Penélope Cruz torna protagonista con Almodóvar

Pedro Almodóvar ha cominciato a girare Madres Paralelas, un nuovo melò ambientato nella Madrid di oggi con protagoniste tre donne che partoriscono nello stesso giorno, interpretate da Penélope Cruz, Aitana Sánchez Gijón e Milena Smit. A proposito del suo 22esimo lungometraggio, in cui recitano anche altre due sue attrici feticcio come Rossy De Palma e Julieta Serrano, il regista ha dichiarato: “Ritorno all’universo femminile, alla maternità, alla famiglia e parlo dell’importanza degli antenati, dei discendenti della memoria. Ci sono molte mamme nella mia filmografia, ma in questo momento sono le madri imperfette quelle che mi ispirano di più”.

Steven Spielberg ha acquistato con la sua Amblin Entertainment i diritti del romanzo Apeirogon di Colum McCann per una sua trasposizione sceneggiata da Luke Davies in cui concluderà un’ideale trilogia sul popolo ebraico iniziata con Schindler’s list e proseguita con Munich. Al centro del racconto una storia vera, quella di un’amicizia fra un israeliano la cui figlia fu uccisa in un attacco suicida palestinese nel 1997 e un palestinese la cui figlia fu uccisa da un soldato israeliano nel 2007.

In attesa dell’uscita in sala a settembre di Ritorno al crimine, il secondo episodio della saga iniziata con Non ci resta che il crimine, Massimiliano Bruno ha iniziato a dirigerne dal 15 marzo il capitolo finale Finché c’è crimine c’è speranza, film in cui i protagonisti in azione tra Roma e Napoli continuano a essere catapultati nel passato ritrovandosi questa volta alla fine della Seconda guerra mondiale.

Prodotto come i precedenti dalla IIF-Lucisano Media Group, il film è interpretato da Marco Giallini, Gianmarco Tognazzi, Edoardo Leo, Giampaolo Morelli, Carolina Crescentini, Giulia Bevilacqua e Ilenia Pastorelli.

Diritti ai David: il biopic su Ligabue ha 15 nomination

Sessantaseiesimi David di Donatello, con 15 nomination guidaVolevo nascondermi, il biopic dell’artista Ligabue diretto da Giorgio Diritti, poi Hammamet, ovvero gli ultimi giorni di Bettino Craxi secondo Gianni Amelio, con 14 e Favolacce, l’opera seconda dei fratelli D’Innocenzo, con 13.

La cerimonia, condotta ancora una volta da Carlo Conti, si terrà martedì 11 maggio, in prima serata su Rai1: modalità da accordare ai tempi del Covid. Questi tre titoli sono in lizza per le statuette di miglior film e miglior regia insieme a Le sorelle Macaluso di Emma Dante e Miss Marx di Susanna Nicchiarelli.

“È l’anno della regia al femminile: due cineaste candidate per film e regia, stiamo facendo un percorso in questo senso. Il 37% dei nostri votanti sono donne, e sono molte le storie a loro dedicate”, ha dichiarato il presidente dell’Accademia Piera Detassis, ma di che cosa parliamo quando parliamo di femminile? Dei 147 film eleggibili solo quattordici sono diretti da donne (9,52 %); Dante e Nicchiarelli, che rinnovano la doppietta Valeria Golino e Rohrwacher del 2019, sono appena la settima e l’ottava regista candidate in 66 edizioni; Ginevra Elkann (Magari) e Alice Filippi (Sul più bello) bissano tra gli esordienti le Eleonora Danco e Laura Bispuri del 2015: insomma il bicchiere è mezzo rosa o mezzo vuoto, fate voi.

Detto che sembrano film di un’altra era, nonostante lo sdoganamento dello streaming causa pandemia, non mancano motivi di interesse. Che non sono di genere, bensì d’anagrafe: riusciranno l’ottantenne Renato Pozzetto (Lei mi parla ancora di Pupi Avati) e l’ottantaseienne Sophia Loren (La vita davanti a sé del figlio Edoardo Ponti) a regolare gli altri sbarbati candidati protagonisti, rispettivamente Pierfrancesco Favino Craxi ed Elio Germano Ligabue, Alba Rohrwacher (Lacci) e Paola Cortellesi (Figli)?

Non banale anche il ballo dei registi debuttanti, dove si affrontano un nome d’arte, Checco Zalone alias Luca Medici (Tolo Tolo), e due figli d’arte, Pietro Castellitto (I predatori) e Ginevra Elkann. Da segnalare come la Mostra di Venezia non metta i propri quattro italiani selezionati in Concorso sul podio dei David: quarto, ex aequo con L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, Miss Marx con undici candidature; Le sorelle Macaluso sei; Padrenostro di Claudio Noce una; Notturno di Gianfranco Rosi una, quale documentario. I produttori di Notturno, 21uno Film, Stemal Entertainment, Les Films d’Ici, Rai Cinema, Istituto Luce Cinecittà, No Nation Films, hanno iscritto il film solo nella categoria cinema del reale, e non in quella “generalista”, come avvenne per il precedente di Rosi Fuocoammare (quattro nomination nel 2016). Non è questione di poco conto: la commissione in seno all’Anica ha candidato agli Oscar quale film internazionale un documentario – approdato nemmeno in shortlist… – che i produttori non hanno ritenuto di candidare quale film agli Oscar nazionali, i David. Incredibile.

