Bertolaso, Mr. DisGuido mollato anche dalla Lega

Una lite in diretta a SkyTg24 con tanto di abbandono dello studio dopo una domanda sui ritardi nella vaccinazione dei pazienti fragili. Una polemica col sindaco di Como, dopo aver definito l’hub di Muggiò (individuato e approvato dalla stessa Regione Lombardia) “un luogo che faceva semplicemente schifo”. La sparata, che ha spiazzato l’intero assessorato alla Sanità del Pirellone, che si inizieranno a vaccinare gli over 80 con AstraZeneca. E, per non farsi mancare niente, anche una polemica davanti all’ospedale di Codogno dove era andato per scusarsi dopo l’ennesimo guaio di Aria avvenuto martedì, quando 180 anziani regolarmente convocati avevano trovato l’hub chiuso (“Io sono Guido, il disguido accade. È inevitabile”, ha detto beffardo alle telecamere de ilfattoquotidiano.it). Insomma, anche ieri per il super commissario Guido Bertolaso è stata una giornata di ordinaria follia. Ma lui tira dritto: “Fatela finita di fare polemiche per principio – ha attaccato –. Sono situazioni che accadono e accadranno anche in futuro, ma noi siamo tranquilli e sereni: questa è la strada giusta”.

Eppure l’irritazione del super consulente della Regione Lombardia, chiamato a febbraio da Matteo Salvini per far partire la campagna vaccinale, è dovuta al fatto che negli ultimi giorni sia messo ai margini della giunta leghista: ormai decidono tutto la vicepresidente Letizia Moratti, il governatore Attilio Fontana e l’assessore allo Sviluppo economico vicino a Giancarlo Giorgetti, Guido Guidesi (di concordo con Salvini). Bertolaso invece viene tagliato regolarmente fuori dalle decisioni e pare che lui non fosse stato informato dell’azzeramento dei vertici di Aria decisi lunedì. È da qui che nasce lo sfogo di martedì del commissario al Corriere in cui si è definito un signor “nessuno” senza “poteri” e senza poter “firmare un pezzo di carta o spendere un euro”. Ma la questione lombarda si lega anche a quella delle Amministrative. Nel centrodestra in molti hanno notato i botta e risposta ripetuti degli ultimi giorni tra Salvini che – pubblicamente, forse per bruciarlo – chiede a Bertolaso di candidarsi a Roma e lui che, irritato, risponde picche: “Dopo la Lombardia torno a fare il nonno” ha confermato martedì. Un segnale che i rapporti tra i due ormai sono più che deteriorati. Con Fratelli d’Italia che sfrutta l’occasione per sparare su Bertolaso, notoriamente inviso a Giorgia Meloni per il Campidoglio: “In Lombardia non veniamo coinvolti nelle scelte” ripete la coordinatrice regionale Daniela Santanchè.

Ma intanto la campagna vaccinale lombarda fa acqua. La dimostrazione è arrivata ieri durante l’audizione del dg Welfare, Giovanni Pavesi, al Pirellone, che ha sfiorato il surrealismo. Per esempio, a proposito di AstraZeneca per gli anziani, Pavesi aveva appena riferito l’intenzione di somministrarlo anche agli over 65. Quando gli è stato fatto notare che Bertolaso aveva annunciato che sarebbe stato usato per gli over 80, ha dovuto abbozzare: “Se lo ha detto Bertolaso, sarà sicuramente giusto così…”. E proprio mentre ammetteva che non ci sono abbastanza dosi Pfizer e Moderna per vaccinare insieme over 80, vulnerabili e fragili, l’assessore Moratti annunciava: “Dal 6 aprile i cittadini più vulnerabili verranno contattati per fissare gli appuntamenti, che partiranno dal 15 aprile”. Con quali dosi non si sa. Così come si ignorano ancora i nominativi dei destinatari, tanto che la Regione ha chiesto all’Inps gli elenchi di quanti hanno la legge 104. Perché il Pirellone non lo sa, nonostante abbia fatto leggi regionali a loro favore…

