La Corte di Londra ha disposto il dissequestro di alcuni conti correnti a disposizione di Gianluigi Torzi: secondo i giudici inglesi il broker molisano non ingannò la Santa Sede nella disastrosa compravendita dell’immobile londinese di Sloan Avenue 60. Non si tratta ancora di una pronuncia di merito, è una decisione cautelare che riguarda il sequestro. Ma la ricostruzione accusatoria dei pm del Papa, i promotori di giustizia Alessandro Diddi e Gian Piero Milano, viene smontata di fatto dalla decisione che arriva dai magistrati del Regno Unito: secondo questa sentenza, di 42 pagine, Torzi fu pagato per il suo lavoro; si trattò insomma di una transazione economica, non di una truffa. Lo scandalo del palazzo di Sloan Avenue è una delle vicende più significative del tentativo di pulizia avviata da Papa Francesco: l’edificio fu acquistato dalla Santa Sede in parte con i soldi dell’Obolo di San Pietro, ovvero l’offerta dei fedeli destinata ai poveri. Quei fondi hanno invece alimentato un’operazione speculativa spericolata, portata alla luce per volere di Bergoglio. Nel 2018 il palazzo londinese passa dal fondo Athena di Raffaele Mincione, in cui il Vaticano aveva investito 200 milioni, alla società lussemburghese Gutt, gestita da Torzi. Secondo i pm di Papa Francesco, che arrestano il broker nel 2020, Torzi raggira il Vaticano lasciandolo con azioni senza diritto di voto e continua a gestire l’immobile; per sbloccare la situazione pretende una commissione di 15 milioni di euro. Per i giudici inglesi non ci sono però prove della frode e che quella commissione non fosse dovuta; anzi, l’operazione avvenne con più di una sponda in Vaticano. La transazione avrebbe provocato perdite alla Santa Sede per 100 milioni di euro.
Virginia: i soliti attacchi e i 5,3 mln da spiegare
Mi sbaglierò, ma in questi anni non ho mai invidiato Virginia Raggi perché governare Roma è un privilegio che spesso appare come un’impresa disperata. Così come il Campidoglio sembra uno splendido palazzo in cima a un vulcano che erutta rogne come lapilli. È vero, di fare la sindaca non glielo ha imposto nessuno e anzi, come tutte le donne di carattere, lei intende fare il bis ricandidandosi in autunno. Con buone possibilità di successo, stando ai sondaggi, segno che non pochi suoi concittadini ne apprezzano alcuni importanti risultati, la buona volontà e soprattutto l’onestà personale. Poi ci sono le dolenti note, veicolate ogni giorno da una stampa cittadina che non la ama, forse perché poco malleabile (senza contare i veleni sparsi a piene mani dal mondo 5Stelle). Ci sono numeri però che con tutte le migliori intenzioni è difficile mandare giù, come i 5,3 milioni che solo nel 2020 il Comune di Roma ha speso per gli stipendi al cosiddetto personale di supporto agli organi politici: circa 97 contratti, molti a tempo determinato e quasi tutti di fascia alta. Non li chiameremo portaborse per rispetto di coloro che svolgono un reale lavoro di collaborazione, ma per il resto siamo lì. Il risultato non è migliore se si confronta questa notevole cifra con quanto arrivarono a spendere la giunta Marino nel 2013 (3,8 milioni) e la famigerata giunta Alemanno (2,8 milioni). Sono esborsi che nella percezione dei cittadini si sommano alle notizie sulla cosiddetta “parentopoli”, con le assunzioni a vario titolo negli uffici capitolini di compagne e compagni di assessori. Vero è che nel caso che riguarda Gianni Lemmetti, uno degli assessori a lei più vicini, la sindaca si è detta all’oscuro di tutto e ha reagito con fermezza imponendo un passo indietro alla neoassunta. Ma basta? Infatti, è come se dei nuvoloni densi di sotterfugi e maldicenze si fossero addensati sul Campidoglio, e dunque anche sulle stanze della sindaca. Che ha un solo modo per diradarli: parlare, spiegare, distinguere i possibili favoritismi dalle concrete necessità di un’amministrazione chiamata a governare la città più famosa al mondo, la Capitale d’Italia, e quasi tre milioni di abitanti. Mi dicono che sui social ci sono le risposte richieste. Ok, ma quanto sarebbe più efficace rivolgersi direttamente alle persone, soprattutto adesso che la sua maggioranza traballa? Con quella trasparenza che anche chi la critica (non in malafede) riconosce a Virginia Raggi.
