rivoluzioni” e una sostanziale continuità nella gestione della pandemia rispetto a chi lo precedeva. Abbiamo chiesto il parere di sei autorevoli osservatori e studiosi della politica italiana.

 

Doping Il consenso del premier era stato “drogato” dai media

Nando Pagnoncelli sul Corriere definisce il calo di gradimento di Mario Draghi e del suo governo “un rimbalzo tecnico”. Di sicuro i primi numeri del premier erano “dopati”. Gonfiati da una prevalente stampa, che aveva gridato al miracolo, laddove di miracoloso non ci si può aspettare niente dalla politica contemporanea. Era stata creata un’aspettativa esagerata, come se con un tocco di bacchetta magica, semplicemente mettendo al posto di comando l’uomo della provvidenza, gli enormi problemi del nostro sistema amministrativo potessero essere risolti in un colpo. Può spiegare questo tipo di atteggiamento solo l’ostilità che aveva sempre animato gli atteggiamenti del giornalismo mainstream nei confronti di Conte e del suo governo. Io credo che sia stato fatto un cattivo servizio a Draghi stesso, esposto a un inevitabile rimbalzo che non definirei “tecnico” ma in qualche misura di credibilità politica. Dobbiamo aspettarci in futuro un ulteriore calo di fiducia, perché il sistema politico-amministrativo italiano è destinato a infilare altre défaillance.

Marco Revelli

 

Non è un dio Paga le aspettative altissime e il caos dei vaccini

È naturale che chi governa si trovi a fare i conti con promesse che non possono essere mantenute subito. Gli italiani hanno aspettative molto alte di una normalizzazione che ancora non può arrivare. E poi Mario Draghi non è una divinità. Il premier soffre dell’esaltazione con cui è stata raccontata da molti media la sua entrata in campo. È stato presentato come salvatore della patria, uomo della provvidenza, ma non può essere nessuna di queste cose. Troppe aspettative, e troppo grandi, si scontrano con una realtà che invece se ne va per conto proprio. Penso Draghi sia un uomo che sa quello che vuole e non si faccia condizionare da queste esaltazioni. È il Sistema Italia che è in crisi, paga la schizofrenia pluralistica delle Regioni, quando invece in una “fase di guerra”, come ha detto il premier, bisognerebbe remare insieme. Le notizie che arrivano sulla campagna vaccinale non aiutano. In alcuni territori non si è scelta la via naturale – il criterio dell’età – ma si sono privilegiate classi sociali e interessi organizzati. Poi ci sono gli errori dell’Europa: i contratti disastrosi con le cause farmaceutiche.

Nadia Urbinati

 

Senza un piano Molti speravano avesse una strategia più chiara

I numeri di Draghi sono in calo perché sembra che gli manchi un progetto. Non c’è un cronoprogramma, una pianificazione che faccia capire quali siano le intenzioni del governo nel lungo periodo. Draghi era partito con una credibilità enorme, era vissuto come un manager di successo, un uomo d’azione che prende in mano la situazione e segue un piano chiaro, preciso. Invece la percezione è che un piano preciso non esista. Nel breve termine, l’azione di questo governo è proseguita sulla falsariga del precedente, anche in quelli che erano percepiti come punti di debolezza. Si naviga a vista, ci si affida al quotidiano, al day by day. L’attesa nei confronti di Draghi resta molto alta, ora ci si aspetta una strada da seguire. Magari c’è già, ma lui non la comunica. Così viene a cadere l’elemento di rassicurazione che aveva garantito numeri di consenso elevatissimi al premier. Poi c’è un altro fattore: nell’immaginario collettivo non esiste una squadra di governo omogenea, ma singoli ministri. Non trapela l’idea di una coesione, non c’è gioco di squadra.