 

Io, donna che visse due volte

Chissà che ne avrebbe fatto Alfred Hitchcock, di questa donna che visse due volte. Film e attrice sono dello stesso anno: 1958. Il bello di vivere due volte, in mezzo un ictus cerebrale, è l’autobiografia di Sharon Stone. C’è quella brutta soluzione di continuità, che nel 2001 le stravolge famiglia, carriera e capitale, ma c’è anche una irredimibile circolarità, la sensazione netta che Mrs. Stone non abbia mai smesso di tenersi per mano. Nella buona e nella cattiva sorte: “Le cose non sono sempre andate per il verso giusto, sono stata più volte licenziata e anche boicottata. Hanno parlato male di me, mi hanno derisa e alla fine, quando è uscito Basic Instinct, mi hanno dato della pornostar. Figuriamoci!”.

L’anello tiene, il memoir (dal 30 marzo con Rizzoli) si salda letteralmente all’esordio sul set: Stardust Memories, scritto, diretto e interpretato da Woody Allen quarant’anni orsono. Al provino la giovane modella Sharon arriva coi pattini, Woody le fa prendere il treno – non ha nome, nei credit è semplicemente “Pretty Girl on train” – e le insegna a baciare: “‘Non hai capito, voglio che baci il finestrino come se in realtà baciassi me’. E io stampai un bacio memorabile su quel vetro”. Allo schermo avrebbe consegnato altre labbra, a sua insaputa. L’epifania “in una sala piena di agenti e avvocati. È così che ho scoperto della ripresa della mia vagina per la prima volta, molto tempo dopo che sul set mi avevano detto: ‘Non riusciamo a vedere niente, devi togliere le mutandine perché il bianco riflette la luce e si nota che le indossi’”. Sebbene al riguardo ne abbiano poi “dette e inventate di tutti i colori, dal momento che sono la proprietaria della vagina in questione, credetemi, le altre sono tutte cazzate”.

Il film di Paul Verhoeven le dà residenza nell’immaginario collettivo, ma non le leva solo le mutande: incubi, sonnambulismo, immedesimazione oltre la soglia di guardia, giacché col punteruolo da ghiaccio della sua Catherine Tramell colpisce un attore “così tante volte al petto da farlo svenire. Ero inorridita, nuda e ricoperta di sangue finto”. Basic Instinct è il suo diciottesimo film, ma la maturità viene col successivo Pronti a morire. Trova “uno dei migliori attori viventi”, Gene Hackman, e Clint Eastwood, di cui è una “superfan”, soprattutto, la conferma che di cinema ne capisce, e non poco. Vuole il carneade Russell Crowe, sebbene “dicevano che era una follia”; vuole Leonardo DiCaprio, “‘Un altro sconosciuto, Sharon? Ma perché vuoi tirarti la zappa sui piedi?’. Mi dissero che se lo volevo così tanto, potevo pagarlo con il mio stipendio. Ed è quello che ho fatto”. Sharon crede negli uomini, ricambiata? Domanda retorica, eccezion fatta per Bob Wagner, l’aiuto regista che conosce sul set di Pronti a morire: nella mancanza di rispetto e nel disinteresse per le donne di un settore intero, “avere accanto un uomo che non solo credeva in me, ma che mi aiutava a farcela è stato un miracolo”.

Le stimmate sono la nomination all’Oscar e, ancor prima, il domicilio d’autore: il film è Casinò, Sharon non sarebbe stata “in grado di affrontare il trio Scorsese-De Niro-Pesci da sola”, fortunatamente Wagner è dalla sua. Esistono i traguardi, però la ripartenza è da negoziare ogni volta, anche all’apogeo del successo: “Come superstar, perché in quel momento lo ero, e come donna, non avevo voce in capitolo. All’epoca funzionava così. Persino un regista altamente offensivo e molesto aveva più potere di me”. La teoria di monsters & co. è lunga: c’è “quello che si è risentito perché mi sono rifiutata di sedermi sulle sue ginocchia per ricevere istruzioni”, e quell’altro che “cercava di convincermi ad andare a letto con il protagonista per migliorare la chimica sullo schermo. Solo perché ai suoi tempi aveva fatto l’amore con Ava Gardner e aveva ottenuto risultati strabilianti!”.

All’uscita delle prime anticipazioni del libro, in America è partita la corsa all’identikit dei colpevoli, ma Sharon Stone non punta al ritratto, piuttosto mette al muro il quadro, sistematico, di prevaricazioni, soprusi e violenze. Non è stato facile, fare i nomi: “Mi sono schierata al fianco di attori e attrici gay, ho denunciato alla produzione le persone che non erano in grado di lavorare perché troppo fatte per parlare o troppo ubriache per guidare”. Non era delazione, non era più caccia alle streghe, la strega era lei, e aveva deciso di cacciare i predatori. Perché le mutandine si possono perdere, ma la faccia no: “Nel mio lavoro il sesso, e non parlo solo della sessualità sullo schermo, è dato quasi per scontato. Eppure non mi pare che riguardi in alcun modo la recitazione”. Il bello di vivere due volte è la libertà. Di negarsi, anche.