“Tutti zitti, parla solo Salvini”: il diktat leghista per spegnere i dissensi
Tutti zitti, non è ammesso il dissenso. La Lega di governo – nazionale e in molte Regioni d’Italia – sta prendendo delle contromisure alle prime critiche interne che si levano nei confronti della dirigenza di Matteo Salvini e dei commissari fedelissimi del segretario in giro per l’Italia. Negli ultimi giorni sono usciti i vademecum e i “codici di condotta” – in Calabria e in Veneto – per non dare in pasto ai giornalisti delle dichiarazioni che possano “nuocere al partito” o per evitare maldestre uscite sui social.
Al Parlamento Ue, dove i leghisti sono ben 29, la paura di uscite pubbliche in dissenso con la linea di Roma e Milano viene gestita con un diktat molto semplice: parlano i capigruppo e Salvini, tutti gli altri zitti. Si è iniziato in Calabria dove il neo commissario regionale Giacomo Francesco Saccomanno ha redatto un vademecum trasmesso ai militanti leghisti in cui si vieta di “comunicare ai giornali e ai media eventuali insofferenze o altre notizie che possano nuocere al partito” ma anche di “commentare negativamente azioni o provvedimenti assunti dagli organi del partito o da rappresentanti dello stesso nelle istituzioni”. E poi: “Non assumere atteggiamenti non consoni allo stile della Lega e cioè prudenza, umiltà, condivisione, responsabilità, credibilità, militanza, rispetto”.
Stessa indicazione è stata data dal commissario regionale in Veneto, il salviniano Alberto Stefani, dopo il caso di Sonia Fregolent, la senatrice leghista che ha chiesto i 240 euro del bonus “centro-estivo” del suo comune, Sernaglia della Battaglia (Treviso), dove è anche consigliera comunale, provocando molte polemiche. Non solo: dopo le nomine dei sottosegretari del governo Draghi, l’europarlamentare veneto Antonio Da Re, vicino a Luca Zaia, ha criticato esplicitamente il segretario regionale Stefani perché il Veneto aveva ottenuto solo la ministra Erika Stefani (Disabilità) e nessun sottosegretario, chiedendo il congresso. Così dal direttivo della Lega veneta è arrivata la risposta: un “codice etico” per mettere in riga i militanti e far sì che i panni sporchi si lavino in casa e non “sui social”: “Chiunque aderisce al Movimento – recita il diktat – è consapevole che ci sono delle regole e la più importante è che in Lega non c’è spazio per divisioni, attriti e inutili polemiche. La Lega è una squadra che si muove all’unisono”.
Per non parlare di Bruxelles, dove i 29 europarlamentari sono più liberi, anche perché meno noti, di dire la propria sulle dinamiche nazionali del Carroccio. Il 3 marzo, quando Viktor Orbán aveva annunciato la sua uscita dal Ppe, il capodelegazione del gruppo “Identità e democrazia” Marco Zanni aveva scritto nella chat leghista: “Buongiorno a tutti, come avrete visto, Orbán ha appena annunciato che lascerà il gruppo del Ppe. Come sempre l’indicazione è che dichiarazioni sul tema le rilascia Salvini ed eventualmente io o Campomenosi. Se contattati da giornalisti invito tutti a non rilasciare dichiarazioni”.
“Raggi processata per un suo errore fatto in buonafede”
La risposta che Virginia Raggi diede all’Anac, che chiedeva conto della nomina (poi revocata) al dipartimento Turismo del fratello di Raffaele Marra, allora capo di gabinetto del Campidoglio, è “certamente non corrispondente al vero, ma non altrettanto certamente frutto della volontà” della sindaca di Roma “di attestare il falso e di occultare fatti che non conosceva, o perlomeno non vi è certezza che all’epoca conoscesse”. È anche per questo motivo che i giudici della Corte d’Appello lo scorso 19 dicembre hanno deciso di confermare la sentenza di assoluzione nei confronti di Virginia Raggi, difesa dagli avvocati Alessandro Mancori, Pierfrancesco Bruno e Emiliano Fasulo.
