Le intercettazioni della Procura di Genova dei manager di Autostrade per l’Italia, ascoltati mentre dicevano di aver mentito al processo di Avellino sui 40 morti di Acqualonga – intrappolati nel bus precipitato il 28 luglio 2013 dopo aver sfondato un new jersey marcio – per proteggere l’ad Giovanni Castellucci, assolto in primo grado, non entreranno a far parte del processo di secondo grado. Lo ha deciso la Corte di Appello di Napoli presieduta dal giudice Domenica Miele, rigettando la richiesta del sostituto procuratore generale Stefania Buda che nel corso della scorsa udienza ne aveva sollecitato l’acquisizione “perché rivelavano una verità fattuale diversa da quella processuale”. Si riferiva anche ad alcuni colloqui captati sul cellulare di Paolo Berti, condannato a cinque anni e dieci mesi. Accolte le richieste di sentire otto testimoni, mentre la Corte si è riservata la decisione sulla richiesta dei difensori di alcuni imputati di disporre una nuova perizia sulle cause del crollo del new jersey. Sarà subordinata all’esito delle escussioni dei testi.
Indagati i portuali elogiati da Francesco. La Digos: “Associazione per delinquere”
Elogiati dal Papa, indagati dalla Procura. Accade ai camalli di Genova che negli ultimi due anni sono stati protagonisti di proteste e boicottaggi contro il passaggio delle navi della compagnia statale saudita Bahri, cargo che trasportavano armamenti diretti a Riyad, impiegati secondo gli attivisti nella guerra sporca contro lo Yemen. La Digos, coordinata dal pm Marco Zocco, ha perquisito cinque di loro (difesi da Laura Tartarini), rappresentanti sindacali del Collettivo autonomo lavoratori portuali (Calp). Sono indagati per associazione a delinquere finalizzata al lancio di fumogeni e attentato alla sicurezza dei trasporti. Ma di cosa sono accusati?
In uno dei cortei, si legge ad esempio in un esposto presentato dalla Delta Agenzia Marittima srl, agente di Bahri Logistics (rappresentata dall’avvocato Cesare Fumagalli), avrebbero lanciato “cinque razzi”, dei quali “uno colpiva il ponte e uno il fumaiolo”. Episodi che nel tempo sarebbero andati in crescendo. Di sicuro le navi saudite non hanno avuto vita facile sulle banchine liguri. In un caso il boicottaggio ha costretto le merci a viaggiare via terra, per essere reimbarcate in un altro porto. Ed ecco cosa scrivono gli inquirenti nel decreto di perquisizione: “Le azioni delittuose si sono consumate all’insegna di due bandiere, l’antimilitarismo e l’antifascismo. Ma le modalità con cui sono state realizzate sono connotate da una violenza che è cresciuta nel tempo. Tra i “nemici” naturali dell’associazione, oltre a esponenti dell’estrema destra, ci sono anche dirigenti e persino maestranze della logistica portuale”. Le proteste, va ricordato, furono sottoscritte da una vasta rete di associazioni, da Amnesty International agli scout cattolici. Papa Francesco, nel novembre del 2018, spese parole di apprezzamento per quelle mobilitazioni: “Sappiamo cosa succede nello Yemen. I lavoratori del porto sono stati bravi. Ci hanno mostrato la via da seguire per andare avanti, perché la pace oggi è debole”.
“È paradossale – commenta il loro portavoce José Nevoi – i violenti saremmo noi, per aver sparato fumogeni, definiti ‘micidiali’, contro una nave che trasportava armi da guerra. Persino il Pontefice ci ha manifestato vicinanza. Ci indagano per aver chiesto il rispetto della Costituzione. Invece il senatore Matteo Renzi vola dal suo amico Bin Salman e se ne vanta pure”.
Gli ex-5S nel Maie: Conte prova a farsi il suo gruppo
L’avvocato che ha appena aperto “un cantiere” con Enrico Letta prepara il suo progetto di rifondazione del M5S, senza anticipare nulla a nessuno. Ma il Giuseppe Conte che non risponde alle chiamate dei parlamentari semplici come dei big, sotto traccia segue più fronti.
