Il nuovo picco sembra passato, ora evitiamo di fare i soliti errori

La discesa è appena iniziata e a dircelo, come sempre, sono i dati. Ora però la scelta di come procedere è tutta politica. A che livello vogliamo portare la curva dei contagi prima di riaprire tutto o quasi? Vogliamo evitare una prossima ondata e porre fine all’epidemia? Per farlo c’è bisogno di prendere una scelta coraggiosa e definitiva: fissare l’asticella molto in basso per rientrare all’interno di una soglia di sicurezza e portare l’incidenza dei casi in ogni Regione al di sotto dei 50 casi ogni 100.000 abitanti, essenziale per tornare a tracciare i contagi in modo efficace. E, parallelamente, vaccinare a un ritmo doppio di quanto stiamo facendo oggi.

I dati degli ultimi 7 giorni ci indicano una diminuzione dei contagi del 6% rispetto alla settimana precedente. Un piccolo ma importante indizio che arriva dopo ben 6 settimane di salita e che ci indica che il picco è stato raggiunto. Anche gli ingressi in terapia intensiva sono diminuiti del 4%, dato ancor più preciso e importante perché non risente dei tamponi effettuati. Aumentano ancora, invece, i decessi: +11% nell’ultima settimana, dato purtroppo atteso visti i consistenti incrementi dei contagi dell’ultimo mese. Tutte le Regioni, Sardegna inclusa, sono al di sopra dei 50 casi ogni 100.000 abitanti, con situazioni critiche in ben 9 Regioni che stanno oltre i 250 casi, soglia in cui scatta in automatico la zona rossa. Le dosi di vaccino somministrate ogni giorno aumentano e siamo quasi a 250.000, ben lontani però dall’obiettivo dichiarato dal governo per aprile.

Ora che abbiamo interrotto la salita, sono due le strade che abbiamo davanti. La prima, ricominciare subito dopo Pasqua con l’Italia a quattro colori (dal bianco al rosso), sistema già dimostratosi fallimentare di fronte allo scenario delle nuove varianti del virus più contagiose e che ha di fatto innescato questa terza ondata e messo di nuovo sotto forte pressione gli ospedali, con 13 Regioni che ancora oggi sono oltre la soglia critica di posti letto occupati in terapia intensiva e i morti tornati sopra le 500 unità giornaliere.

La seconda strada è invece quella di prolungare l’Italia a soli due colori, rosso e arancione, ancora per un mese o forse due e, parallelamente, vaccinare mezzo milione di persone al giorno, come ha annunciato più volte di poter fare il presidente Draghi. Facendo così arriveremmo a fine maggio con una manciata di casi positivi, con tutte le fasce di popolazione più a rischio interamente vaccinate, con gli ospedali quasi del tutto liberi da pazienti Covid e con oltre il 50% degli italiani ad aver ricevuto almeno una dose del vaccino. E con la possibilità di fare finalmente contact tracing, governare l’epidemia e controllare il virus nei prossimi mesi, senza più farci prendere di sorpresa.

Le strade sono due, la scienza e i dati parlano chiaro. Ora la palla passa alla politica.

Aspi verso Cdp & C. Oggi nuova offerta, la decisione a maggio

Trentadue mesi dopo il disastro del Ponte Morandi di Genova, l’epilogo che si profila nel braccio di ferro tra governo e Atlantia è paradossale. La famiglia Benetton, che controlla con il 30,2% la holding, che a sua volta controlla Autostrade per l’Italia, è allineata all’esecutivo e vuol vendere alla cordata guidata dalla Cassa depositi e prestiti insieme ai fondi Blackstone e Macquarie. La parola finale dovrebbe arrivare dall’assemblea dei soci che verrà convocata per i primi di maggio. Lo scontro tra gli azionisti è forte, ma alla fine potrebbe passare la linea imposta dalla famiglia di Ponzano Veneto. Molto dipenderà dall’offerta che Cdp e soci invieranno alla holding.

La situazione è questa. Dopo vari tentativi a vuoto, oggi è attesa l’ennesima proposta. Atlantia ne ha già respinte tre perché “insufficienti” e nel frattempo ha avviato un autonomo progetto di scissione di Autostrade per venderla sul mercato. L’ultima offerta di Cdp è del 10 marzo, peraltro “vincolante”: valorizzava Aspi 9,1 miliardi (l’88% in mano ad Atlantia vale quindi 8 miliardi), al lordo di pendenze legali per 1,5 miliardi, di cui i più a rischio sono i 700 milioni per il Morandi. Il cda di Atlantia l’ha bocciata chiedendo “miglioramenti sostanziali”. I rumors indicano che Cdp potrebbe rialzare il prezzo verso i 9,5 miliardi, ritoccando le manleve legali. Basterà? Qui inizia la battaglia.