 

Per le citazioni © 2021 Sharon Stone © 2021 Mondadori Libri Spa – Translation published by arrangement with Alfred A. Knopf, an imprint of The Knopf Doubleday Group, a division of Penguin Random House, Llc and with Agenzia Santachiara

Arriva Modi, musulmani infuriati

Disordini e vittime, almeno quattro, in Bangladesh, dove la visita ufficiale di due giorni del premier indiano Narendra Modi suscita ostilità. Gli incidenti più sanguinosi a Chittagong, dove le forze dell’ordine hanno sparato contro manifestanti violenti che avevano attaccato una stazione di polizia. Complessivamente, negli scontri si contano decine di feriti e di arresti. Le proteste hanno anche investito la capitale del Paese, Dhaka: nei pressi della moschea principale, dopo la preghiera del venerdì, la polizia, presente in forze, ha disperso i fedeli che manifestavano con cannoni ad acqua e proiettili di gomma. Il giorno prima, erano stati gli studenti a contestare. Modi è in Bangladesh per il Golden Jubilee, le celebrazioni per il cinquantenario dell’Indipendenza del Paese dal Pakistan – un’indipendenza resa possibile anche dall’intervento dell’esercito indiano, nella sanguinosa guerra di nove mesi del 1971 – e per il centenario della nascita di Sheikh Mujibur Rahman, il padre della patria (e padre dell’attuale premier Sheikh Hasina). India e Bangladesh mantengono stretti legami e il governo di Hashima vede bene la visita di Modi: “I fondamentalisti non rappresentano la voce del nostro popolo”, ha detto ad Al Jazeera il ministro degli Esteri AK Abdul Momen, del partito al potere, l’Awami League. Le proteste anti-Modi sono organizzate da un gruppo islamista, Hefazat-e-Islam Bangladesh, che rimprovera al premier indiano la sua agenda ‘prima gli Indu’. Per il premier indiano, è il primo viaggio all’estero dallo scoppio della pandemia. Le celebrazioni, che durano dieci giorni, vedono pure presenze dei leader di Sri Lanka, Nepal, Bhutan e Maldive.

Le proteste di ieri sono state il culmine di una serie di manifestazioni anti-Modi in tutto il Paese: vi si intersecano frustrazioni per le ingerenze indiane nella politica interna e tensioni per le vessazioni che i musulmani subiscono in India. Le contestazioni riguardano pure massacri di musulmani fatti nel Gujarat nel 2002, quando Modi era a capo di quello Stato indiano. India e Bangladesh stanno negoziando un trattato per condividere le acque del fiume Teesta. Il Bangladesh, grande meno della metà dell’Italia, con quasi 170 milioni di abitanti, è uno dei Paesi più densamente popolati al Mondo ed è quasi una ‘enclave’ nell’India, a sud-est ha un tratto di confine con la Birminia. Situato nella fertile pianura del delta di Gange e Brahmaputra, aperto sul golfo del Bengala, costituisce con lo Stato indiano del Bengala occidentale la regione etnico-linguistica dei bengalesi, divisi su base religiosa nel 1947.

La Cina usa i suoi influencer contro le “bugie” occidentali

“Mi oppongo fermamente alla diffamazione del mio Paese” dichiara Wang Yibo, 23 anni, annunciando così, per ragioni patriottiche, la rescissione del suo contratto da testimonial di Nike. Attore, ballerino, presentatore, ex cantante di boy band, idolo dei giovanissimi, bello come un Dio e, soprattutto, Yibo è un mega-influencer da 37,3 milioni di follower su Weibo. È una delle 27 mega star – attori, cantanti, celebrità varie, tutte da milioni di seguaci online –, che nelle ultime ore hanno chiuso ogni rapporto con una serie di marchi occidentali. Questioni di geopolitica e diritti umani. Mercoledì Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Unione europea hanno annunciato sanzioni economiche e la limitazione dei movimenti contro 4 alti ufficiali e un ufficio pubblico della regione dello Xinjang, formalmente autonoma ma di fatto completamente controllata dal governo cinese, accusandoli di pesanti violazioni dei diritti umani ai danni della minoranza musulmana degli Uiguri. Più di un milione sarebbero detenuti in campi di lavoro forzato nello Xinjang: a febbraio una inchiesta della Bbc ha documentato casi di sterilizzazione forzata, stupri sistematici, torture e sottrazione di bambini Uiguri alle famiglie di origine.

