L’Ue promette 360mln di dosi. Draghi processa AstraZeneca

Mettere il Consiglio europeo e la Commissione sotto pressione. Per capire se c’è modo di proseguire uniti in Europa. Ma anche per creare le premesse per agire “da soli”. Con lo Sputnik o quel che sarà. Colmare i ritardi, però, sembra più una speranza che una possibilità. Nel suo intervento al Consiglio europeo, il premier Mario Draghi sostiene la necessità di non restare inermi di fronte agli impegni non onorati da alcune case farmaceutiche. Dice che i cittadini europei hanno la sensazione di essere stati ingannati da alcune di loro. Dunque, restare fermi e non prendere provvedimenti sarebbe difficile da spiegare. Vuole garanzie il premier. E insiste sulle mancanze di Astrazeneca, a partire dal mistero dei 29 milioni di dosi trovate ad Anagni. Vuole una risposta chiara da Ursula von der Leyen: le chiede se ritiene giusto che le dosi presenti nello stabilimento e localizzate in Belgio e in Olanda restino in Europa. Ottiene un sì.

Le falle della campagna vaccinale in tutta Europa si riflettono in un Consiglio (in videoconferenza) estremamente faticoso, segnato dalle divergenze. Tanto è vero che dura una sola giornata. L’intervento del presidente degli Usa, Biden, che arriva al vertice alle 20.45, è visto come un segnale positivo. Ma al netto di questo è ai risvolti pratici del cambio di passo americano, che si guarda a Palazzo Chigi, come nelle altre cancellerie europee. Due i piani possibili di trattativa, quello della concessione dei brevetti per la produzione in Europa e quello di un aumento dell’export da parte delle aziende di Big Pharma, in particolare di Johnson & Johnson.

Che il clima non sia dei migliori si capisce già dall’intervento del presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, in apertura: “Sarebbe irresponsabile nascondersi dietro gli altri per coprire le proprie mancanze”. Ieri la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen interviene per fornire dei dati: nel secondo trimestre del 2021 l’Unione europea attende la consegna di 360 mln di dosi di vaccini. E dal primo dicembre 2020 ha esportato circa 77 milioni di dosi verso 33 Paesi.

Ma è sull’anticipo di 10 milioni di dosi da Pfizer per il secondo trimestre per i Paesi più bisognosi che va in scena la prima divisione. Senza che si trovi una soluzione operativa. Vienna non sembra essere nella lista. Anzi, le proteste orchestrate dal Cancelliere austriaco Sebastian Kurz nei giorni scorsi sui criteri adottati per la ripartizione dei vaccini crea irritazione. In prima linea per ottenere gli immunizzanti di Pfizer con Kurz ci sono Bulgaria, Croazia e Lettonia, Repubblica ceca, Slovacchia.

Anche sull’export le divisioni non mancano. Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca e Irlanda esprimono preoccupazione e chiedono di valutare l’utilizzo del meccanismo dell’Ue per l’autorizzazione all’export dei vaccini con estrema prudenza, e di non azionare mai l’“opzione nucleare” per quelle case farmaceutiche che, come Pfizer, rispettano il contratto. E chiedono cautela e verifiche preliminare nell’applicazione del nuovo regolamento approvato dalla Commissione, con l’inasprimento del meccanismo di autorizzazione delle esportazioni dei vaccini anti-Covid dall’Ue, applicando i principi di reciprocità e di proporzionalità. Proposta di regolamento alla quale Draghi invece dà pieno sostegno. Nel frattempo, la Germania invita a verificare la possibilità di includere il vaccino russo, Sputnik nella strategia europea.

A ogni modo, nella dichiarazione finale viene ribadita l’importanza che le “aziende garantiscano la prevedibilità della loro produzione e rispettino le scadenze contrattuali di consegna”. Sullo sfondo, il ricorso alle vie legali. Sul banco degli imputati resta Astrazeneca. Ma ieri il segretario alla Salute britannico, Matt Hancock, al Financial Times ha chiarito un punto dirimente: “Il contratto di Astrazeneca per l’Unione europea prevede il ‘massimo sforzo’, noi abbiamo un accordo di esclusiva. Il nostro contratto prevale sul loro”.

Draghì Tirabusciò

La rubrica quotidiana “Draghi fa cose” si arricchisce ogni giorno di nuovi prodigi. Essi già trasvolano e accendono i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano. Solo ieri, per dire, abbiamo scoperto quanto segue. Sul Foglio: “Le vaccinazioni arriveranno a quota 500mila al giorno, le scuole riapriranno, in estate ci sarà un passaporto per viaggiare, l’Italia ce la farà”, sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno. Nei ritagli di tempo, c’è “la lezione di Draghi”, seguita dalle “condizioni di Draghi per il certificato verde digitale europeo”. Sul Giornale: già noto per il famoso “cambio di passo”, il premier fa pure un “cambio di registro”, “alza la voce”, “bacchetta le Regioni e il governo Conte” (senza mai nominarlo, ma neppure pensarlo), insomma è “interventista”, non neutralista. “Sul tavolo”, accanto alle foto dei congiunti, cosa tiene? “L’ipotesi commissariamento”. Poi assesta “lo schiaffo di Anagni” e “blocca 29 milioni di dosi Astrazeneca” (poi le sblocca perché andavano in Europa e di lì anche in Italia, ma fa niente). Sul Messaggero mette “Astrazeneca sotto assedio” (sempre ad Anagni), fa un “affondo in Senato” e, sul commercio, ha una “visione”. Medjugorje? Fatima? Lourdes? No, “il nodo commercio”. Già che c’è, “road map per i governatori: 672 iniezioni al giorno negli hub”, non una di meno né di più.