Antonio Noto

 

Ritorno sulla terra Flessione naturale, stessi numeri di Conte

I sondaggi dicono che Draghi inizia a confrontarsi con un’opposizione politica che in Parlamento non esiste, ma nel Paese evidentemente sì, come è giusto e naturale che sia. La nascita del suo governo è stata avvolta in un cono mediatico quasi insultante per quanto servile: Draghi è stato presentato come un personaggio magico. Una percezione alterata della realtà. Quando si descrive e si connota così un personaggio pubblico, prima o poi è inevitabile che arrivi il confronto con la realtà, Draghi si dovrà incontrare o scontrare con un’insofferenza che è latente ma esiste nel Paese. Poi c’è la questione dei vaccini: una questione che se non dovesse essere risolta rischia di far scricchiolare non tanto Draghi, quanto l’intera impalcatura europea. Detto questo, la flessione del suo consenso è anche fisiologica, partiva da un numero davvero molto alto. La fase di “santificazione” è terminata, Draghi nei miei sondaggi è attorno al 57% della fiducia, alla pari con lui c’è Giuseppe Conte, che resta su numeri davvero alti, malgrado in questo periodo sia in una posizione laterale.

Roberto Weber

 

Incoerenza Aveva promesso altro rispetto all’ennesimo condono

Da cittadina semplice, credo che Draghi stia pagando la forte delusione dell’opinione pubblica su un tema specifico, quello del condono. Il premier aveva fatto un discorso alle Camere che aveva un punto di caduta fondamentale: la crisi della pandemia sarebbe stata affrontata in contemporanea alla crisi delle istituzioni, oggetto di un rinnovamento profondo. Draghi era stato molto chiaro sul fatto che i due processi sarebbero andati di pari passo, le sue parole su questo erano state nette, limpide. Sembrava davvero consapevole di ciò che fosse necessario per far tornare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Invece poi è arrivato l’ennesimo condono. È una grande ferita nella reputazione di Draghi, perché si riteneva che il premier avrebbe imposto una diversa interpretazione della dialettica tra governo e delle forze politiche. Si pensava che i partiti che avevano risposto all’appello del presidente della Repubblica avrebbero rinunciato a far pesare i rapporti di forza reciproci e avrebbero messo davanti a tutto le ragioni dell’emergenza. Invece non pare proprio così.

Roberta De Monticelli

 

Discrepanze Grande sostegno in Parlamento, meno in piazza

Non posso dire di essere sorpreso dalla flessione nel consenso di Mario Draghi. Il calo è tutto sommato limitato. Il premier fino a questo momento ha parlato ancora poco, ha espresso principi e auspici anche condivisibili, ma nei fatti non si vedono cambiamenti significativi. D’altra parte è difficile cambiare i fatti, non basta dire di essere competenti quando la realtà è così complessa e difficile da scalfire. I numeri dicono che Draghi e il suo governo hanno ancora un consenso superiore al 50%. Una cifra che resta positiva, ma bisogna considerare che questo esecutivo è appoggiato dall’85% dei parlamentari; una base impressionante, molto più larga del reale apprezzamento che c’è fuori dai palazzi. Non credo che la diminuzione nella fiducia in Draghi sia colpa della sua scarsa capacità comunicativa, penso invece sia responsabilità degli intermediari, cioè i giornalisti. Gran parte della stampa e dei media italiani hanno inscenato un’ovazione incredibile alla nascita del governo Draghi. Ora si inizia a vedere che quell’ovazione non riflette un eguale entusiasmo tra i cittadini elettori.

Gianfranco Pasquino

Da Consip a Anac: il caso Catalano e l’intrico di norme sulle porte girevoli

La premessa è d’obbligo: tutte le norme sono state rispettate. Eppure la vicenda sta facendo discutere nei palazzi romani. S’intende la nomina di Renato Catalano come nuovo segretario generale dell’Autorità anticorruzione (Anac): l’incarico (tre anni, 220mila euro l’anno) decorre dal 1° marzo. A far discutere è il fatto che Catalano, dirigente generale di Palazzo Chigi, è stato fino a novembre scorso presidente della Consip, la centrale acquisti della P.A. sui cui atti vigila proprio l’Anac. Che succede se Anac si dovrà occupare di una gara Consip bandita ai tempi di Catalano?

