Elon Musk punta sui Bitcoin per “svecchiare” la sua auto

Da un paio di giorni chi vuole comprare una Tesla, la madre di tutte le auto elettriche, può pagarla anche in Bitcoin. Lo ha annunciato in pompa magna Elon Musk con un tweet, specificando poi che il servizio per ora è disponibile solo negli Stati Uniti, ma che entro la fine dell’anno verrà esteso a tutto il mondo.

L’eclettico patron della casa californiana ha pure spiegato che per accettare i pagamenti viene utilizzato un software interno e open source, assicurando che non verranno convertiti in moneta tradizionale ma resteranno così come sono.

Dopo aver acquistato giusto il mese scorso un miliardo e mezzo di dollari in Bitcoin, cominciando a puntellarne il mercato (che oscilla tra i 45 e i 50 mila dollari), quella appena fatta sembra proprio un’altra mossa furba che darà slancio alla criptovaluta: più aziende la deterranno nel loro bilancio e più ci sarà un aumento dei prezzi nel lungo periodo, vista la loro offerta limitata a 21 milioni. Il che, tradotto, significa che il valore in Bitcoin incassato aumenterà nel tempo. Un po’ come accade per i titoli azionari, il cui guadagno viene dalla speculazione: Musk vende un bene che perde smalto commerciale andando avanti con gli anni, come l’auto, avendo in cambio un simil-titolo il cui valore invece aumenta.

Non una scelta di marketing, dunque, bensì strategica: dell’eclettico sudafricano si potranno (forse) criticare i metodi pittoreschi, non certo la furbizia.

“Serve una strategia per l’automotive”

Per rendere l’Italia “un campione globale della transizione ecologica” – come auspicato dal ministro dell’omonimo dicastero, Roberto Cingolani nei giorni scorsi – è impossibile prescindere dall’attuazione di un piano operativo imminente e da una strategia di lungo termine, che coinvolgano anche l’intero settore automotive.

Con misure mirate e incisive per poter accelerare quel processo di elettrificazione della mobilità che necessita di più investimenti sulle tecnologie e l’automazione, e che stenta a decollare nel nostro Paese dovendo fare i conti pure con infrastrutture ancora inefficienti e insufficienti. E con un sistema fiscale che va a penalizzare soprattutto le aziende.

Unrae, Anfia e Federauto, quindi, hanno deciso di lanciare un appello alle istituzioni affinché vengano attuate al più presto misure determinanti, a partire da un immediato rifinanziamento dell’ecobonus. Gli incentivi promossi dal governo all’inizio dell’anno, infatti, sono agli sgoccioli soprattutto per la fascia di vetture con emissioni di CO2 comprese tra 61 e 135 g/km, cioè quelle con motori benzina e diesel di ultima generazione e con motori full e mild hybrid.

Incentivi che – hanno sottolineato gli operatori del settore in una conferenza stampa congiunta – hanno permesso di fronteggiare il calo delle immatricolazioni, favorendo allo stesso tempo la rottamazione di 125 mila vetture inquinanti (ovvero un calo delle emissioni di 61 mila tonnellate di CO2/anno).

In questo senso, la proposta avanzata dal comparto è di rendere strutturali gli incentivi per le vetture con emissioni di CO2 fino a 60 g/km, almeno fino al 2026.

Quanto all’aspetto fiscale, gioverebbe una semplificazione della tassa automobilistica “e un intervento sulla percentuale di detraibilità dell’Iva per gli acquisti effettuati da aziende e professionisti, e sulla soglia di massima deducibilità dei costi, anche in ottica green”, secondo Adolfo De Stefani Cosentino, presidente di Federauto.

Carburanti sintetici, per il prossimo futuro non c’è solo l’elettrico

Vetture sportive con motore termico, fatte di suoni inconfondibili, vibrazioni, cambi marcia, caratteristiche di erogazione specifiche… Cosa ne sarà del lato passionale dell’automobilismo con l’avvento dell’elettromobilità di massa? Difficile dirlo. E non è neanche una questione di ambientalismo, perché qui l’ecosistema c’entra poco o nulla: il trasporto stradale rappresenta attorno al 15% delle emissioni totali di CO2 mondiali. Le auto sportive, poi, costituiscono una frazione minimale delle immatricolazioni e, per giunta, le loro percorrenze annuali tendono a essere limitatissime.