L’“affondo” campeggia anche sul Corriere, mentre sul manifesto Draghi “bacchetta” e su Repubblica “spinge la Ue”. Ma lo spingitore di europei non si limita al continente, eh no: “Scommette su Biden”, pure. Poi c’è l’Africa: “Draghi allontana i turchi dalla Libia e si prepara a trattare il caso Egitto” (Verità). E come farà? Sempre spingendo. Con la sola imposizione delle mani. Tornando in Italia, c’è la “persecuzione contro Berlusconi” su mafia e stragi, infatti Libero lo inchioda: “Che farà Draghi?”. Ah saperlo. Però qualcosa farà. Nei giorni scorsi, oltre ad “accelerare” con “pressing”, “spinte”, “svolte”, “cambi di passo”, “piani”, “task force”, “assi”, “sprint”, “scosse all’Europa” (Molinari, Rep), anzi a “L’altra Europa di Draghi” (Folli, Rep), col risultato di fare gli stessi vaccini di prima, aveva sistemato l’annosa questione meridionale con la sola forza del pensiero: “Draghi, missione Sud: ‘La ripresa dell’Italia passa dal Meridione’” (Rep). Non solo: “Draghi chiama Erdogan su Ue e diritti umani” (Corriere) e anche questa è fatta. E la plurisecolare questione femminile? Risolta ieri: “Draghi: ‘Le mamme non dovranno più scegliere tra figli e lavoro’” (Messaggero, inserto Molto Donna). Dove troverà il tempo? Mistero. Poi, certo, ogni tanto si riposa anche lui: “La mossa di Draghi” (Corriere). Ecco: ci fa pure la mossa, come Ninì Tirabusciò. Non è un amore?

La maledizione di Cam, Noè arrabbiato e Lilith segreta: Jacopo Fo scopre “La Bibbia censurata”

Che la storia la scrivano sempre i vincitori è una legge delle vicende umane che chi ha vissuto una vita – letteralmente – controcorrente, come Jacopo Fo, non può proprio accettare. È per questo che il nuovo La Bibbia censurata si presenta anzitutto come un tributo ai vinti di ogni epoca, alimentato dalla convinzione che negli angoli più reconditi del passato si annidino lasciti fecondi per le speranze di cambiamento del presente.

Non si tratta di un libro di religione, per ammissione dell’autore stesso, che alla Bibbia riconosce un’enorme importanza nella definizione della propria spiritualità. Sarebbe piuttosto un viaggio nelle pieghe del testo, scaturito da “sospetti gravi su come sono andate le cose” e alla ricerca di storie nascoste in filigrana in grado di rivelare l’eco di ingiustizie antiche. “I vincitori sono scrittori svogliati”, sostiene Fo. Si limitano a sovrapporre le proprie narrazioni a quelle preesistenti degli sconfitti. Ma spesso una traccia di chi dovrebbe cadere sotto i rovesci della sorte finisce per sopravvivere.

La tesi alla base del nuovo lavoro di Jacopo Fo è di quelle da far scaldare e discutere gli esperti del settore: nelle pagine della Bibbia, così come in quelle dei principali testi degli albori della storia, si nasconderebbe la narrazione di un conflitto originario che avrebbe segnato le sorti dell’umanità. Da una parte, pacifiche e paritarie civiltà fluviali di contadini-pescatori. Dall’altra, bellicose popolazioni di allevatori-guerrieri votate alla conquista. La vittoria di queste ultime avrebbe determinato il trionfo di un modello aggressivo e patriarcale, a scapito dell’originaria società di partnership (o matriarcato) che avrebbe contraddistinto gli sconfitti.

Il riferimento più diretto sembrano essere le modellizzazioni evolutive dell’antropologa e sociologa americana, Riane Eisler. Ma Fo, da sempre curioso esploratore di teorie e filoni di ricerca a dir poco alternativi, non scrive con il rigore del divulgatore scientifico. Veste piuttosto i panni dell’archeologo o dell’investigatore, andando a scavare sotto le stratificazioni del testo biblico e facendo il terzo grado ai protagonisti. Finiscono così sotto inchiesta le pagine della creazione e le vicende del paradiso terrestre; si indaga il mistero di Lilith, prima donna prima di Eva, e di Lucifero, l’angelo decaduto ma mai davvero nominato; si cerca di comprendere i motivi apparentemente futili della rabbia che spinge Noè a maledire la discendenza del figlio Cam. E poi: siamo così sicuri che sia stato Caino a uccidere il fratello Abele e non il contrario?

Attinge a piene mani dalle tradizioni apocrife e parallele Fo, mettendo insieme incongruenze e controversie linguistiche di lunga data e cercando negli scritti espunti dal canone ebraico le tracce di “verità scomode”. La Bibbia censurata è scritta con il marchio di fabbrica della satira, ma vuole essere un vero esercizio esegetico. In pagine che scorrono via accattivanti come un giallo o un prodotto mistery, il figlio d’arte gioca sul piano del simbolico, tentando di ricondurre le varie questioni alla grande Narrazione rimossa che ne spiegherebbe l’operato. Lasciamo ai lettori il giudizio sulla riuscita dell’operazione. Ma certo i tanti vinti della storia in attesa di riscatto non potranno che sentirsi lusingati da un così sacro sforzo.