Una pulizia etnica che non osa dire il suo nome, su ampia scala. Il governo cinese ha reagito sanzionando a sua volta 5 parlamentari della Camera dei Comuni, due membri della Camera dei Lords e le loro famiglie, un avvocato dei diritti umani, una docente esperta della causa Uigura e una serie di associazioni attive nella denuncia di quelle violazioni: non potranno più mettere piede in Cina. La loro colpa? Secondo il ministro degli Esteri cinese, “diffondono intenzionalmente bugie e disinformazione“. Nel frattempo il gruppo svedese H&M ha espresso in un comunicato i suoi timori sulle nuove accuse di sfruttamento del lavoro forzato. Lo hanno seguito Nike e Burberry. Colossi dell’abbigliamento che dal 2018 hanno aderito alla coalizione Better Cotton Initiative (BCI), un gruppo non profit che promuove l’utilizzo di cotone prodotto secondo requisiti di sostenibilità e di cui fanno parte anche Adidas, New Balance, Puma e Tommy Hilfiger. Già a ottobre la BCI aveva annunciato di aver sospeso ogni attività in Xinjiang, proprio per ‘il rischio crescente” che nella raccolta del cotone della regione venissero impiegati detenuti Uighuri. Il governo cinese ha reagito scatenando la Madre delle Campagne di Boicottaggio. Da una parte, organi di stampa controllati dal partito hanno invitato la popolazione a colpire quei brand nel portafoglio anche se il sito di regime Global Time scriveva di un boicottaggio spontaneo dei cittadini colpiti nell’orgoglio nazionalistico. Dall’altra è iniziato l’arruolamento di celebrities come Wang Yibo. Come scrive Vogue Business, queste figure sono essenziali per garantire la penetrazione dei marchi occidentali e la vendita dei loro prodotti in un mercato da 1 miliardo e 400 milioni di consumatori cinese. Wang Yibo fa il testimonial di 29 brand, fra cui Chanel e Fendi, e per ogni serie di prodotti ha una serie di account gestiti a pagamento da suoi superfan e seguiti da centinaia di migliaia di persone. I più popolari sono quelli di moda: wardrob pubblicizza qualsiasi accessorio lui indossi, cinture, fasce per capelli, spille. La relazione fra quei brand e i divi cinesi funziona per tutti, perché è la forma di pubblicità più persuasiva per le centinaia di migliaia di adoratori sui social. Ora quel sostegno è diventato boicottaggio patriottico, con l’hashtag #ISupportXJCotton: “io supporto il cotone dello Xinjiang” dall’offensiva economica e culturale dell’Occidente. Risultato, scrive il South China Morning Post: il nome H&M in Cina è letteralmente evaporato da browser e siti cinesi di ecommerce: una censura così capillare che non è possibile far consegnare un ordine di cibo a un negozio della catena.

Navalny senza sonno e sofferente: è iniziata la “cura” del carcere

Nella prigione Pokrovskaya Ik-2, che ha definito un “simpatico campo di concentramento”, Aleksej Navalny sta male: la sua schiena è dolente, la sua gamba destra si muove a stento, notizie e diagnosi sulle sue reali condizioni di salute scarseggiano, perché nessuno può far visita all’oppositore. “Soffre di forti dolori alla schiena e alla gamba destra, che è intorpidita nella parte inferiore ed è in condizioni terribili” ha riferito la sua legale Olga Mikhailova alle telecamere del canale indipendente Dozhd. Senza medicine, né medici: Navalany – nel carcere distante 150 chilometri da Mosca, in cui dovrà scontare una condanna di quasi tre anni – ha ricevuto per curarsi solo due pillole di antinfiammatori.

I suoi problemi di salute sarebbero iniziati subito dopo la prima detenzione alla Matrosskaya Tishina nella Capitale russa, ma ora sarebbero molto peggiorati. L’insonnia è la sua compagna di cella: delle guardie, attente a svegliarlo ogni due ore nelle lunghe notti di detenzione, gli impedirebbero di dormire da giorni. “Michail Khodorkovsky, che ha trascorso dieci anni in prigione, mi ha detto: la cosa fondamentale è non ammalarsi. Nessuno ti curerà. Se ti ammali sul serio, morirai. È una verità che verrebbe confermata da qualsiasi detenuto” e adesso Navalny, con un lungo post sul suo account Instagram, conferma che è una certezza: “Ora imparerò questa verità da solo”. Il blogger ha affidato il racconto del suo dolore ai social dove sono fioriti in questi ultimi anni il suo carisma, la sua carriera, la sua evoluzione politica. La foto che lo ritrae pallido con una benda sull’occhio è diventata subito virale: se perderà la gamba, dice il prigioniero del carcere di Vladimir, ne userà una di legno come i pirati. Al cancello del penitenziario dove è rinchiuso sono rimasti in attesa di poterlo incontrare i suoi collaboratori. Qualcosa sta facendo veramente male alla salute di Aleksej Navalny, secondo il suo uomo più fidato, Leonid Volkov, coordinatore della rete regionale del Fondo Anti-corruzione. Non concordano le autorità del Fsin, sistema penitenziario federale russo, secondo cui “le condizioni di salute del detenuto sono stabili e soddisfacenti”. Una versione che ricorda le stesse parole usate – ha notato la portavoce Kira Yarmish –, quando l’oppositore era ricoverato all’ospedale siberiano di Omsk, la città dove l’aereo che lo portava a Mosca da Tomsk aveva effettuato l’atterraggio d’emergenza, la scorsa estate, dopo il malore che lo aveva colpito. Il pirata dissidente “scherzerà, resisterà: tutti quelli che lo conoscono sanno che non si lamenterà fino alla fine”, ha scritto la moglie Yulia Navalnaya, allarmando però la Federazione e il resto del mondo sulle precarie condizioni di salute del marito. “Putin ha detto all’intero Paese che legge i miei appelli, allora liberi mio marito”.