Va detto, poi, che nei prossimi decenni saranno ancora centinaia di milioni le auto termiche e ibride ancora circolanti: esiste quindi la necessità di renderle pulite, tutte. Come? Una possibilità viene dai carburanti sintetici climaticamente neutri, ottenuti combinando idrogeno e anidride carbonica mediante l’utilizzo di energia elettrica rinnovabile. Il risultato sono benzine pienamente compatibili con i motori esistenti e con l’infrastruttura di trasporto, distribuzione e stoccaggio. Ci crede fermamente la Porsche che, contestualmente, vorrebbe vendere un 80% di auto elettriche entro il 2030. E che, insieme a Siemens Energy e a diverse aziende internazionali, sta sviluppando un progetto pilota in Cile per la realizzazione del primo impianto al mondo per la produzione su larga scala degli e-fuel. “Le emissioni di CO2 ‘dal pozzo alla ruota’ si riducono dell’85%, con meno particolati e meno ossidi di azoto”, spiega Frank Walliser, vicepresidente Porsche Motorsport e vetture GT: “Ciò permetterà ai modelli termici o ibridi di avere un’impronta di carbonio simile a quella di un veicolo elettrico”. “Il problema non è il motore a combustione interna in sé, quanto il carburante che bruci”, sostiene Michael Steiner, capo del reparto ricerca e sviluppo di Porsche: “Vogliamo dimostrare che questa tecnologia potrebbe essere la soluzione per le auto sportive, per il motorsport ma anche per le auto stradali”. Un’opzione che, senza nulla togliere all’elettrificazione, sostengono anche BMW, Bentley e Mazda. Il costruttore giapponese è il primo produttore di auto ad aderire alla “eFuel Alliance”, realtà nata con l’obiettivo promuovere l’idrogeno e i combustibili climaticamente neutri. “Dobbiamo ridurre il più possibile le emissioni e per farlo non dobbiamo trascurare nessuna delle possibili strade a nostra disposizione”, dice Wojciech Halarewicz, Vice President Communications & Public Affairs di Mazda Europa: “Riteniamo che, con gli investimenti necessari, l’idrogeno e gli e-fuel daranno un contributo credibile e reale alla riduzione delle emissioni”.

Cantami o divo menestrello

Non aveva dimenticato le parole. “Ma non riuscivo proprio a tirarle fuori. Mi sentivo umiliata”, rivelò Patti Smith dopo l’accidentata esecuzione di A hard rain’s gonna fall di fronte ai reali di Svezia e ai notabili premiati con il Nobel 2016. Quel riconoscimento non spettava a lei, ma Dylan latitava: così alla cerimonia di Stoccolma andò la Smith a rappresentare l’elusivo bardo folk-rock. Lottò con la voce che non voleva uscire dalla gola, chiese di riprendere il pezzo dopo un’esitazione, provò un senso di fallimento subito cancellato dall’ovazione della sala. Patti capì a sue spese che quelle liriche avevano un’origine misterica, e che Dylan è un’insidiosa trasfigurazione, un Altro inafferrabile in un Altrove spaventoso, un’identità sovrapposta a mille simili, uno spettro poetico che capta frasi e consapevolezze giunte fino a noi dalla stratificazione di millenni di coscienza umana. Nessun testo è mai ‘solo’ di Dylan. In ogni verso, scavando, troverai un frammento, un coccio, un reperto rivelatorio.