Le legge sulle incompatibilità (la “Severino” del 2013) prevede (articolo 4) l’inconferibilità di incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni statali (come è l’Anac) per coloro che, nei due anni precedenti, hanno svolto incarichi in enti di diritto privato o finanziati dall’amministrazione che conferisce l’incarico. A verificare sull’applicazione della legge, peraltro, è proprio l’Anac.

Contattata dal Fatto, l’Autorità fa sapere che ha svolto un’istruttoria per verificare che Catalano non rientri nelle maglie della Severino. La verifica ha avuto esito positivo perché – spiega – “dalla visura camerale” si è accertato che il dirigente “era stato nominato presidente di Consip senza deleghe gestionali” (pre-requisito della Severino) e perché la centrale acquisti della P.A. non è un privato ma una in house del ministero dell’Economia e, come tale, è parte della Pubblica amministrazione e quindi non può “avere interesse a condizionarne l’azione in senso favorevole ai propri interessi”. Da Consip passano gare miliardarie, ed è normale che Anac si occupi della legittimità degli atti della centrale acquisti. Il fatto che ai piani alti dell’Autorità, che vigila anche su Consip, oggi sieda l’ex presidente di Consip non è considerato un problema. La legge è rispettata, e tanto basta.

Catalano peraltro non è nuovo a nomine che hanno provocato qualche malumore. A novembre 2019 sarebbe dovuto decadere dalla Consip perché l’allora ministro Roberto Gualtieri non l’aveva riconfermato al Tesoro esercitando lo spoils system. Invece di trovargli un incarico, Palazzo Chigi e Tesoro s’inventarono il capolavoro di un protocollo d’intesa in cui il primo affidava Catalano al secondo per svolgere un incarico di studio e consulenza permettendogli di continuare a presiedere la Consip. Mai mettere limiti alla fantasia nelle nomine dei grand commis. Sempre a rigor di legge.

“Su Eni-Nigeria critiche ingiuste. L’indagine dei pm era corretta”

Iprocessi si fanno per arrivare a una sentenza, che può essere di condanna oppure d’assoluzione: è la normalità processuale. Ma nel caso Eni-Nigeria, l’assoluzione in primo grado ha scatenato critiche, polemiche, attacchi ai magistrati che hanno rappresentato l’accusa. Tanto che è dovuto intervenire il procuratore della Repubblica, Francesco Greco, con un comunicato in cui ha difeso il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, “i quali, nonostante le intimidazioni subìte, hanno svolto il loro lavoro con serenità, professionalità e trasparenza”; e ha ribadito che “in materia di corruzione internazionale, l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è rafforzata dagli impegni assunti dallo Stato italiano con la convenzione Ocse di Parigi del 1997”.

Ora la partita si è trasferita nel processo d’appello a due degli imputati dell’inchiesta Eni-Nigeria sul campo petrolifero Opl 245 (i mediatori Emeka Obi e Gianluca Di Nardo) che avevano scelto il rito abbreviato ed erano stati condannati in primo grado a 4 anni. Il processo d’appello si è aperto con una scelta inaspettata del procuratore generale Francesca Nanni, che invece di mandare in aula, a rappresentare l’accusa, uno dei magistrati che si occupano di processi per corruzione (Fabio Napoleone, Vincenzo Calia, Massimo Gaballo), ha incaricato Celestina Gravina, trasferita dal Csm a Milano dopo una non brillante permanenza a Matera come procuratore della Repubblica (aveva definito, davanti alla Commissione antimafia, “fuocherelli” gli attentati mafiosi in Basilicata; e “chiacchiere da comari”, davanti alla Bicamerale sul ciclo dei rifiuti, le denunce di traffici di materiali radioattivi).