Yulia esige perentoria la scarcerazione del dissidente direttamente dal presidente che “teme la competizione politica e vuole rimanere seduto sul trono per il resto della sua vita”. Si tratta di “giustizia sommaria” e “vendetta personale di Putin”. Dove sia la moglie dell’oppositore nessuno lo sa: secondo una fonte anonima dell’agenzia russa Interfax è di nuovo scappata a Berlino, stessa notizia già diffusa il 10 febbraio scorso quando, per “una visita privata” – come ha confermato allora Der Spiegel –, era arrivata in Germania, per fare ritorno in patria dieci giorni dopo. Adesso il suo avvocato non ha smentito né confermato la notizia di una nuova partenza: “Non ho informazioni sui movimenti della Navalnaya”, ha detto rifiutando ogni tipo di commento Svetlana Davydova. Tra le guglie di Mosca nessun dietrofront. Il Cremlino non sopporta i punti interrogativi di stampa e dissidenti e raramente risponde. Questa volta però lo ha fatto ribattendo che “la salute dei prigionieri è di competenza delle autorità penitenziarie”. Il baffuto portavoce del presidente, Dimitry Peskov, ha aggiunto che un’ennesima lista di misure restrittive e sanzioni per il caso Navalny sarebbe “una assurdità”. Quello che i sostenitori di Navalny temono è che si affievolisca la spinta sul suo caso: “Non c’è tempo, dobbiamo fare presto, dobbiamo tirarlo fuori”. Piegata la schiena di Aleksej, ma non quella della Russia ribelle: i membri del movimento sono occupati in queste ore a diffondere richiami a tappeto per convincere i cittadini della Federazione a partecipare a una prossima nuova, quinta marcia per chiedere nuovamente la liberazione del blogger. Come la schiena di Navalny, dovrà tornare a infiammarsi la Russia, ma per ogni deflagrazione serve una scintilla. Appelli per nuove proteste sono necessari per mantenere viva un’attenzione che può assopirsi o peggio spegnersi, per invadere strade e piazze russe – quelle che rischiano di dimenticarlo se continuerà la detenzione silenziosa nella regione di Vladimir –, e per provocare una nuova onda d’urto e di tensione con le autorità. Per questo i suoi collaboratori sono sicuri che il blogger sopravviverà al carcere, alle sbarre della cella e alle manette, all’insonnia e al dolore alla schiena, alle gelide pene inflitte dal Cremlino: Navalny è pronto a tutto, tranne che all’oblio.

L’Eccellenza in campo col trucco

Si ricomincia, dopo Pasqua. La Figc, e quindi la Lega nazionale dilettanti (Lnd), hanno dato il via libera ai campionati di Eccellenza, le serie A regionali.

I tornei erano iniziati a settembre e, dopo poche giornate, chiusi per pandemia. Ora i comitati regionali hanno chiesto alle singole società se erano disposte a ricominciare, nelle forme e nei modi possibili, oppure no. Il risultato sono mini-tornei, spesso solo andata, date compresse, mercato stravolto (sì, c’è anche un mercato) e organici all’osso. Da disputare da qui all’inizio dell’estate. La ratio sta in un escamotage: il richiamo a una comunicazione del Coni di febbraio, che dava la possibilità di ripartire agli “eventi sportivi regionali che hanno ricadute dirette sugli eventi nazionali”. Traduciamo: la serie D, pur tra mille difficoltà oggettive, va avanti (più o meno regolarmente, visto che le partite rinviate sono più di 200) da inizio stagione. Ma giocandosi su tutto il suolo nazionale e siccome chi viene promosso dall’Eccellenza sale in serie D, ecco il cerchio che si chiude. Alcune Regioni hanno scelto di non ripartire (per il bene dei ragazzi che lavorano e che potrebbero riportare a casa il contagio), altre lo fanno, in modalità ridotta. Chi si ferma, stavolta, non è perduto, ma nemmeno la passa liscia. Con grande spirito sportivo, la Lnd ha stabilito che per due stagioni le società “disertrici” saranno escluse da qualsiasi ripescaggio. Così imparano. Non ci saranno retrocessioni, quindi è immaginabile con quale ardore agonistico giocherà chi, dopo quattro o cinque gare, sarà in fondo alla classifica. Il protocollo sanitario sarà quello usato dalle squadre di serie D, che prevede allenamenti collettivi e tamponi per tutti (a carico delle società). Se già in serie D la situazione è da piangere (le uniche entrate erano i biglietti e le sponsorizzazioni, crollate a zero), in Eccellenza si piange a dirotto. Alla fine come si concilia tutto ciò con le zone rosse, gli aumenti di contagi e di morti? Banalmente: che senso ha? Ha scritto Pino Di Leone, educatore e allenatore del Cavour (Piemonte): “Essere dilettante è un valore. Dilettante è chi gioca come era un bambino all’oratorio, facendolo da grande, dopo il lavoro, ripensando al bambino che era. Buon campionato a voi”.