Bob non nasconde mai la domanda di ‘prestito’ creativo: fa balenare nelle canzoni le ombre dei Padri della lirica greca e romana, e le indica. Sta allo studioso recuperare il riferimento intertestuale, il gancio tra Dylan e Omero o Virgilio, accettare l’idea che non si tratti di un plagio bensì di una rivendicazione di appartenenza, nel vertiginoso ‘viaggio’ del Nostro verso un’eternità letteraria, la passeggiata di una rockstar al fianco degli spiriti eletti, come Dante nel Limbo. Per districarci nella foresta di simboli del menestrello di Blowin’ in the wind, preziosa è l’analisi di Richard F. Thomas, docente di lettere classiche ad Harvard e animatore di un seminario sull’opera omnia del cantautore. Nel suo volume Perché Bob Dylan (Edizioni EDT), Thomas evita ogni pedanteria cattedratica e decifra con zelo da fan i segni di ‘contatto’ del massimo poeta rock con la tradizione epica. Segni che si sono andati moltiplicando, soprattutto nel nuovo millennio. Una delle prime scoperte di Thomas riguarda Lonesome Day Blues, brano chiave del capolavoro Love and thef, l’album pubblicato il fatale 11 settembre 2001. In alcuni passaggi (“Risparmierò gli sconfitti, parlerò alla folla/Insegnerò la pace ai conquistati/debellerò i superbi”) risuonava forte e chiara la voce virgiliana, il calco delle istruzioni impartite da Anchise a Enea nel periglioso viaggio verso quella che sarà, un giorno, Roma. Qui il volto dell’eroe troiano si sovrappone a quello di Dylan: il quale, sostiene Thomas, rivendica la sua ‘nascita’ elettiva proprio nella Città eterna. Nel suo liceo in una sperduta città mineraria del Minnesota, Bob era iscritto a un club di ultrà del latino, interpretava nelle recite un centurione, si beava con i kolossal del filone ‘tunica & toga’. Studiava Catullo, e più tardi molte delle sue ballate avrebbero avuto la risonanza d’amore di un Carme. All’esordio da folksinger si cimentò con un brano rimasto inedito, Goin’ back to Rome, in cui pretendeva i natali nell’Urbe (‘tenetevi il Madison Square Garden/Datemi il Colosseo’) e vi paventava un ‘ritorno’.

Era il 1963, lo stesso anno in cui a Roma venne davvero, inseguendo la fidanzata Suze Rotolo che per un breve periodo studiò a Perugia. Ben presto Suze rientrò in America: Bob si ritrovò solo, con il cuore spaccato, a Trastevere, dove suonò (da sconosciuto) al Folkstudio. Pensando a Suze compose a Roma Girl from the north country e Boots of Spanish Leather, mentre When I paint my masterpiece alludeva a un soggiorno in via Sistina in compagnia di altre ragazze. In quel tempo tormentoso e fertile piantò ancor più profondamente le radici della sua ossessione romana, e anche a più di mezzo secolo di distanza se ne possono cogliere i frutti. Thomas ne ha trovati ovunque: nell’album Modern Times del 2006 ecco le odi oraziane, lo strazio per la separazione dall’amata Fillide cifrato in Bye Bye o l’esilio di Ovidio in Ain’t talkin’ e Workingman’s blues #2, con richiami letterali al Tristia. Mentre in Tempest, sei anni più tardi, Dylan torna ancora più indietro, fino a Omero, per poi riavanzare verso Shakespeare. Coltivando il pensiero per ‘trilogie’ di opere – come in Dante – e scippando anche autori più vicini nel tempo. Del resto, suggeriva T.S. Eliot, ‘I poeti immaturi imitano/quelli maturi imitano’. Ed è qui l’unico limite del libro di Thomas. Non tiene conto del più recente capolavoro dylaniano, Rough and Rowdy ways del 2020, dove accanto a una presa puntuale dall’Eliot dei Quattro quartetti o al trasparente titolo whitmaniano (I contain multitudes) trovi un paio di citazioni su Cesare (che dire di Crossing Rubicon?) e persino l’invocazione alla Mother of Muses per l’amore esclusivo di Calliope, custode dell’epica, la creatura ‘dalla bella voce’. La dea dell’eloquenza.

 

Il presidente Joe l’immortale: “Correrò anche nel 2024”

