Dalle nomine al Quirinale, la versione di Palamara

Di cosa parlò Luca Palamara, il 3 ottobre 2017, a Roma, nei pressi del Csm, con il procuratore di Milano Francesco Greco? È soltanto una delle domande rivolte ieri a Palamara dalla Prima commissione del Csm. Ma Palamara ha allargato l’orizzonte. Da Greco e la procura di Milano è passato a Giuseppe Pignatone e quella di Roma. Anche perché – questa in sintesi la sua tesi – procure così importanti, in merito alle nomine e al ruolo delle correnti, erano segmenti di un’unica grande partita. “Ho parlato di fatti specifici e in particolare degli uffici giudiziari di Roma e Milano – dichiara Palamara poco dopo l’audizione – ma il discorso si è allargato al trojan che mi ha intercettato”. Il punto è che nei dialoghi intercettati dalla procura di Perugia, nell’inchiesta in cui Palamara è imputato per corruzione, sosteneva che il suo telefono – circostanza vera – fosse stato intercettato attraverso un trojan. Di fatto le sue dichiarazioni di ieri hanno lambito anche il Quirinale quando ha citato Stefano Erbani, consigliere giuridico di Mattarella. Dalle intercettazioni di Perugia s’intuisce che Palamara sospettava che l’entourage del Presidente della Repubblica – Erbani ha sempre categoricamente smentito, sia per se stesso, sia per il Quirinale – fosse al corrente dell’inchiesta perugina ben prima che gli atti fossero inviati al Csm. Ieri Palamara ha spiegato perché. Ma come si è giunti al trojan?

L’ex presidente dell’Anm – convocato appena 24 ore – è stato sentito nell’ambito delle pratiche per incompatibilità ambientale, nate dalle chat del suo telefono sequestrate a Perugia e depositate al Csm, nei confronti dei magistrati milanesi Greco e Nicola Clivio e del loro collega romano Angelantonio Racanelli. Peraltro, proprio a quest’ultimo, il 21 maggio 2019, Palamara disse: “… si sa comunque che ci sono delle cene alle quali partecipano estranei…”. Il riferimento è interessante se si pone attenzione alla parola “estranei”: la notte tra l’8 e il 9 maggio Palamara era stato intercettato dal trojan mentre discuteva con Luca Lotti e Cosimo Ferri, all’epoca entrambi parlamentari del Pd (e quindi “estranei” al Csm) della nomina del futuro procuratore di Roma. Due sere dopo Palamara viene intercettato mentre parla con l’ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e gli dice che l’ex consigliere Antonio Lepre “ha chiamato Cosimo (Ferri, ndr) e l’ha fatto tornare … gli ha fatto prendere un treno per tornare a Roma… dicendogli ‘guarda c’hanno messo il trojan non parliamo più….’”. Informazioni che giungeranno al Csm, dalla procura di Perugia, soltanto due settimane dopo e che, in quel momento, erano ancora soggette al segreto istruttorio. Spiegando alcune intercettazioni con Racanelli, Palamara ha così messo sul tavolo due tra gli argomenti più controversi della vicenda che lo riguarda: dopo le sue dichiarazioni sul trojan, infatti, quando gli è stato chiesto di quale “esposto” discutesse con Racanelli, Palamara ha spiegato che si trattava dell’esposto presentato il 27 marzo 2019, proprio al Csm, dal pm Stefano Fava sul suo ex capo Pignatone.

Di certo, a distanza di quasi due anni dal 29 maggio 2019, giorno in cui Repubblica e Corriere della Sera rivelano l’esistenza dell’indagine, bisogna dare atto che il Csm per la prima volta affronta argomenti simili. E infatti l’audizione di Palamara – che già in passato aveva inutilmente chiesto di essere ascoltato dal Consiglio su questi e altri temi – è stata segnata dalle frizioni tra chi chiedeva domande e risposte secche, sui soli argomenti in scaletta, e chi invece ha cercato di comprendere meglio le argomentazioni ulteriori emerse dai botta e risposta con l’ex segretario dell’Anm. Il cuore dell’audizione ha però riguardato le nomine ai vertici degli uffici giudiziari. Per la precisione quelle dei procuratori aggiunti di Milano nominati nel 2017 (Fabio De Pasquale, Alessandra Dolci, Tiziana Siciliano, Eugenio Fusco, Laura Pedio e Letizia Mannella). La Prima commissione ha chiesto conto a Palamara dell’incontro tenutosi, il 3 ottobre 2017 con il procuratore di Milano Francesco Greco: l’ex pm ha spiegato che ci fu un “confronto” su nomi e professionalità – la procura milanese era in quel momento fortemente scoperta – ma nessuna richiesta. Una dichiarazione che quindi alleggerisce notevolmente la posizione del procuratore capo di Milano. Palamara però ha voluto allargare lo scenario alla procura di Roma sostenendo che, a differenza di Greco, Pignatone avanzò una richiesta esplicita per la nomina degli aggiunti Rodolfo Sabelli e Paolo Ielo (che ha già querelato Palamara per alcuni passaggi contenuti nel suo libro “Il Sistema”, ndr). Interpellato dal Fatto, Pignatone ha preferito non commentare. Palamara ieri si è anche soffermato sulle modalità con le quali, nel 2019, si stava formando la maggioranza per la nomina di Marcello Viola (poi sfumata proprio a causa dell’indagine) a capo della procura romana.