La sindaca di Roma era finita a processo con l’accusa di aver scritto il falso nella dichiarazione al Responsabile anticorruzione del Campidoglio – che doveva rispondere all’Anac – quando ha affermato che nella procedura per la nomina di Renato Marra a direttore del Turismo, il fratello Raffaele – allora capo del Personale – aveva avuto solo “compiti di mero carattere compilativo”. In primo grado, a novembre del 2018, è arrivata l’assoluzione perchè il fatto non costituisce reato. Sentenza confermata lo scorso dicembre in Appello, seppur con alcune “precisazioni” rispetto alle motivazioni.
Tutto il processo dunque ruota attorno alla risposta fornita dalla sindaca all’Anac. Per i giudici di appello “si deve ritenere senz’altro dimostrato – è scritto in 18 pagine di motivazioni – che la sindaca sia stata sostanzialmente vittima di un raggiro ordito ai suoi danni dai fratelli Marra”, tuttavia nella risposta all’Anac per i giudici è “ampiamente provato” che “non sia stata rispondente a quanto realmente accaduto, se non altro per il verificarsi dell’episodio del 26 ottobre 2016”. Quel giorno ci fu un incontro durante il quale, secondo le accuse, sarebbe maturata la domanda di Renato Marra. Parteciparono l’assessore al commercio Adriano Meloni e pure il delegato della sindaca al personale Antonio De Santis. Riunione della quale la Raggi ha spiegato di non essere mai stata messa al corrente. E i giudici le hanno creduto: “Non è provato – scrivono nelle motivazioni – che fosse noto alla Raggi almeno alla data del 6 ottobre 2016”. Poi aggiungono: “Che Marra fosse ‘uomo di macchina’ dell’amministrazione comunale (…) non è dubbio e lo sapeva ovviamente anche la Raggi, che lo aveva scelto proprio per le sue competenze ed esperienze; ma ciò non significa necessariamente che egli, nella procedura di interpello per la nomina dei dirigenti, non dovesse attenersi alle direttive impartitegli dalla sindaca, e che la stessa non fosse convinta, più o meno ingenuamente, che lo avrebbe fatto”. Durante le indagini della Procura di Roma sono stati anche acquisiti alcuni messaggi, come quello del 12 novembre 2016 quando la Raggi scrive a Marra: “Ma leggo sui giornali dell’aumento di tuo fratello…”. “La complessiva reazione dell’imputata – scrivono i giudici – alla scoperta del ‘salto’ stipendiale ottenuto da Renato Marra a questa corte appare del tutto sincera”. Alla luce delle diverse prove acquisite quindi per i giudici la risposta della Raggi all’Anac è stata “frutto non già di dolosa menzogna ma sia di un errore terminologico, certamente grave e colpevole, ma pur sempre errore; sia dell’orgogliosa rivendicazione del proprio ruolo propulsivo e decisionale in qualcosa di mai avvenuto prima nell’amministrazione capitolina; sia, ancora, di un fraintendimento dell’oggetto della richiesta”.
E concludono: “Marra ha senz’altro partecipato alla ‘istruzione’ della complessa pratica necessaria alla definizione del bando per la nomina degli oltre 100 dirigenti (…); ma non vi è prova certa che, a parte forse la vicenda del fratello Renato, ancora sub judice, abbia avuto ed esercitato poteri discrezionali e decisionali, sicché la spiegazione fornita dall’imputata in ordine a quanto attestato nel documento che costituisce il corpo del reato (…) non è provato che sia frutto di cosciente e consapevole volontà di attestare il falso; e non piuttosto di un equivoco terminologico”. Ed è per queste ragioni che la sindaca di Roma ha incassato un’assoluzione, anche in Appello.
Pd, infornata di assunzioni grazie a un piccolo comune
Membri dello staff dei consiglieri regionali e militanti vari del Pd assunti a tempo indeterminato in Regione Lazio, grazie a un concorso varato dal Comune di Allumiere, un paesino di 3.800 anime in provincia di Roma. Fra loro, il presidente della commissione Trasparenza in Campidoglio – anche lui in quota dem – che però ha rifiutato la Regione, preferendo accettare poco dopo il posto fisso al Comune di Guidonia, terza città del Lazio. Il tutto si è svolto nel giro di 15 giorni, a dicembre 2020, a cavallo delle festività natalizie. Il sindaco di Allumiere, Antonio Pasquini? Risulta comandato da tre anni presso l’ufficio di presidenza del consiglio regionale.