Il pallone viaggerà in Internet. Vince Dazn, finisce l’era Sky

Il calcio sulla pay-tv satellitare, la parabola in balcone, le partite rigorosamente su Sky, la casa della Serie A, anzi “il club” come preferivano chiamarlo loro. È finita un’epoca. Inizia la rivoluzione di Dazn, che ha il volto di Diletta Leotta ma dietro le quinte porta la firma di Tim, vera regista dell’operazione. Dalla prossima stagione e fino al 2024 il campionato si vedrà in streaming in internet. La Serie A sarà tutta di Dazn, che avrà 10 partite su 10: 7 in esclusiva, 3 condivise con un altro operatore, probabilmente proprio con Sky, che punterà a sopravvivere, avendo in mano la Champions.

Alla fine l’asta dei diritti tv 2021-2024 è andata come doveva andare. Dopo settimane di tensioni, minacce, trattative, rinvii, ha semplicemente vinto l’offerta più alta. Quella di Dazn, dietro cui c’è Tim, la più grande azienda di telecomunicazioni italiana che investe sul calcio per spingere sulla fibra in vista della rete unica (e al contempo colpire i potenziali rivali di Sky, che si stava buttando sulla telefonia). Per la Serie A fare il salto sul digitale con la sponda di Telecom era un’occasione irripetibile. E così alla fine praticamente tutti si sono convinti: il voto è finito 16-4. Via libera a Dazn per 840 milioni di euro a stagione (100 in più di quelli offerti da Sky), circa 2 miliardi e mezzo in tre anni (uno pare garantito da Tim). Per la condivisione delle 3 partite si tratta con Sky, che per queste aveva proposto 70 milioni. La pay-tv valuta il ricorso contro il ruolo nemmeno tanto occulto di Tim, ma alla fine la gara si chiuderà a quota 910-930 milioni a stagione, in linea con le cifre pre-Covid. Per l’ad De Siervo è quasi un trionfo.

Questo interessa poco ai tifosi: loro si chiedono solo dove e come vedranno le partite. Temono la fregatura, tecnologica ed economica. Come dargli torto: storicamente queste grandi aste finiscono sempre con un salasso per i clienti. Come nel 2018 con l’inciucio Sky-Dazn, quando milioni di italiani sono stati costretti al doppio abbonamento. Ora invece la Serie A sarà tutta su Dazn, e se ci limitiamo al campionato è un passo avanti perché basterà un solo abbonamento. Cifre ufficiali ancora non ce ne sono, si parla di 25-30 euro al mese (certo non gli attuali 10, troppo poco). Se invece allarghiamo il discorso a tutto il calcio, con Sky che ha la Champions League, potrebbero servire comunque due pacchetti. Addirittura tre, se consideriamo la novità del mercoledì di coppa su Amazon. Alla fine il saldo rischia di essere ancora negativo (anche se Sky dovrà per forza rivedere al ribasso le sue tariffe).

L’altra grande domanda è come vedremo le partite. Il campionato sarà tutto in streaming. Che non vuol dire necessariamente immagini a scatti o piccoli schermi sul telefonino, ma comodamente seduti sul divano in alta definizione, con una buona connessione internet e una smart-tv di ultima generazione. Almeno questo è il sogno della Lega che guarda al futuro. La realtà italiana è diversa, se persino il ministro della Transizione digitale Vittorio Colao ricorda come a oggi “circa 16 milioni di famiglie (il 60% del totale) non usufruiscono di servizi Internet su rete fissa o non hanno una connessione a banda ultra larga”.

Chi vuole vedere il calcio, sarà praticamente obbligato a sottoscrivere un’offerta internet, possibilmente ad alta velocità. Del resto è quello che vuole Tim, che ha investito sul pallone convinta che sia l’unico strumento per digitalizzare il Paese. Tim assicura che il Paese è già coperto al 90%, ma attualmente ha solo una manciata di linee Ftth (“Fiber to the home”), e ci sono ancora paesini di montagna, entroterra desolati, dove Internet è un miraggio.

Così, mentre Dazn prepara il contenuto editoriale (i prepartita improvvisati di oggi non basteranno più), Telecom pensa all’infrastruttura, con la nuova tecnologia “Dazn-Edge”, che si basa sulla creazione di una serie di nodi capillari sul territorio per ripetere il segnale ed evitare problemi. Qualcuno inevitabilmente si perderà per strada. Come paracadute, Dazn lavora anche ad un canale sul digitale terrestre, per raggiungere tutti. In passato c’era pure la sinergia con Sky sul satellite: tanti abbonati si augurano prosegua. Forse però la soluzione potrebbe chiamarsi TimVision: la piattaforma che ospiterà in esclusiva le partite di Dazn della Serie A, ma in quanto aggregatore di tanti OTT (come Mediaset, che avrà le Coppe in Internet) punta a diventare la nuova casa del calcio. Presto arriveranno le offerte all-inclusive: fibra e partite, servizi e contenuti. Tutti connessi per guardare tutte le partite sul divano. È la grande scommessa che Dazn e Tim non possono perdere: in Italia il pallone non è un gioco.