“Sono considerata bella e oca, arrivata in tv ‘grazie’ al Covid”

Tra abito e monaco o apparenza e inganno, l’aspetto esteriore e quello interiore affollano da sempre proverbi e detti popolari. Martina Crocchia sembra perfetta.

Ha 39 anni, un aspetto fisico da pin-up, una scuola di pole dance (danza con la pertica), sa sorridere senza ridere, rivendica i vari interventi di chirurgia estetica e si è presentata al programma di Rai1 L’Eredità. È passato un mese, ed è ancora lì, inanella definizioni, risposte di cultura, sport, letteratura con una facilità sconcertante, Flavio Insinna divertito (“persona stupenda, come stupendo tutto lo staff”). Ha vinto più di 150 mila euro e ne ha persi 115 perché al gioco finale, “la ghigliottina”, ha risposto “capello” invece di “capelli”.

Come mai L’Eredità?

Un modo per accontentare mia madre: ogni sera mi mandava le cinque parole della “ghigliottina” (il gioco finale) e molto spesso indovinavo la soluzione; però non sono una persona a cui piace mettersi in mostra, nonostante il mio aspetto. Non avevo mai pensato di partecipare.

Poi…

A causa del Covid ho chiuso la mia attività, a quel punto ho accettato: speravo di vincere qualche soldo.

E invece…

Non mi aspettavo né la vittoria né il clamore successivo, con tutte le persone che ora mi seguono sui social, compresi gli hater: questi sono pesanti, ma non mi scompongono.

Improvvisamente famosa.

Ma lo sono? Però su di me ho letto articoli vergognosi apparsi su testate importanti, in cui hanno riportato fatti non veri. Li ho diffidati e ottenuto la rettifica.

Torniamo all’aspetto fisico…

Se riesco ad affrontare bene questa vicenda, e a rispondere alle critiche per la chirurgia estetica, è perché la mia vita è da sempre così.

Spieghi.

A vent’anni ho iniziato a ricorrere al chirurgo: ero un’adolescente molto complessata; (pausa) c’è chi va dallo psicologo e chi sceglie di intervenire in altro modo. Io ho risolto così.

E…

So perfettamente che la mia scelta porta al binomio: bella e oca; oppure: rifatta e stupida.

Quanto legge?

Sono lentissima, più che altro mi reputo curiosa.

Diplomata?

88 al Classico e poi Scienze della comunicazione.

Vota?

Chi non si interessa di politica non dovrebbe neanche avere il diritto di votare.

Per un “capello” ha perso 115 mila euro. Eppure non si è scomposta.

Erano soldi che non avevo neanche il giorno prima, non era cambiato nulla nella mia vita.

Con la vincita cosa farà?

Li investirò nella mia scuola; (sorride) dalla sfortuna è nata una fortuna: senza la chiusura non avrei mai partecipato al programma.

Hobby.

La settimana enigmistica.

La conclude?

Il mio gioco preferito è quello senza schema a pagina 44, ma basta un po’ di tecnica.

Prima della pole dance, cosa?

Per dieci anni sono stata una consulente commerciale per la chirurgia estetica; (ride) a quindici anni avevo già la mia lista degli interventi previsti.

Lei è molto diretta.

Sono il frutto della cultura cattolica, il frutto di un Paese bigotto.

I suoi miti da ragazza.

Take That e i giocatori della Roma; il problema è che sono sempre e solo uomini.

Cerchiamo una donna.

Ieri ho letto un articolo sulla figlia di Cesare Lombroso: è la vera creatrice del Corriere dei Piccoli, poi cacciata in quanto donna e socialista. Metto lei.

Chi è lei?

Una che vuole fare del suo meglio.

Riapriamo il teatro: è il respiro

Non sappiamo quando riapriranno i teatri, ma sappiamo che dobbiamo lavorare da ora sul come riaprirà la “fabbrica di materia umana” che è il Teatro. Teatro nel suo senso originale: theaomai, in greco “contemplare, guardare con una particolare volontà di capire un significato nascosto, arcano… guardare non solo con gli occhi, ma con la mente”. È azione, non un luogo, ma a questa azione che si fa strumento di riflessione servono i luoghi.

Non vogliamo riprendere a fare Teatro attaccati a un respiratore d’emergenza, che eroga ossigeno quel tanto che basta per non farci morire, perché, dicono, “sarebbe disdicevole, in fondo è Cultura”.

L’Italia è l’unico Paese al mondo punteggiato lungo tutto il suo territorio da teatri che testimoniano da sempre la necessità/ananke della rappresentazione dell’uomo. Sono loro la spina dorsale della nostra meravigliosa memoria culturale. Luoghi dove si disegna lo spazio del “mondo di sotto”: dove i corpi degli attori danno vita a pulsioni diverse. Sotto forma di figure immaginarie, mettono ordine, sistemano, sciolgono i nodi della vita, con il tono leggero della commedia, con la struttura epica, con lo sguardo drammatico o tragico.