Pavesi ha poi dovuto ammettere di non avere idea di quando potrà terminare la vaccinazione di questa categoria. E, finché l’ultimo fragile non sarà vaccinato, non partirà quella massiva. Una disorganizzazione che regna sovrana anche nella logistica, visto che il dg non ha la lista aggiornata dei centri vaccinali attivi. Su una cosa però Pavesi è stato chiaro: quando il Pirellone si vanta di aver già vaccinato il 50% degli over 80, si riferisce a quelli che si sono registrati sul portale (600.000). Ma in Lombardia gli over 80 sono 720.000. E i 120.000 mancanti? Se non si sono registrati, non esistono.

Governatori fai-da-te: Draghi rivoluzione zero

Troppe differenze tra le Regioni nella copertura vaccinale degli over 80, differenze “molto difficili da accettare”. Mario Draghi lo ripete da giorni, lo ha rimarcato anche ieri: “Mentre alcune regioni seguono le disposizioni del ministero della Salute, altre trascurano i loro anziani in favore di gruppi che vantano priorità probabilmente in base a qualche loro forza contrattuale”. La parola d’ordine del governo è: fare sistema. E quindi anche archiviare la stagione delle pagelle (promozione per chi corre, bocciatura per chi va al rallentatore), dimenticare certi disastri, come quelli che continua a inanellare la Lombardia. Ora, dice il premier, “tutte le Regioni devono attenersi alle priorità indicate dal ministero della Salute”. Ed è vero che in piena pandemia le “decisioni finali spettano al governo” ma spera comunque in una “sincera collaborazione”. Parole che arrivano mentre la commissione Sanità della conferenza delle Regioni, guidata dall’assessore alla Salute del Piemonte, Luigi Icardi, è in pieno svolgimento. Riunione fiume, fino al pomeriggio, per tentare di uniformare le procedure che ogni Regione ha adottato, facendo leva sulle proprie prerogative costituzionali (le competenze in materia di sanità). Una sorta di melting pot. Draghi e il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo vorrebbero che tutte le Regioni aderissero a una piattaforma unica di prenotazioni per le vaccinazioni, quella di Poste Italiane. Lo hanno fatto per ora Sicilia, Calabria, Marche, Abruzzo, Basilicata. Forse si accoderà la Lombardia. Ma l’elenco si ferma qui. E c’è chi ha già rifiutato, come per esempio l’Emilia-Romagna. “Se si tratta di migliorare siamo pronti, ma non vogliamo certo fare passi indietro o ricominciare da zero”, dice l’assessore emiliano alla Salute Raffaele Donini. “Abbiamo un sistema, basato su farmacie, Cup e fascicolo sanitario elettronico, che funziona – spiega Donini –. In un giorno solo ha elaborato le prenotazioni di 95 mila over 75. Non possiamo fermare una macchina che è in moto e sta viaggiando bene”. Certo, tutti sono pronti a collaborare. E quindi ben venga anche l’indicazione di Draghi di attenersi alle priorità fissate dal ministero Roberto Speranza. Ma secondo le Regioni servono due condizioni: la quantità di vaccini necessaria e una programmazione delle consegne che consenta una pianificazione. “Perché se aspetto 50 mila dosi e me ne arrivano 10 mila il problema c’è”, prosegue Donini. Nel secondo trimestre sono attese 10 milioni di dosi di AstraZeneca, 8,76 di Pfizer-BioNTech (a cui però si aggiunge una ulteriore fornitura di 16 milioni), oltre 7,3 di Johnson&Johnson, 4,65 milioni di Moderna. Per il vaccino tedesco Curevac, non ancora approvato dall’Agenzia europea del farmaco, bisognerà aspettare. E finora di dosi, tra tagli e ritardi da parte delle case farmaceutiche, ne sono state consegnate poco più di 9,9 milioni, delle quali l’84,2% già somministrate: a parte la Calabria e la Sardegna, tutte le regioni hanno una percentuale di utilizzo superiore all’80%. Gli approvvigionamenti, sulla carta, dovrebbero consentire di raggiungere 500 mila vaccinazioni al giorno entro il 14 aprile. Obiettivo che appare, invece, ancora lontano. Il tema vero è quello degli over 80, vale a dire le persone più esposte al rischio di sviluppare la malattia in forma grave o mortale. Ed è qui che entrano in gioco le scelte fatte da alcune Regioni, che tra le categorie prioritarie (come riportato nei giorni scorsi dal Fatto) hanno inserito, su pressione degli ordini professionali, avvocati, giornalisti, psicologi, farmacisti, biologi, veterinari liberi professionisti. Finora gli anziani a cui è stato somministrato il vaccino sono poco più di 2,5 milioni, su un totale di oltre 8,3 inoculazioni ricevute anche da operatori sanitari e sociosanitari, ospiti di case di riposo, forze dell’ordine, personale scolastico e universitario. Tutte categorie prioritarie. Poi ce n’è un’altra, però. Si chiama “altro”. E qui figurano 950.375 persone.