Più vaccini – 200 milioni di dosi nei primi cento giorni della sua presidenza – che migranti e armi, argomenti scomodi, nella prima conferenza stampa di Joe Biden dal suo ingresso alla Casa Bianca. Ma c’è anche stato uno sguardo alla politica estera, Cina, Corea e Afghanistan. Biden ha destato qualche sorpresa, affermando che intende ricandidarsi nel 2024, forse nel tentativo di soffocare le voci su una presidenza da un solo mandato, e che lo farà ancora con Kamala Harris, che ringrazia per il grande lavoro fatto e cui ha appena scaricato la ‘patata bollente’ dei migranti alla frontiera con il Messico. “La stragrande maggioranza del migranti che attraversano il confine è rimandata indietro”, assicura Biden: “Il balzo di migranti c’è ogni anno di questi tempi… Stiamo cercando di ricostruire il sistema dell’immigrazione” smantellato dal suo predecessore. Con Donald Trump, la polemica è soprattutto forte sui minori non accompagnati: “Non volteremo le spalle ai minori non accompagnati al confine e non li lasceremo patire la fame. Nessun’altra Amministrazione lo farebbe, eccetto Trump”. La conferenza stampa ha preceduto di poche ore l’intervento di Biden al Vertice europeo, dove cercava sponde alle sue mosse su Russia e Cina. Della Cina, ha detto: “Conosco Xi Jinping da tempo, è una persona intelligente. Abbiamo parlato per due ore: gli ho chiarito che non vogliamo un scontro ma una competizione; e una concorrenza leale.” C’è stato pure un messaggio al dittatore nord-coreano Kim Jong-un, che reclama attenzione a colpi di test missilistici: Washington risponderà a Pyongyang in caso di escalation. E Biden ha ammesso che sarà difficile ritirare tutte le truppe Usa dall’Afghanistan entro il 1° maggio, in assenza di accordi tra il governo di Kabul e i talebani.

“Segnali di speranza arrivano dall’economia”, ha infine constatato il presidente: le stime di crescita 2020 sono state riviste al rialzo, con una crescita superiore al 6%. “Ci sono però troppi americani ancora senza lavoro; molto resta da fare”.

Suez fermo per settimane: ora qui c’è il rischio prezzi

Era successo solo cinque volte in oltre 150 anni che il Canale di Suez fosse chiuso alla navigazione. Nelle due occasioni più famose (fra 1956 e 1957 e fra 1967 e 1975) i motivi furono politici e militari. Questa volta la ragione è molto più banale. La nave Ever Given, battente bandiera panamense, si è arenata, impedendo alle altre imbarcazioni di passare: costruito nel 2018, il cargo veniva dalla Cina ed era diretto a Rotterdam.

Nel 2004 l’incagliamento di una petroliera russa aveva provocato una chiusura di tre giorni. Oggi i 400 metri di lunghezza e le 220mila tonnellate della Ever Given creano qualche problema in più: per la società incaricata del recupero ci potrebbero volere settimane. Nel frattempo, si sta formando una coda impressionante ai due sbocchi del canale: sarebbero più di 200 le navi già in attesa.

In gergo tecnico i passaggi come Suez sono definiti “punti di strozzatura” (chokepoints). Suez è considerato, insieme al canale di Panama e agli stretti di Malacca e Hormuz, un chokepoint di rilevanza strategica. Ogni giorno, circa 50 navi lo attraversano. Il 10% del commercio globale passa da lì. Un report di Assoporti di tre anni fa stimava che nel 2015 circa un terzo del tonnellaggio delle merci in entrata e in uscita dall’Italia percorreva il canale.

Parlare di strozzatura è una metafora che evoca efficacemente anche la situazione delle catene di approvvigionamento, in particolare quelle fra Asia ed Europa. La situazione del trasporto marittimo non è di certo rosea. Già a novembre, nel suo rapporto annuale sullo shipping, l’Unctad stimava per il 2020 un calo in volume del 4,1%. Ma proprio allora le tariffe di nolo, che erano cresciute in estate a livello globale, hanno iniziato ad aumentare vertiginosamente sulla rotta Asia-Europa. Il costo per trasportare via mare un container da 12 metri è passato da 2mila dollari a novembre a 9mila a gennaio, come già raccontato dal Fatto: un picco a cui è poi seguita una stabilizzazione su livelli alti.

Qual è la ragione? Nella seconda metà del 2020 la domanda occidentale di beni asiatici era tornata a crescere, portando alle stelle le tariffe di nolo. Allo stesso tempo, però, il governo cinese aveva chiesto alle compagnie marittime di mettere dei tetti ai costi di trasporto, per evitare danni alle esportazioni: da una parte il commercio sulla rotta pacifica si è intensificato, dall’altra i container disponibili per portare merci in Europa sono diminuiti, spingendo ulteriormente al rialzo le tariffe fra la Cina e il Vecchio continente. Il risultato? Da novembre il costo della rotta sino-mediterranea è più che triplicato, mentre il costo di quella sino-americana è cresciuto molto meno (+11%, dati Freightos Baltic Index).