Il primo passo è l’assemblea dei soci di Atlantia convocata per lunedì per decidere se prorogare la scadenza del progetto di scissione di Aspi. Edizione, la cassaforte dei Benetton, preme sui manager del gruppo, che ha nominato, per spingerli ad accettare l’offerta di Cdp e ha annunciato che lunedì voterà contro la proroga. Con i Benetton si è schierata la Fondazione Crt di Torino, che possiede il 4,8% del capitale di Atlantia. Essendo un’assemblea straordinaria, per dare il via libera alla proroga servono i due terzi del capitale, quindi Cdp e la Fondazione Crt basterebbero a bloccare tutto. A quel punto rimarrebbe in piedi solo l’offerta della Cassa depositi.

L’assemblea servirà però ai rivali per contarsi. Al netto del 30% dei Benetton, l’azionariato di Atlantia è fatto di migliaia di azionisti retail e grandi fondi esteri, in larga parte contrari alla cordata di Cdp e soci. Il più agguerrito è l’inglese Tci – il secondo azionista col 10% – che minaccia sfracelli legali e pretende almeno 11-12 miliardi per Autostrade, cioè il valore pre-Morandi.

La partita vera inizierà dopo. A inizio settimana prossima verrà convocato il Consiglio di amministrazione di Altantia per valutare l’offerta “migliorativa” della cordata guidata dalla Cassa pubblica. Dopo due anni di battaglia, i Benetton hanno deciso di chiudere con la strategia dello scontro a oltranza suggerita dallo storico manager di famiglia, Gianni Mion. A gennaio è stato chiamato Enrico Laghi, ex commissario di governo in decine di aziende, che ha ricompattato i diversi rami familiari sulla linea dell’appeasement con l’esecutivo.

Edizione si è messa in rotta con i manager – l’ad Carlo Bertazzo e il presidente Fabio Cerchiai – che pure ha scelto. Finora i due si sono mossi con cautela, insieme al cda di Altantia, respingendo le offerte per evitare di subire un’azione di responsabilità dai fondi esteri. Se l’offerta venisse ritoccata, i consiglieri potrebbero rimettere la parola all’assemblea dei soci, che verrebbe convocata per i primi di maggio. Non è ancora chiaro se servirà la maggioranza semplice o qualificata. Nel primo caso, visto che in assemblea si presenta il 70% del capitale, Edizione e Fondazione Crt sono già vicini al 50%: basterà convincere qualche grande fondo (il maggiore indiziato è quello sovrano di Singapore, che ha l’8,2%) per vincere la partita. Nel secondo caso sarà ben più dura.

Vale la pena di ricordare che Atlantia ha a bilancio la controllata Aspi a 6 miliardi. L’offerta di Cdp e soci farebbe quindi fare una plusvalenza alla holding. Cambierà invece poco per gli automobilisti: il piano finanziario di Aspi – bocciato dall’Authority dei Trasporti ma approvato dai ministeri – è assai generoso in tema di tariffe. Se passa, anche senza i Benetton, i pedaggi non caleranno.

Riecco la Consulta tedesca: bloccato il Recovery Fund

La legge tedesca, approvata da due terzi del Parlamento, che ratifica l’accordo che dovrebbe dare vita al programma Next Generation Eu “non può essere emessa dal presidente federale”. Con un algido comunicato e poche parole perentorie la Corte costituzionale tedesca ieri ha messo una bella zeppa, probabilmente solo temporanea, alla partenza del piano europeo di ripresa per il dopo-Covid: il capo dello Stato Frank-Walter Steinmeier non può promulgare la legge, dovrà aspettare che la Corte stabilisca se viola o meno la Costituzione tedesca.

Quanto ci vorrà? Non c’è una data, probabilmente qualche settimana, forse di più. È appena il caso di ricordare che senza il via libera di tutti e 27 i Paesi dell’Ue la Commissione non può emettere sul mercato il debito necessario a far partire i vari Recovery Plan: finora i sì sono 13, nonostante Bruxelles abbia più volte avvertito che se si va oltre marzo sarà difficile far muovere i soldi da giugno.

La Corte di Karlsruhe è stata chiamata in causa da un ricorso urgente presentato da Bernd Lucke, economista no-euro e fondatore del partito Alternative für Deutschland (da cui è poi uscito criticandone l’estremizzazione verso destra), insieme a una “alleanza di cittadini” (Bündnis Bürgerwille) composta da 2.281 persone. In sostanza Lucke e gli altri contestano che sia possibile, a Trattati vigenti, emettere debito comune senza che vi sia un’unione fiscale (di cui peraltro la Germania è fiera oppositrice).