Vaccini e ingiustizie: denunciarle è il solo modo per chiedere aiuto

In questo periodo, o meglio, da quando sono disponibili i vaccini, mi capita di pensare incessantemente alle persone che in questo tragico anno se ne sono andate e non hanno potuto vaccinarsi e salvarsi, morte senza neppure il conforto dei famigliari. La vita non è solo tragica, ma anche beffarda. Chi si ammala adesso, chi rischia la vita – e non parliamo di chi la perde o la perderà perché non si è vaccinato – sarà vittima ancora di più di una beffa. Si cerca di non pensarci, aggrappandosi alla speranza che l’omonimo ministro della Salute ci sta dando, ossia che nei prossimi tre mesi saremmo sostanzialmente invasi da tutti i tipi di vaccini.

Tanti politici e amministratori comunicano ai cittadini che non bisogna fare polemica sui malfunzionamenti e sull’organizzazione della vaccinazione e correre, correre per somministrarli. Peccato che non si possa proprio non fare polemica, una denuncia, di fronte alle centinaia di morti registrate ogni giorno e – in parallelo – ai disagi e alle disorganizzazioni continue. Non ci sono abbastanza vaccini. Dunque sentir ripetere “dobbiamo correre” fa venire in mente il criceto in una ruota, con il generale Figliuolo che lo fa correre bene sul posto, con berretto e piuma militare. Abbiamo poi il caos delle regioni, almeno buona parte di esse, che impongono alle persone di una stessa nazione di accettare differenze inaudite pur appartenendo alle stesse categorie fragili.

Ogni volta che si segue un criterio non comprensibile, con tempi biblici causati da scelte poco sensate, è come assistere a un assassinio legalizzato, perché ci saranno persone che per ingiustizie, incapacità amministrative o disorganizzazioni si ammalano e muoiono. E ci si chiede perché il vicino di casa con le stesse credenziali è stato vaccinato mentre la persona che non c’è più non era stata chiamata. In questa situazione, la “polemica” è l’unica cosa che si possa fare per chiedere aiuto.

Posso raccontare la situazione in cui si trova la Regione Toscana, dove ha residenza mia madre, over 80 con gravi patologie che richiedono una totale assistenza domiciliare. La Regione Toscana, in mano alla cosiddetta sinistra, quella che dovrebbe lavorare il più possibile per annullare le differenze sociali, è assolutamente deficitaria nel percorso dei vaccini.

Ci hanno insegnato che gli anziani e i portatori di patologie importanti devono fare Pfizer o Moderna e vengono seguiti direttamente dai medici curanti, sommersi da chiamate cui non riescono nemmeno più a rispondere. Peccato che di Pfizer e Moderna non ce ne siano abbastanza. Dunque tocca aspettare, aspettare e aspettare ancora. Perché poi per gli anziani non in grado di spostarsi, come nel caso di mia madre, non serve solo il vaccino, ma anche una macchina apposita che possa portare la dose nel “frigorifero”. Poi però c’è Astrazeneca e chi ottiene di farlo, anche mettendosi in lista per evitare vengano buttate le dosi, non ruba la dose a mia madre. Non mi fa scandalo ci siano le liste di chi si fa avanti, piuttosto chi non le sa gestire.

Mia madre non deve fare Astrazeneca, ci hanno detto. La Regione Toscana ci ha fatto capire che tra le categorie fragili c’erano gli operatori dei tribunali e gli avvocati. Mi piacerebbe tanto capire perché.

I vaccini non bastavano per tutti e si è scelto di partire dalle categorie fragili. Poi, però, capita una regione che, forse per sorteggio, decide che gli avvocati sono più fragili delle persone che lavorano alle casse dei supermercati, che non possono fare smart working perché non hanno mai chiuso. Ma prima di arrivare ai dipendenti dei supermercati, non riesco a comprendere come mai, non potendo vaccinare tutti gli anziani e i fragili velocemente, non si è pensato di dedicare i vaccini Astrazeneca degli avvocati a quelle persone che silenziosamente ogni giorno assistono anziani, disabili, non autosufficienti che non possono mangiare, lavarsi, vestirsi, scendere da un letto da soli.

Al pari degli operatori delle Rsa, giustamente vaccinati, c’è un mare di angeli silenziosi che assistono i nostri anziani e i nostri famigliari fragili che sono stati sorpassati da una categoria completamente estranea al criterio nazionale da tutti compreso e ritenuto giusto. Fossero stati anche dieci i vaccini Astrazeneca destinati agli avvocati, sarebbe stato un bel gesto cederlo a dieci di quegli angeli. Già dobbiamo assistere all’assurdità dei vaccini per tutti i docenti, anche quelli in Dad; ma, se si chiudono le scuole, non è meglio vaccinare chi non può chiudere ed è più a rischio? E com’è possibile che un presidente di Regione possa decidere liberamente un’azione del genere, senza un diktat nazionale che possa sorpassare, di fronte a una tale emergenza e tragedia, le decisioni delle Regioni e impedire tali ingiustizie? Nel Lazio e nell’Emilia-Romagna stanno vaccinando già gli under 80, in Toscana e in Lombardia sono in ritardo completo su over 80, badanti e assistenti, e mi tocca vedere tanti amici avvocati di 40 anni con il vaccino già somministrato? Allora non dobbiamo solo correre a fare i vaccini, che peraltro in buona parte mancano: forse dobbiamo farci un esame di coscienza, specie quando amministriamo la vita delle persone.