Ora il blocco di Suez aumenterà ulteriormente i costi, oltre a ritardare le consegne e a esacerbare la scarsità di container in Asia, alimentando un circolo vizioso. Si parla già di tentare la via alternativa (e molto più lunga) intorno al Capo di Buona Speranza. Ma ciò farebbe crescere ancora di più le spese di trasporto. Intanto i future sulle tariffe di nolo hanno fatto un balzo e gli effetti si sono fatti sentire anche su altri mercati. Il prezzo del greggio è salito di circa il 6% dopo l’incidente, per poi normalizzarsi.

Queste turbolenze si aggiungono alla crescita sostenuta negli ultimi tempi del costo delle materie prime. In questo scenario, le aziende potrebbero essere spinte ad accumulare più scorte per far fronte all’instabilità delle catene di approvvigionamento e ad aumentare i prezzi, scaricando così sui consumatori i maggiori costi.

L’inflazione – tanto temuta a causa dei maggiori deficit dovuti alla crisi e, ancor prima, dell’espansione monetaria delle Banche centrali – potrebbe verificarsi per un fattore del tutto diverso: i colli di bottiglia di una globalizzazione fragile.

Erdogan si veste da “illuminato”

Quando il lupo si traveste da agnello. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, dice: “La Turchia vuole risolvere i conflitti nella sua area e farsi più amici”, facendo della regione “un’isola di pace”. Propositi stridenti da parte di un leader che da anni persegue una politica estera assertiva e spesso aggressiva. Erdogan parlava al congresso del suo partito, l’Akp, che lo ha rieletto leader (era l’unico candidato). Il presidente si riferiva in particolare al Mediterraneo orientale, con la ripresa dopo quasi otto anni dei contatti diplomatici con l’Egitto e possibili distensioni dei rapporti con altri interlocutori, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.

L’agnello del congresso di Ankara è il lupo che ha litigato – e litiga – con alleati e partner, gli Usa e l’Ue, che ha rapporti altalenanti con Vladimir Putin – alleati in Siria e avversari in Libia –, che invade la Siria per fare la guerra ai curdi, che ha le mani in pasta in tutti i conflitti mediorientali degli ultimi dieci anni, che ha schierato in Libia uomini e mezzi con Tripoli contro Bengasi, che s’è appena messo in rotta con le organizzazioni internazionali di cui il suo Paese è membro, Onu e Consiglio d’Europa, uscendo dalla Convenzione per la protezione dei diritti delle donne. Ma la coerenza non è mai stata una dote precipua dei leader, specie se venati d’autoritarismo. Parlando davanti a migliaia di sostenitori, Erdogan dice: “Continueremo a modellare le relazioni con ogni Paese, dagli Usa alla Russia, dall’Ue ai Paesi arabi, tenendo conto dei nostri interessi e delle aspirazioni del nostro popolo… Siamo un Paese collocato tra Africa, Asia ed Europa e non possiamo voltare le spalle né all’Est né all’Ovest”.

La svolta ‘buonista’ del presidente turco viene accolta con qualche diffidenza a Washington e Bruxelles. “Nell’ultimo mese, abbiamo assistito a sviluppi positivi da parte della Turchia, ma – osserva Josep Borrell, il ‘ministro degli Esteri’ dell’Ue – la situazione resta delicata”. Borrell ha ieri presentato ai capi di Stato e/o di governo dei 27 un approccio euro-turco a doppio binario, carota e bastone: Bruxelles si fida, ma non troppo. Nonostante la recrudescenza della pandemia in Turchia, migliaia di delegati dell’Akp erano presenti al Congresso. Erdogan attribuiva particolare importanza al suo discorso, che vuole tracciare la rotta del Paese per il futuro. In preparazione della svolta ‘buonista’, da mesi diplomatici turchi lavorano ad appianare gli attriti con gli interlocutori internazionali, citando spesso il desiderio “di voltare pagina”.