Il vicedirettore dell’Istituto Delors di Berlino, Lucas Guttenberg, è stato tra i primi a commentare: “Karlsruhe ama drammatizzare le vicende Ue, ma di solito evita di provocare interruzioni operative effettive nella definizione delle politiche economiche. Quindi mi aspetto qualche settimana di suspense e poi un semaforo verde riluttante”. Effettivamente è stato così per le sentenze sul Mes e sul Quantitative easing, a patto di intenderci sul “riluttante”: sul piano di acquisti della Bce, ad esempio, la Corte costituzionale tedesca ha sì dato il via libera, ma mettendo dei paletti tecnici a futura memoria, per così dire.

Per capirci, basti pensare alla richiesta di emettere “eurobond (debito comune) avanzata all’ultimo Consiglio europeo da Mario Draghi: un tempo una cosa del genere non era neanche sul tavolo, oggi se ne parla nella forma “rendere permanente” il Next Generation Eu. La Corte tedesca, mai troppo amante delle cessioni di sovranità, potrebbe statuire: passi il Recovery, purché non diventi un’abitudine. Intanto, un primo effetto certo è che il piccolo piano europeo partirà in ritardo.

Nuovo schiaffo agli ultras impunità

L’imboscata parlamentare sulla presunzione di innocenza non ci sarà. La spaccatura nella maggioranza sul fronte della Giustizia è stato sventato ancora una volta – era già successo sulla prescrizione – grazie alla moral suasion della Guardasigilli Marta Cartabia e a una mediazione tra le forze di maggioranza. L’accordo sarà ufficializzato martedì quando i responsabili Giustizia dei partiti torneranno a incontrarsi ma, a meno di sorprese dell’ultimo minuto, la soluzione è già scritta e sarà uno schiaffo ai pasdaran garantisti Enrico Costa (Azione), Pierantonio Zanettin (FI) e Lucia Annibali (IV): dovranno ritirare gli emendamenti alla legge di Delegazione Europea in chiave anti-pm in cambio di un emendamento secco che recepirà la direttiva europea 234/2016 che impone alle “autorità pubbliche o giudiziarie” (cioè ai magistrati) di non rilasciare dichiarazioni o prendere decisioni dando “l’idea che una persona sia colpevole”, tranne che nella fase processuale quando il pm chiede la condanna dell’imputato.

Una disposizione molto generica che rinvia il tutto a una legge delega che Cartabia potrebbe esercitare o meno, tant’è che già l’ex premier Paolo Gentiloni ritenne di non doverlo fare perché il contenuto della direttiva è già inserito nel nostro ordinamento. I 5 Stelle erano contrari anche all’emendamento secco per recepire la direttiva perché ritenevano che il principio della presunzione di innocenza dovesse essere introdotto nel più ampio ddl sul processo penale ma alla fine dovrebbero decidere di dare l’ok. Molto più incisivi invece sarebbero stati gli emendamenti di Costa e Annibali che avrebbero vietato le dichiarazioni dei pm in fase di indagine, lo stop alla diffusione di intercettazioni, audio e video, ma anche il divieto di pubblicare “integralmente” le ordinanze di custodia cautelare. Costa però si ritiene “sodisfatto” ma mette in guardia: “Cartabia eserciti la delega”. Nel frattempo è in atto uno scontro tra la Commissione Giustizia della Camera e il ministero che sta preparando gli emendamenti al ddl penale: Cartabia avrebbe voluto avere tempo fino al 3 maggio per presentare i suoi emendamenti ma, su pressione di Lega-IV e FI, la scadenza per presentarli è stata fissata al 23 aprile, anticipando quelli del ministero. Uno sgambetto che ha fatto irritare non poco la ministra.

Grillo, lezione ai “miracolati” 5S. “E i due mandati non si toccano”

Il Garante appare sullo schermo brandendo il simulacro di un cervello, perché innanzitutto è un teatrante. “Il pianeta sta morendo”. Ma il Beppe Grillo che in un venerdì pomeriggio indottrina via Web i parlamentari del M5S, convocati in assemblea congiunta, è soprattutto un paradosso.