Per esempio, da giorni suoi emissari provano a tenere in vita in Senato il gruppo Europeisti – Maie – Centro democratico. Una pioggia di sigle per indicare quel raggruppamento di esuli vari da altri partiti, nato poche settimane fa per tenere in piedi un Conte ter. Ma è andata come è andata, con Mario Draghi a palazzo Chigi. E ora il Maie, con i suoi dieci membri (il minimo per formare un gruppo autonomo a Palazzo Madama), sta già evaporando. Mariarosaria Rossi, l’ex forzista devotissima a Silvio Berlusconi, ha annunciato giorni fa il passaggio a Cambiamo!, il movimento del governatore ligure Giovanni Toti. Mentre Tatjana Rojc, “prestata” dai dem per arrivare a quota dieci, farà il percorso inverso: “Torno nel Pd, è la mia casa”. Entrambe lasceranno dopo Pasqua. Per questo il presidente del Maie Raffaele Fantetti (ex FI) sta cercando sostituti. E uomini dell’ex premier provano ad aiutarlo. L’ex premier vorrebbe tenere in piedi il gruppo, come possibile gamba parlamentare contiana della coalizione giallorosa, tutta da (ri)costruire. Così un fedelissimo come il senatore grillino Mario Turco ha sondato vari ex del M5S. Proprio come ha fatto Andrea Benvenuti, giovane (classe 1992) ex segretario particolare di Conte a Chigi, ora nel Maie. Ma il tempo è poco e le adesioni non arrivano. Almeno due ex grillini raccontano di aver rifiutato “perché non ci sono prospettive chiare a medio termine e il gruppo è troppo eterogeneo politicamente”. Anche l’abboccamento con gli ex 5Stelle di Alternativa c’è, la componente degli esuli che hanno votato no al governo Draghi, sembra non decollare (“alcuni dei suoi membri sono tutt’altro che europeisti….”, fanno notare). Però le trattative andranno avanti. D’altronde c’è grande fermento nel M5S, dove spuntano correnti che già fanno rima con liste.
Basti pensare a Italia più 2050, l’associazione appena fondata dai grillini di governo Dalila Nesci e Carlo Sibilia, con tanto di simbolo e manifesto programmatico. Ieri all’Adnkronos la sottosegretaria al Sud lo ha detto così: “Se questa può essere una lista per Conte? Gli sbocchi di un’associazione possono essere molteplici”. Tradotto, l’obiettivo è una lista di appoggio al M5S che accolga parlamentari uscenti, eludendo il vincolo dei due mandati, e magari anche qualche ex. “Hanno già iniziato a reclutare eletti” sussurravano ieri dal M5S. Forse non a caso, in queste ore è nato anche un altro gruppo, Innovare, formato da grillini al primo mandato, che non vogliono cancellare il vincolo delle due legislature. Dichiaratamente non ostili a Davide Casaleggio e alla sua piattaforma Rousseau. Un’altra novità sul cammino di Conte.
Mail Box
Io, professore, vi prego: non chiamatelo siero!
Non passa giorno senza che in almeno un tg si nomini, a sproposito, la parola “siero” quale sinonimo di “vaccino”, il nostro miglior alleato nella lotta contro la Covid-19. Il termine “siero” indica la componente liquida del sangue deprivato sia del “fibrinogeno” sia della “frazione corpuscolata”. Ed è proprio nel siero che è possibile dimostrare la presenza di anticorpi anti-SarsCov-2, prodotti a seguito sia di un’infezione naturale sia della vaccinazione anti-Covid-19. I sieri ottenuti da pazienti guariti o comunque immunizzati possono altresì trovare favorevole impiego nella cura, al pari di quanto avviene per le terapie a base di “anticorpi monoclonali”. Ciò vale anche per altre patologie a eziologia infettiva, laddove non fossero ancora disponibili farmaci ad hoc. Appellare un “vaccino” col nome di “siero”, costituisce pertanto un grossolano errore. Si tratta, purtroppo, di una grave imprecisione che trova riscontro anche sulla carta stampata e sui social media. Ciò accade nel segno di una “deriva dell’informazione” al cui proposito l’Oms ha già da tempo coniato l’espressione “infodemia”, un oltremodo efficace neologismo che ci rimanda all’altra allarmante “epidemia” che si è sviluppata in seno alla “pandemia da Covid-19”, quella delle fake news!