Oltre ad avere ripreso i contatti diplomatici con l’Egitto, la Turchia vuole ora cambiare tono, dopo anni di interventi militari in Siria, Libia e Iraq che hanno innescato irritazioni nei Paesi arabi, come l’Arabia saudita e gli Emirati. La tensioni con l’Europa si sono, invece, un po’ dissipate dopo che la Turchia ha ritirato una nave per prospezioni petrolifere dal Mediterraneo orientale e ha riavviato, per la prima volta dal 2016, colloqui con la Grecia, anche se Atene ha di nuovo condannato “l’aggressione” di Ankara. Gesti e passi di distensione e conciliazione vorrebbero avere un riflesso economico: si tratta di migliorare il clima degli investimenti in Turchia, fortemente deterioratosi, e di aiutare la lira turca che nel 2020 aveva perso quasi il 30% del suo valore. Questa settimana, la lira è di nuovo precipitata del 14%, dopo che Erdogan ha rimosso il governatore della Banca centrale turca Naci Agbal e l’ha sostituito con Sahap Kavcioglu, un professore dalle idee non convenzionali sulla politica monetaria. Sarebbe pure imminente un rimpasto nel governo. Il presidente dice: “Le fluttuazioni nei mercati degli ultimi giorni non rispecchiano i fondamentali dell’economia turca, le reali dinamiche e il suo potenziale”; e lancia un appello ai turchi perché vendano eventuali riserve in oro e valuta straniera e investano piuttosto in “meccanismi finanziari che possano giovare alla nostra economia”.

Sul fronte interno, il congresso dell’Akp, fondato nel 2001 e al governo del Paese da oltre 18 anni, ha avallato la coalizione con i nazionalisti di Mhp nell’ambito della Alleanza del Popolo, in vista delle prossime elezioni presidenziali e parlamentari previste nel 2023, centenario della Repubblica. Erdogan ha pure confermato il suo progetto di una nuova Costituzione, su cui però non c’è per ora un consenso dell’opposizione, che chiede anzi l’abbandono del presidenzialismo e il ritorno al sistema parlamentare. Erdogan tornò, anche formalmente, alla guida dell’Akp dopo che il referendum del 2017 eliminò l’incompatibilità tra capo dello Stato e capo del partito. Al congresso erano invitati altri 11 partiti, anche d’opposizione, ma non il filo-curdo Hdp, che la Cassazione di Ankara vuole metter al bando, in linea con gli appelli di Erdogan e del suo alleato nazionalista di Mhp, Devlet Bahceli.

 

“10 anni in nero”. La colf inguaia la deputata dei diritti umani

In Argentina è scoppiato un caso in cui è implicata la deputata Victoria Donda, accusata dalla sua domestica di averla sfruttata da dieci anni in nero e oltretutto sottopagata. La vicenda – simile a quella denunciata dal Fatto e che coinvolge la deputata italiana Boldrini – è rilevante anche perché Donda è responsabile dell’Inadi, l’Istituto governativo che si occupa di discriminazione, xenofobia e razzismo. Figlia di una coppia di desaparecidos, Donda è stata il primo esempio di figli rubati ai propri genitori dalla dittatura militare degli anni Settanta a intraprendere una carriera politica, con una discussa traiettoria tra kirchnerismo (tra le cui file venne eletta deputata nel 2007) e opposizione, per poi, con l’elezione del peronista Alberto Fernandez alla presidenza, tornare alle sue origini politiche. Donda è accusata da Arminda Banda Oxa, la quale sostiene che la deputata – oltre ad averla tenuta in nero per tutta la durata della sua mansione – le avrebbe offerto un sussidio statale per risolvere la questione. Il tutto documentato sia da messaggi vocali sia da sms, cosa che ha provocato una grande diffusione nei media del Paese, che accusano Donda di utilizzare risorse dello Stato per fini personali. Nonostante le proteste dell’opposizione e di gran parte della pubblica opinione che ne hanno richiesto le dimissioni, il governo ha deciso di mantenere l’incarico della deputata che già in un recente passato è stato messo in discussione, quando Donda aveva giustificato il governatore della Provincia di Formosa (una delle più povere dell’Argentina) Gildo Insfran a proposito di una denuncia presentata nei suoi confronti dall’Organizzazione Internazionale dei Diritti Umani in cui lo si accusava di aver isolato in strutture fatiscenti e con trattamenti disumani, cittadini posti in quarantena Covid-19 perché reduci da soggiorni nel confinante Paraguay.

