Vaccini-flop: appalto alla società segnalata da Anac per tangenti

Per costruire il suo portale vaccinale – quello che non funziona, ormai celebre per i bachi del sistema e le inefficienze, e che presto verrà sostituito da una piattaforma di Poste –, Aria, la centrale acquisti della Regione Lombardia, ha usato un fornitore della black list di Anac, perché coinvolta in un’inchiesta per tangenti. È Engineering Ingegneria Informatica, la società che per l’agenzia regionale – secondo quanto riferito dal neo amministratore unico Lorenzo Gubian, il 25 marzo scorso – si è occupata della somministrazione dei vaccini. E, ancora più grave, Aria ha affidato l’appalto – 22 milioni il costo finale del portale – l’8 febbraio 2021, 19 giorni dopo il warning inviato da Anac su Engineering a tutte le stazioni appaltanti italiane, datato 20 gennaio.

Per comprendere questa vicenda, bisogna tornare al 23 giugno 2020, quando la Procura di Milano arresta 13 persone con l’accusa di aver creato un “sistema di metodica alterazione di gare a evidenza pubblica indette da Atm” (l’Azienda di trasporto milanese, ndr). Gli inquirenti scoprono che il funzionario Atm Paolo Bellini aveva falsato almeno 8 gare: secondo l’accusa, alcuni fornitori avrebbero pagato tangenti. Tra gli arrestati, anche quattro manager di Engineering: Gerardo Ferraioli, Giovanni Rizzi, Carmine d’Apice e Carmine Rossin (ai domiciliari). Ferraioli e Rossin, per i pm, avrebbero concesso a Bellini uno stipendio da 1.000 euro al mese per tre anni e promesso ulteriori 120 mila euro in cambio di notizie segrete sulle gare. Nell’ordinanza di arresto, oltre alle 13 persone fisiche, compaiono anche le società, tra le quali Engineering “perché non adottava, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire la commissione dei reati”. A quel punto, Atm il 3 luglio 2020 risolve il contratto con Engineering (e con altre 6 società). La società non ci sta e ricorre al Tribunale civile. Ma il giudice, in una pre-sentenza, dà ragione ad Atm. Un precedente importante. Atm allora chiede ad Anac di inserire Engineering nella sezione “Annotazioni riservate” del casellario informatico, cioè nella lista – visibile solo dalle stazioni appaltanti – dove compaiono tutte quelle aziende che hanno avuto “criticità”. Anche qui Engineering si oppone, ma Anac dà ragione ad Atm. E il 20 gennaio la nota viene pubblicata online.

Il documento “non comporta l’immediata esclusione dalle gare pubbliche, ma consente alle stazioni appaltanti l’esercizio del discrezionale apprezzamento circa l’affidabilità del contraente”. Non un divieto a usare la società, ma certamente un chiaro avvertimento. Che però Aria non raccoglie. E infatti, l’8 febbraio, dopo il rifiuto di Poste di fornire il portale per la campagna vaccinale del Pirellone, Guido Bertolaso annuncia che si userà il sistema di Aria, realizzato da chi? Da Engineering. “Avremo il sistema informatico migliore d’Italia”, aveva detto il giorno prima trionfante il commissario. Come poi quella piattaforma sia naufragata sotto il peso dei disservizi, è cosa nota.

Cercando di difendersi dalle critiche, l’ex dg di Aria Gubian, aveva spiegato di aver usato Engineering perché storico fornitore dell’agenzia. Infatti Aria – che pur aveva inglobato Lombardia Informatica, la società che deve creare e gestire i sistemi informatici del Pirellone – appalta a Engineering quasi tutto, grazie ai bandi vinti negli anni con Consip. Gli oltre 500 dipendenti pagati dal Pirellone per agire come una innovativa software house (così l’assessore regionale Davide Caparini definì la nascente Aria nel 2019) producono però poco, spesso limitandosi a controllare i servizi appaltati a Engineering. Con la conseguente lievitazione dei costi. “È una scelta incomprensibile”, commenta la presidente della commissione regionale Antimafia e anticorruzione, Monica Forte: “Quando si maneggiano soldi pubblici, si deve assicurare la massima trasparenza”· “Dopo aver ripetuto che Aria è un carrozzone, possiamo dire che è anche un appaltificio da miliardi di euro e non si capisce cosa ci stiano a fare 500 dipendenti se è tutto in appalto”, aggiunge l’M5s, Marco Fumagalli.