Dobbiamo creare una rete nazionale di teatri per poter organizzare tournée (tre o quattro mesi) che consentano alle imprese tempo sufficiente per ammortizzare le spese di un allestimento lungo e complesso. Dobbiamo pensare a un nuovo Eti (Ente teatrale italiano), creato in collaborazione con soggetti strategici (ministeri, enti locali, Fai, Anci), dando corpo così all’appello del Presidente Mattarella quando parla della “Città Italia”. Le produzioni potranno contare su una rete distributiva che, sulla quantità, recuperi la spesa iniziale e generi giornate lavorative, certezza di impegno per attori, tecnici e trasportatori e margine di guadagno. Al contempo, salvaguardando la lingua italiana, aiutando la gestione dei teatri storici destinati altrimenti a chiusura. Chiediamo che questa rete sia considerata una terza vera infrastruttura sociale, al pari di scuola e sanità.

Ma nell’epoca della grande distribuzione il Teatro non può sopravvivere solo di spettacolo dal vivo: deve ritornare al centro della narrazione audiovisiva, attraverso la ripresa in forma cinematografica. Al contrario della documentazione, che resta nei cassetti, o della ripresa streaming, che lede diritti e opera, la forma cinematografica tradisce lo spettacolo nella sua forma lineare frontale, inserendo l’elemento del demiurgo, colui che sceglie cosa mostrare. Nella scomposizione in sequenze, nel cambio di punti di vista, l’opera torna a parlarci. Ecco il volano per diventare produttivi nel mercato in forte espansione degli audiovisivi, ritornare al centro della produzione di contenuti, creare indotto e ricavo economico come nelle altre forme artistiche più facilmente riproducibili (musica, danza). Per fare questo serve la Rai, il servizio pubblico.

Chi ha spazzato via la visione in trasparenza, l’immaginazione, la fabula, il simbolo, la metafora dalle nostre capacità intellettuali? Il Teatro è la premessa della forma cinematografica. Il cinema e tutte le lunghe serialità di oggi (israeliane, americane, svedesi) devono tutto al Teatro di regia europeo. Dunque, l’infrastruttura sociale (la rete nazionale dei teatri) e l’apertura alla ripresa in forma cinematografica per il mercato audiovisivo sono la risposta costruttiva alla crisi, mettono al lavoro tutta la filiera teatrale fatta di piccole e medie imprese.

Dobbiamo stravolgere il paradigma: da Teatro luogo chiuso a Teatro respiro dell’Uomo, a disposizione della scuola (lasciamo i teatri aperti al mattino per materie in cui noi possiamo aiutare il corpo docenti), delle persone che soffrono (ospedali/istituti penitenziari), delle università.

Abbiamo creato un Registro professionale delle attrici e degli attori come richiesto dalla direttiva europea, ne fanno parte tutti coloro che rispondono a requisiti di professionalità. È in Parlamento, a firma Nardelli-Serracchiani-Madia: approvatelo in fretta. Tra una settimana sarà a disposizione un portale dove saranno inseriti i nomi di attrici e attori professionisti su tutto il territorio nazionale: chiamateci, vogliamo immaginare una nuova età dell’oro.

Il Presidente Draghi vuole dare una risposta alle imprese e ai lavoratori? Ci siamo anche noi. Metteteci in condizione di fare il nostro mestiere che tanto bene fa a tutti. È una Costituente quella che stiamo portando avanti, e risponde alla chiamata di partecipare alla ricostruzione del Paese. Cominciamo da questa estate… Siamo fermi da troppo tempo. Su tutto il territorio ci sono meravigliose arene. Alle 18 e alle 21: da Sofocle a Plauto e Apuleio, commedie greche e latine in ogni teatro all’aperto. Noi ci siamo.

Morti, politici e tette finte: l’abracadabra di S. Maria Carmela

Barbara fa le luci e la regia. E se qualcosa non garba agli autori o al regista, strilla: “Questa è una D’Urso scelta!”. Barbara fa i copioni, inventa gli ospiti, sceglie gli argomenti, misura le scollature. E se qualcosa non garba agli autori o al regista, strilla: “Questo è un D’Urso pensiero!”.

Barbara è la regina di tutte le massaie crivellate dalla noia, tormentate dai figli, dal marito, dall’amante, dall’ufficio, dalla suocera che ancora si fa viva e dalla stronza del primo piano che ancora non muore. È la loro consolazione da divano. Colei che, esibendo il serraglio di mostri campionati dalla vita vera, le fa sentire meno sole e qualche volta persino migliori. È infine, e specialmente, l’alchimista che con il solo abracadabra della voce, coniugata alla luce iridescente dei suoi zigomi, trasforma il fegato di Corona, il ciuffo di Malgioglio, le lacrime della Lecciso, in una pozione che allontana tutti i mali del mondo, o almeno sembra, finché dura la dose per lo stordimento, senza più bisogno di buttare giù una manciata di Prozac con due dita di brandy, ascoltando in cuffia Radio Maria.

Tutto è incredibile da Barbara. A cominciare da Barbara. I suoi occhi hanno la luce delle comete. I suoi denti il candore della neve a Natale. I seni la morbidezza dei cuscini in culla. Mangia bacche e cereali bio. Beve succo di aloe. Si sottopone a infiltrazioni dell’osso zigomatico e a due ore di palestra al giorno. Il risultato è un favoloso effetto Dorian Gray, che ogni anno la ringiovanisce di due. Il che spiega il giovanile entusiasmo del suo eloquio: “Se tu mandi un pensiero di energia negativa al cielo, il cielo ti rimanda sempre l’energia che tu mandi lì”. E poi: “Buona domenica, domenica, domenica! Il mio cuore è il vostro!”