Gravina ha subito chiesto l’assoluzione per i due imputati. E ha criticato l’eccessivo costo delle indagini della Procura di Milano: “C’è stato un grande dispiego di risorse di cui qualcuno dovrà rispondere”. Sono insorti tre autorevoli ex magistrati della Procura generale – Laura Bertolé Viale, Maria Elena Visconti e Salvatore Sinagra – che hanno firmato una lettera in cui contestavano “le critiche per l’eccessivo costo delle indagini”. Sinagra (il magistrato che firmò le condanne in appello per i poliziotti che fecero irruzione nella caserma Diaz durante il G8 di Genova) ha accettato di spiegare al Fatto quella lettera. “I nostri rilievi riguardavano soltanto l’affermazione secondo cui quell’indagine aveva comportato un ‘enorme spreco di risorse’. Ciò equivale a dire che l’indagine non andava fatta. Questa valutazione, non necessariamente connessa alla richiesta di assoluzione, è inopportuna e indebita. Su un piano più generale”, continua Sinagra, “si deve osservare che l’oggetto del giudizio d’appello non sono le indagini, ma la sentenza appellata. Nel processo di secondo grado, le critiche del procuratore generale (pg) dovrebbero rivolgersi alla sentenza, e non alle indagini”. Non solo: “Il processo Eni-Nigeria rientra sicuramente fra i processi indiziari, nei quali la decisione è frutto della relazione logica con la quale il giudice lega i vari indizi. Questa operazione è inevitabilmente impregnata di soggettivismo e così si spiega che tali processi, nei vari gradi di giudizio, possano avere esiti opposti. Ma questo non raro fenomeno non sempre è significativo di indagini sbagliate, perché le stesse indagini possono dare luogo a sentenze contrastanti. I toni sprezzanti non si addicono quindi alla valutazione della prova indiziaria”.

Ma è normale che la pubblica accusa in appello smentisca la richiesta di condanna del pm in primo grado, già accolta dal giudice, e chieda l’assoluzione? “Sul piano dello stretto diritto nulla lo vieta. I due uffici di pubblica accusa, uno per il primo grado e uno per l’appello, sono funzionalmente differenti. C’è anche la possibilità che il magistrato del pubblico ministero che ha svolto le indagini possa essere applicato dal pg a rappresentare l’accusa in appello. Il sistema impone perciò, per la stessa credibilità generale della pubblica accusa nel suo complesso, una certa coerenza nella condotta dei due uffici, con l’eccezione delle ipotesi di avocazione. Deve quindi considerarsi del tutto eccezionale la richiesta di assoluzione del pg, dopo una condanna ottenuta in primo grado. Infatti, il sostituto pg d’udienza che intende chiedere la riforma della sentenza di condanna in processi penali di rilievo, sottopone, in base a una prassi normalmente seguita, la sua intenzione al capo dell’ufficio, il procuratore generale: la sua richiesta deve essere valutata dal titolare dell’ufficio e non può essere lasciata alle scelte del singolo sostituto”.

Quanto alle critiche sull’opportunità di sottoporre a indagini i “campioni nazionali”, secondo Sinagra “ignorano due principi costituzionali: l’obbligatorietà dell’azione penale e il principio di uguaglianza di tutti davanti alla legge. Ma richiedono anche l’attenzione verso la libertà della stampa, perché quei campioni foraggiano, lecitamente con la pubblicità, molti giornali che, seppur sommessamente, pretendono una sorta di immunità per i ‘campioni nazionali’”.