Giovanni Di Guardo
Già prof. di Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria presso l’università di Teramo
Con questa sanità l’eutanasia è un diritto
Sull’eutanasia avrei avuto dei dubbi se tutto funzionasse nella Sanità, ma non è così. Cosa devi fare per essere curato dei tuoi malanni in ospedale, senza essere spedito come un pacco postale per visite, esami, radiografie, con una perdita di tempo fra una visita e l’altra che fai a tempo a morire? Con una osteoporosi sgretolante, due operazioni con quasi tutte le vertebre della spina dorsale rotte e indicibili dolori, alla mia età di 87 anni, penso sia giusto aiutare chi soffre a fine vita, piuttosto che negargli quella dignità per dimostrare l’eccellenza di una sanità che non esiste e cura chi è sano. Ormai l’Eutanasia è un diritto.
Omero Muzzu
Conte, e chi lo dice che sia stato un male?
In una brillante commedia di Eduardo De Filippo incentrata su una famiglia di campagna, le varie vicissitudini venivano accompagnate dalle parole di un vecchio saggio: “…e chi lo dice che sia stato un male?” oppure “…e chi lo dice che sia stato un bene?”. Ora, a proposito di Conte: “…e chi lo dice che sia stato un male che sia andato a casa e che al suo posto ci sia il governo dei Migliori?”. Non sono vecchio e neppure saggio, ma ho la sensazione che Conte abbia lasciato un buon ricordo. Staremo a vedere, ma secondo me, se fosse rimasto ancora un anno, con quel clima da caccia alle streghe su tutto quello che diceva o faceva, volente o no, si sarebbe logorato e forse di rimpianti ne avremmo avuti, tutti, un po’ di meno.
Fausto Padovan
Chi incolpa la burocrazia ha la coda di paglia
I “giornaloni” che parlano continuamente di “taglio alla burocrazia” sono dello stesso impasto di chi al governo ha intasato la Pa di un coacervo mostruoso di regole e cavilli, con l’unico proposito di favorire disonesti e cialtroni.
Piero Angius
Sui media si incolpa la “burocrazia” per tutte le cose che non funzionano. Nessuno mai però si chiede quale sia la fonte del problema. A me pare che stia negli eccessi normativi dei vari organi. La mania di voler regolare tutto per legge toglie libertà ai cittadini. Il primo compito del Parlamento dovrebbe essere quello di disboscare la giungla delle centinaia di migliaia di leggi esistenti oggi.
Pietro Volpi
Sulla scienza medica, Fini divide i lettori
Questa volta Massimo Fini l’ha proprio fatta fuori dal vaso. Se il 2020 è stato il fallimento della scienza medica lo è stato anche di non pochi giornalisti che si sono improvvisati scienziati. Senza distanziamento sociale, i decessi non si sarebbero quadruplicati, ma centuplicati. Le attuali terapie intensive sono già quasi tutte al collasso. Uno su quattro ne esce per il cimitero e due su tre devono poi fare cure per lunghi mesi.
Luigi Caroli
Nell’articolo sul fallimento della scienza medica, Massimo Fini esprime con la solita sagace e pungente schiettezza il suo punto di vista. Apprezzo molto che nel mio giornale (sono un abbonato della prima ora) trovino spazio opinioni fuori dal coro. Il buon Fini, almeno in questo ambito, appare un predicatore nel deserto. In rete, opinioni ‘non allineate’ di insigni scienziati vengono brutalmente oscurate. Auguro pertanto lunga vita a Fini e alla sua collaborazione con il Fatto.
Francesco Di Cesare
Covid in Lombardia. “Ho 81 anni, temo arrivi prima il virus del vaccino”
Ho 81 anni, sono invalido al 100 per cento, ho patologie cardiovascolari molto gravi e pure oncologiche, tanto per non farmi mancare nulla. Non mi hanno ancora vaccinato e non mi hanno mai contattato. Non sono estraneo alla politica e ai media e quindi mi sono trattenuto da proteste. Mi sembrava di cercare una soluzione per me. Inoltre non sono nei social. Aspetto.
Aspetto che cosa? Aspetto il vaccino o aspetto il Covid? Chi arriva prima? Due giorni fa è morto un caro amico di 88 anni, Carlo Rossi, una persona amata da molti a Milano. Un poliziotto pistolero gli uccise il figlio, Luca Rossi, e lui con la moglie Adele non ha mai smesso l’impegno civile. Carlo aspettava il vaccino. È arrivato prima il Covid e la morte.