È la regina del piagnisteo lunatico e del saluto al sole. Provatela una volta nella vita, per crederle. Ascolterete cose incredibili, cose mai sentite, dai suoi “ospiti di eccezione”, come Morgan, Walter Nudo, Jessica, Lele Mora, Alba Parietti, Vladimir Luxuria, Vittorio Sgarbi, Platinette, Al Bano. Anche se nessuno è d’eccezione quanto lei che mette in rete la sua stessa intimità nel video: “Barbara D’Urso canta e balla mentre lava i piatti”.

Il più bello, tra i recentissimi, è quello in cui, invece dei piatti, Barbara si occupa di Nicola Zingaretti, che dall’oltretomba democratica le aveva chiesto la cortesia di farlo tornare nel mondo dei vivi, suscitando l’ira dell’intera Spoon River da cui l’ex segretario voleva fuggire. “Nel tuo programma si può parlare seriamente di politica” aveva detto. E lo ha fatto, poverino, parlando in pieno transfert, come fosse lei: “Le mie dimissioni sono un atto d’amore. L’ho fatto per dire: ributtiamoci anima e corpo, per dare una mano all’Italia, al Paese che amiamo!”.

Barbara è la mano tesa al Paese. Il suo riassunto narrativo. Capace, nella stessa puntata, di passare dai dettagli di un infanticidio a quelli sulle tette finte. Dai morti in corsia ai tatuaggi. Dagli stupri ai tacchi a spillo. Per poi insaporire il piatto con i politici – da Di Maio a Salvini a Renzi – che non vedono l’ora di prestarsi ai suoi incantamenti, fanno la fila, come sudditi davanti alla regina.

La quale regna non solo su tutti gli intrecci di amori e disamori, i tradimenti, le lagne, le confessioni dei morti di fama, ma pure sulle geometrie del quadro politico, i rimpasti, il prodotto interno lordo e il marasma sociale che ne consegue. Fino al suo imperdibile sospiro finale che la vita è vita, anzi, “la vita è tutto: serio, faceto, risate e malattia, banalità e lacrime”.

Contundente è stata la vita di Maria Carmela D’Urso, in arte Barbara, che di ogni spigolo incontrato ha fatto un appiglio verso le vette della morbidezza. È nata nell’ombra di Napoli il 7 maggio 1957. Orfana a undici anni, scappa a Milano a 19, in cerca di fortuna. Troppo bassa per la moda, troppo ostinata per non provarci, fa la gavetta nel retropalco dei fotoromanzi e nelle prime tv locali. Si mette in scia dei giovani comici milanesi, Abatantuono, Boldi, Teocoli, con giro notturno di cabaret. Incrocia un certo Berlusconi Silvio, palazzinaro, agli esordi televisivi. Poi Pippo Baudo, cacciatore di talenti. Canta, presenta, fa un po’ di cinema minore. Molti amori le affollano il cuore, da Memo Remigi a Vasco Rossi. Due figli con il produttore Mauro Berardi, un matrimonio e un divorzio con il ballerino Michele Carfora.

Il successo arriva con le fiction tipo La dottoressa Giò e la conduzione del Grande Fratello. In Mediaset è amata, odiata, temuta: “Con le pietre che mi tirano addosso ho imparato a costruire castelli”. Porta ascolti e perfeziona il trash, aggiungendogli la lacrima e la morale.

Nel 2011 combina il guaio dell’intervista a Francesco Nuti malato, sofferente, inchiodato in un primo piano senza pietà. Protestano il pubblico e il Web. Il direttore dell’informazione, Mauro Crippa, che non la regge, prova a chiuderle il programma. E così pure Pier Silvio. Ma Barbara ha una linea diretta col babbo, il Dottore, che dai tempi di Telemilano non le ha mai lesinato contratti, complimenti e cene. Perciò lei vince e rilancia. Si prende tutto, i pomeriggi, le serate, gli speciali pure a Capodanno.

Vive e ringiovanisce in diretta. Ride, consola, fa vento con le ciglia, sussurra: “Vi amooo!”. È l’apostrofo rosa della televisione. Solo ogni tanto le impalcature del suo sorriso perenne hanno un cedimento, spalancando l’abisso: “Ogni mattino mi guardo allo specchio e so cosa è stato il mio passato”. Pausa, respiro: “Molte volte mi chiudo in bagno e piango da sola. Nessuno lo sa. Non lo deve sapere nessuno”. Guarda in silenzio la telecamera, sorride. L’abisso si rimargina, la luce vince sulle tenebre, il pomeriggio live continua. Da milioni di divani parte il sospiro e l’applauso.

Il corpo di Dante è ancora esule in terra di Ravenna

Dante Alighieri ha solo 37 anni, ma è già un letterato, poeta e anche politico quando la fazione dei Neri capitanata da Corso Donati (e Dante, che milita invece fra i Bianchi ha sposato una Donati, Gemma pur restando Beatrice il suo ideale) decreta l’esilio e addirittura la morte del genio fiorentino. Così nel 1302; “Dante Alighieri è condannato per baratteria (tangenti, ndr), frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estorsive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5.000 fiorini di multa insieme alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo in contumacia e se lo si prende, al rogo così che muoia”.