“Boldrini colpevole 2 volte. Ora sostenga noi sfruttati”

“Quello che è successo è ancora più grave, perché la responsabilità di Laura Boldrini è anche quella di una ex presidente della Camera, una personalità che ha rappresentato le istituzioni”.

José De Falco, presidente dell’ Aicp, Associazione italiana collaboratori parlamentari, commenta senza fare sconti le polemiche di questi giorni sulle rivelazioni di alcuni collaboratori della Boldrini a cui erano destinate mansioni da assistenti personali. “Il tema è che proprio lei conosce bene i temi sottesi alla problematica dei collaboratori parlamentari e della poca trasparenza dei loro contratti. Abbiamo perfino una foto fatta con la Boldrini durante un incontro con l’associazione a seguito di uno scandalo sui collaboratori nel 2017. Vi fu anche un prima pagina di Repubblica in cui lei diceva “Portaborse? Sfruttare è vergognoso, la Camera cambi pagina”.

Sembrava essersi spesa insomma.

Sembrava di sì… anche Fico sembra spendersi molto, ma nessuno evidentemente ha voglia di disciplinare la materia.

Perché?

Ciascun parlamentare ha nel suo cedolino una voce che si chiama “spese per esercizio del mandato” che alla Camera sono 3.680 euro, al Senato 4.180 al mese. Di queste spese, ne va rendicontata solo la metà. Con questo fondo dunque si possono fare contratti di consulenza, di lavoro subordinato e altro.

Naturalmente parliamo di attività connesse all’attività politica.

Sì, anche organizzazione di convegni o stampati vari.

L’altra metà, quella che non va rendicontata?

Se uno se la vuole tenere da parte lo può fare, è anche esentasse.

Quindi i contratti con i collaboratori vengono stipulati direttamente dai parlamentari?

Sì. Intendiamoci, che sia personale fiduciario, scelto da loro, è anche giusto, ma per quel che riguarda i contratti si tratta di una vera e propria giungla.

Ovvero?

Dietro consiglio del commercialista scelgono il tipo di contratto che preferiscono, c’è gente che per farsi assumere crea “finte” partite Iva, tanti co.co.co, ad altri hanno addirittura proposto contratti da colf! In più, tanti parlamentari non hanno collaboratori e non si sa come rendicontino questi fondi. È un problema di trasparenza, sono soldi dei cittadini.

La Boldrini ha detto che incaricare i collaboratori parlamentari di mansioni extra politiche è qualcosa che fanno in tanti.

Mal comune non è mezzo gaudio, ancor meno se tu sei chi l’istituzione l’ha incarnata. E poi discutiamo di risorse pubbliche date per l’esercizio del mandato, non si possono usare per chiedere a un collaboratore di andare a mostrare un appartamento di proprietà ai nuovi affittuari. Il favore saltuario è un conto, ma se vuoi un personal shopper lo paghi a parte.

Ne sentite molte di magagne così?

Ci sono casi di parlamentari che si accordano per fare contratti di una cifra e poi il collaboratore gli ridà parte dei soldi indietro.

E perché i collaboratori non denunciano?

Quello del collaboratore è un rapporto fiduciario: se un caso arriva alla stampa, chi l’ha sollevato non lavora più. Tanti rinunciano a parlare per quieto vivere o privilegiando l’idea di lavorare poi con altri. Poi ci sono casi di collaboratori che denunciano e vincono cause che però firmano contratti con clausole di riservatezza. Clausole che convengono al parlamentare per ragioni reputazionali.

Lei ha parlato con Roberta, la ex collaboratrice di Laura Boldrini che ha raccontato la sua storia al Fatto?

Sì. Le testimonianze pubbliche come la sua sono la speranza e lo strumento per innescare un cambiamento. L’abbiamo ringraziata tanto perché è una ribalta che si sconta anche umanamente, lei è scossa, ma si augura che quello che sta vivendo inneschi un cambiamento utile.