Quanti morti per ogni ritardo e silenzio della Regione Lombardia? Di queste morti non c’è un conto e non c’è rendiconto di responsabilità. Solo oggi è arrivata un po’ di indignazione dei media. Gli amici mi dicono: vai nel primo pomeriggio al vecchio ospedale militare di via Forze Armate, ti metti in fila, diventi un “riservista” e se avanzano dei vaccini te lo fanno. Normale? No, non è normale che degli ultraottantenni malandati si mettano in fila, in piedi, al freddo, per accedere agli “avanzi”, come all’ortomercato per la frutta avanzata. Non è accettabile.
Come chiamiamo questi morti? È dall’inizio della pandemia che aleggia nell’aria una parola e una cultura impronunciabile: eugenetica. Gira nell’aria e Letizia Moratti la sfiora, con l’idea che la priorità deve essere data a chi è produttivo, a chi contribuisce al Pil. E un ultraottantenne è solo un costo. Ora, accedere agli avanzi è diventato ufficiale: c’è una nuova lista e un nuovo termine: “riservisti”. Lo hanno detto oggi alla tv, fai un’altra richiesta, ti iscrivono alla lista dei “riservisti” e speri di essere chiamato. E come si fa a iscriversi a questa lista? E chi mi chiamerà prima? La lista del diritto o quella “riservista”? Intanto ogni morto è un risparmio in pensioni e sanità e una generazione se ne va. Prima nelle Rsa e adesso con i ritardi nelle vaccinazioni. Come lo chiamiamo? È tutta colpa della Regione? È colpa della Regione Lombardia, certo. Ma il sindaco di Milano dove è? Il sindaco – nessuno lo ricorda – è la massima autorità sanitaria cittadina. È possibile che in un anno di pandemia non abbia organizzato un Registro degli ultraottantenni, delle loro patologie e il registro dei soggetti a rischio per patologie gravi? Impossibile? Difficile? Un semplice registro, chiedendo supporto ai medici di famiglia. Non c’è. Non so se altre città lo hanno fatto. Di certo, so che il sindaco di Milano non si è né visto né sentito in un anno di questa pandemia. Pensava ad altro, il sindaco “verde”. Pensava dove coprire di cemento e vetro ogni angolo libero della città. Nemmeno con una telefonata ai suoi vecchi. Non ridete, ma io e mia moglie, che non abbiamo figli e nipoti, aspettavamo almeno questa. Ci contavamo. Aspettiamo il vaccino, ma non sarò un “riservista”.
Emilio Molinari
(Ex consigliere comunale. Ex consigliere regionale. Ex senatore della Repubblica)
Al Giornale lettori distratti del Fatto
“Se un lettore ieri avesse acquistato una copia di questo giornale e assieme quella di uno dei principali quotidiani – lamenta Marco Gervasoni sulla prima pagina de il Giornale – avrebbe pensato di vivere in due mondi diversi. Queste colonne si aprivano con Boldrini maschilista non paga la colf, mentre sugli altri giornali del gruppo Elkann e di Cairo, la notizia delle accuse a Laura Boldrini (…) non c’era proprio”. Una battaglia condivisibile, non fosse che, se avesse letto i giornali del giorno prima ancora, Gervasoni avrebbe trovato da dove il Giornale aveva preso la sua apertura: dall’articolo di Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano. Abbiamo cercato, non era citato.
Questo Leonardo è un vero mistery
È la stagione dei rimpianti. La Lombardia rimpiange la Belle Époque di Giulio Gallera, quando per contagiarsi si volevano almeno due infetti e ora 300 convocati non bastano per avere un vaccino. Noi, nel nostro piccolissimo, rimpiangiamo l’attore-narratore Giulio Bosetti, che interloquiva con Philippe Leroy nello sceneggiato La vita di Leonardo da Vinci (1971). In veste di contemporaneo, giacca e cravatta da Uomo in Lebole, Bosetti frizzava Leonardo-Leroy se era il caso di chiarire qualche dettaglio biografico, e se notava errori gli faceva personalmente le pulci. Era la Rai pedagogica di Bernabei padre. Nella Rai immaginifica della Lux Vide dei Bernabei figli tutto è cambiato (a parte i Bernabei). Nel Leonardo al debutto su Rai1 con ascolti degni di Dan Brown, ogni detrito di verità storica è divorato dalla logica della fiction, dalle regole di scrittura del mass market: l’inevitabile flashback, un delitto di cui Leonardo è sospettato, un amore tira-e-molla con una mai sentita Caterina da Cremona, il perfido padre e la maledizione di Maga Magò. La bottega dell’apprendistato sembra la cucina di Masterchef con il Verrocchio al posto di Bastianich, la posa della croce sulla cupola del Brunelleschi è ispirata a un famoso spot del veterinario dell’Amaro Montenegro. Il tutto impiattato nei trepidi chiaroscuri e nelle musiche emozionali marchi di fabbrica della Lux Vide.