Ragiona di futuro, di 2050, di transizione ecologica ma ai suoi parla come faceva tanto tempo fa, quando ostentava il ruolo di padre-padrone del Movimento. “Io sono l’Elevato, voi dei miracolati, vi ho preso che eravate nulla” ride, per dissimulare la botta. “Studiate, siate preparati” esorta. “Per un po’ basta con i talk show, con le trasmissioni pollaio” ribadisce, ed è ancora repertorio dei vecchi tempi, del 2013 o giù di lì. “Ci tratta da ragazzini” borbotta qualche 5Stelle. Ma il pomeriggio si dilata, quasi esplode. Perché Grillo dapprima pare aprire alla cancellazione del vincolo dei due mandati: “Non tutti son soddisfatti e resteranno, due mandati, un mandato… ma dobbiamo andare avanti e al 2050”. Parole che colpiscono, tutti. Forse qualcuno glielo fa notare. E allora il fondatore (ri)chiude: “I due mandati sono un pilastro fisso, l’ho detto anche a Giuseppe Conte”. E la carezza – “non abbandoneremo chi è al secondo mandato” – non placa i mal di pancia: diffusi, evidenti. Figurarsi quando il fondatore ventila un’intesa con Davide Casaleggio: “Con Rousseau credo che troveremo un accordo per cambiare lo Statuto, ci siederemo per capire”. E altro che causa. Ergo, l’opposto di ciò che reclamano tanti big e moltissimi parlamentari, i “miracolati”. Ma a Grillo di sigle e bandiere non interessa più granché. “Sogno che tutti i partiti si mescolino” declama. “Dobbiamo diventare meticci – insiste – far sì che gli altri parlino dei nostri temi”. Parole da Elevato. Anche se ora ci sarebbe anche un “Supremo”, sempre per dirla come lui. Cioè il tecnico che Grillo ha voluto come ministro proprio alla Transizione ecologica, quel Roberto Cingolani che i post del M5S avevano celebrato il quinto ministro del Movimento, anche se lui di certo non è un grillino. Però è proprio Cingolani a introdurre l’assemblea telematica. Ufficialmente convocata per “la presentazione del corso a cura del professore Marco Morosini sulla transizione ecologica”. Sempre quel mantra, di cui parla nei post quasi ogni giorno.

Per questo, a scadenza regolare, deputati e senatori dovranno andare a lezione da Morosini, professore di Politiche ambientali al Politecnico di Zurigo, antico sodale di Grillo e suo ghostwriter. Però gli eletti notano soprattutto il Grillo che loda, ancora, Draghi: “Non è un banchiere senza sentimenti, è uno che vede la povertà. Ha mantenuto la parola sulla transizione e sul reddito di cittadinanza”. E d’altronde “il reddito universale sarà la mia battaglia finale” giura il Garante. Il resto, cioè quasi tutto, lo dovrà fare il capo prossimo venturo, Giuseppe Conte. “Conte è meraviglioso, il futuro è con lui e con il centrosinistra. è una grande occasione” celebra Grillo. Quindi, “presto voteremo il suo piano, quando avremo una piattaforma”. Infine, Virginia Raggi: “Massimo sostegno a lei, qualunque cosa accada”. Si chiude. Fuori, i parlamentari, confusi e in molti casi irritati. Non volevano la chiusura sui due mandati, mentre le correnti nel M5S nascono come funghi, e già sanno di potenziali liste, proprio per ricandidarsi. Presto, non nel 2050.

Letta vede Sardine e Verdi e attacca Renzi sull’Arabia

Enrico Letta dice che “ci sarà tempo per incontrare tutti”. E a chi gli chiede lumi sul vertice più atteso, quello tra lui e il suo grande nemico, che nel 2014 lo “accoltellò” alle spalle con un “Enrico stai sereno!”, risponde con una battuta al vetriolo: “Devo ancora incontrare Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana e Angelo Bonelli dei Verdi”. Come dire: quelli che valgono il 2%, come Matteo Renzi, dovranno aspettare. Epperò il problema è che gli appuntamenti con Fratoianni e Bonelli sono già fissati: il segretario del Pd, dopo aver visto Roberto Speranza, Carlo Calenda e Giuseppe Conte, vedrà i leader di SI e Verdi tra martedì e mercoledì. Sicuramente prima di Pasqua, per completare il giro dei leader del centrosinistra. Ma manca Renzi.

I due in queste ore non si sono sentiti e nell’agenda di Letta non è previsto un incontro con il leader di Italia Viva la prossima settimana. In serata, a Otto e Mezzo, il segretario fa sapere che incontrerà anche Renzi senza specificare quando, ma che prima deve fare “anche altri incontri”. Ma in politica i tempi e i modi contano. E tanto. Ieri Letta ha dato la precedenza anche alle Sardine che alla vigilia del suo insediamento avevano manifestato e “messo la tenda” al Nazareno per chiedere al nuovo segretario di aprirsi alla società civile. Tant’è che fonti di Italia Viva a metà pomeriggio fanno filtrare alle agenzie due righe al veleno: “Non ci sono stati contatti tra Letta e Renzi” e il segretario Pd “ha evitato di chiamare il leader di Italia Viva”. L’ex sindaco di Firenze pubblicamente dice che lo snobismo di Letta non “è un problema” e che “non ho alcun problema a incontrarlo” ma in realtà è molto irritato: “Se Letta pensa di provocarci non ha capito niente – va dicendo Renzi ai suoi fedelissimi – tanto dovrà scegliere: o noi o il M5S”. E, al momento, il segretario dem non sembra avere dubbi. E che i rapporti tra i due siano ai minimi termini lo ha dimostrato ieri sera lo stesso segretario che a La7 ha attaccato Renzi anche sull’Arabia Saudita: “C’è un vuoto normativo su temi relativi a incontri e impegni con i regimi autoritari – ha detto Letta riferendosi alla conferenza di Renzi con Bin Salman –. Noi abbiamo una posizione diversa rispetto all’Arabia Saudita, siamo vicini alla posizione dell’America di Biden”. Letta ieri è andato anche a incontrare gli iscritti nel suo circolo di Testaccio per parlare delle idee da includere nel “vademecum” di 21 punti sul Pd che verrà e ha aperto anche il dossier amministrative. Per esempio su Roma: “Penso faremo le primarie e Gualtieri è uno dei candidati – ha concluso – sulla Raggi il nostro giudizio non è quello del M5S, potrebbe essere una pietra di inciampo”.