Cosa vuole dire alla Boldrini?

Il suo è stato uno scivolone soprattutto nella fase di giustificazione, l’argomento “molti fanno come me” ripugna e dovrebbe ripugnare anche lei. Lo strumento per superare questa brutta figura è diventare la paladina della regolamentazione dei contratti dei collaboratori parlamentari, lottare perché sia trasparente chi viene assunto e per quali mansioni.

Le dispiace vedere la strumentalizzazione della destra di questa vicenda?

È il solito teatrino. Il tema che dovrebbe stare a cuore alla stampa è la mancanza di diritti dei lavoratori nel luogo in cui si fanno le leggi. Noi esistiamo in quanto esistono scandali e per questo dico che quello accaduto con la Boldrini è uno scandalo dolorosamente necessario.

Chi è che può cambiare le cose?

Roberto Fico a parole è stato il presidente più comprensivo, aveva parlato di una delibera che ci aiutasse a superare i problemi. Questa disciplina è interna alle Camere, basta riunirsi un pomeriggio, approvare la delibera e il grosso è fatto. A Fico dico però che le parole sono rimaste parole. Porti la delibera all’Ufficio di presidenza. Verrà bocciata? Almeno sapremo quali sono le forze politiche che si oppongono. Sta finendo la legislatura, non c’è molto tempo.

La Rai coi conti in rosso compra format dall’ex direttrice di rete Ilaria Dallatana

Nonostante l’ad Fabrizio Salini nel giugno scorso abbia annunciato un taglio agli appalti esterni Rai di circa il 20%, in Viale Mazzini si continua a dare programmi fuori che è una bellezza. Molte trasmissioni, specie quelle su cui si punta di più, sono realizzate da società di produzione esterne. Tra queste, negli ultimi tempi si è fatta notare una new entry: la Blu Yazmine che, fondata nel luglio scorso, si è già conquistata notevole spazio nei palinsesti. A incuriosire è che a capo di questa neonata società ci sia Ilaria Dallatana, ex direttrice di Rai2 nella passata gestione, quando ad Rai era Antonio Campo Dall’Orto. La manager, d’altronde, da quel mondo viene: dopo un inizio in Mediaset, nel 2001 è tra i fondatori di Magnolia fino a diventarne, nel 2011, il ceo per l’Italia. E per le sue qualità di manager televisiva che Campo Dall’Orto nel 2016 la chiama alla direzione di Rai2, che lascerà dopo circa un anno e mezzo.

Ora, dunque, si è messa in proprio e ha aperto una sua società. Che in questa stagione ha piazzato in Rai ben quattro format: Sette storie di Monica Maggioni, il lunedì in seconda serata su Rai1; La caserma, reality andato in onda il mercoledì in prima serata su Rai2; La canzone segreta, show condotto da Serena Rossi che ha da poco fatto il suo esordio il venerdì su Rai1; mentre a breve arriverà Game of Games, mercoledì 31 marzo su Rai2. Bei colpi, specialmente per una società nata da poco e in una stagione televisiva segnata dalle difficoltà della pandemia. “Quante società possono vantare un così immediato successo? Ci voleva proprio una nuova casa di produzione per fare un po’ di servizio pubblico?”, si chiede l’associazione Indignerai, di cui fa parte il consigliere dei dipendenti Riccardo Laganà. “A scanso di equivoci, non mettiamo in dubbio che anche in questo caso siano state rispettate alla lettera le direttive interne in tema di conflitto d’interessi”. A più di uno, infatti, in Viale Mazzini si è alzato il sopracciglio nel vedere gli spazi ottenuti dalla società dell’ex direttrice di Rai2. Con risultati alterni: bene Sette storie, male La caserma. In calo, tra la prima e la seconda puntata, La canzone segreta (stasera la terza). Intanto ieri il Cda ha dato il via libera al regolamento per l’elezione del consigliere interno e ha proceduto a tre nomine: Andrea Montanari è il nuovo direttore di Radio 3, Maurizio Fattaccio diventa presidente di Rai Pubblicità, mentre il capo ufficio stampa Claudia Mazzola passa a dirigere l’Ufficio Studi, al posto dello stesso Montanari.