È di oltre una decina il numero dei componenti delle segreterie politiche regionali e dei militanti dem che, da qualche mese, hanno ottenuto un posto fisso in Regione Lazio. Il 18 dicembre 2020, infatti, l’Ente ha deciso di punto in bianco di assumere 16 funzionari di categoria C da destinare all’Ufficio di presidenza del Consiglio. La normativa consente di pescare dall’ultima procedura conclusa da altri enti pubblici ricadenti nel proprio territorio. E gli esiti del concorso più recente erano stati pubblicati pochissimi giorni prima, il 14 dicembre, dal Comune di Allumiere.
Tutto accade a stretto giro. Il 18 dicembre, la Regione approva lo schema di accordo con Allumiere e inizia a scorrere l’elenco-idonei, seguendo la graduatoria. Il 23 dicembre i candidati selezionati rispondono alle e-mail e il 28 dicembre viene approvata la determina dirigenziale con i nomi dei neo-assunti. Chi sono i premiati? Nell’elenco figurano due collaboratori di Mauro Buschini, presidente del Consiglio regionale; poi Matteo Marconi, segretario del Pd di Trevignano Romano (Roma); Arianna Bellia, assessore Pd di San Cesareo (Roma); Augusta Morini, consigliere e assessore Pd di Labico (Roma); Paco Fracassa, segretario Pd di Allumiere (Roma); un componente del circolo Pd di Frosinone (città di Buschini); e tre militanti dem (Allumiere, Civitavecchia e Roma). Con loro anche un collaboratore di Giuseppe Cangemi, vicepresidente d’Aula in quota Lega. Per tutti, il posto di lavoro in Consiglio regionale è assicurato anche in vista di un possibile cambio di amministrazione.
Ma non è tutto. Su 16 posti disponibili, a dicembre la Regione contatta in totale 24 persone, ma in 8 rifiutano, prendendosi il rischio di attendere una nuova chiamata: sarebbe bastato che un altro comune avesse di lì a poco concluso un concorso, per restare a mani vuote. E invece il 28 dicembre è il Comune di Guidonia (circa 90mila abitanti alle porte di Roma) a stipulare un accordo con Allumiere e a decidere di assumere otto funzionari, prendendoli dallo stesso elenco-idonei da cui aveva pescato la Regione. E quattro di questi sono fra coloro che avevano rifiutato la chiamata regionale appena 5 giorni prima. Fra loro, c’è Marco Palumbo, consigliere del Pd in Campidoglio e in Città Metropolitana, presidente della Commissione trasparenza e, da febbraio 2019, anche impiegato nell’ufficio di gabinetto di Buschini. La commissione che Palumbo presiede a Roma, fra l’altro, è quella che sta indagando con gli altri partiti di opposizione sulle assunzioni in Campidoglio negli staff degli assessori della sindaca Virginia Raggi.
Non solo. A Guidonia, il consigliere dem si ritroverà Matteo Manunta, ex consigliere della Città Metropolitana in quota M5s e collaboratore nella segreteria di Devid Porrello, fra i consiglieri regionali pentastellati entrato pochi giorni fa in maggioranza con Nicola Zingaretti. Porrello è anche vicepresidente del Consiglio regionale, come Cangemi. Sempre a Guidonia, sono entrati anche Massimo D’Orazio, assessore di Isola del Liri (Frosinone), e un altro collaboratore di Buschini. Le procedure, va ribadito, sono totalmente legali e tutto è avvenuto in punta di diritto amministrativo. Con tempi, come detto, da far invidia a qualsiasi amministrazione.
Il procuratore Greco: sostegno ai pm attaccati, inchiesta dovuta
Sul caso Eni-Nigeria scende in campo il procuratore della Repubblica di Milano. Francesco Greco ha emesso ieri un comunicato in cui difende in maniera netta ed esplicita i due magistrati che hanno sostenuto l’accusa nel processo Eni-Nigeria, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, “i quali, nonostante le intimidazioni subite, hanno svolto il loro lavoro con serenità, professionalità e trasparenza”.