Il “giapponese” Salvini non molla: “Riapriamo”

Il giorno dopo la cabina di regia in cui è stato deciso che anche aprile sarà il mese delle chiusure, con tanto di sberla in conferenza stampa di Mario Draghi (“Le aperture o le chiusure sono pensabili o impensabili solo in base ai contagi”), Matteo Salvini non si rassegna: “Se dopo Pasqua la situazione sanitaria in tante città italiane sarà tornata tranquilla e sotto controllo, secondo me sarà giusto riaprire bar, ristoranti, scuole, palestre…” scrive su Facebook di buon mattino a mo’ di sondaggio dato in pasto ai suoi follower (tutti d’accordo, ça va sans dire). Eppure il leader della Lega sa che non sarà possibile. Glielo ha detto venerdì dopo pranzo sia il suo numero due, e voce del Carroccio nel governo, Giancarlo Giorgetti, sia lo stesso Draghi che con Salvini ha avuto un freddo scambio via sms. Epperò Salvini sbraita, si dimena, incontra sindaci e amministratori locali, fa filtrare agenzie aperturiste e torna sui temi identitari per parlare d’altro, di migranti e Ong. “Ma nessuno lo ascolta più – mastica amaro un senatore leghista – il problema di Matteo è l’irrilevanza…”.

Sì, perché se da una parte alla strategia del poliziotto buono e del poliziotto cattivo (Giorgetti e Salvini) non crede più nessuno, dall’altra il leader della Lega ha un problema tutto interno: ormai anche nel Carroccio in molti non lo seguono più e il segretario non riesce più a incidere sulle decisioni del governo. Basti pensare solo agli ultimi dieci giorni: Salvini si è scontrato con Giorgetti su vaccini (il leader vuole Sputnik, il ministro no), il condono (il leader voleva che il ministro uscisse dal Cdm), ma anche sul passaporto vaccinale. Il segretario è contrario e parla di “lista di proscrizione” che “limita le libertà” mentre per il suo ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, è uno “strumento fondamentale” e per Giorgetti “è importante”. Sul “green pass vaccinale” Salvini è stato smentito anche dai 29 eurodeputati leghisti che giovedì hanno votato a favore della procedura per istituire il passaporto.

Ma la fotografia perfetta dello sbandamento del leghista si notava venerdì: di buon mattino Salvini aveva chiesto a Giorgetti di ottenere le riaperture in cabina di regia ma il titolare del Mise, quando ha capito dalla bocca di Draghi che non era aria, ha dovuto soprassedere prima di ricevere la telefonata furiosa del capo a fine riunione. Garavaglia non pervenuto. E allora Salvini si è rinchiuso nella sua trincea in Senato. E da lì sono partiti i missili degli ultimi “giapponesi” sovranisti, Claudio Borghi, Alberto Bagnai e Armando Siri, che sono esplosi sui social: “Mi sono rotto le palle della cabina di regia” ha twittato Borghi prima di chiedere di “aprire tutto e subito” e organizzare con Siri una diretta Facebook per spiegare “le ragioni scientifiche per riaprire”. Senza ottenere l’ascolto sperato.

Scudo totale e anti “No Vax”. Decreto, se ne parla a maggio

Uno scudo penale e civile che copre tutta l’emergenza Covid-19 e non solo le vaccinazioni: operatori e aziende rispondono solo per dolo e colpa grave. E un obbligo vaccinale per tutti gli “esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario”, quindi medici, infermieri e operatori sociosanitari, con sospensione di attività e stipendio.