I medici, il nobel e il nostro dovere

Il Comitato per il Nobel norvegese ha accettato ufficialmente la candidatura per il Nobel per la Pace ai sanitari italiani. La motivazione è stata: “Sono ricorsi ai possibili rimedi di medicina di guerra, combattendo in trincea, per salvare vite e spesso perdendo la loro”. È un riconoscimento che ci gratifica fino alla commozione. La riconoscenza, qualunque essa sia, un fiore dietro il cancello dell’ospedale o premio internazionale, ci consola dalle sconfitte vissute, dai problemi affrontati, dal senso di impotenza che ci ha spesso piegati. Ci fa dimenticare amarezze dovute a sterili dispute,
a veleni del Web, a incomprensioni. Quei gesti ci dicono che, seppur in maniera imperfetta, abbiamo fatto il nostro dovere. E bisogna intendersi bene su cosa questo termine significhi per noi sanitari. È proprio il sacrificio di medici e infermieri che hanno perso la vita in servizio, più di 7.000, che ci impone di ripeterlo. Il nostro dovere è sempre e ovunque venire in soccorso ai malati. Chi ha perso la vita e chi sta esaurendo le sue energie con sacrifici personali a volte inimmaginabili, ha fatto e continua a fare il suo dovere. Nessuno di noi e, credo, anche i colleghi che hanno risposto con il sacrificio della vita, vuole essere definito eroe, se ancora in questo Paese non siamo costretti a definire tale chi non si astiene dal fare il suo dovere lavorativo. Medici e personale addetto alla sicurezza sono e devono essere consapevoli che ci si possa trovare in condizioni di estremo rischio per la propria vita. Non è certo una scelta economica, viste le remunerazioni spesso misere di molte di queste professioni. È il nostro lavoro-missione. È una scelta inevitabile che nasce da una passione che senti crescere dentro di te e che non puoi non ascoltare. Che ben venga il Nobel per la Pace, ognuno di noi valuterà quanto e se lo avrà meritato. Piuttosto che si tragga ancora una lezione da questa pandemia. Che mai, nel futuro, ci si ritrovi con una sanità che produca “eroi”. Chi ha orecchie per intendere, intenda!

 

L’alunno perfetto secondo Bianchi

Nel giorno del giuramento del governo Draghi, alle tv parlò soltanto il neoministro per l’Istruzione, infilando in pochi secondi tre banalità e due solecismi (“l’ho imparato”, “speriamo che faremo bene”: roba che a un cinquestelle avrebbe stroncato la carriera).

Passata l’emozione del momento, pagato il tributo a un’evitabile retorica (“la scuola come centro del Paese”), e strombazzato l’imminente “Patto per l’Istruzione e la Formazione” con i sindacati di nuovo in auge (dopo che Lucia Azzolina li aveva rimessi a posto), perdura una certa confusione. Sulle scuole chiuse – che l’estate scorsa il Patrizio Bianchi capo della task force ministeriale aborriva – ci si è per lo più arresi alle raccomandazioni del Cts; la Dad, da strumento emergenziale, minaccia di restare nel tempo un supporto stabile all’insegnamento; sul reclutamento dei docenti il Piano della task force Bianchi prevedeva 120mila nuove assunzioni, ma per ora non si sa nemmeno se e come finiranno i concorsi ordinario e straordinario che la vituperata Azzolina aveva portato avanti contro venti e maree; in compenso si è corsi a fare le prove Invalsi, il cui raccordo con l’esame di maturità (che, a quanto si capisce, si svolgerà in formato analogo all’anno scorso) è ancora oscuro; gli 87 euro (lordi: netti 55) in busta paga li ha messi, per competenza, Renato Brunetta; l’impostazione del Recovery Plan sulla scuola resta la stessa dell’“incompetente” Azzolina, con qualche soldo in più sull’istruzione tecnica; infine, dopo la fuga in avanti del premier sul prolungamento (immotivato e inattuabile) dell’anno scolastico a giugno, pare ora si stia pensando a tenere aperte le scuole d’estate – con quali denari? con quali insegnanti? – per favorire laboratori e strutture ricreative (nuove “Giornate dello Sport”? l’esilarante “scuola all’aria aperta” di un Danilo Casertano?).