Una sentenza falsa, ipocrita e spietata, e la lotta – va precisato – non è più fra Guelfi e Ghibellini (sconfitti e ridotti in minoranza anni prima), bensì fra Guelfi divisi in Neri, capeggiati da Corso Donati) e Bianchi (guidati da Vieri Cerchi).

Dante, in realtà, pur essendo dopo i 30 anni “dentro” la politica, non è iscritto a nessuna corporazione e c’è chi lo considera ancora una sorta di letterato “vitellone”, uno che vive di rendita scrivendo, poetando, discutendo di lingua e di filosofia. Ma se a Bologna, per esempio, è molto ascoltato da poeti e letterati, i maestri del più antico Ateneo del mondo non se lo filano granché.

Per Dante è cominciato il lunghissimo esilio che lo porta, in oltre vent’anni alla corte dei della Scala a Verona dove sarà particolarmente felice il periodo di governo di Cangrande della Scala. Ripone molte speranze nella discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII che però se ne va presto e quindi addio illusioni dantesche. È poi in Lunigiana alla corte dei Malaspina, ma la vera svolta avviene con Guido Novello da Polenta signore di Ravenna e gran mecenate, qui Dante Alighieri non subirà frustrazioni di sorta e potrà lavorare alla sua Commedia con una tranquillità prima mai conosciuta nell’esilio (anche se ha prodotto moltissimo, per esempio il monumentale e prezioso De Vulgari Eloquentia, uno sforzo gigantesco per fissare, nel passaggio al volgare, lo stato della lingua italiana nelle varie contrade). Quella lingua di cui è ormai divenuto il “padre” per sempre. Da notare che anche Giotto di Bondone è stato ospite dei da Polenta (una frazione vicina a Bertinoro) e ha dipinto un bellissimo Cristo crocifisso che ora è al Tempio Malatestiano, influenzando una grande e autonoma scuola pittorica, quella riminese appunto, molto presente con l’altra bolognese di Vitale nella monumentale Abbazia benedettina di Pomposa sulle Valli di Comacchio. C’è pure a Santa Chiara di Ravenna uno stupendo ciclo di affreschi medioevali.

Purtroppo la generosità porta Dante ad offrirsi nel 1321 ai Polentani quale ambasciatore presso Venezia con la quale ha ottimi rapporti. L’ambasceria riesce, ma nell’attraversare il delta del Po Dante viene colto dalla malaria e, rientrato a Ravenna, rapidamente muore a soli 56 anni, proprio settecento anni, assistito dai figli e dagli amici.

I funerali sono celebrati, manco a dirlo, dai suoi amici, i Frati della da lui molto amata Chiesa di San Francesco. Ma le prime tombe che gli vengono allestite a Ravenna sono presto rovinate dall’acqua o da un sottosuolo quanto mai instabile. Finché i resti del più grande intellettuale “totale” di ogni epoca spariscono. Non se ne sa più nulla: da Firenze infatti sono arrivate dopo un secolo abbondante le pretese dei fiorentini che eccitati da Boccaccio hanno “scoperto” Dante e la Divina Commedia. Soprattutto se ne sono accorti quando è uscita la prima edizione, nel 1426, oltre un secolo dopo la morte. Ma i ravennati, teste quadre, e in specie i Francescani non ci stanno proprio e tengono nascoste quelle amate ossa. Non serve a nulla neppure l’intervento rivendicativo di un papa potente e fiorentino come Leone X Medici. Niente da fare. Finché, dopo tanti tira e molla, i ravennati costruiscono nel 1780-81 un Tempietto neoclassico in centro, opera di uno scultore ravennate importante, Camillo Morigia, per onorare il sommo poeta. Ma bisogna nel 1920 inventariarne le ossa che sono racchiuse in una scatola di cartone con una semplice scritta: Dante.

L’inventario lo compì uno dei più grandi dantisti viventi, il ravennate don Giovanni Mesini (che fra gli altri ebbe come allievo il martire antifascista don Giovanni Minzoni ucciso a bastonate dagli squadristi di Italo Balbo) e il canonico Mesini certificò. Era presente il sindaco di Ravenna, il repubblicano Fortunato Buffi, noto massone, il quale in dialetto rivolse a don Mesini questa raccomandazione: “Dasii vo la bendiziòn, che lo, Dante, ui cardeva…”. Dategli voi la benedizione ché lui, Dante, ci credeva”. E don Mesini volentieri eseguì.

“Il Paese in caduta libera: scomparsi i valori politici”

“Lo spoglio non è ancora definitivo, ma la sostanza politica, come previsto, resta la stessa: un sistema bloccato, la stessa incertezza e una frammentazione su linee identitarie, pro o contro Netanyahu, che ignora i reali problemi del Paese, dalla situazione economica al processo di pace con i palestinesi. Una novità è la tenuta della sinistra, sia del Labor, rivitalizzato in poco tempo dalla nuova leader femminista Merav Michaeli, sia di Meretz”. Così interpreta le elezioni israeliane Yossi Mekelberg professore alla Regent’s University di Londra e analista del Centro Studi di Politica Internazionale Chatham House per il Medio Oriente.

Il premier Netanyahu ha cantato vittoria. Ma al momento non ha i numeri per governare, nemmeno in coalizione con i partiti del suo blocco. Quali scenari sono possibili?