Dosi, Regioni e hotspot: l’accelerazione che non c’è

Adistanza di tre mesi dall’avvio della vaccinazione in Italia, la Protezione civile rilancia l’ipotesi degli “hotspot” in ogni città. In un’intervista al Corriere della Sera, il capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio, ha proposto di allestirli in ogni città. La cosa curiosa è che quando ne descrive le caratteristiche basilari, queste assomigliano incredibilmente ai famigerati padiglioni dell’ex commissario all’emergenza Domenico Arcuri, le famose Primule. Anche quelli avrebbero dovuto avere “l’accettazione e punto informativo all’ingresso, sala d’attesa secondo la normativa vigente per la permanenza delle persone in luoghi chiusi; sala d’attesa post-vaccino con una permanenza di 15 minuti; sala d’attesa per eventuali reazioni avverse; servizi igienici” etc.

La Protezione civile nega decisamente di voler costruire delle tensostrutture e pensa invece a “palestre, palazzetti, centri fieristici” come ad esempio il Centro congressi “La Nuvola” a Roma.

Restano però delle analogie. Da un lato, l’esigenza di inviare degli input centrali, dall’altro il problema delle Regioni a cui comunque, assicura ancora la Protezione, viene demandata qualsiasi operatività. E così si continua ad andare avanti con gli stessi problemi di prima: le Regioni non ce la fanno, alcune vanno alla grande, come il Lazio, altre come la Lombardia sono imbarazzanti. Si chiede loro di cambiare ritmo, di darsi da fare, di modificare le priorità, ma le decisioni sono lente e gli appelli, come quello di Mario Draghi lanciato di nuovo ieri, rischiano di perdersi nel vuoto. Se si guardano le cose dal punto di vista strutturale, senza soffermarsi sulle campagne mirate su singole persone ci si accorge di limiti profondi che riguardano non solo l’Italia, ma la gran parte dei Paesi occidentali. Come giudicare altrimenti il fatto clamoroso di una Germania che proclama il lockdown e che il giorno dopo dice “scusate, abbiamo sbagliato”? Cosa sarebbe accaduto se un simile errore l’avesse fatto il governo Conte?

I problemi riguardano il rapporto Stato-Regioni, la solidità malconcia del sistema sanitario nazionale, i reparti dello Stato che non sono oliati da tempo e che certamente non sono allenati a fronteggiare gravi emergenze come la pandemia. Del resto, la struttura militare di Figliuolo ancora oggi si sente costantemente con gli uomini di Invitalia per avere support0.

Se la si guarda con un occhio meno ideologico, si può notare che l’ultimo giorno in cui l’emergenza è stata gestita da Invitalia, il 5 marzo (giorno del passaggio di consegne con il generale Figliuolo) le vaccinazioni sono state 201.156, qualche giorno dopo, il 10 marzo, quando Arcuri nella fase di assestamento della struttura militare gestiva ancora la campagna, erano 208.436 e che il 23 marzo, l’altroieri, erano ancora 210.480. L’accelerazione, se c’è stata, riguarda tutto il periodo vaccinale.

