Nel giorno del giuramento del governo Draghi, alle tv parlò soltanto il neoministro per l’Istruzione, infilando in pochi secondi tre banalità e due solecismi (“l’ho imparato”, “speriamo che faremo bene”: roba che a un cinquestelle avrebbe stroncato la carriera).
Passata l’emozione del momento, pagato il tributo a un’evitabile retorica (“la scuola come centro del Paese”), e strombazzato l’imminente “Patto per l’Istruzione e la Formazione” con i sindacati di nuovo in auge (dopo che Lucia Azzolina li aveva rimessi a posto), perdura una certa confusione. Sulle scuole chiuse – che l’estate scorsa il Patrizio Bianchi capo della task force ministeriale aborriva – ci si è per lo più arresi alle raccomandazioni del Cts; la Dad, da strumento emergenziale, minaccia di restare nel tempo un supporto stabile all’insegnamento; sul reclutamento dei docenti il Piano della task force Bianchi prevedeva 120mila nuove assunzioni, ma per ora non si sa nemmeno se e come finiranno i concorsi ordinario e straordinario che la vituperata Azzolina aveva portato avanti contro venti e maree; in compenso si è corsi a fare le prove Invalsi, il cui raccordo con l’esame di maturità (che, a quanto si capisce, si svolgerà in formato analogo all’anno scorso) è ancora oscuro; gli 87 euro (lordi: netti 55) in busta paga li ha messi, per competenza, Renato Brunetta; l’impostazione del Recovery Plan sulla scuola resta la stessa dell’“incompetente” Azzolina, con qualche soldo in più sull’istruzione tecnica; infine, dopo la fuga in avanti del premier sul prolungamento (immotivato e inattuabile) dell’anno scolastico a giugno, pare ora si stia pensando a tenere aperte le scuole d’estate – con quali denari? con quali insegnanti? – per favorire laboratori e strutture ricreative (nuove “Giornate dello Sport”? l’esilarante “scuola all’aria aperta” di un Danilo Casertano?).
In attesa che vengano messe meglio a fuoco alcune necessità che la “sgangherata” Azzolina conosceva un po’ più dall’interno, qualche riflessione merita la caratura ideologica del ministro, docente di Economia applicata a Ferrara, già assessore all’istruzione in Emilia-Romagna (curò la ripresa dopo il terremoto del 2012), e fresco autore di un suadente e vacuo volumetto (Nello specchio della scuola, Il Mulino, ottobre 2020). Allievo di Romano Prodi, Bianchi vanta un discepolato trentino col giovane professor Draghi, che avrebbe poi assistito nelle preclare privatizzazioni del patrimonio statale. Il suo faro costante è l’opera di un pensatore non generalmente associato alla sinistra progressista, Adam Smith: in particolare, l’idea che la specializzazione dei singoli sia la chiave di volta per favorire la “ricchezza delle nazioni”, e per sostentare l’organizzazione e la crescita di un mercato dinamico. Molti anni fa, pensando all’“estensione dei caratteri innovativi dell’industria all’intera struttura sociale” (Divisione del lavoro e ristrutturazione industriale, Bologna 1984, p. 117), Bianchi esaltava la necessità di una trasformazione produttiva che, in età post-fordista, mettesse al centro la flessibilità e il sistema di gestione delle informazioni. Nel 2018, nell’esaltare la Nuova rivoluzione industriale 4.0 (altro saggetto del Mulino), Bianchi riparte dall’idea che tutto proceda dalla capacità di rendere produttivo il lavoro, e porta ad esempio la Cina (ha lavorato per l’Università Tecnologica di Canton e per il Governatorato del Guandong), in grado – tramite investimenti “in una ricerca che porta a esiti produttivi, cioè al rafforzamento di quell’impianto di tecnoscienza che riteniamo come fondante di questa nuova fase dell’economia mondiale” – di incrementare d’un balzo il proprio valore aggiunto manifatturiero. Per Bianchi scuole e università sono, al pari di imprese e subfornitori, parti