Siamo in caduta libera. Prevedo una negoziazione molto lunga e molto sporca per uscirne. I seggi in ballo per la maggioranza sono due o tre, e quello che ci aspetta è un mercato delle vacche che agirà su debolezze o convenienze personali; i valori politici sono quasi totalmente scomparsi dalla scena dei partiti israeliani. Si parla già di dialogo fra il Likud e gli islamisti di Ra’am. Probabilmente, a un certo punto, un leader del blocco anti-Netanyahu entrerà in coalizione con lui per formare il governo, vendendo agli elettori la contraddizione come sacrificio per fermare l’estrema destra o gli islamisti.

Qual è l’impatto di questo stallo sui cittadini israeliani?

Disaffezione, crescente sfiducia nel sistema, astensionismo, anche fra gli arabi israeliani. Del resto è quello che vuole Netanyahu: mantenere il potere a costo di delegittimare le istituzioni democratiche che sono al cuore della nazione, non solo la Knesset ma anche la magistratura e la Corte Suprema, tutto pur di evitare di affrontare il processo per corruzione e abuso d’ufficio che rischia di travolgerlo con tutta la sua famiglia. Netanyahu è disposto a tutto pur di salvarsi e questo è il singolo fattore che condiziona la politica israeliana da quattro anni, da quando è iniziato il processo contro di lui. Ma se dovesse riuscire a evitare una condanna, magari ottenendo dalla Knesset l’immunità retroattiva, questo segnerebbe la fine della democrazia israeliana. Sarà interessante capire cosa farà il presidente Rivlin, anche lui del Likud, ma della vecchia guardia, e a pochi mesi dalla fine del mandato. In Israele il presidente non ha grande potere effettivo, ma penso che Rivlin lo utilizzerà al massimo.

C’è una crescita anche delle formazioni di destra più estremiste…

Questi partiti omofobi, razzisti, misogini che vogliono legalizzare gli insediamenti nei territori occupati e costruirne altri, di fatto peggiorando ancora la vita dei palestinesi, potrebbero finire al governo.

Naftali, il “ragazzo d’oro” fra militarismo e ortodossia

Ricordo il finale al fotofinish di una campagna elettorale del 2015. Anche quella volta Bibi Netanyahu veniva pronosticato in svantaggio. La domenica prima del voto convocò in piazza Rabin a Tel Aviv la folla dei sostenitori del Likud. A sorpresa, per rincuorarli, spuntò dal retropalco quello che in teoria doveva essere un rivale collocato alla sua destra: Naftali Bennett, il figlio religioso di ebrei californiani liberal divenuto ricco grazie a un’impresa di Cyber-Security, distintosi in un reparto d’eccellenza delle forze armate, ammirato dai coloni insediati nei territori palestinesi che in lui riconoscevano un portavoce, anche se viveva nell’agio dei quartieri residenziali litoranei. Bennett posò una mano protettiva sulle spalle di Bibi e poi, anziché parlare, accordò la chitarra e intonò Gerusalemme d’oro, la canzone celebrativa della capitale riconquistata nel 1967. Non importa che stonasse. La folla comprese il messaggio dell’uomo con la kippah all’uncinetto: per rimanere in sella come “re d’Israele” (così lo acclamavano), Netanyahu d’ora in poi avrebbe dovuto sottomettere la laicità del Likud all’egemonia culturale del sionismo religioso.

Non a caso nella notte di martedì scorso, dopo i primi exit-poll (rivelatisi poi imprecisi), tutti gli osservatori politici hanno attribuito a Bennett il ruolo di protagonista dei futuri equilibri israeliani. Cioè di leader cui prima o poi Netanyahu dovrà rassegnarsi a passare il testimone. Lui sa aspettare, il tempo gioca dalla sua. Si muove con disinvoltura fra maggioranza e opposizione, fra tradizione e modernità, forte dell’identità etnica e messianica del predestinato, in un Medio Oriente che divinizza le sue frontiere insanguinate.

Bibbia e tecnologia, militarismo e ortodossia: gli ingredienti di una Grande Israele che privilegia l’annessione della Cisgiordania a scapito degli stessi accordi di Abramo con l’islam sunnita. Non succede forse così anche fra i suoi nemici vicini, Hezbollah e Hamas? Sulle macerie delle loro società, in Libano come a Gaza, è il cemento ideologico dell’appartenenza a dettar legge. Per quanto la democrazia israeliana abbia riconfermato nell’ennesima consultazione elettorale una maggioranza di orientamento laico, è del sionismo religioso che finisce per rimanere ostaggio.Lo conferma il successo dell’estrema destra che in nome di una visione fanatica della Torah porta alla Knesset dei razzisti e degli omofobi dichiarati, fautori dell’espulsione degli arabi e del divieto dei matrimoni misti. Costoro sono stati bene accetti nella coalizione di Netanyahu. L’astuto Bennett se ne distingue ma li tratta con benevolenza: si è preso il compito di rendere presentabile il loro furore apocalittico. Ne condivide i presagi sull’imminenza del Mondo a Venire, nel quale la missione dei pionieri sionisti troverebbe compimento grazie alla proliferazione degli insediamenti oltreconfine.

Suona beffardo, ma invece è sviluppo logico di questa frantumazione, il ruolo di ago della bilancia toccato in sorte alla lista araba separata di Mansour Abbas, dopo il voto di martedì. E’ la prima volta che accade in Israele. Senza i cinque deputati islamisti conservatori di Abbas, che ha rotto il fronte dell’opposizione araba dichiarandosi pronto a governare con la destra, Netanyahu resterebbe privo di maggioranza parlamentare. Ma non sarà facile farli digerire al sionismo etnonazionalista, già da tempo componente insostituibile della destra alla Knesset.