Un vero mistery: non si capisce come sia riuscito a restare nella storia dell’arte questo belloccio che avrebbe potuto sbancare come modello; forse perché non c’erano ancora Dolce & Gabbana. “Dipingo solo quello che vedo” ripete Leonardo; però quello che vediamo noi spettatori è un fumeggiato formato esportazione scritto al computer e lucidato con la gommalacca. Così rimpiangiamo Bosetti che si aggirava in giacca e cravatta per la Firenze del Rinascimento; qui bloccherebbe tutto dopo la prima scena e si accascerebbe a terra, in preda a un attacco di fegato.
La mazzetta chic non è in denaro
A Criminopoli anche questa settimana si conferma il trend positivo: 14 nuovi indagati per corruzione e 69 per mafia. Il totale del 2021 sale a 221 per corruzione (2,6 nuovi indagati al giorno) e 614 per associazione mafiosa (7,3 ogni 24 ore). Il Premio Mazzetta della Settimana va ad Antonino Madaffari di Gioia Tauro, per aver combattuto la volgarità della mazzetta in denaro. Intercettato mentre parla delle persone che “si mettono a disposizione”, spiega: “… io non ti dico che gli devi dare soldi che… uno non arriva veramente a queste cose, a queste bassezze, vai e gli dai soldi…”. E ancora: “… ormai è diventata quasi… una cosa che fai con piacere… quando arriva (…) Natale (…) se non gli prendi qualche fesseria, una cagata, la borsetta, il portafoglio, la cosa, il foulard… ti sembra brutto a uso… ti senti pure tu stesso…”. Per quanto simbolico, il premio sarà revocato se Madaffari sarà assolto o archiviato.
Ah, dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.158 giorni.
Dante, un esempio anche per il Papa
Da provinciale dei gesuiti argentini, papa Francesco chiedeva ai suoi confratelli di lasciarsi “fondare” nel Signore per evitare di farsi “sviare” da altre idee e dottrine che non fondano niente, ma anzi “disfano il solido fondamento di un cuore sacerdotale; dottrine che non alimentano il popolo fedele di Dio, e rispetto alle quali restano tuttora attuali le riflessioni di Dante”.
L’allora padre Bergoglio citava quindi il canto XXIX del Paradiso (109-114): Non disse Cristo al suo primo convento: / “Andate, e predicate al mondo ciance”: / ma diede lor verace fondamento; / e quel tanto sonò ne le sue guance, / sì ch’a pugnar per accender la fede / de l’Evangelio fero scudo e lance. E proseguiva: “Ma, anziché essere scudo e lance, le dottrine seduttrici e disgreganti indeboliscono il cuore del santo popolo fedele di Dio, sì che le pecorelle, che non sanno, / tornan del pasco pasciute di vento, / e non le scusa non veder lo danno” (J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre, Milano, Rizzoli, 2014, 125). Qui Dante se la prende con quei predicatori che riempiono i fedeli di chiacchiere e non di Vangelo, al contrario di quel che faceva Gesù con i suoi discepoli.
La parola robusta: una missione di profezia (e di denuncia)
In questi versi di Dante il futuro Pontefice vedeva, dunque, con chiarezza la differenza tra la parola di verace fondamento e le ciance. E su questa differenza fondava il senso della missione di pastore. La Lettera apostolica del 25 marzo 2021, in occasione del VII Centenario della morte del Sommo Poeta, dal titolo Candor lucis aeternae, conferma la lettura di allora e descrive “la missione del Poeta, profeta di speranza” con i suoi versi che sono parola robusta che si oppone al vaniloquio.