Ma nelle prossime ore lo attende un altro tour de force sull’ultima nomina: chi dovrà essere la nuova capogruppo alla Camera. In campo ci sono Debora Serracchiani e Marianna Madia e le correnti (ieri si è riunita Base Riformista) vorrebbero evitare una conta e arrivare a un accordo prima.

Vaccinazioni lente. E 7 Regioni sotto la media italiana

La Lombardia continua a essere il disastro italiano nella pandemia. Il “45° rapporto Covid-19” dell’Università Cattolica di Roma è impietoso sull’andamento delle vaccinazioni: “È stato avviato il monitoraggio dei nuovi punti di somministrazione territoriali e ospedalieri attivati dal 16 al 24 marzo”.

“Negli ultimi sette giorni, la Regione Emilia-Romagna ha attivato un numero notevole di punti di somministrazione (32) seguita dalla Puglia (24), dalla Calabria (15) e dal Veneto (13). Al contrario, in Umbria, Lombardia, Molise e Valle d’Aosta non risultano nuovi punti di somministrazione”.

Proprio ieri il governatore lombardo Attilio Fontana annunciava trionfante su Facebook: “Nelle Rsa tutti gli ospiti hanno ricevuto la prima dose di vaccino Anti-Covid. La seconda dose è all’80 per cento”.

In realtà più che un trionfo, essendo la categoria degli ospiti delle Rsa la primissima interessata alla campagna di vaccinazione, è proprio il segno del grande ritardo delle somministrazioni in Lombardia, tanto che per nuovi punti di somministrazione la Regione è ancora alla fase di gara, mentre i tempi della fase di somministrazione di massa paiono ancora ben lontani.

“È stato avviato – si legge nel rapporto – il monitoraggio relativo alla correlazione tra dosi somministrate, dosi consegnate rispetto alla popolazione residente: si evince come Campania, Puglia, Abruzzo, Umbria, Lazio, Toscana, Sicilia, Valle d’Aosta e provincia autonoma di Bolzano rappresentano le regioni il cui rapporto tra dosi somministrate rispetto a quelle consegnate è superiore al valore medio nazionale”. Ovviamente la Lombardia in quest’ultima lista non c’è, perché si trova “sotto la media nazionale della capacità di somministrazione giornaliera di dosi vaccinali nell’ultima settimana”.

Il dato, però, che deve preoccupare tutti è l’impossibilità dell’obiettivo fissato dall’Unione europea di 5,1 milioni di cittadini vaccinati da raggiungere al 31 marzo.

A oggi è stato vaccinato il 52,86% dell’obiettivo, pari a 2.706.381 persone immunizzate in Italia, e mercoledì, dunque, si raggiungerà solo il 53% del traguardo europeo. Siamo lontani, infatti, dalle 500 mila vaccinazioni al giorno, essendo meno di un terzo la capacità giornaliera di somministrazioni: “Considerando il valore di 500 mila, pari al 100 per cento delle somministrazioni indicate come obiettivo dal Piano vaccinale anti-Covid, il gap giornaliero medio dell’ultima settimana è pari al 69% (343.499 somministrazioni), considerando la capacità media di somministrazioni giornaliere di 156.501 dosi, di cui 87.861 sono prime dosi e 68.820 seconde”.

Volendo guardare più in prospettiva “a oggi sono stati vaccinati il 9,44% dell’obiettivo dei circa 29 milioni di cittadini da raggiungere al 22 settembre”.

Nel rapporto è riportato anche l’andamento dell’età dei casi della pandemia in Italia: “I contagi tra gli over 70 sono passati dall’essere il 7,2 per cento di tutti i nuovi contagi, nel periodo 4 agosto-6 settembre, all’essere il 18,2, nel periodo 30 novembre-13 dicembre (picco massimo), per poi scendere al 16,4 nel periodo 28 dicembre-10 gennaio, riprendere l’incremento nel periodo 4 gennaio-17 gennaio al 16,7 e nel periodo 11 gennaio-24 gennaio al 16,8 e scendere al 12,1% nel periodo 22 febbraio-7 marzo, per poi ritornare a risalire nel periodo 1° marzo-14 marzo.