Mercoledì 17 marzo era arrivata la sentenza che ha assolto con formula piena Eni, Shell e i loro vertici dall’accusa di corruzione internazionale, stabilendo che il miliardo di dollari pagato dalla compagnia italiana e finito tutto a pubblici ufficiali, politici e faccendieri nigeriani e internazionali non era una tangente. Molti giornali avevano commentato la sentenza attaccando i pm e la loro inchiesta e protestando contro “il fango” gettato per anni su Eni. Qualche polemica era serpeggiata anche tra i magistrati. Ora il procuratore replica indicando un paio di punti fermi. Ricorda innanzitutto che “nel corso delle indagini sono stati imbastiti da un avvocato dell’Eni, presso la Procura di Trani e presso la procura di Siracusa, due procedimenti finalizzati a inquinare l’inchiesta condotta dalla Procura di Milano e a danneggiare l’immagine di alcuni consiglieri indipendenti dell’Eni, segnatamente Luigi Zingales e Karina Litvack; per taluni fatti specifici gli imputati, tra i quali un magistrato, hanno ammesso gli addebiti e sono già stati condannati. Nell’azione di inquinamento, chi l’ha ideata e portata avanti ha anche cercato di delegittimare il pubblico ministero di Milano”. Greco ribadisce poi che “in materia di corruzione internazionale, l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è rafforzata dagli impegni assunti dallo Stato italiano con la convenzione Ocse di Parigi del 1997”.
In vendita Villa Giolitti: dopo l’appello, Franceschini manda gli ispettori a Cavour
Il ministero della Cultura di Dario Franceschini, ha deciso di vederci chiaro nella vicenda della vendita di Villa Giolitti, a Cavour, in provincia di Torino. La questione, rilanciata anche dal nostro giornale, è balzata agli onori delle cronache dopo che un appello-manifesto, che ha raggiunto quasi mille firmatari, chiedeva proprio al governo di bloccarne la vendita.
Se ne era fatta promotrice l’architetto Donatella D’Angelo, alla testa di diverse battaglie a difesa del patrimonio architettonico e storico italiano ed era stato subito condiviso da Cultura Italiae con il presidente Angelo Argento.
La Villa è stata messa in vendita diversi mesi fa da Sotheby’s, subito rimbalzata su tutti i portali delle Agenzie immobiliari, e persino su eBay, a un prezzo “stracciato” (680 mila euro) come spiega la D’Angelo, “trattandosi di un corpo di fabbrica di oltre 600 metri quadri per quanto riguarda la solo villa, poi altri edifici minori, pregevole come architettura e ben inserita nel contesto preesistente”.
La Villa, risalente al XVIII secolo, fu ereditata da Giolitti che apportò ampliamenti e migliorie, in tendenza con il gusto della sua epoca d’appartenenza. Il valore aggiunto è determinato da un parco di otre 25 metri quadri confinante con la riserva naturale Rocca di Cavour. Giolitti era appassionato di botanica e soprattutto di vigne, un momento di grande relax per lui dopo le estenuanti battaglie romane. Anche durante i soggiorni in villa seguiva però quotidianamente gli affari di Stato, tanto da far installare il telegrafo vicino la casa.
Amava ricevere qui i personaggi della vita politica del tempo e ne aveva fatto, come i politici di oggi, una succursale di Roma. Il Comune di Cavour ha cercato in tutti i modi di salvarla appellandosi alla Regione, che non ha mai risposto, non avendo le risorse necessarie per l’acquisto. Solo dopo la petizione sottoscritta da moltissimi esponenti della Cultura, diversi direttori di Musei, Arte Scienza, Sport e Cinema (le ultime firme sono di Massimo Ghini, Cristiana Capotondi e Margherita Granbassi), si è smosso l’interesse dello Stato. Il ministro Franceschini ha incaricato i suoi uffici di un’istruttoria e a giorni si dovrebbe sapere se, come per la Villa Tredicine e la Villa dei Mosaici dei Tritoni, anche questa importante testimonianza di Storia, Architettura e Paesaggio verrà salvata. Vi terremo aggiornati.
Fu attentato xenofobo, 12 anni a Traini
Dodici anni per tentata strage, aggravata dal- l’odio razziale e dal porto abusivo di armi. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna nei con fronti di Luca Traini, “estremista “lupo solitario” che il 3 febbraio del 2018 sparò a casaccio per Macerata, prendendo di mira persone straniere e una sede del Pd. Durante quel raid ferì sei migranti, sopravvissuti per una casualità. L’obiettivo dichiarato di Traini – estremista di destra che in casa aveva ritratti di Hitler e Mussolini – quello di vendicare la morte di Pamela Mastropietro, giovane ammazzata proprio a Macerata un mese prima da un pusher nigeriano. Vigilante in un supermercato di Tolentino, Traini nel 2017 si era candidato nelle liste della Lega per le elezioni del consiglio comunale di Corridonia (prendendo zero preferenze). Dopo la sparatoria il suo è diventato un nome noto nella galassia della destra suprematista e tra i gruppi xenofobi, ed è stato richiamato anche in attentati terroristici compiuti all’estero.