Sono le bozze in discussione, ovviamente provvisorie, tra i tecnici di Palazzo Chigi, Giustizia, Salute e Lavoro, in vista del Consiglio dei ministri che dovrebbe riunirsi martedì o mercoledì per le nuove norme annunciate da Mario Draghi e da Roberto Speranza. La riapertura delle scuole fino alla prima media anche nelle zone rosse, il prolungamento fino al 30 aprile dell’abolizione della zona gialla che fino a Pasqua ha già colorato di arancione/rosso il Paese. Il governo farà un decreto legge, forse due. A ogni modo il Parlamento ne discuterà più in là: c’è tempo fino al 13 maggio, alla scadenza dei 60 giorni dal decreto emanato appunto il 13 marzo che scade martedì 6 aprile, dopo Pasqua. Draghi vuole evitare i Dpcm che ricordano Giuseppe Conte. Ma alla fin fine il risultato è lo stesso: per la conversione in legge si può arrivare anche a maggio, quando almeno alcune restrizioni – si spera – saranno già scadute e non più necessarie. Il ministero dell’Istruzione intanto prepara la riapertura: esclusa l’ipotesi dei tamponi a tappeto sul modello della Gran Bretagna o di Bolzano, mai presa davvero in considerazione, si faranno a campione; si lavora anche per costruire team capaci di intervenire per fare i test in caso di eventuali focolai scolastici con l’aiuto di Asl, Protezione civile e Forze armate.

“Per tutti gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario è obbligatoria e gratuita la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da Sars-Cov-2, che costituisce requisito di idoneità all’esercizio della professione e allo svolgimento dell’attività lavorativa”, si legge nella bozza delle “Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale anti Sars-CoV-2” che intendono evitare nuovi cluster negli ospedali e nelle Rsa legati a personale non vaccinato. L’immunizzazione “può essere omessa o differita solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”. Le Asl, che avranno gli elenchi, inviteranno i non vaccinati a vaccinarsi. Accertata la “mancata osservanza dell’obbligo vaccinale e sino al relativo adempimento, è interdetto l’esercizio della professione sanitaria ed è sospesa la prestazione, in qualsiasi forma, dell’attività lavorativa; in ogni caso, fino al perdurare dell’inadempimento, non è dovuta la corresponsione della retribuzione”. Un successivo comma introduce una sanzione amministrativa di cui la bozza non specifica l’ammontare. Al governo c’è chi vorrebbe anche il licenziamento.

Quanto allo scudo penale, nella bozza l’esenzione è ampia: “In ragione della novità ed eccezionalità dell’emergenza epidemiologica determinata dal diffondersi del Covid-19, in relazione agli eventi dannosi che in essa hanno trovato causa, anche con specifico riferimento alle attività di vaccinazione, la responsabilità civile delle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche o private, e degli esercenti le professioni sanitarie, limitata ai casi in cui l’evento dannoso risulta riconducibile a condotte poste in essere con dolo o colpa grave”. Cioè “palese e ingiustificata violazione delle regole generali di base che disciplinano la professione sanitaria, nonché dei protocolli”. È una rivendicazione storica dei medici, ribadita ieri dal presidente della Federazione dei loro Ordini, Filippo Anelli, anche al di là dell’emergenza Covid. Ci sono proposte in questo senso anche a firma del sottosegretario alla Salute e chirurgo, Pierpaolo Sileri.