Le terapie intensive preoccupano tanto che il professor Americo Cicchetti, direttore dell’Alta scuola di economia e management dei Sistemi sanitari dell’Università Cattolica, spiega: “Di fronte a questi numeri i servizi sanitari regionali non possono far altro che ‘conservare’ posti letto, sospendendo le attività in elezione non urgenti. In otto regioni le attività ordinarie si sono fermate: in Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Puglia e Toscana sono stati sospesi i ricoveri in elezione mentre nelle Marche, in Piemonte e in Umbria lo stop ha riguardato sia le attività chirurgiche in elezione che quelle ambulatoriali”.

Apri, chiudi, apri: le giravolte della Lega

Ci risiamo. Come dopo ogni tregua nell’aumento dei contagi, la Lega torna a cavalcare il tema delle riaperture, invocando fantomatici “ritorni alla vita” e auspicando la fine delle restrizioni per “ristoranti, teatri, palestre, cinema, bar, oratori, negozi”. Cioè per tutto, come se la pandemia fosse già alle spalle e come se la Lega non fosse al governo, dunque firmataria di tutte le chiusure volute finora da Mario Draghi e avallate dal Carroccio (“Spero sia l’ultimo sforzo”, disse Matteo Salvini). Senza dimenticare che in passato, in concomitanza con l’aumento dei contagi, i leghisti erano i primi a chiedere restrizioni severe.

Ma ora fuori dai Palazzi c’è un elettorato a cui solleticare la pancia riaperturista, grazie anche alla buona sponda di Italia Viva.

La trincea leghista. Ieri lo sfogo aperturista del Carroccio è diventato il caso del giorno, anche perché non più tardi di tre settimane fa erano stati gli stessi governatori leghisti a supplicare misure più severe visti i contagi fuori controllo. A dimostrazione della confusione in un partito dove ogni settimana si sentono posizioni diverse. Luca Zaia a inizio marzo parlava di “situazione grave” in Veneto e chiedeva in anticipo “la chiusura delle scuole”. Attilio Fontana ammetteva che “ce lo dicono i dati”, serve “una zona rossa perché “questo virus ha purtroppo due caratteristiche: è più veloce e attacca i giovanissimi”.

E poi era lo stesso Matteo Salvini , qualche mese fa, ad allargare le braccia davanti a numeri preoccupanti: “Se c’è necessità di fare un lockdown, lo si faccia”. D’altra parte “la salute degli italiani viene prima di tutto”. Anche Massimiliano Fedriga, non più tardi di tre settimane fa, firmava l’ordinanza per spedire buona parte del suo Friuli Venezia Giulia dal giallo all’arancione scuro, chiudendo le scuola medie e superiori. Stessa misura varata dal leghista Nino Spirlì in Calabria: “Scuole da chiudere senza se e senza ma”. Il tutto senza voler tornare a un anno fa, quando Salvini oscillava tra il “chiudere tutto e sospendere Schengen” e il “tornare alla normalità”.

Ieri invece, appena dopo pranzo, è proprio Salvini a fare la voce grossa: “È impensabile tenere chiusa l’Italia anche per tutto il mese di aprile. Chiediamo al presidente Draghi che dopo Pasqua, almeno nelle Regioni e nelle città con situazione sanitaria sotto controllo, si riaprano le attività chiuse e si ritorni alla vita a partire da ristoranti, palestre, cinema, bar, oratori, negozi”. Anche perché, giura Salvini, “qualunque proposta in Consiglio dei ministri e in Parlamento avrà l’ok della Lega solo se prevederà un graduale e sicuro ritorno alla vita”.

Un ultimatum fuori dal tempo e smontato da Draghi in conferenza stampa: “Le chiusure sono pensabili o impensabili solo in base ai dati dei contagi”. Nulla di sconvolgente, dopo un anno di bollettini e restrizioni a corrente alternata, eppure Draghi deve specificare che “la decisione dipenderà dai dati” anche perché la Lega fin dal mattino sceglie di alzare il tiro. Prima dell’intervento di Salvini c’è infatti l’agitazione del ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, a Radio Capital: “Da aprile in poi iniziamo ad aprire tutto”. Per prepararci a una grande estate: “Saremo tutti in zona gialla e vivremo l’estate come l’anno scorso senza tanti problemi. Non ci sono motivi che ci lascino pensare che quest’estate sarà diversa dalla scorsa, eviteremo i problemi coi tamponi e coi vaccini. Discoteche all’aperto? Perché no”.