Se fossi un “governatore” non dormirei di notte nel sapere che non funziona nulla, perlomeno non abbastanza. E parlo per me stessa. Se dovesse ammalarsi la badante di mia madre contagiando anche lei, che avrebbe buone possibilità di morire, non farei solo polemica. E, come me, tutti i famigliari delle persone che aspettano e subiscono un’ingiustizia. Vergogna.

*Ad Seif (Società editrice il Fatto Quotidiano)

Solo il Lazio (forse) dal rosso passerà alla zona arancione

L’indice Rt diminuisce, così come l’incidenza dei contagi ogni 100 mila abitanti. E ieri, per la prima volta da settimane, il segno meno è comparso anche di fronte al saldo dei pazienti ricoverati nei reparti ordinari Covid. La terza ondata, forse, ha cominciato a ritirarsi, ma i numeri sono ancora lontani dal permettere l’allentamento delle misure. Così oggi, con l’arrivo del consueto monitoraggio del venerdì dell’Istituto superiore di sanità e le conseguenti ordinanze del ministro della Salute Speranza, difficilmente arriveranno grosse novità nell’Italia a colori, con la sola eccezione (forse) del Lazio, che da lunedì potrebbe tornare arancione. In rosso, invece, andrà sicuramente la Valle d’Aosta, mentre il Veneto spera: “I dati in nostro possesso – dice il governatore Luca Zaia – parlano di un Rt da arancione, ma l’incidenza è ancora intorno ai 250 casi ogni 100 mila abitanti (la soglia della zona rossa automatica, ndr)”. Il passaggio del Lazio in arancione – secondo quanto dichiarato dall’assessore regionale all’Istruzione Claudio Di Berardino – comporterà la riapertura delle scuole fino alla prima media in tutta la Regione, compresi nidi e materne, nonostante l’ordinanza del ministro della Salute Speranza del 12 marzo preveda la sospensione della didattica in presenza per tutte le scuole fino al 29 marzo: “La decisione – ha detto Di Berardino – riguarda le giornate antecedenti a Pasqua, cioè il 29, 30 e 31 marzo”.

La scuola è stata al centro della Conferenza Stato-Regioni di ieri. Com’è noto, l’intenzione del governo, dopo Pasqua, è di riattivare la didattica in presenza anche in zona rossa. Per garantire la sicurezza, si parla di “tamponi rapidi fatti il primo giorno e ripetuti ogni settimana” grazie anche all’utilizzo di “test salivari”. Lodevole intenzione, per quanto tamponare un’intera scuola prima dell’inizio delle lezioni (per tacere delle prevedibili difficoltà pratiche in caso di bimbi dei nidi, delle materne e dei primi anni delle elementari) sembra un’operazione alquanto difficile anche per le task force di esercito e Protezione civile cui il governo sembra intenzionato a volersi affidare. Quanto ai tamponi salivari (anche se esiste una ricerca confortante dell’Università di Padova), non sono ancora autorizzati e, a detta degli addetti ai lavori, “hanno una sensibilità bassissima”.

Una buona notizia sul fronte vaccini. Secondo fonti di governo entro fine marzo (quindi nel giro di una settimana) dovrebbero atterrare in Italia altre 4,5 milioni di dosi di vaccini tra Pfizer, AstraZeneca e Moderna.

Ieri, intanto, 23.696 nuovi contagi, a fronte di 349.472 tamponi, per un tasso di positività sul totale dei test effettuati del 6,8% (20,2% sul totale dei soggetti testati). Ancora 460 i morti (106.799 il totale da inizio pandemia), mentre arriva un primo, piccolo, segnale in controtendenza dagli ospedali: -14 il saldo dei ricoverati nei reparti ordinari, ma è ancora +32 il saldo dei ricoverati in terapia intensiva con 260 nuovi ingressi.

“Priorità alle scuole, ma riaprire troppe cose insieme è impossibile”

“Bisogna fare presto con la protezione dei più fragili, dopo operatori sanitari e Rsa è urgente completare over 80 per poi passare a soggetti estremamente vulnerabili e alla fascia d’età 70-79 nella quale ricordo che il tasso di letalità è pari al 10 per cento”. Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità e coordinatore del Comitato tecnico-scientifico, ha appena finito di parlare con la madre di una piccola malata dell’ospedale Bambin Gesù di Roma quando comincia l’intervista: “Serve, come ha detto il premier Draghi, un approccio omogeneo, pur con le dovute particolarità territoriali, che renda uniforme la strategia rispetto alle categorie da vaccinare prioritariamente”.

Molto bene il Lazio, si spiega il disastro lombardo?

Le ragioni di difficoltà di alcune Regioni come la Lombardia meritano analisi approfondite; faccio un po’ di fatica a ipotizzarne le cause e a proporre correttivi non conoscendone l’organizzazione, ma capisco il suo ragionamento. Il Lazio, senza voler dar pagelle, ha una situazione vaccinale apprezzabile e meritevole di valutazione positiva. Però, mi permetta di dire che in questo momento l’obiettivo deve essere quello di rendere tutti al meglio performanti senza dividersi.