Basta guardare la tabella del Sole 24 Ore, da cui abbiamo preso i dati, per cogliere l’impennata della curva che è costante dal 2 gennaio quando le vaccinazioni erano poco più di 38 mila al giorno: un mese dopo, il 2 febbraio, sono già 87 mila con un balzo del +127%, il 2 marzo sono 159 mila (+ 82%) e al 23 marzo sono 210 mila (+32%). L’accelerazione più bassa è coincisa con il nuovo governo.

Pensare di risolvere queste strozzature di base a colpi di annunci serve solo a creare l’illusione dei “migliori”. Curcio, ad esempio, ha parlato ieri di ruolo strategico delle farmacie e dei 42 mila medici di base. Ma secondo le Faq dell’Agenzia italiana per il farmaco, la vaccinazione può essere effettuata “da medici e infermieri dei servizi vaccinali pubblici, persone che da tempo praticano vaccinazioni e sono esperte nelle tecniche di vaccinazione”.

Non basta quindi andare dal farmacista, che infatti, se interpellato, pone i problemi che risultano evidenti dalla normativa.

Quanto ai medici di base, sono certamente abilitati, e infatti hanno iniziato a occuparsene, ma la fornitura di vaccini a loro disposizione appare a volte ridicola: ci sono casi in cui studi medici hanno dichiarato di poter iniettare un vaccino al giorno a fronte di un’utenza di circa mille pazienti. Se la guardiamo sul serio, è di questo che parliamo.

 

B. ricoverato: dall’uveite alla “Spinellite”, diserta l’udienza del Ruby ter

Prima di tutto la salute. E sulla salute non si scherza. Silvio Berlusconi negli ultimi mesi ha avuto più d’un problema medico, il Covid, il ricovero al San Raffaele per infezione da coronavirus, poi la degenza all’ospedale di Monaco per disturbi cardiaci. Ieri era di nuovo al San Raffaele di Milano. È stato il suo avvocato, Federico Cecconi, a spiegarlo davanti ai giudici che lo devono giudicare, insieme a 28 suoi coimputati, per corruzione giudiziaria nel processo Ruby 3. “Voglio dare atto a verbale che Berlusconi per problematiche di salute è da lunedì mattina ospedalizzato”, dice Cecconi nella grande aula approntata causa Covid nei padiglioni della Fiera di Milano. Ma il difensore ha “deciso di non avanzare istanza di legittimo impedimento”, dunque il processo è proseguito comunque. E nel pomeriggio, a udienza conclusa, il paziente è stato per fortuna dimesso dall’ospedale.

È la difesa a collegare salute e processi, con Cecconi che a fine gennaio dice in aula che è in corso “una sorta di monitoraggio processuale delle condizioni di salute” di Berlusconi. Di udienza in udienza. Ieri mattina, Silvio avrebbe dovuto incontrare in aula un suo fedele dipendente, il ragionier Giuseppe Spinelli, il cassiere personale, il suo portafoglio umano, quello che gli allunga i soldini di cui ha bisogno. E che allungava buste gialline gonfie di banconote da 500 euro a Karima El Mahroug detta Ruby e alle decine di ragazze che affollavano le feste del bunga-bunga ad Arcore. L’incontro non c’è stato. Assente Berlusconi, assente anche il ragionier Spinelli, che ha presentato, lui sì, istanza di legittimo impedimento, chiedendo che la sua testimonianza sia rimandata a una prossima udienza. L’incontro Spinelli-Berlusconi davanti ai giudici non riesce mai a verificarsi. Una volta era l’uveite a tenere lontano Silvio dal processo Ruby. Era l’8 marzo 2013, quando gli occhialoni neri, l’infezione agli occhi, la diagnosi di uveite e il ricovero al reparto D del San Raffaele erano serviti a Silvio per saltare le udienze del primo processo Ruby. Allora i giudici del Tribunale non erano stati teneri e avevano disposto una visita fiscale, che aveva scatenato la più clamorosa delle proteste mai viste a Palazzo di giustizia, con decine di parlamentari che avevano marciato sul Tribunale, avevano tentato di occupare l’aula del processo, fatta però sigillare dal pm Ilda Boccassini, e poi erano sostati a lungo, a favor di telecamera, sulla scalinata davanti al Palazzo. Guarita l’uveite, scatta la spinellite. Silvio e il suo portafoglio non si devono incrociare in aula. Vedremo che cosa succederà nelle prossime udienze e se lo storico incontro finalmente ci sarà. L’ultimo anno è stato duro per tutti, anche per Silvio Berlusconi. Il 9 febbraio 2021, si era mostrato in gran forma a Palazzo Chigi, all’incontro con l’allora presidente incaricato Mario Draghi alle prese con le consultazioni per formare il nuovo governo. Ma è stato un attimo: pochi giorni dopo, sono tornati a prevalere i problemi di salute.