Cartabia copiativa

Allacciate le cinture, perché “nelle stanze della ministra Marta Cartabia sta prendendo corpo la giustizia che verrà”, cioè “il Piano Cartabia: rivoluzione digitale e 16 mila assunzioni” (La Stampa). Un ciclone. E poi dicono che il cambio di passo non c’è. In un mese SuperMarta ha già scoperto che “occorrono grandi investimenti, migliaia di assunti, ristrutturazioni edilizie e massiccio ricorso al digitale”. E ha subito “destinato alla Giustizia circa 3 miliardi” di Recovery, mica bruscolini: per la precisione 2.750 milioni. Vista la cifra, ci ha assaliti il tipico déjà-vu che ti ricorda qualcosa ma non sai bene cosa. Fortuna che c’è Google: ma sì, era la relazione che l’ex ministro – parlando con pardon – Alfonso Bonafede doveva leggere in Parlamento il 28 gennaio, ma le opposizioni e Iv gli garantirono il voto contrario prim’ancora di ascoltarlo. E Conte si dimise. Si dirà: quelli erano i Peggiori, ora i Migliori ci avranno aggiunto un surplus di competenza. Infatti SuperMarta “stanzia 2,29 miliardi per 16.500 nuovi assunti a tempo determinato” nell’“Ufficio del Processo”. Invece quel pirla di Bonafede stanziava “2,3 miliardi in assunzioni a tempo determinato… di 16.000 addetti all’‘Ufficio per il Processo’”. Vabbè, dài, sarà una coincidenza. Infatti la Cartabia, furba, ha in mente “gli assistenti del giudice sul modello dei ‘clerks’” per “supportare il giudice” nella “ricerca dei precedenti giurisprudenziali e dei contributi dottrinali pertinenti”. Quel somaro di Bonafede, viceversa, s’era messo in testa di “supportare il giudice nello studio dei precedenti giurisprudenziali e della dottrina pertinente, sul modello dei ‘clerks’”. Ma vi rendete conto in che mani eravamo? Poi la Cartabia mette “426 milioni per ammodernare, ristrutturare o addirittura costruire palazzi di giustizia”. Fortuna che è arrivata lei, perché quel ciuccio di Bonafede metteva “circa 470 milioni” per “la realizzazione di nuove cittadelle giudiziarie e la riqualificazione delle esistenti”. L’abbiamo scampata bella. Il modello Cartabia prevede poi “83 milioni per la digitalizzazione degli archivi” con “data-center nazionali”, più “217 milioni per lo smart-working” e altri 50 in “intelligenza artificiale”. Figurarsi se veniva in mente a quel pirla di Bonafede, che infatti buttava le stesse somme per “digitalizzare gli archivi”, “data center (senza trattino, nda) nazionali”, “smart working (senza trattino, nda)” e “intelligenza artificiale”. I soliti malmostosi diranno che Cartabia copia Bonafede e la giustizia che verrà è quella che c’era prima. Ma ignorano le due leggi dei Migliori. La legge del cuculo, che s’imbuca nei nidi altrui e se ne fa bello. E la legge Chlorodont-Virna Lisi: la signora, con quella bocca, può dire ciò che vuole.

La salute gestita dall’Oms, un “gioco” internazionale tra pubblico e privato

La domanda chiave di questo volume, Geopolitica della salute a cura di due indubbi esperti del settore, Nicoletta Dentico ed Eduardo Missoni, è semplice: “L’Oms ci serve o no?”. L’Organizzazione mondiale della salute è indubbiamente un protagonista dirimente del periodo attuale attraversato dalla pandemia da Covid-19 e i suoi comportamenti hanno prodotto interrogativi e indagini giornalistiche.

Si è mosso conseguentemente dopo l’esplosione del virus in Cina, oppure ha tergiversato? È in grado di tenere un rapporto adeguato con gli Stati membri, oppure soggiace allo spropositato potere delle strutture private? Il libro non risponde ovviamente a tutte le difficili domande, ma costituisce un ottimo canovaccio per addentrarsi dentro questo mondo così decisivo, eppure così poco conosciuto.

L’Oms nasce subito dopo la Seconda guerra mondiale, è il frutto delle istituzionali multilaterali che animano la rete di relazioni mondiali e costituisce un significativo passo in avanti nel coordinamento delle politiche sanitarie. Si comincia con le sei linee fondamentali, poi si passa ai Regolamenti internazionali che mostrano presto i primi ritardi. Se la prima parte della sua vita, dal 1948 al 1988, può essere definita di “assestamento”, la seconda costituisce il “periodo buio” con l’avvento del neoliberismo, la centralizzazione burocratica e il ruolo degli attori “non statali” che avranno un ruolo preponderante. Fino ad arrivare, nel bilancio 2018-19, a vedere al terzo posto tra i finanziatori, dopo Usa e Gran Bretagna, la Fondazione Bill e Melinda Gates. E se il Covid costituisce “una palestra” per misurare i muscoli dell’Oms, è vero anche che il varo delle alleanze come Gavi e Covax vede un ruolo inquinante degli interessi privati e di BigPharma. L’Oms serve, dicono l’autore e l’autrice, ma siamo all’ultima occasione per salvarla.