I colori fino a quando?

Ci sono delle valutazioni in corso, poi le decisioni le prenderanno premier e ministri. Il Cts fornisce valutazioni sulla base dei dati epidemiologici. I numeri del monitoraggio di oggi e della prossima settimana daranno già delle indicazioni sul futuro. Personalmente, credo che aprire contemporaneamente troppe cose non sarà possibile, andranno fatte delle scelte che tengano conto anche di ragioni di natura sociale ed economica con la massima priorità per la scuola in presenza come ha sottolineato il premier Draghi. Abbiamo tutti ben chiaro che viene prima la salute, ma che allo stesso tempo si devono dare risposte alla crisi socio-economica.

Le terapie intensive…

Sono il punto nodale. I contagi sono in decelerazione da più di una settimana e si comincia a vedere una flessione. Invece, il carico nelle rianimazioni è ancora molto elevato, sopra i 3.500 posti letto occupati. È superata la soglia di allarme in una dozzina di regioni e in qualche caso siamo addirittura sopra al 50 per cento. Tutto questo si riverbera in modo importante su attività chirurgica e di assistenza per altre patologie. Purtroppo, questo è il dato che indica una fase ancora critica della pandemia e non possiamo non tenerne conto nelle scelte di riaperture. Le vaccinazioni hanno già ridotto i contagi tra operatori sanitari e nelle rsa, ora vedremo effetti anche sugli over 80.

La quarta ondata?

Il clima ci darà una mano, ma non contiamo solo sulla bella stagione. Voglio essere ottimista, perché ci faremo trovare in autunno con una situazione di immunizzazioni ben più elevata e in grado di scongiurare la quarta ondata.

Il vaccino anti-Covid diventerà annuale?

Non lo sappiamo, solo il tempo ce lo potrà dire. La risposta immunitaria indotta dal vaccino deve essere ancora definita considerando, oltre la risposta anticorpale anche la parte relativa ai T linfociti che fisiologicamente ci proteggono dalle infezioni virali.

C’è rabbia per la gestione delle dosi e della produzione di Astrazeneca?

C’è un approfondimento in corso e una valutazione sul ritrovamento di un certo quantitativo di dosi in siti produttivi. Se emergessero responsabilità per una mancata consegna tempestiva sarebbe largamente deprecabile in una situazione di bisogno tale da parte dell’Europa. Pochi dubbi sul fatto che le dosi consegnate siano state in numero ben ridotto rispetto a quanto promesso e pattuito. Che poi è il fattore limitante alla somministrazione del vaccino non solo in Italia, ma anche negli altri Paesi europei. Ricorderei che dovremo presto occuparci anche dei Paesi non europei, per ragioni etiche e perché senza un approccio globale non si esce dalla situazione.

Da Conte a Draghi: cos’è cambiato nel rapporto con la politica?

Per il Cts non è cambiato il ruolo, è stato ridotto il numero dei componenti e integrati differenti profili per adeguarlo al momento attuale. C’è rispetto delle funzioni reciproche, adesso come esisteva prima.

Pd e M5S votano contro la pista “renziana”

Il nuovo segretario del Pd Enrico Letta non manca, quasi quotidianamente, di rivendicare la sua origine pisana, città dove è nato e ha studiato. Ancora ieri celebrava il “capodanno pisano” mentre, due giorni fa, incontrandosi con l’ex capogruppo Pd, Andrea Marcucci, ha detto a favor di telecamere: “Tra un pisano e un lucchese ci si intende”. Ma sull’ampliamento dell’aeroporto di Firenze il campanilismo non c’entra. Letta, in un’intervista di domenica al Tirreno, ha esordito da segretario del Pd dando uno schiaffo ai renziani – dentro e fuori il Pd – sulla nuova pista dello scalo di Peretola, un progetto fortemente voluto da Matteo Renzi e da Marco Carrai (presidente di Toscana Aeroporti) e che negli ultimi mesi ha subito diversi stop dai giudici amministrativi. Letta ha messo una pietra sopra il progetto della nuova pista da 2,4 chilometri di cui in Toscana si parla da almeno 15 anni, a discapito dell’aeroporto di Pisa, principale scalo regionale, proponendo una “metropolitana leggera che colleghi Pisa e Firenze in 25 minuti”: un’infrastruttura che potrebbe “chiudere la disputa tra i due aeroporti – ha detto il segretario – nel resto del mondo funziona così. Si atterra a Pisa e si va a Firenze in 25 minuti”.

Anche il fedelissimo di Letta in Toscana, il consigliere regionale Andrea Pieroni, ha spiegato che un collegamento Pisa-Firenze è prioritario rispetto all’ampliamento dello scalo fiorentino. Una proposta che ha provocato sconcerto in Italia Viva e nella fazione renziana del Pd – rappresentata dal sindaco di Firenze, Dario Nardella, e da Luca Lotti – visto che un’uscita del genere non l’aveva mai fatta nemmeno l’ex segretario Nicola Zingaretti. Così Nardella ha chiesto subito rassicurazioni al segretario, avvertendolo pubblicamente: gli aeroporti di Pisa e Firenze “devono crescere insieme”. Una mossa, quella del Nazareno, che ha stupito anche il presidente della Regione, Eugenio Giani, da sempre favorevole all’opera. Per non parlare dei renziani di Iv che sostengono la giunta regionale: “Se il Pd vuole fare una cosa riformista si faccia la nuova pista e il Tav” dice il deputato fiorentino Gabriele Toccafondi, mentre la vicepresidente della giunta, Stefania Saccardi, renzianissima anche lei, sostiene che “sull’aeroporto di Firenze si è discusso anche troppo, il progetto non può tornare in discussione”.