Il 14 gennaio, convocato dalla Procura di Roma per essere sentito come persona informata sui fatti (indagine sull’audio registrato ad Arcore del giudice Amedeo Franco), l’ex presidente del Consiglio non si era potuto presentare perché ricoverato nel Principato di Monaco per aritmia cardiaca. Quello stesso giorno era stato convocato anche a Siena, dove è in corso uno dei tre tronconi del processo Ruby 3. Anche lì era arrivata un’istanza dei legali di Berlusconi che avevano presentato richiesta di legittimo impedimento. Il processo era stato bloccato. Per fortuna, il paziente era stato felicemente dimesso dall’ospedale 24 ore dopo ed era tornato nella sua villa in Costa Azzurra. Poi, il 27 gennaio, il legale dell’ex presidente del Consiglio aveva depositato certificazione medica nella quale diceva ai giudici che il leader di Forza Italia, dopo il Covid e il ricovero per problemi cardiaci, aveva bisogno di “riposo assoluto”. Pandemia e aritmia stanno costringendo Silvio a stare lontano dai tribunali. Ieri è scattata anche la spinellite.

 

Le Camere litigano: Salvini (per ora) si tiene il Copasir

Dopo più di un mese dalla formazione del governo Draghi, non si sblocca la partita della presidenza del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che esercita il controllo sull’operato dei servizi segreti. Secondo la legge 124 del 2007, il suo presidente e metà dei componenti (5 su 10) spettano all’opposizione e quindi a Fratelli d’Italia, ma Matteo Salvini non vuole lasciare la poltrona su cui oggi siede il leghista Raffaele Volpi. Per sbrogliare la situazione, nei giorni scorsi i presidenti delle Camere Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati si sono incontrati, ma non sono arrivati a una soluzione.

Fico è per la continuità di Volpi a Palazzo San Macuto in base al precedente del 2011, governo Monti, quando l’allora presidente del Copasir Massimo D’Alema rimase al suo posto nonostante spettasse alla Lega, mentre Casellati ritiene giusto dare la presidenza a Adolfo Urso di FdI. Nel caso di D’Alema però, ricorda Giorgia Meloni, c’era l’accordo di tutti i partiti di maggioranza e opposizione mentre oggi non è così. La presidente del Senato nei giorni scorsi ha ricevuto un drappello di parlamentari di FdI che le hanno chiesto di agire in fretta. E alla fine Casellati si sarebbe convinta di sbloccare la situazione il prima possibile accontentando il partito di Meloni. Quando l’ha saputo, Matteo Salvini è andato su tutte le furie visto che, in teoria, Casellati è molto più vicina alle istanze della Lega rispetto a Fico e visto che nel 2018 fu proprio Salvini a far eleggere la berlusconiana a seconda carica dello Stato. Nei prossimi giorni i partiti di maggioranza saranno convocati per trovare una mediazione che potrebbe essere questa, come suggeriscono diversi giuristi: a FdI andrà la presidenza ma non tutti e 5 i componenti del Copasir. “D’altronde sarebbe strano che un partito che ha una forza parlamentare che vale il 5% abbia il 50% del Copasir – dice un componente del comitato – si violerebbe il principio della proporzionalità delle commissioni”.