Francesco è immediato nel suo argomentare e coinvolge il ministero petrino. Infatti coglie il confronto diretto tra il suo predecessore Bonifacio VIII con Dante, nel momento in cui nella Commedia è proprio san Pietro a dare al Poeta incitamento a vivere coraggiosamente la sua missione profetica. E lo fa proprio in contrasto con la testimonianza negativa degli indegni pastori della Chiesa. Dopo una tremenda invettiva contro papa Caetani, così infatti Pietro si rivolge al Poeta: E tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo (Par. XXVII, 64-66). Pietro, il primo Pontefice, – ci ricorda Francesco – invita Dante ad aprire la bocca senza nascondere nulla per timore, proclamando ad alta voce quello che egli non ha tenuto nascosto.
Commenta Francesco: “Nella missione profetica di Dante si inseriscono, così, anche la denuncia e la critica nei confronti di quei credenti, sia Pontefici sia semplici fedeli, che tradiscono l’adesione a Cristo e trasformano la Chiesa in uno strumento per i propri interessi, dimenticando lo spirito delle Beatitudini e la carità verso i piccoli e i poveri e idolatrando il potere e la ricchezza (cfr Par. XXII, 82-84)”. Ma Dante, “mentre denuncia la corruzione di alcuni settori della Chiesa, si fa portavoce di un rinnovamento profondo e invoca la Provvidenza perché lo favorisca e lo renda possibile (cfr Par. XXVII, 61-63)”. Stiamo parlando di quel che Bergoglio ha sempre definito parresia, la schiettezza evangelica che parla chiaro e coraggiosamente.
Francesco, dunque, individua in Dante il poeta della parresía che si oppone alla ciancia: i suoi versi nascono dall’ispirazione evangelica e – come aveva scritto già san Paolo VI nella Lettera Altissimi cantus, pubblicata per il VII centenario della morte di Dante – per questo cariche di critica profetica, a tal punto che la sua voce “si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice Romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti”. In Dante Francesco legge la parola della riforma evangelica della Chiesa che non può che essere poetica, cioè performativa, creativa e profetica.
La parola che libera dalla “selva oscura”
In questo senso la bellezza della poesia ha né più né meno la pretesa di “cambiare radicalmente l’uomo” che ha smarrita la diritta via. Dante si trova dentro conflitti accesi. La dolorosa vicenda del Poeta comincia a causa dei conflitti tra guelfi e ghibellini, e tra guelfi bianchi e guelfi neri. Esilio, fragilità, mobilità diventano paradigma di una condizione umana “la quale si presenta come un cammino, interiore prima che esteriore, che mai si arresta finché non giunge alla meta”. Il suo diventa un “cammino di liberazione da ogni forma di miseria e di degrado umano (la “selva oscura”) e contemporaneamente addita la meta ultima: la felicità, intesa sia come pienezza di vita nella storia sia come beatitudine eterna in Dio”.
“Si tratta – scrive Francesco – di un cammino non illusorio o utopico ma realistico e possibile, in cui tutti possono inserirsi, perché la misericordia di Dio offre sempre la possibilità di cambiare, di convertirsi, di ritrovarsi e ritrovare la via verso la felicità”. Questo testimonia, a esempio, la figura dell’imperatore Traiano, pagano ma collocato nel Paradiso (cfr Par. XX, 43-48; 94-99) o quel che dice il re Manfredi, scomunicato, ma collocato da Dante nel Purgatorio, che così rievoca la propria fine e il verdetto divino: Ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei (cfr Purg. III, 118-123): una sintesi perfetta della visione che Francesco ha della misericordia di Dio.
Una parola in penuria di futuro
La Candor lucis aeternae giunge dopo interventi di vari predecessori di Francesco e, in particolare, l’enciclica In praeclara summorum di Benedetto XV (1921) e la Lettera apostolica Altissimi cantus di Paolo VI (1965). Francesco stesso aveva già scritto su Dante: sia in un Messaggio per il 750° anniversario della nascita del Poeta (2015) sia in un Discorso in occasione dell’anno dantesco (2020). Qui la nostra intenzione non è stata di dare conto di tutta questa riflessione, ma semplicemente di porre brevemente l’accento sulla recezione bergogliana della Commedia tutta centrata sulla missione profetica dei versi del Poeta, fondata sia sulla parresía della parola poetica sia sul potere di liberazione del viaggio che Dante fa compiere al suo lettore.