Per non farsi mancare niente, alcuni parlamentari leghisti in mattinata partecipano anche alle varie proteste in piazza del settore dei luna park. La deputata Elena Maccanti manifesta a Torino: “Stamattina in piazza Castello al fianco dello spettacolo viaggiante che oggi chiede una data per la riapertura. La Lega c’è! Riapriamo i luna park”. Affinché non si corra il rischio di equivocare, in serata le solite “fonti leghiste” confermano la versione del partito alle agenzie: “Se con contagi alti si chiude, con contagi bassi si apre. Semplice. Non è possibile decidere adesso che per tutto aprile tutto rimarrà comunque chiuso, come vorrebbero i ministri Roberto Speranza e Dario Franceschini”. Dopo aver incolpato Giuseppe Conte di decidere le chiusure senza preavviso, insomma, adesso la Lega preferirebbe restrizioni di settimana in settimana o giù di lì, considerando che ad aprile mancano cinque giorni.

Uno dei più attivi è l’onorevole Claudio Borghi: “Lockdown e zone sono cretinate. Sto chiedendo ai colleghi della commissione Sanità di domandare audizioni di epidemiologi e statistici che si sono pubblicamente esposti contro i lockdown”. Altro virologo a sua (e nostra) insaputa è il senatore Armando Siri: “Penso che il Paese debba riaprire subito. La pazienza degli italiani che vogliono tornare a vivere finisce definitivamente il 6 aprile”. Alberto Bagnai, senatore, rilancia invece un tweet di Salvini: “Intervento del presidente Draghi in Senato, l’applauso più lungo quando pronuncia la parola ‘riaperture’, a partire da scuole e attività economiche e sociali. Bene”.

Non meraviglia perciò che tra i leghisti ci sia chi, come l’onorevole Flavio Di Muro, spera che “da aprile tra le attività consentite ci siano anche i casinò”. Per non dire del deputato Alessandro Pagano, che qualche giorno fa esortava il governo a riaprire le palestre “per salvare la popolazione dalla tirannide psicologica che la vuole ridurre a larve umane, schiave delle subdole e moderne dittature psico-sanitarie”.

Con Lucia Borgonzoni che da settimane, onorando la nomina a sottosegretaria alla Cultura, chiede la riapertura di “sale slot e bingo”, oltreché di “tanti altri settori che potrebbero riaprire senza grossi rischi”, tipo “musei e teatri”.

La sponda di iv. E invece l’entusiasmo corre veloce ai primi segnali incoraggianti, non solo nella Lega. Anche Italia Viva, sulla scia del suo leader, si preoccupa di riaprire, esortando il governo che ha tanto voluto – e in cui siede – a pensare in grande. La deputata Daniela Sbrollini non si dà pace: “La chiusura delle attività di parrucchieri e centri estetici in zona rossa è davvero incomprensibile”. Marco Di Maio festeggia “la riapertura delle scuole fino alla prima media”, Maria Elena Boschi si dice “felice che le nostre richieste siano state ascoltate”, ma subito Gabriele Toccafondi rilancia: “Siamo per l’apertura al 100 per cento delle scuole di ogni ordine e grado”.

Tutto e subito: se poi tra un mese saremo di nuovo in emergenza, basterà fare la faccia stupita e invocare nuove restrizioni.

L’annuncio fake della Bellanova sulla strada fantasma in Puglia

“Apprendo con soddisfazione la conferma che domani 26 marzo la Commissione tecnica Via/Vas del ministero della Transizione ecologica discuterà il progetto del primo lotto della Strada Statale 275 Maglie-Leuca”. È l’annuncio pubblicato il 25 marzo sui suoi canali social dal viceministro alle Infrastrutture, Teresa Bellanova. L’esponente pugliese di Italia Viva, ha pensato di portare la buona notizia ai salentini augurandosi “un esito positivo”, “perché finalmente si possa sbloccare l’iter di realizzazione di una infrastruttura strategica per il territorio salentino”. E ancora: “Si tratta di un’infrastruttura attesa da tempo, caratterizzata da un quadro amministrativo complesso, il cui progetto è stato opportunamente rivisto quanto a impatto territoriale e ambientale. Questo passaggio può accelerare la procedura per portare l’inserimento della 275 tra le opere da commissariare nel prossimo provvedimento del governo”. Un annuncio trionfale che, però, resta un annuncio. Nella riunione di ieri sera, infatti, l’argomento non è stato trattato. Il punto, infatti, non solo non era tra quelli all’ordine del giorno, ma non è stato inserito nemmeno tra quelli in coda.

Del resto l’ordine del giorno viene inviato ai membri che compongono la Commissione ministeriale con un certo anticipo affinché possano studiare e approfondire le diverse questioni ed esprimere un parere ponderato nel corso della discussione. Questioni, insomma, che non possono essere improvvisate e soprattutto dovrebbero avere ben poco a che fare con la politica e il consenso. E proprio l’annuncio della parlamentare renziana sui social ha creato diversi mal di pancia tra chi è chiamato a esprimersi sulle questioni. Al Fatto diverse fonti hanno infatti confermato non solo la sorpresa nel leggere le parole del viceministro, ma anche il fastidio dato che quell’augurio per l’esito positivo ha generato poiché appare come una velata forma di ingerenza della politica su organo tecnico che deve esprimersi senza alcuna forma di condizionamento. La notizia emersa invece al termine della commissione è l’approvazione dei lavori per il raddoppio dell’alta velocità nel tratto tra Termoli e Lesina bloccato negli anni scorsi per i disturbi che i rumori del cantiere provocavano al fratino, una specie di uccello a rischio che vive principalmente in ambienti umidi caratterizzati dall’acqua bassa e si nutrono di insetti e altri animali che trovano nel limo. La commissione ha imposto una serie di prescrizioni e dato il via libera alla ripresa dei cantieri, ma di questo il viceministro Bellanova non ne ha parlato. Neppure sui social.