Meloni da settimane rivendica quella poltrona per sé ma sul Copasir è in atto uno scontro interno al centrodestra. Salvini non vuole mollare perché quella poltrona ha un ruolo fondamentale sul controllo dei servizi e come asset geopolitico, ma anche perché cambiare il presidente del Copasir avrebbe un effetto domino: tornerebbero in gioco le altre presidenze delle commissioni di Garanzia tra cui la Giunta per le Autorizzazioni del Senato (oggi presieduta da Maurizio Gasparri) dove passano anche i processi del leader leghista.

 

Il condono sgonfia Draghi, l’ex premier il più apprezzato

Il consenso del governo Draghi, complice la recente approvazione del condono, si sgonfia. Spianando la strada a Giuseppe Conte, nettamente il leader più amato dagli italiani nonostante sia rimasto vittima del ribaltone a Palazzo Chigi.

Questo dicono i sondaggi annunciati due sere fa da Nando Pagnoncelli a Dimartedì, su La7, a conferma di una tendenza che pareva già manifestarsi nell’ultimo paio di settimane.

I dati, allora. La prima rilevazione è sul gradimento di Mario Draghi, che convince il 48 per cento degli italiani, con il 28 per cento che si dice “deluso” e un italiano su quattro che non esprime un’opinione. Negativi i giudizi sul condono appena approvato: il 40 per cento degli intervistati lo reputa una “ingiustizia”, contro il 34 che invece ritiene sia “accettabile”. Più nel dettaglio, il 35 per cento lo riterrebbe ricevibile se si restituisse l’equivalente della quota condonata a chi ha pagato tutte le tasse, mentre un 27 per cento lo reputa “sempre inaccettabile” e solo il 17 considera il condono giustificabile in ogni caso.

Nella classifica sul consenso dei leader, poi, domina Giuseppe Conte, davanti a tutti col 61 per cento di gradimento. Il secondo, Roberto Speranza, è lontano di 20 punti, mentre Giorgia Meloni si ferma al 37 per cento e Matteo Salvini al 32. Il neo segretario dem Enrico Letta debutta anche lui al 32 per cento, mentre ultimo in graduatoria c’è ancora Matteo Renzi, immobile al 12 per cento.

Un quadro condizionato, come ovvio, dalla gestione della pandemia e dall’atteggiamento dei leader nei confronti dell’emergenza. Non a caso ieri Dagospia dava conto di un clamoroso sondaggio commissionato da Forza Italia in Lombardia che vedrebbe la Lega perdere il 7 per cento dei consensi nella sua Regione, dove governa con Attilio Fontana e dove la giunta è sotto accusa per i disastri nella gestione vaccinale.

Marcucci via, ma vuole vendicarsi

“Ho già comunicato la mia scelta a Enrico Letta: chiederò al gruppo di votare Simona Malpezzi”. La resistenza di Andrea Marcucci termina ieri alle 14 e 30. Con una conferenza stampa in cui il capogruppo del Pd al Senato alla fine si arrende. Al segretario del Pd e ai suoi capicorrente, Lorenzo Guerini e Luca Lotti. Il primo ha lavorato perché Base Riformista arginasse la battaglia di Marcucci. Il secondo ha ricevuto una sorta di agibilità politica in un incontro con Letta.