Il nuovo posizionamento del Pd sull’aeroporto di Firenze è stato messo in pratica mercoledì proprio in consiglio regionale provocando uno scontro tra Pd e Italia Viva. L’occasione è stata la mozione presentata dal consigliere di Forza Italia Marco Stella che, alla luce delle “dichiarazioni di Enrico Letta”, impegnava la giunta regionale a “proseguire sulla strada del potenziamento infrastrutturale dell’aeroporto di Firenze”.

Una mozione fatta per mettere in crisi la maggioranza che sostiene Giani, tant’è che è stata bocciata dal consiglio: contro l’aeroporto hanno votato Pd e M5S, mentre Forza Italia e Italia Viva hanno detto “sì” (Lega e FdI sono usciti dall’aula). Un’ulteriore rottura tra il Pd e i renziani anche in Toscana, patria del Giglio magico, che avvicina il progetto di alleanza giallorosa anche in Regione. Da diverse settimane, infatti, si parla dell’ingresso del M5S nella giunta Giani. Magari proprio al posto di Italia Viva.

Il regalino a Banca Intesa per l’inutile Pedemontana

La storia ultra trentennale della Autostrada Pedemontana lombarda Spa, ormai una PedeFontana, si arricchisce di un nuovo capitolo: dopo averci buttato all’ingrosso 1,25 miliardi in un paio d’anni – e questo per un’opera in project financing, cioè fatta con capitali privati – Regione Lombardia ha deciso in questi giorni di buttare dalla finestra altri 62 milioni di euro, gentilmente avviati verso Intesa Sanpaolo per comprare dalla prima banca italiana il suo 9,5% della società. Per quale motivo la Regione senta il bisogno di comprare quella quota è mistero gaudioso: l’ente guidato da Attilio Fontana già possiede il 53,7% di Pedemontana (presieduta dall’ex ministro leghista Roberto Castelli), mentre un altro 33,6% è in mano a Milano-Serravalle, controllata al 96% da Ferrovie Nord Milano che è a sua volta controllata dalla Regione col 57,5% e guidata dall’ex deputato leghista Andrea Gibelli. Domanda: a che serve spendere altri 62 milioni per una quota del tutto irrilevante in mano ai soci privati?

La risposta non l’abbiamo, ma se è l’ultima in ordine di tempo, questa non è certo l’operazione più bizzarra avvenuta attorno all’infrastruttura cara alla Lega. Se ne parla da decenni, per realizzarla nel 1986 nasce Autostrada Pedemontana Lombarda Spa: quattro anni più tardi arriva la concessione per connettere l’area subalpina, culla del leghismo, all’asse Milano-Bergamo grazie a un suggestivo tracciato a zig zag. Solo nel 2007, però, viene firmato un vero progetto: al ministero delle Infrastrutture c’era Antonio Di Pietro, finito dieci anni dopo, per uno di quei casi della vita, a presiedere la società. Ci vogliono altri due anni infine per decidere definitivamente di costruire 87 chilometri di corsie a pagamento col metodo del project financing: lo Stato concede, il privato costruisce e gestisce l’infrastruttura fino a guadagnarci. Ecco, di privati non se ne sono visti granché: ad oggi risultano attivi una trentina di chilometri, non proprio affollati, aperti nel 2015 al prezzo di un miliardo e mezzo, inchieste, contenziosi legali, contratti rescissi, progetti annullati, eccetera. Se tutto va bene, assai difficile, si chiuderà nel 2030: questo per 87 chilometri di corsie…

Un disastro che – nonostante il contratto con lo Stato sia stato violato in ogni modo possibile – nessuno vuole fermare. L’attuale governatore, al contrario, ha deciso di gettare nel grande forno infrastrutturale un altro pacco di milioni: 350 di aumento di capitale, altri 600 milioni di prestito soci a garanzia del debito per il periodo 2025-2044 e altri 300 milioni dal 2031 al 2060 a garanzia dei ricavi dei futuri gestori se il traffico dovesse mancare (il famoso rischio d’impresa). In questo strano progetto il mix di pubblico e privato pare leggermente sbilanciato…

Buttati lì i soldi, Regione ha messo a gara altri due lotti della Pedemontana per 1,4 miliardi: a inizio marzo si è stabilito che il general contractor sarà un’associazione d’impresa tra WeBuild (ex Salini-Impregilo), Pizzarotti e Astaldi, insomma i più grossi costruttori italiani.