Geopolitica della salute Nicoletta Dentico e Eduardo Missoni – Pagine: 264 – Prezzo: 19 – Editore: Rubbettino

 

Il laboratorio lacustre del dottor letterato

Spesso per descrivere la prolificità di Simenon si scomoda una formula suggestiva: “Una macchina da scrivere umana”. Tocca scomodarla anche per Andrea Vitali, firma sempre brillante del nostro giornale.

La sua tastiera non rischia mai di accumulare polvere. Non passa giorno che l’autore, nato nel 1956 in “quel ramo del lago di Como”, non faccia danzare i polpastrelli. Si contano già una settantina di opere dal suo esordio nel 1990 con Il procuratore. Mentre esce un nuovo libro, ne ha già pronto uno nel cassetto. Mentre ne scrive un altro già abbozza il successivo che scriverà. Un romanziere di intrattenimento che rivendica il suo artigianato seriale e che, in un microcosmo editoriale di ambizioni fuori fuoco, non mendica quarti di nobiltà intellettuale.

Il romanzo che lo impone – complice il blurb di Daria Bignardi: “Descrive così bene le brume lacustri che mentre leggevo mi è venuto il raffreddore” – è Una finestra vistalago del 2003: commedia degli equivoci alimentata da ben sette individui con lo stesso nome e cognome. Da allora Vitali rimpingua le casse del suo editore storico Garzanti superando regolarmente le centomila copie a titolo. Da Olive comprese (le indagini “innocue” del maresciallo Maccadò nel Ventennio fascista) a Bello, elegante e con la fede al dito (storia d’amore datata Anni 60 tra il milanese oculista Adalberto “un po’ pirla, un po’ pistola”, con la titolare di una profumeria), le case di tanti italiani rintoccano di sorrisi grazie a volumi con dialoghi imbevuti di quella genuinità popolaresca che solo chi sa ascoltare è capace di riprodurre.

È come se Vitali strappasse, a una a una, le sue storie da una cuccagna invisibile. In questi giorni Einaudi Stile Libero riporta nelle librerie Vivida mon amour: storia di un esilarante serrato corteggiamento da parte di un medico fresco di laurea nei confronti di una donna dal nome misterioso, benestante figlia di floricoltori e dotata di un carattere incendiario. Vivida, nome singolare che probabilmente l’autore avrà attinto, come d’abitudine per battezzare i suoi personaggi, dal calendario di Frate Indovino. Chissà che questa sovrabbondanza di estro creativo non sia da rintracciare nell’impossibilità di una solitudine.

Primo di sei fratelli e assediato da una corte di zie ciarliere, Vitali è stato medico di base a contatto ogni giorno con svariati pazienti in quel braccio di terra e di acqua della sua Bellano (una di quelle località con piazzetta e case sparse che a un forestiero capita di scoprire la domenica a caccia di un ristorantino). La sua narrativa, come una spugna, assorbe corpi voci aneddoti, e li rimescola in storie di provincia per la gran parte collocate nel primo Novecento e popolate di prelati, impiegati comunali, marescialli, perdigiorno, modiste, maestre, beghine. “Un piccolo mondo antico” che critici pigri, irretiti dal medesimo scenario lacustre, accostano a Piero Chiara. Il parallelo più calzante sarebbe con Giovannino Guareschi. Con il creatore di Don Camillo, Vitali condivide il talento per la commedia: ridere con i personaggi e non ridere dei personaggi. In Chiara c’è un tocco di perfidia che nella penna di Vitali non si distilla mai. Del resto l’autore ha confessato che tutto il suo potenziale di violenza si esaurisce nei film a tinte forti che adora sciropparsi.

Non dissimile la ragione per cui Vitali ha deciso di abbandonare la sua professione anni fa (salvo ripensamento per Covid, ndr). Dopo avere assistito e visto morire un quarantenne, si è detto – memore della dolente impotenza che sperimentò a 17 anni alla scomparsa della madre – che “il serbatoio delle emozioni era saturo”. Altrettanto vero che è dentro l’ambulatorio che ha affinato la vena umoristica che incanta i suoi lettori. Come potrebbe essere altrimenti quando ti ritrovi uomini e donne semplici che, descrivendo i propri malanni, si esibiscono in siparietti che sono già letteratura? Come potrebbe essere altrimenti quando, fuori dall’uscio di casa, ti ritrovi a contemplare contrade silenziose, case abbandonate, il lungolago, il cimitero, un vecchio cotonificio, una chiesetta sconsacrata e l’immancabile caffè con un dehor stipato di pensionati? Lo stesso Vitali ha spiegato il segreto della sua fortuna: “L’universo abita nei dettagli, nelle piccole cose”.