Francesco conclude la sua riflessione ponendo l’ispirazione del Poeta sullo sfondo di un momento storico come il nostro, “segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l’umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro”. Dante così diventa “profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità”, aiuto “nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere, finché il nostro cuore non avrà trovato la vera pace e la vera gioia, finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, ‘l’amor che move il sole e l’altre stelle’ (Par. XXXIII, 145)”.
Pd-M5s, chi parla di “svolta” di Letta racconta solo balle
Il paragone non è improprio. Tra l’enfasi sproporzionata dei laudatores di Draghi salvatore della patria e dei laudatores di Letta salvatore del Pd. Un’enfasi della quale entrambi sembrano giustamente diffidare. Così pure ci sta il paragone tra la retorica della discontinuità tra loro e chi li ha preceduti. La sostanziale continuità tra Conte e Draghi, specie in tema di misure anti-Covid, è nelle cose. Anche perché miracoli non li fa nessuno e i problemi quelli sono e quelli restano: chiusure obbligate, difficoltà di approvvigionamento dei vaccini, inefficienza e irresponsabilità delle Regioni, la Lombardia su tutte. Merita accennare all’analogo caso dell’asserita discontinuità operata da Letta. Da tutti acclamato e investito plebiscitariamente dall’assemblea del Pd. Compresi quelli che fecero la guerra a Zingaretti, a cui non perdonavano l’asse con il M5S. Nel Pd, in Italia Viva, in Azione di Calenda. Tutti ad applaudire alla svolta che avrebbe impresso Letta. Quale? Nel loro incontro, Letta e Conte hanno rispettivamente parlato di una comune “avventura affascinante” e di un rapporto “privilegiato” tra i rispettivi partiti. Di più. Sul versante del M5S, la scommessa sulla collaborazione con il Pd non è di oggi e non è stata indolore. Sia quando si diede vita al governo giallorosso, sia nel varo del governo Draghi, grazie all’esposizione personale del garante Grillo. Dunque, non una scelta estemporanea, leggera, semmai lacerante. A detta di Di Maio, opzioni che valgono più degli Stati generali del Movimento. Sostanzialmente sterili, aggiungo io. Sul versante di Letta, merita fissare altri due elementi. Primo: la sostituzione d’autorità dei capigruppo. Al netto del tatticismo e dell’ipocrisia (scusabili in chi, come già Zingaretti, ha a che fare con gruppi nominalmente scelti da Renzi), una sostituzione – ha ragione Padellaro – motivata con la parità di genere, ma chiaramente contrassegnata da un segno e da un obiettivo politico più che plausibile. E cioè l’esigenza di non reiterare l’anomalia di un segretario di partito, bon gré mal gré, votato da tutti a cui corrispondono gruppi parlamentari che seguono un’altra linea. Come si è visto dentro la crisi del governo Conte. Secondo e soprattutto: l’orientamento espresso da Letta per una legge elettorale d’ispirazione maggioritaria che si discosta dall’opposto orientamento proporzionalistico assunto sino a ieri dal Pd. Non sarà facile che passi. La destra non ha interesse a cambiare il vigente Rosatellum. In ogni caso, l’opzione per il maggioritario è eloquente e significativa per la visione politica a essa sottesa. In concreto, essa conferirebbe carattere quasi obbligato all’asse Pd-M5S. Dunque, Letta sembra vi scommetta più ancora di Zingaretti, tanto bersagliato per la sua asserita subalternità. Ciononostante, minoranza Pd, Italia Viva, Azione e opinionisti di vario rito sono costretti a raccontare in giro e a se stessi che, sul decisivo terreno delle alleanze, Letta avrebbe cambiato linea. Perché questa bufala e questa ipocrisia? Gli uni – gli attori politici centristi, renziani e no – perché altrimenti condannati alla minorità al limite dell’irrilevanza (altro che vittoria strategica di Renzi!); gli altri – taluni opinionisti specializzatisi nella crociata contro Conte – perché, più o meno apertamente, tifano perché non si consolidi un’alternativa alle destre o perché sognano un centrismo peraltro velleitario in quanto privo di numeri. Non che Letta e Conte siano alfieri di una rivoluzione socialista. Semplicemente essi non si rassegnano a consegnare il Paese alla coppia Salvini-Meloni, con il corredo di qualche cespuglio centrista compiacente.