Cosa manca ora? Il pool delle banche finanziatrici: le offerte degli istituti dovevano arrivare all’inizio di questa settimana, in curiosa coincidenza con la decisione di acquistare le quote di Intesa, che si libera così anche dell’ultima partecipazione nelle autostrade lombarde. La scelta di dare 62 milioni all’istituto guidato da Carlo Messina è contenuta in un piccolo emendamento a una legge regionale che distribuisce soldi ai Comuni: è stato approvato giovedì scorso in commissione Bilancio, quattro giorni prima della scadenza delle offerte per il finanziamento dell’opera.

C’è pure chi, come il consigliere regionale M5S, Marco Fumagalli, ha da dire anche sul prezzo e ipotizza un “danno erariale”. L’acquisto avviene al valore nominale (62.329 azioni a mille euro l’una), ma “un ente pubblico ha l’obbligo di acquistare a prezzi di mercato e non in base a ipotetici accordi che possano favorire soggetti privati”: in sostanza, se si fosse fatta una normale perizia tenendo conto anche dei profili reddituali e industriali di Pedemontana Spa il valore – argomenta Fumagalli – sarebbe stato vicino a quello “di libro” del bilancio 2019 (47 milioni), magari rivisto al rialzo per via dell’aumento di capitale a cui peraltro Intesa non ha partecipato (55 milioni). Insomma, Regione sta pagando quel 9,5% più di quanto dovrebbe: un favore, ma mai grande quanto quello di comprare quella quota non avendone motivo.

“Profeta”, “geniale” e “coraggioso”: Gianni Letta&C in estasi per Mario

Alle numerose cerimonie dedicate fin qui a Mario Draghi mancava soltanto la dimensione mistica. Ma adesso, ne sarà lieto il presidente, finalmente ci siamo. Lo sanno bene i fortunati testimoni della liturgia organizzata ieri dall’agenzia di comunicazione Comin&Partners, che per elevare Draghi alla beatitudine ha scelto un incontro Zoom con un parterre di sacerdoti niente male: sua Eminenza Gianni Letta, il capo (o capa?) di gabinetto della Pa Marcella Panucci, l’ex direttore (o direttrice?) generale Debito Pubblico del Mef Maria Cannata, il presidente del Meeting di Rimini Bernard Scholz, il direttore di Limes Lucio Caracciolo e il giornalista di Bloomberg Alessandro Speciale, autore del libro L’artefice. La vera storia dell’uomo che ha salvato l’euro.

Con queste premesse, il padrone di casa Gianluca Comin deve solo preoccuparsi che i microfoni siano regolati dovere. Tutto sta nel nascondere un iniziale imbarazzo quando Comin annuncia che su “La figura e la leadership di Draghi”, titolo del webinar, verranno introdotti “diversi punti di vista”. Pochi attimi di panico, poi si capisce che Comin non stava insinuando l’esistenza di un contraddittorio: ci saranno semplicemente sei modi diversi di elogiare Draghi.

Il primo è affidato a Letta, il quale ci informa che “se oggi siamo qui lo dobbiamo alla politica coraggiosa di Mario Draghi”. Lo ripete proprio: “Se siamo qui lo dobbiamo certamente a quello che Draghi ha fatto nella sua vita”. L’enumerazione dei miracoli, pratica stucchevole ma necessaria, è presto fatta: “Un tecnico speciale”, “ha saputo governare la politica”, “SuperMario”, “una marcia in più”, “di tante letture e di tanti studi”, “scrisse una tesi profetica”, “uno che se non trova i bottoni giusti se li inventa”. C’è pure spazio per qualche momento Amarcord: “La sua nomina alla Bce fu un capolavoro diplomatico di Berlusconi, che seppe convincere uno a uno tutti i Capi di Stato”. E ancora: “Ero al telefono con lui prima che pronunciasse il discorso del whatever it takes”.

Il discorso, certo, ma vogliamo parlare dei silenzi Draghi? Ce li ricorda Maria Cannata: “Apprezzo molto il suo silenzio. Dopo tanto frastuono, è molto saggio”. D’altra parte “interagiva poco anche quando arrivò in Bankitalia, in realtà stava studiando e selezionando collaboratori di calibro eccezionale”. Vogliamo dirlo? E diciamolo: “I migliori”, come suggerisce Marcella Panucci, che non a caso lavora con Renato Brunetta. La Panucci ci informa pure che “c’è una forte determinazione a rinnovare la Pa, semplificando i percorsi di accesso e partendo dalle persone”. Come nel 2009, insomma.

In Lucio Caracciolo si avverte invece un filo di disagio, perché porta la questione su temi geopolitici limitandosi a qualche elogio qua e là (“Ora c’è una persona leggermente più consapevole del predecessore”). L’unica stecca nel coro si presenta quando Caracciolo butta lì che “fu la presidenza americana ad imporre Draghi alla Bce”, dimenticando il suddetto cruciale ruolo di B. E così a Schulz non resta che certificare che il nostro presidente “incarna in modo esemplare la leadership al servizio del bene comune”, riconoscendogli “geniale capacità comunicativa”. Anche perché, come fu per Virna Lisa, con quella bocca può dire o non dire ciò che vuole: “Alla sua prima conferenza alla Bce –ricorda Speciale – le sue tre risposte d’esordio furono ‘No’, ‘no’e ‘non ci impegniamo preventivamente’”. Come definirla se non “l’arte dell’asciuttezza della comunicazione”. Se a Dante hanno dedicato una giornata, per Mario ci vuole una settimana.