Rapita la regina della tv del dolore, il Paese si divide: trattare oppure no?

In questo Paese del piffero che è talvolta l’Italia, prima o poi bisognerà dare atto ad Alessandro Robecchi che la magnifica saga “gialla” di Carlo Monterossi è il ritratto più efficace e crudele di una nazione stordita e piegata dalla tivù commerciale, alias la Grande Fabbrica della Merda di genesi ovviamente berlusconiana. Che sia Barbara D’Urso o qualche suo clone; che siano i talk show urlanti ma anche moderati con opinionisti voltagabbana; che siano infine i reality, i romanzi di Robecchi (firma del Fatto, che scrive anche per la tv) sono una tragicomica presa per il sedere di questo sistema irriformabile. E l’ultimo tomo monterossiano rappresenta l’apogeo di questa critica che si dimena tra l’ironia cinica, meglio realista, e una speranza minima di redenzione.

S’intitola Flora, che è il nome della conduttrice più famosa della Grande Fabbrica della Merda. Flora De Pisis, invenzione dello stesso Monterossi che poi si è pentito di aver dato vita a questa mostruosa creatura. Flora fa il verso alla d’Urso e pettina a uso e consumo del suo pubblico adorante storie drammatiche di comuni mortali. È la regina della tivù del Dolore. In un’insopportabile Milano di luglio Flora viene sequestrata. Il mistero è svelato dall’inizio: i rapitori sono un uomo e una donna che come riscatto, oltre a 10 milioni di euro, chiedono un’ora in diretta tv la sera del 24 luglio. Vogliono Flora per raccontare la storia di Robert Desnos, poeta surrealista francese morto nel 1945, dopo essere stato trovato malato in un lager nazista. Ma nessuno conosce questo folle piano. Il rapimento investe come una bufera tutto il Paese, dalla politica a scendere giù. Si tratta oppure no? Robecchi al solito fa ridere molto. Ma la sua parodia, purtroppo, è realtà. Leggere per credere.

Flora Alessandro Robecchi – Pagine: 365 – Prezzo: 15 – Editore: Sellerio

 

Quei Benevoli parenti nazisti, “Figli della furia”

“È nella natura delle cose che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa ripetersi anche quando non appartiene a un lontano passato” scriveva Hannah Arendt nel suo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, come Adorno sosteneva che il fascismo non fosse questione psicologica ma fenomeno sociale e non è vero che l’abbiamo sconfitto, può sempre tornare. Molto dipende dalla condizione politica e culturale di una nazione, dal suo stato di salute, insomma.

Lo crede anche Chris Kraus, regista, sceneggiatore e romanziere tedesco classe 1963 che col mastodontico Figli della furia è stato accostato a Jonathan Littell e al suo bestseller Le benevole. Kraus, che ha scoperto tardivamente (tutti i parenti ne erano all’oscuro) che il nonno fu spia al servizio di Hitler, si è chiesto come fosse possibile che una famiglia come la sua, di artisti e intellettuali nell’800, fosse diventata fascista nel 900. Questa ferita ha innescato così una ricerca durata dieci anni e il risultato è un’opera ambiziosa, riuscita, a racchiudere la parabola tedesca lungo tutto il secolo breve con eco l’eterna domanda: come si diventa nazisti? Come si scivola nell’orrore? Può capitare a chiunque? Ma c’è di più, perché Kraus getta luce su una questione poco nota: solo di recente, resi pubblici gli archivi della Cia, è infatti emerso uno studio sui servizi segreti della Germania Ovest post bellica e sul metodo, sistematico e organizzato, con cui una marea di ex componenti della Wehrmacht e delle Ss furono impiegati dalla Cia per difendersi dalla minaccia russa.