Questo capitalismo delle dosi farebbe ridere anche Marx

Vien voglia di rifugiarsi dietro all’effigie barbuta del vecchio Marx, per goderci lo spettacolo delle ideologie dominanti spazzate via dalle turbolenze della realtà. Ma lo farò solo in fondo. Meglio iniziare dalle male parole scagliate da Draghi, uomo al di sopra di ogni sospetto di anticapitalismo, contro alcune case farmaceutiche produttrici del vaccino anti-Covid: “Gli europei si sono sentiti ingannati”. Il plauso è stato generale, anche se il nostro premier s’è ben guardato dal dire la sua sul tema più spinoso: non essendo il vaccino una merce come le altre, perché non sospendere provvisoriamente la proprietà intellettuale dei brevetti detenuti dalle Big Pharma? Si sa, quando c’è di mezzo l’intangibilità della proprietà privata, solo papa Francesco e pochi altri osano farsi avanti. Al massimo i governi dei paesi poveri esprimeranno una mozione di protesta al Wto. Eppure tutto è cambiato: di fronte alla pandemia mondiale, anche chi predicava in rima “meno Stato, più mercato”, i fautori della libera circolazione delle merci (non delle persone, per carità!), pronti a tacciare di comunismo chiunque auspicasse forme di controllo pubblico su settori strategici dell’economia, hanno riposto fra gli attrezzi inservibili le loro teorie.

Meglio tardi che mai, si dirà. Non fosse che fra quegli stessi aedi del liberismo ha preso piede una visione altrettanto, se non più preoccupante: il nazionalismo dei vaccini altrui. Di che si tratta? Ormai potremmo mettere in fila una galleria di ritratti delle personalità (sprovviste di competenze scientifiche) impegnate a sostenere, per allineamento geopolitico, questo o quel fornitore di vaccini. Ci sono giornali che dedicano titoloni elogiativi di prima pagina al futuro soccorso promesso dagli Usa all’Europa ritardataria. Sia ben chiaro: solo una volta finito di vaccinare la popolazione americana, e a condizione che nel frattempo non ci facciamo indurre in tentazione dai russi o, peggio, dai cinesi. Di contro, l’esperto virologo Matteo Salvini non lascia passare giorno senza esternare la sua preferenza per lo Sputnik. Le inadempienze dell’anglo-svedese AstraZeneca solleticano gli amarcord dei nemici della perfida Albione. Mentre le pulsioni no-euro vengono riversate contro la Germania di Angela Merkel. Con la faciloneria del senno di poi, in molti innalzano a modello la vaccinazione di massa realizzata in Israele (9 milioni di abitanti), come se fosse facile replicare quel modello in Ue, su scala cinquanta volte più grande.

Mi fermo qui, ma potrei continuare ricordando gli accordi intergovernativi stipulati fra piccoli Stati in barba al coordinamento di Bruxelles, nella speranza di riscuotere consenso col si salvi chi può e gli altri si arrangino. È il nazionalismo dei vaccini altrui, appunto. Abbinato a impossibili propositi di autosufficienza, come se non sapessimo che le dosi infialate negli stabilimenti domestici contengono semilavorati provenienti da ogni parte del mondo. E dunque solo pochi grandi paesi possono permettersi il protezionismo. La produzione di vaccini è un classico esempio di interdipendenza globale.

A destra è piaciuta la minaccia di Draghi: se l’Ue non si muove, faremo da soli. Risultato: dal Veneto alla Campania ha trovato improbabili scimmiottatori, sovranisti del fai da te regionale, in una logica di mero accaparramento. Ecco perché m’è tornato in mente lo sguardo lungo di Karl Marx nel discorso in favore del libero scambio che tenne all’Associazione democratica di Bruxelles il 9 gennaio 1948: “Il sistema protezionista è conservatore mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il proletariato”. La pandemia non promette nessuna rivoluzione sociale, d’accordo, ma il nazionalismo dei vaccini ne costituisce una variabile tra le peggiori.