Comandano le correnti: ex renziana capogruppo

Come da programma (e soprattutto da accordo), Simona Malpezzi di prima mattina viene eletta capogruppo del Senato all’unanimità. “Chiamatemi la presidente”, dice lei. “Darò forma e sostanza alla leadership femminile”, promette. Secondo copione, visto che Enrico Letta, per sostituire i capigruppo, ha utilizzato l’argomento della rappresentanza di genere. La Malpezzi era sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento. Ora “spera” che al suo posto vada una donna. Di strada ne ha fatta da quando arrivò alla Camera nel 2013, dopo le primarie volute da Bersani, che portarono in Parlamento dei gruppi così imprevedibili da fargli rimpiangere la scelta di affidarsi ai gazebo.

Adesso la Malpezzi è esponente di punta di Base Riformista, la corrente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini. La sua elezione è la conferma che un prezzo Letta l’ha dovuto pagare. Tanto è vero che lo stesso Marcucci resta nella presidenza del gruppo “per gestire la transizione” e Br festeggia l’elezione postando la foto di “Simona” con il logo della corrente. La presidenza è fatta col bilancino. La Malpezzi è una gueriniana di Br. I vicepresidenti diventano tre: resta Franco Mirabelli, vicino a Dario Franceschini, ma come vicario arriva Alan Ferrari (Br, fedelissimo di Marcucci) e poi c’è Caterina Biti (Br, lottiana). Rimane come tesoriere un altro vicino a Marcucci, Stefano Collina. Come segretari d’aula entrano Monica Cirinnà (area Zingaretti) e Vincenzo D’Arienzo (orfiniano). Infine si chiarisce che Anna Rossomando, vicepresidente del Senato (orlandiana) sarà invitata permanente.

Il segretario (presente all’assemblea) promette: “Sono qui per ascoltare. Lo farò spesso”. Di certo, controllare i dem di Palazzo Madama non è una cattiva idea. Nel frattempo, la situazione alla Camera si ingarbuglia. L’elezione del successore di Graziano Delrio doveva essere ieri. Invece, ci si limita a un’assemblea. La prima scelta – che metterebbe d’accordo tutti e bilancerebbe il gioco tra correnti – è Debora Serracchiani. Vicina a Franceschini, è però soprattutto voluta da Delrio, che detiene la golden share dei deputati dem. Dovrebbe però lasciare la presidenza della Commissione Lavoro. A quel punto, però, la reclama Forza Italia. E anche la Lega. Il Pd sta lavorando a un accordo col M5S per poter arrivare a sostituirla con un’altra del partito.

La candidata ha avuto un lungo incontro nel cortile di Montecitorio mercoledì con Lotti, che il giorno prima aveva visto Letta. Una prova di quanto nella partita pesi anche l’ex braccio destro di Renzi. L’alternativa sarebbe Marianna Madia, che va bene a Delrio e sarebbe gradita da Letta. Ma non è particolarmente amata e soprattutto non ha una “squadra”. Tutto rinviato a martedì. “Dobbiamo essere un partito con sensibilità diverse, ma non una federazione di partiti”, avverte Letta.

Il Lazio pensa a Sputnik come richiamo per Az

Una seconda dose di Sputnik V per chi ha già fatto l’Astrazeneca per proteggere gli italiani dalle varianti. È l’obiettivo finale della sperimentazione che, salvo intoppi, lo Spallanzani di Roma inizierà subito dopo Pasqua, con le prime 100 dosi in arrivo da Mosca. I vertici dell’Istituto capitolino, insieme all’unità di crisi della Regione Lazio, la prossima settimana firmeranno un protocollo d’intesa con il Gamaleya Research Institute, che ha messo a punto il vaccino russo ancora in attesa del via libera dell’Ue. Dai primi di aprile, quindi, saranno somministrate le dosi ai volontari e sarà creato un team di ricercatori italiani e russi che faranno la spola fra Roma e Mosca. La fase sperimentale, se tutto va bene, si concluderà entro aprile e, a stretto giro, l’équipe di ricerca dello Spallanzani ne pubblicherà i risultati. La relazione finale potrebbe aiutare l’Ema a pronunciarsi sull’eventuale via libera.

E qui entriamo nel campo degli “auspici”. L’obiettivo della ricerca è capire se Sputnik V fornisca, come assicurato dai russi, una maggiore protezione dalle varianti inglese e brasiliana del Covid-19. In caso affermativo, l’assessore laziale Alessio D’Amato – che da due mesi tiene i contatti con il direttore del Gamaleya, Alexander Gintsburg – ha intenzione di chiedere l’acquisizione diretta delle dosi e si sta muovendo per trovare uno stabilimento nel Lazio che si occupi produrre il siero russo. Non solo. La sperimentazione, spiega il direttore sanitario dello Spallanzani, Francesco Vaia, “apre alla possibilità di verifica anche di una seconda somministrazione di vaccino, a seguito di una prima inoculazione sperimentale con altri prodotti che non hanno dato risultati sperati”. Tradotto: si può pensare di somministrare lo Sputnik come seconda dose di Astrazeneca. I due vaccini, infatti, si basano sullo stesso principio, quello del cosiddetto “adenovirus”, a differenza dei sieri a Mrna, su cui si basano Pfizer e Moderna.