Accolto in Germania con interesse e curiosità, ma anche oggetto di proteste perché concede voce a carnefici che minimizzano le proprie colpe, l’opera ha per protagonisti i fratelli baltico-tedeschi Hub e Koja e la sorella adottiva Ev (le sue radici lettoni-ebree restano a lungo nascoste), legati da un filo indissolubile. Koja, io narrante, esordisce nella sezione spionaggio delle Ss dopo aver messo da parte i sogni di intellettuale-pittore, per poi divenire, al rientro dalle carceri sovietiche, agente quadruplo al servizio di Mosca, Bonn, Tel Aviv e Washington. Camaleontico, opportunista, propenso alla minor resistenza come strategia di sopravvivenza, Koja, al contrario di Hub, populista convinto e nazista fino alla fine senza mai un dubbio, non incarna l’ideologia e alla prima linea preferisce sempre le retrovie.

Entrambi nutrono amore sconfinato per Ev, donna tosta che però non difetta di sensibilità, in perenne lotta per la vita e la giustizia. Sarà quando le sue origini verranno a galla che Koja farà di tutto per salvarla e sostenerla, giustificando ogni azione per un fine, a suo avviso, più grande. Finirà nel ’74, sessantenne, in un ospedale di Monaco di Baviera con una pallottola ficcata nel cranio (non sveliamo il perché) e un hippie trentenne steso nel letto accanto. È a lui, ascoltatore indefesso, che racconterà ogni cosa, partendo da quel 1905 che vide il nonno pastore linciato dai rivoluzionari russi. Provò a difendersi con l’unica cosa che aveva in mano, una mela rossa da scagliare contro i suoi assassini, simbolo che tornerà ripetutamente a significare rispetto, onore, fedeltà o l’esatto contrario, il tradimento di una promessa.

Figli della furia Chris Kraus – Pagine: 912 – Prezzo: 22 – Editore: Sem

“Gli Irregolari di Baker Street”: la baby gang creata da Conan Doyle

Non solo Sherlock Holmes. La fervida mente di Sir Conan Doyle ha partorito diversi eroi ed eroine del mistero in una moltitudine di romanzi e racconti. Così accade che dai bassifondi della Londra vittoriana emergano dalla sua penna un manipolo di underdog adolescenti dalle tasche vuote ma dalla mente acuta. Sono Gli Irregolari di Baker Street, una vera gang di temerari che se ne frega delle rigidità classiste imposte sui sudditi di Sua Maestà per compiere una missione: liberare la metropoli dal misterioso Male che l’ha invasa. E poiché, guarda caso, vivono nelle adiacenze del noto civico 221b, diventano loro malgrado habitué del celeberrimo detective così come della sua ombra, il dr. Watson. Ma con un’interessante sovversione di ruoli che non andremo a rivelare.

Ideata da Tom Bidwell, la serie ha inaugurato ieri su Netflix: otto episodi tra mistery, fantasy-horror e naturalmente tanti crimini da risolvere che fluttuano tra questo e l’altro mondo, in un (para)normale così trendy all’epoca (Doyle stesso fu spiritista accanito) e altrettanto utile agli effetti speciali per un pubblico coetaneo ai “nostri”. Leader del gruppo è l’impavida Bea (Thaddea Graham) che guida a bacchetta i maschi innamorati di lei mentre si adopera a proteggere la sorella minore Jessie (Darci Shaw) dotata di poteri soprannaturali. E così si scopre che The Irregulars (la serie in originale) altro non è che Stranger Things in abiti ottocenteschi, calato in quell’Inghilterra vittoriana da sempre foriera di segreti, incantesimi e sotterranei (i leggendari dungeon) affollati da mostri. Come i divi ideati dai fratelli Duffer, Bea e compagni sono chiamati a tenere distinti e distanti il mondo degli umani da quello degli spiriti, chiudendo una porta che è causa di tutti i mali.

Prodotto sartoriale per teenager e appassionati, Gli Irregolari di Baker Street è costruito su un immaginario collettivo fin troppo collaudato: per questo gli autori lo hanno accompagnato da una colonna musicale rock che farà sentire gli adolescenti come in un videogame.