della “continua connessione tra tutte le componenti del ciclo produttivo”. A suo avviso, dal vicolo cieco della globalizzazione e dell’automazione si esce generando nuove attività, capaci di intercettare e inventare nuovi bisogni individuali e collettivi: la strada è dunque quella dell’economia digitale, per es. le Web app foriere in tempi recenti di un vasto mercato. Forse questo peana al digitale cela un’adesione profonda ai metodi che gli Uffici scolastici regionali propinano ormai da tempo alle scuole, dal “Dante social” ai “video Edpuzzle” (4 minuti max), fino alla “didattica capovolta” in cui sono i ragazzi, muniti di tablet, a “insegnare” ai docenti. Di certo per il ministro la scuola non deve “trasmettere nozioni” (per quelle ormai c’è Wikipedia), ma “insegnare a capire fenomeni complessi”: come se fosse possibile interpretare il presente senza avere (nella zucca, e non nello smartphone) punti di riferimento chiari su lingua, storia, radici quadrate, sistema solare e Capitale dell’Ecuador, e anzi “asciugando” (“ripulendo”?) opportunamente il curricolo per far acquisire ai discenti – è ancora Adam Smith – skills (magari soft?), dexterity and judgements.
Il conflitto sociale? La creazione di una coscienza individuale e di cittadinanza? La lacerante dialettica, nel quadro delle istituzioni formative, tra la funzione di fucine delle élite e quella di melting-pot trasversali, tra l’obiettivo di formare lavoratori e quello di favorire la presa di coscienza dei valori comuni della società? Tutte “scorie del Novecento”: la nuova scuola procederà irenicamente verso un modello “che permetta ai ragazzi di vivere nel loro futuro”. Il che vuol dire, in solido, di diventare “capitale umano” – terminologia inconcussa dopo l’omonimo film di Paolo Virzì –, di “cogliere le opportunità” (una spolverata di meritocrazia non fa mai male), di rispondere alle “richieste del territorio” – si prefigura la creazione di “distretti educativi” paralleli e isomorfi ai “distretti industriali” del Paese, in omaggio a un’“autonomia” in cui il governo centrale mantiene al più, come prefigurato anni fa dal sempre più migliore Sabino Cassese, la funzione di valutazione e di audit. E i “Patti di comunità” (accordi tra scuole, enti locali e privati), da benemerito strumento di recupero della dispersione nelle aree disagiate, diventano un nuovo modo per evitare di far lezione, immergendo i ragazzi non più nel sapere delle aule ma in contesti diversi e smart, presidiati da banche, fondazioni, enti del terzo settore.
Daniele Lo Vetere ha mostrato sul blog laletteraturaenoi come, dietro l’apparente neutralità di discorsi ovvi, inevitabili e indiscutibili (la cifra dell’intero governo Draghi), si celino opzioni ideologiche ben chiare: su tutte, quella per un capitalismo tecnocratico che va seguito e venerato, subordinando a esso il processo educativo. Lavoratori specializzati: serviranno dunque nuovi istituti di Formazione Professionale, sul modello delle Fachhochschulen tedesche – ecco spiegato il richiamo operativo agli ITS nel discorso di insediamento di Draghi (seguito da un preoccupante riferimento al “patrimonio identitario umanistico”). E chi non riesce a sviluppare una web app di successo? E chi si aspettava dalla scuola anzitutto gli strumenti per conoscere se stesso e il mondo nel quale vive? E chi pensa che la scuola debba mettere in grado di criticare il mondo presente e saperlo migliorare, non solo di diventarne un efficiente soldato? Le riflessioni di un Christian Raimo (Tutti i banchi sono uguali, Einaudi 2017), di un Marco d’Eramo (nel fresco Dominio edito da Feltrinelli), di un Tomaso Montanari (nell’articolo di lunedì 22 su questo giornale), paiono agli antipodi di questa pedagogia neoliberale targata Pd. Patti bianchi e amicizia lunga.