Crisi Covid, il Papa taglia stipendi a tutti i cardinali
La crisi da Covid morde anche in Vaticano. Le spese devono essere contenute. E allora il Papa, con un motu proprio ad hoc, ha deciso di tagliare a tempo indeterminato gli stipendi dei cardinali (10%), dei capi dicastero e dei segretari (8%), e di tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose in servizio presso la Santa Sede (3%). Mentre tutti i dipendenti – compresi quelli appena menzionati – vedranno bloccato lo scatto di anzianità fino al 2023 (eccetto i dipendenti laici dal primo al terzo livello). “Un futuro sostenibile economicamente richiede oggi, fra altre decisioni, di adottare anche misure riguardanti le retribuzioni del personale”, scrive Bergoglio nel motu proprio. Da qui la decisione di intervenire “secondo criteri di proporzionalità e progressività” con dei ritocchi che riguardano specialmente i chierici, i religiosi e i livelli più alti. Una stretta motivata “dal disavanzo che da diversi anni caratterizza la gestione economica della Santa Sede” e dalla pandemia, “che ha inciso negativamente su tutte le fonti di ricavo della Santa Sede e del Vaticano”.
Renzi non rinnega nulla: “Bin Salman è un amico, non mi dimetto, pago le tasse”
Gli va riconosciuta se non altro una certa coerenza. Matteo Renzi non arretra di un millimetro: intercettato nei pressi di Palazzo Madama dal cronista del fattoquotidiano.it Manolo Lanaro, l’ex presidente del Consiglio non rinnega “l’amico” Bin Salman, il principe ereditario saudita individuato dall’Onu e dagli Usa come responsabile del brutale omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Renzi rifarebbe tutto. Il viaggio a Riyad, l’atteggiamento complice con il “crown prince” di uno Stato autoritario, l’incarico da 80mila euro nel board del FII Institute, controllato dal fondo sovrano saudita, le parole sul “Nuovo Rinascimento” per descrivere un Paese dove si violano sistematicamente i diritti umani. Non solo lo rifarebbe, ma probabilmente lo rifarà: Renzi non ha nessuna intenzione di dimettersi dal board, né di ridimensionare – almeno finché ha incarichi pubblici – l’attività di conferenziere privato. “Non mi dimetto – ha risposto – e non sono in alcun conflitto d’interessi. Che il principe sia il mandante dell’omicidio Khashoggi lo dite voi”. Lo Stato italiano, dice, con lui ci guadagna perché i suoi ricavi se ne vanno in tasse: “Sono un contribuente fiscale netto”.
Il corpo a corpo con i giornalisti, durato una ventina di minuti, è un passo avanti dopo l’“autointervista” con cui si era fatto le domande e dato le risposte, in una delle sue ultime enews. Ma la sostanza è la stessa: in Renzi non c’è nessun pentimento, nessun passo indietro, nessuna riflessione sull’opportunità delle sue scelte. “Le mie attività – insiste – sono tutte in regola e sono compatibili con quella parlamentare, al pari dell’avvocato e dell’architetto. Finché i regolamenti permettono di fare quello che stiamo facendo, io continuo a farlo nel rispetto delle leggi”.
I tentativi di Renzi di sgonfiare la questione araba sono però vanificati da un’altra notizia di giornata: la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, ha “sbloccato” la discussione a Palazzo Madama dell’interrogazione sui viaggi in Arabia Saudita del capo di Italia Viva, presentata dal vicecapogruppo del Movimento 5 Stelle, Gianluca Ferrara. Ne dà notizia lo stesso senatore grillino, che aveva protestato per la decisione originale di Casellati di sospendere l’interrogazione. La quale è rivolta al presidente Draghi: sarà curioso vedere se il premier si concederà personalmente alla platea di Palazzo Madama per togliere dai guai uno degli eletti più illustri.