Il caso Sputnik ha aperto anche uno scontro nel governo, tutto interno alla Lega. Giancarlo Giorgetti è contrario e spinge per i vaccini “atlantici” Pfizer e Johnson&Johnson oppure preferisce al siero russo la produzione autoctona dell’italiano Reithera o del francese Sanofi. Ma Matteo Salvini ogni giorno chiede al governo di utilizzare Sputnik e le sue truppe parlamentari gli vanno dietro a costo di mettere in imbarazzo il governo: i deputati leghisti, guidati da Massimiliano Panizzut, hanno presentato una mozione alla Camera chiedendo al governo “un’accelerazione sul fronte del vaccino russo Sputnik V”. “In caso di inerzia” dell’Ema i deputati della Lega chiedono la “possibilità di una sua valutazione e utilizzo a livello nazionale”. La Lega pressa, il governo è avvertito.

Task force Figliuolo: 1 medico+2 infermieri inviati per vaccinare

Forse parlare di task force è un po’ eccessivo, dato che si tratta di un medico e due infermieri della sanità militare. Ma l’impegno del Commissario per l’emergenza, Francesco Paolo Figliuolo, di far arrivare i vaccini anti Covid anche nei Paesi più isolati di Molise e Basilicata, è accompagnata dall’enfasi riservata alle grandi imprese che forse non si aspettava neppure il generalissimo. Perché la narrazione è quella del giornalista di Forza Italia, Giorgio Mulè, promosso sottosegretario alla Difesa che già non sta più nelle stellette. “Bisogna capire che non si deve fare a gara a chi è più bravo, ma collaborare per sbrigarsi a vaccinare, dando assoluta priorità alle categorie di anziani e fragili organizzando un sistema di logistica capace di raggiungere i luoghi più remoti del Paese: nessuno deve rimanere indietro e la squadra Italia sta lavorando per raggiungere l’obiettivo prefissato per fine settembre”.

E che dire dei diretti interessati, i governatori di Basilicata e Molise? “Ho appena sentito il generale Figliuolo che ringrazio: dall’inizio della prossima settimana il medico e i due infermieri che abbiamo richiesto saranno a Potenza. Grazie a questa unità potremo fare 72 inoculazioni in più ogni giorno ai più fragili” è il commento del presidente della Basilicata Vito Bardi che è felice, già di suo come una Pasqua. Ben 72 inoculazioni in più in una regione che si autoproclama già prima o quasi in fatto di vaccini. Bardi che in un’altra vita, prima di candidarsi con Silvio Berlusconi era vice comandante della Guardia di Finanza, è gasatissimo e si ricarica su Fb: “Il 54,9% degli over 80 (il 58,7% degli over 90) ha ricevuto la prima dose di vaccino anti-Covid e il 37,1% ha ricevuto anche la seconda (41,8% per gli over 90). Sono dati che collocano la Basilicata al secondo posto in Italia: il nostro piano è totalmente in linea con quello del governo”. Insomma il governatore lucano è convinto che Mario Draghi, quando l’altro giorno ha strigliato le regioni che stanno vaccinando chi pare loro, lasciando indietro gli anziani, non ce l’avesse con lui, anzi.

E il Molise? Il Molise esiste e spera nonostante le disavventure con la sanità. Donato Toma, il presidente della regione commissariata da tempo, potrà avvalersi da subito del team spedito da Figliuolo. Anche se la mission non è nota neppure a lui che pare spaesato. “Sappiamo che andranno da chi non può muoversi. Maggiori dettagli si avranno appena arriveranno in Protezione civile”. Insomma sarà il team inviato da Roma a informarlo ché la sanità non è cosa sua. Il commissario ad acta che se ne occupava in sua vece, Angelo Giustini, nominato nel 2018 su indicazione della Lega, si è appena dovuto dimettere. È indagato con l’accusa di non aver combinato un fico secco per due anni e di aver esposto la regione a un rischio micidiale, visto che si è ben guardato, allo scoppio dell’epidemia, di fare il piano per riorganizzare la rete ospedaliera. Risultato? Ha determinato, secondo i magistrati che lo accusano di omissione di atti d’ufficio e di abuso d’ufficio, una gravissima situazione di disservizio sanitario nella gestione dei malati Covid non adottando atti di sua competenza, necessari all’erogazione dei livelli assistenziali in relazione all’emergenza pandemica. E per aver illegittimamente nominato il dg dell’Azienda sanitaria regionale del Molise (Asrem), Oreste Florenzano, quale commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, incarico che invece sarebbe spettato a Giustini.

Roba da mettersi le mani nei capelli, con buona pace di Figliuolo costretto alle acrobazie. A breve sarà in Calabria e poi in Sicilia dove incontrerà tecnici e autorità dopo aver raccolto l’appello di Basilicata e Molise e inviato in capo il team composto da un ufficiale medico e dei due sottufficiali infermieri che svolgeranno l’attività di somministrazione a domicilio dei vaccini in zone difficilmente accessibili. Andando a sostenere la campagna vaccinale e in particolare quella dedicata alle persone di elevata fragilità e over 80, così come indicato dalle raccomandazioni del ministero della Salute spesso ignorate dalle regioni. E che per questo sono state convocate dal governo per il prossimo giovedì.