A Bruxelles moniti, strigliate e impuntature. Ma non si decide

La stretta sull’export dei vaccini, la distribuzione dei 10 milioni di dosi “accelerate” di Biontech Pfizer, il certificato verde digitale (volgarmente detto “passaporto”). Ancora, le promesse di Joe Biden e i rapporti con la Russia. Il Consiglio europeo di giovedì ha lasciato una serie di nodi aperti. Austria, Slovenia, Croazia, Lettonia, Repubblica Ceca e Bulgaria vorrebbero superare il criterio della divisione per popolazione dei vaccini Biontech in anticipo. Ma al momento di opzionare le dosi sono stati loro a non voler comprare tutte quelle a disposizione. Ora gli altri negano nuovi criteri, ma non vogliono irrigidirsi: grana in mano ai Rappresentanti permanenti presso la Ue. Se è per il rafforzamento del regolamento sull’export, con i principi di “proporzionalità” e “reciprocità”, le valutazioni preliminari spettano ai vari Paesi. Pure il premier italiano Draghi si è espresso a favore degli accordi (e non delle battaglie legali) anche su Astrazeneca con la Gran Bretagna. D’altra parte, il governo inglese aveva ribadito di avere dei contratti di esclusiva, diversamente dal resto dei Paesi Ue. Lavori in corso per i “certificati digitali interoperabili e non discriminatori”. Lo stesso Draghi nella call preparatoria del Consiglio con il presidente Mattarella aveva sottolineato le problematiche relative alla privacy. Passando alla “geopolitica” dei vaccini, le dosi dagli States arriveranno solo dopo l’uscita degli Usa dall’emergenza. Per una valutazione, ci vogliono settimane. Mentre il dibattito sulle relazioni tra Ue e Russia è stato rimandato a un altro Consiglio. In Europa si moltiplicano i siti per produrre lo Sputnik, ma prima delle valutazioni dell’Ema il problema non si pone. Nel frattempo, la Corte costituzionale tedesca ha gettato le sue ombre sul Recovery Fund, bloccando la legge che dà l’ok al piano fino al pronunciamento sui ricorsi. Sullo sfondo, le resistenze a eurobond permanenti.

Ue, La carica dei 124 siti alla fiera del vaccino

Da domani a mercoledì si tiene l’euro-fiera dei vaccini Covid, promossa dall’eurocommissario all’Industria Thierry Breton. Obiettivo: accelerare l’autonomia vaccinale dell’Ue. Decine di aziende con distinte specializzazioni che coprono tutta la catena dela produzione si incontreranno online, discutendo la condivisione di tecnologie e opportunità di collaborazione, per aumentare la produzione di dosi. L’iniziativa dà attuazione al meccanismo di cooperazione inter-aziendale che Breton aveva annunciato al Ministro italiano dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti a inizio marzo.

I nomi delle società che partecipano all’evento sono tenuti sotto riserbo. Secondo quanto appreso dal Fatto, saranno presenti anche Reithera di Castel Romano e la pugliese Lachifarma, le due imprese tricolori che si sono ufficialmente impegnate a produrre per il mercato nazionale. La seconda, con un investimento di 20 milioni di euro, resta in attesa di commesse dal governo per produrre per conto delle varie case farmaceutiche. La prima, forte di un finanziamento pubblico di 80 milioni di euro, prevede di sfornare annualmente 100 milioni di dosi del proprio vaccino, sulle quali l’Italia ha un diritto di prelazione. È’ lo stesso modello pubblico-privato con cui il Regno Unito si è riservato le prime 30 milioni di dosi prodotte sul suo territorio da Astrazeneca che è ora al centro di un tira e molla tra Londra e Bruxelles, infuriata per il taglio dei quantitativi promessi dal colosso anglo-svedese.

Vista la gara ai nazionalismi vaccinali, l’Ue può contare poco sulle fabbriche al di là della Manica e negli USA, dove tuttavia Joe Biden – secondo alcuni media Usa – starebbe valutando la sospensione dei brevetti delle Big Pharma statunitensi per facilitare la produzione su scala mondiale. Per non rallentare la propria campagna di immunizzazione, all’euro-vertice della settimana scorsa i 27 capi di stato e di governo hanno confermato l’opzione di ricorrere al blocco dell’export proposto dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Ma, parallelamente, si scommette anche sull’ampliamento dell’infrastruttura di approvvigionamento sul Continente.