Al ventennale dominatore della scena politica israeliana Netanyahu, aggrappato a un potere declinante e minacciato dalle inchieste giudiziarie, non è riuscito il colpo di recuperare autonomia. Orfano della presidenza Trump, deve fare i conti con una nuova amministrazione Usa poco propensa ad accontentarsi dell’asse con le petromonarchie sunnite del Golfo. I tempi non sembrano essere ancora maturi neppure per l’unico nuovo uomo forte di destra che s’intravede all’orizzonte, Naftali Bennett. Per quanto si attendano ulteriori disinvolti cambi di schieramento e rimescolamenti di carte, il perdurare dell’instabilità favorisce gli estremisti e incentiva contrapposizioni avventuristiche. Finora la congiuntura economica e il successo conseguito nella vaccinazione anti-Covid hanno reso sopportabile la crisi del sistema democratico israeliano, incapace di generare una classe dirigente all’altezza. Per quanto tempo ancora?

 

Israele è ancora in stallo: governo lontano, avanza solo l’estremismo sionista

Il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu ha mantenuto un ruolo guida anche in queste quarte elezioni consecutive in due anni, ma ancora una volta né la sua alleanza di destra né un blocco eterogeneo di partiti di opposizione hanno un chiaro percorso per una coalizione di maggioranza. Se il mezzo milione di schede ancora da scrutinare non farà pendere la bilancia da una parte o dall’altra entro venerdì si potrebbe prolungare la situazione di stallo politico per settimane, se non mesi. E l’incubo di una quinta votazione in settembre potrebbe diventare realtà. Netanyahu – abituato sempre a cantare vittoria ancor prima che la battaglia delle schede sia terminata – stavolta infatti è silente perché non ha ancora chiaro come portare a casa i 61 seggi necessari per formare una coalizione.

Lo stesso vale per il blocco anti-Netanyahu – un gruppo molto eterogeneo di fazioni di sinistra, destra e centristi – che è soltanto sulla soglia della maggioranza. Secondo il Comitato elettorale centrale, il Likud di Netanyahu ha attualmente 30 seggi alla Knesset, seguito da Yesh Atid guidato dal centrista Yair Lapid con 17. Il partito ultraortodosso Shas ha ottenuto 9 seggi, mentre i religiosi di Uniti per la Torah, Yamina – guidata da Naftali Bennett – il Labor Party e Yisrael Beiteinu dell’ex alleato di Netanyahu Avigdor Lieberman hanno conquistato 7 seggi ciascuno. Kahol Lavan dell’ex generale Benny Gantz, il Partito Sionista Religioso, New Hope (fondato dall’ex Likud Gideon Sa’ar) e l’Arab List hanno finora ricevuto 6 seggi ciascuno, mentre Meretz (sinistra alternativa) ha ottenuto 5 seggi così come il piccolo partito islamista Ra’am, il minimo necessario per entrare nella Knesset. Il partito islamista, guidato da Mansour Abbas, e Yamina di Naftali Bennett non hanno ancora dichiarato il loro sostegno a nessuno dei due blocchi. I due leader hanno avuto degli incontri con Netanyahu. L’affermazione elettorale dei suprematisti ebraici ha lasciato molti israeliani di sasso. Il partito era stato squalificato al voto del 2019 per le sue posizioni razziste, xenofobe e segregazioniste, invece stavolta otterrà 6/7 seggi, il miglior risultato in assoluto per una formazione di estrema destra. Netanyahu avrà bisogno del sostegno di questo gruppo ma anche di Yamina e della Lista islamica per trovare una maggioranza nella Knesset di 61 seggi. Il minimo, visto che il parlamento è composto da 120 membri. Difficile però mettere d’accordo un partito arabo con i suprematisti ebraici. L’ascesa del Partito Sionista Religioso preannuncia un ulteriore spostamento a destra in Israele, dove i partiti che sostengono gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e si oppongono alla creazione di uno Stato palestinese dominano già la scena politica. È guidato da Bezalel Smotrich, ex ministro dei trasporti che ha organizzato proteste anti-gay, è favorevole alla segregazione delle donne ebree e arabe nei reparti di maternità. È alleato di Itamar Ben Gvir, capo del partito Jewish Power che è ancora più a destra. È un discepolo del defunto rabbino razzista Meir Kahane, che ha incitato alla violenza contro gli arabi, ha chiesto che Israele fosse governato dalla legge religiosa ebraica e ha sostenuto l’espulsione di arabi e dei non ebrei da Israele e dai Territori palestinesi occupati. Non bisogna ‘mai dire mai’ quando si tratta di Netanyahu. Le opinioni sfacciatamente di destra di molti membri della Knesset nel blocco anti-Bibi li rendono buoni candidati per disertare nel blocco di Netanyahu, la loro naturale sede politica. King Bibi non esiterà a usare alcun mezzo per formare la coalizione di governo dei suoi sogni, la più estremista, nazionalista e oscura nella storia di Israele, con un programma che includerà il licenziamento del procuratore generale Avichai Mendelblit, il blocco dei procedimenti legali contro di lui e la castrazione dei poteri dell’Alta Corte di Giustizia. Se così sarà, diventerà sempre più difficile definire Israele una democrazia.