Sui 19 morti della Sardegna la perizia arriva 8 anni dopo

Il 18 novembre 2013, Anna Ragnedda aveva 83 anni. Era invalida e immobilizzata nel suo letto. Il giorno prima, domenica, aveva pranzato insieme alle figlie. Il lunedì un nubifragio spaventoso si abbatte sulla Gallura. La pioggia gonfia i corsi d’acqua di Olbia, i canali Siligheddu e Gadduresu, che esondano. Un’onda di fango di due metri sfonda la porta della casa a piano strada della pensionata. Muore annegata, senza possibilità di salvezza. Le figlie si attaccano al telefono, chiedono aiuto: “Abbiamo chiamato tutti: ambulanze, Protezione civile – ricorda Maria Rosaria Casalloni –. Non ci ha risposto nessuno.”

Era tutto in tilt. Nessun allarme era stato dato alla popolazione. Nonostante la Protezione civile nazionale, diretta in quegli anni da Franco Gabrielli, avesse diramato 24 ore prima l’allerta rossa. Il grado massimo di allarme. Tradotto dal linguaggio tecnico: “Grave pericolo per la sicurezza delle persone con possibili perdite di vite umane”. “Il nostro dolore è ancora molto forte – raccontano le sorelle Casalloni –, non abbiamo ottenuto alcuna giustizia”. Alla fine di quei giorni terribili, la Sardegna si troverà a piangere 19 vittime, vite portate via dalla furia del Ciclone Cleopatra. Nessuna è stata risarcita. Per quei fatti sono stati processati gli amministratori, i dirigenti comunali e quelli della ex Provincia. Tra loro gli ex sindaci di Olbia, Gianni Giovannelli (Forza Italia), e di Arzachena, Alberto Ragnedda. Tutti assolti in I grado nel 2017. Questo processo ha una particolarità: in aula non si è mai sentita una voce tecnica che non fosse quella degli imputati. Le parti civili, infatti, non avevano sufficienti risorse per pagarsi un consulente. Ma più di questo, né la Procura (che aveva chiesto condanne fino a 3 anni), né il tribunale, hanno mai ritenuto di affiancare propri esperti a quelli delle difese (secondo cui si è trattato di una calamità “eccezionale e imprevedibile”). Ed è a questa lacuna che, con otto anni di ritardo, ha deciso di mettere mano Plinia Azzena, presidente della Corte d’appello di Sassari. Due giorni fa, per la prima volta in questa vicenda, il giudice ha incaricato un perito di fare luce sul disastro e sulla sua prevedibilità. Di fatto una riapertura dell’istruttoria. Un passaggio avversato dalle difese. I primi passi erano stati mossi alla fine del 2019. Fra opposizioni, scioperi del foro, ed emergenza Covid, se ne sono andati via due anni solo per affidare l’incarico. La scelta è ricaduta sul geologo Alfonso Bellini, fra i massimi esperti in Italia.

C’è chi non vedrà in ogni caso la fine del processo. Nessuno ha presentato appello per le vittime di Arzachena. Qui l’alluvione ha cancellato un’intera famiglia di origine italo-brasiliana: Isael Passoni, Cleide Maria Rodriguez, e i due figli di 16 e 20 anni, Weriston Isael e Leine Kellen. Vivevano nel seminterrato di una villetta, per loro non c’è scampo. In questa Spoon river ci sono anche dei bambini. Francesco Mazzoccu viene sorpreso dal temporale a Raica, poco fuori Olbia. Tenta invano di proteggere il figlioletto Enrico, di 3 anni, lo avvolge in una giacca come un fagotto. Si può solo provare a immaginare la disperazione di questo padre. Vengono travolti e uccisi da un’onda di fango. Morgana, 2 anni, rimane invece intrappolata in macchina insieme alla mamma, Patrizia Corona, 42 anni. Mentre ai parenti di Giovanni Farre, 61 anni, di Bitti, non è rimasto nemmeno dove piangerlo. Il suo corpo, il numero 19, non è mai stato ritrovato. “Dopo anni di processi – conclude amara Maria Rosaria Casalloni – siamo allo sfinimento totale. La colpa e la responsabilità sono così bastarde che non le vuole mai nessuno”.