 

“Sky Rojo”, tre escort in fuga dal bordello

Dalla banda di rapinatori che tenta il furto del secolo alla fuga per la libertà di tre prostitute. Dopo il successo mondiale de La Casa di Carta (e dopo Vis a Vis e White Lines) Álex Pina ed Esther Martínez Lobato tornano con una nuova serie tv ambientata in Spagna. S’intitola Sky Rojo e a pochi giorni dall’uscita, complice un video promozionale di Siamo Donne girato da Jo Squillo e Sabrina Salerno, ha scalato la top ten italiana di Netflix fino alle prime posizioni.

Al Las Novias Club, una variopinta cattedrale nel deserto di Tenerife, nulla è lasciato al caso. Per ogni donna che lavora nel suo bordello Romeo ha scelto un ruolo preciso. La spagnola Coral deve rappresentare “quello che un uomo desidera dopo aver visto un film francese”; la cubana Gina è “la ragazza innocente con la faccia ingenua”; l’argentina Wendy “il gatto selvatico che tutti vogliono domare”. A ciascun cliente la sua prostituta.

Coral, Gina e Wendy hanno alle spalle storie molto diverse. La prima si è rifugiata nel bordello per scomparire nel nulla, la seconda è stata ingannata, la terza si è prostituita per amore. Tutte e tre hanno dovuto trovare un modo per sopravvivere. Coral s’imbottisce di farmaci: oppiacei per rilassarsi e anfetamine per tirar su il morale. Gina immagina disegni sul soffitto per non pensare all’uomo sdraiato sopra di lei. Wendy balla, e ballando scarica la sua rabbia.

Finché arriva il giorno in cui gli antidoti non bastano più. Le tre amiche scappano dal Las Novias Club senza avere la minima idea di dove andare. Le uniche persone che conoscono a Tenerife sono i clienti del locale: il veterinario che rifornisce le medicine a Coral, il proprietario del villaggio vacanze che ha giurato eterno amore a Gina (mai credere alle promesse che un uomo fa dopo un amplesso a pagamento…).

Romeo, ferito nel corpo ma soprattutto nell’orgoglio, manda i suoi scagnozzi Moisés e Christian a recuperare le tre prostitute che hanno osato ribellarsi. Coral, Gina e Wendy capiscono che non possono scappare all’infinito, che l’unico modo per liberarsi dei loro sfruttatori è sfidarli sul loro stesso terreno. La fuga si trasforma in un percorso di consapevolezza: se vogliono salvarsi, le prede devono diventare cacciatrici.

Gli autori Álex Pina ed Esther Martínez Lobato hanno definito Sky Rojo un “latin pulp”: sesso, sangue e violenza mescolati in una commedia dai toni grotteschi e surreali (Moisés e Christian che seppeliscono una donna parlando della madre malata, il folle inseguimento a bordo di un’ambulanza). Dai costumi che fanno somigliare i protagonisti a personaggi da fumetto alla fotografia che accentua i colori caldi e freddi, tutto è volutamente caricato ed esasperato. A chi somiglia Romeo se non ai cattivi dei cartoni animati?

Chi cerca dei punti in comune con La Casa di Carta li troverà senza grande fatica. C’è la voce narrante femminile, là Tokyo e qui Coral, che racconta in prima persona. C’è un piano cervellotico per rubare gli incassi del bordello e scappare con il malloppo. Ci sono i cliffhanger piazzati strategicamente alla fine di ogni episodio. Quello che manca in Sky Rojo è l’approfondimento della psicologia dei personaggi. Il format scelto, otto episodi da circa 25 minuti l’uno, non permette di scalfire più di tanto la superficie (almeno nella prima stagione: la seconda è già stata confermata).

L’impressione è che Sky Rojo sia troppo costruita a tavolino. Il tema della prostituzione come pretesto per raccontare una storia di empowerment femminile eccessivamente didascalica (le donne sfruttate contro gli uomini cattivi che le sfruttano). Le protagoniste scelte per accattivarsi sia il pubblico spagnolo sia quello sudamericano (Lali Espósito, nella parte di Wendy, è una pop star molto nota in Argentina). Gli episodi brevi e il ritmo indiavolato per incoraggiare il binge watching. Come ha ammesso la stessa Martínez Lobato, “è quello che vogliono gli spettatori: fiction più veloci da consumare intensamente”.

Sky Rojo È in onda su Netflix. Serie ideata da Álex Pina