In attesa che vengano messe meglio a fuoco alcune necessità che la “sgangherata” Azzolina conosceva un po’ più dall’interno, qualche riflessione merita la caratura ideologica del ministro, docente di Economia applicata a Ferrara, già assessore all’istruzione in Emilia-Romagna (curò la ripresa dopo il terremoto del 2012), e fresco autore di un suadente e vacuo volumetto (Nello specchio della scuola, Il Mulino, ottobre 2020). Allievo di Romano Prodi, Bianchi vanta un discepolato trentino col giovane professor Draghi, che avrebbe poi assistito nelle preclare privatizzazioni del patrimonio statale. Il suo faro costante è l’opera di un pensatore non generalmente associato alla sinistra progressista, Adam Smith: in particolare, l’idea che la specializzazione dei singoli sia la chiave di volta per favorire la “ricchezza delle nazioni”, e per sostentare l’organizzazione e la crescita di un mercato dinamico. Molti anni fa, pensando all’“estensione dei caratteri innovativi dell’industria all’intera struttura sociale” (Divisione del lavoro e ristrutturazione industriale, Bologna 1984, p. 117), Bianchi esaltava la necessità di una trasformazione produttiva che, in età post-fordista, mettesse al centro la flessibilità e il sistema di gestione delle informazioni. Nel 2018, nell’esaltare la Nuova rivoluzione industriale 4.0 (altro saggetto del Mulino), Bianchi riparte dall’idea che tutto proceda dalla capacità di rendere produttivo il lavoro, e porta ad esempio la Cina (ha lavorato per l’Università Tecnologica di Canton e per il Governatorato del Guandong), in grado – tramite investimenti “in una ricerca che porta a esiti produttivi, cioè al rafforzamento di quell’impianto di tecnoscienza che riteniamo come fondante di questa nuova fase dell’economia mondiale” – di incrementare d’un balzo il proprio valore aggiunto manifatturiero. Per Bianchi scuole e università sono, al pari di imprese e subfornitori, parti della “continua connessione tra tutte le componenti del ciclo produttivo”. A suo avviso, dal vicolo cieco della globalizzazione e dell’automazione si esce generando nuove attività, capaci di intercettare e inventare nuovi bisogni individuali e collettivi: la strada è dunque quella dell’economia digitale, per es. le Web app foriere in tempi recenti di un vasto mercato. Forse questo peana al digitale cela un’adesione profonda ai metodi che gli Uffici scolastici regionali propinano ormai da tempo alle scuole, dal “Dante social” ai “video Edpuzzle” (4 minuti max), fino alla “didattica capovolta” in cui sono i ragazzi, muniti di tablet, a “insegnare” ai docenti. Di certo per il ministro la scuola non deve “trasmettere nozioni” (per quelle ormai c’è Wikipedia), ma “insegnare a capire fenomeni complessi”: come se fosse possibile interpretare il presente senza avere (nella zucca, e non nello smartphone) punti di riferimento chiari su lingua, storia, radici quadrate, sistema solare e Capitale dell’Ecuador, e anzi “asciugando” (“ripulendo”?) opportunamente il curricolo per far acquisire ai discenti – è ancora Adam Smith – skills (magari soft?), dexterity and judgements.

Il conflitto sociale? La creazione di una coscienza individuale e di cittadinanza? La lacerante dialettica, nel quadro delle istituzioni formative, tra la funzione di fucine delle élite e quella di melting-pot trasversali, tra l’obiettivo di formare lavoratori e quello di favorire la presa di coscienza dei valori comuni della società? Tutte “scorie del Novecento”: la nuova scuola procederà irenicamente verso un modello “che permetta ai ragazzi di vivere nel loro futuro”. Il che vuol dire, in solido, di diventare “capitale umano” – terminologia inconcussa dopo l’omonimo film di Paolo Virzì –, di “cogliere le opportunità” (una spolverata di meritocrazia non fa mai male), di rispondere alle “richieste del territorio” – si prefigura la creazione di “distretti educativi” paralleli e isomorfi ai “distretti industriali” del Paese, in omaggio a un’“autonomia” in cui il governo centrale mantiene al più, come prefigurato anni fa dal sempre più migliore Sabino Cassese, la funzione di valutazione e di audit. E i “Patti di comunità” (accordi tra scuole, enti locali e privati), da benemerito strumento di recupero della dispersione nelle aree disagiate, diventano un nuovo modo per evitare di far lezione, immergendo i ragazzi non più nel sapere delle aule ma in contesti diversi e smart, presidiati da banche, fondazioni, enti del terzo settore.

Daniele Lo Vetere ha mostrato sul blog laletteraturaenoi come, dietro l’apparente neutralità di discorsi ovvi, inevitabili e indiscutibili (la cifra dell’intero governo Draghi), si celino opzioni ideologiche ben chiare: su tutte, quella per un capitalismo tecnocratico che va seguito e venerato, subordinando a esso il processo educativo. Lavoratori specializzati: serviranno dunque nuovi istituti di Formazione Professionale, sul modello delle Fachhochschulen tedesche – ecco spiegato il richiamo operativo agli ITS nel discorso di insediamento di Draghi (seguito da un preoccupante riferimento al “patrimonio identitario umanistico”). E chi non riesce a sviluppare una web app di successo? E chi si aspettava dalla scuola anzitutto gli strumenti per conoscere se stesso e il mondo nel quale vive? E chi pensa che la scuola debba mettere in grado di criticare il mondo presente e saperlo migliorare, non solo di diventarne un efficiente soldato? Le riflessioni di un Christian Raimo (Tutti i banchi sono uguali, Einaudi 2017), di un Marco d’Eramo (nel fresco Dominio edito da Feltrinelli), di un Tomaso Montanari (nell’articolo di lunedì 22 su questo giornale), paiono agli antipodi di questa pedagogia neoliberale targata Pd. Patti bianchi e amicizia lunga.