La speciale task force dell’esecutivo di Bruxelles ha commissionato un sondaggio per verificare quante aziende nei diversi Stati membri sarebbero in grado di contribuire allo sforzo congiunto. I due enti che l’hanno condotto, l’European Clusters Alliance e il Council of European BioRegions, hanno stilato gli elenchi degli operatori (al momento confidenziali) che hanno risposto di potersi occupare di una o più fasi della produzione. Di essi, 124 (10 sono italiane) fanno parte della rete Ue dei raggruppamenti (cluster) industriali. Tutti sono pronte ad affiancare le case farmaceutiche che hanno firmato con la Commissione i contratti di fornitura dei vaccini per recuperare i ritardi nelle consegne annunciati dall’inizio dell’anno.

Complessivamente, in Europa, sono 40 le aziende in grado di produrre la sostanza biologica del vaccino (il liquido da iniettare), mentre quasi 100 sono specializzate nell’ultima tappa dell’infialamento. Al momento, sono appena una trentina gli impianti di terzi alle quali le multinazionali hanno subappaltato le due fasi, come anticipato dal Fatto. Le capacità sono quindi ancora sotto-sfruttate e c’è ampio margine di incremento. Jonathan Dakin, analista alla società di consulenza farmaceutica BioPlan Associates, avverte: “Il deficit di distribuzione è anche dovuto alla scarsità di attrezzature basilari come le fiale e siringhe”.

A dare disponibilità per moltiplicare queste attrezzature sono 45 aziende. “Stiamo aumentando le dosi su base mensile e puntiamo a totalizzarne almeno 300 milioni nel secondo trimestre”, afferma una fonte anonima della Commissione, “a questo ritmo, entro la fine di giugno avremo vaccinato più della metà della popolazione”.

Per Lachifarma bisogna andare oltre l’emergenza. “Avremo bisogno di diversi mesi per riconvertire il nostro stabilimento”, spiega l’addetta stampa Lucilla Quaglia, “vogliamo garantire al nostro Paese sufficienti dosi nel lungo periodo per i richiami che dovranno essere ripetuti tutti gli anni contro il rischio di nuove ondate pandemiche”.

 

Gli ultimi saltafila sono i dipendenti della Sardegna in smart working

Èil fanalino di coda nelle vaccinazioni over 80, con un misero 6% e anche il resto delle categorie arranca (solo 206.135 dosi). Ma non per tutti i sardi i tempi sono grami. Per esempio, per il centinaio di dipendenti dell’assessorato alla Sanità – amministrativi che i pazienti li vedono solo sui fogli Excel, molti in smart working – lunedì sarà il giorno del vaccino. A denunciare la scelta dell’assessore Mario Nieddu, l’ex sindaco di Cagliari Massimo Zedda e il M5S Michele Ciusa. “Non esiste spiegazione plausibile ma soprattutto non ci sono regole, non ci sono priorità, non c’è nessuna trasparenza – scrive Zedda –. Il presidente (Christian Solinas, ndr) decanta la macchina organizzativa, intanto le somministrazioni agli over 80 vanno a rilento e la stragrande maggioranza dei pazienti deboli non sa ancora quando, come e dove riceverà la prima dose”. Non meno duro Ciusa: “Non accettiamo che vengano vaccinati dipendenti amministrativi 40enni anziché persone di età più avanzata che, magari, svolgono professioni a contatto col pubblico e ne avrebbero diritto quanto i dipendenti regionali”.

Ma a fare i “furbetti” ci si sono messi anche alcuni farmacisti dell’Oristanese. “Qualche collega più ‘furbo’ degli altri – denuncia il presidente dell’Ordine di Oristano Gianfranco Picciau – ha inserito fra il personale anche qualche parente (genitori in pensione, figli non ancora laureati, mogli, mariti e affini) a prescindere che questi lavorassero o meno in farmacia”. Un escamotage che ha lasciato più di un (vero) farmacista senza dose.