È con orgoglio che Marcucci rivendica il lavoro fatto, non rinnega l’amicizia con Matteo Renzi (“un vanto”), ma definisce “calunnie” le accuse ricevute in questi giorni di lavorare per chi non è più nel Pd. Nega scambi: “Non sono interessato ad entrare al governo”. E poi accompagna il segretario all’incontro con la presidente del Senato, Casellati. Un modo per ribadire che i dem non possono fare a meno di lui. Tanto è vero che è lui che indica il successore. C’era in lizza anche Roberta Pinotti (Area dem), ma Br conta 22 senatori su 35: abbastanza per decidere chi guiderà il gruppo. La Malpezzi, comunque, fa parte dell’area più moderata quella gueriniana. E negli ultimi anni si è costruita un profilo di mediatrice, grazie anche all’esperienza di governo come sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento.

Va detto che Marcucci non smetterà di agitare le acque. Ieri a chi l’ha incontrato, continuava a ripetere: “Ora partono le vendette”. Come dire, Letta si può giocare il fatto di essere appena arrivato, ma il Senato non sarà mai terreno facile per lui. Tanto è vero che il capogruppo uscente rilancia: “Ci vuole coerenza, voglio vedere i candidati sindaci alle Amministrative, mi auguro che anche lì ci siano tante candidate e che non ci sia un veto a una segretaria donna. Ci siamo andati vicini all’ultima assemblea e avevo dato il consenso. Sono circolati i nomi di Roberta Pinotti, Anna Finocchiaro, Valeria Fedeli”. Di più: “Bisogna riflettere sulla delegazione al governo, non è che con i capogruppo si risolve il problema che al governo non c’è un ministro donna”. Minacce e velati avvertimenti. Com’è toccato a lui, può toccare a un altro.

Dunque stamattina i dem voteranno all’unanimità la Malpezzi. Alla Camera parte favorita Deborah Serracchiani, vicina a Dario Franceschini, ma fortemente voluta dall’uscente, Graziano Delrio. Si starebbe lavorando a un accordo perché, nel caso di sua elezione, la Commissione Lavoro che presiede resti in mano al Pd.

L’alternativa è Marianna Madia, che ha dalla sua anche il fatto che Letta la vedrebbe di buon occhio in quella posizione. Viceversa, non ha una corrente. Non è mai facile guidare un gruppo in questa condizione. Appuntamento fissato per oggi. Se tutto va come deve andare, l’obiettivo di sostituire i vertici dei gruppi sarà stato raggiunto.

Il cantiere di Conte e Letta: pregiudiziale 5S su Renzi

I due leader che sono l’ultima carta dei giallorosa hanno voglia e bisogno di vittorie, altrimenti salutoni alla coalizione. Magari è per questo che nella foto per il primo incontro Enrico Letta e Giuseppe Conte si fanno ritrarre con una cartina geografica alle loro spalle, la stessa che faceva da sfondo nel video della discesa in campo di Letta: quasi sognassero piani di conquista, o almeno un respiro internazionale per i loro progetti. Ma l’Italia della politica non sta dentro un po’ di carta, e la realtà parla di un’alleanza da (ri)costruire. “Si apre un cantiere” riassume Conte dopo il colloquio mattutino di un’ora con il segretario dem nella sede romana di Arel, la fondazione creata da Beniamino Andreatta, il padre politico di Letta.

Cominciano un percorso “tra interlocutori privilegiati” come i due ex premier definiscono Pd e M5S. “Un primo faccia a faccia, molto positivo, tra due ex che si sono entrambi buttati in una nuova affascinante avventura” celebra il segretario dem su Twitter. E dal Pd raccontano che Conte e Letta “si parlano regolarmente già da due anni”. Può aiutare, visto che dovranno coordinarsi spesso e in fretta. C’è un tavolo da aprire per le prossime Comunali, dove i giallorosa dovranno cercare accordi per essere davvero una coalizione. E il tema dell’incontro è innanzitutto quello, come farà capire poi Conte: “Chi va da solo è meno efficace e, a partire dalle prossime Amministrative, c’è la volontà di confrontarci per trovare soluzioni più efficaci”. Ma bisogna partire quasi da zero. E i due se lo dicono, consci che a Roma l’intesa potrà essere solo per il ballottaggio. Al primo turno i 5Stelle dovranno sostenere la sindaca uscente Virginia Raggi, blindata più volte da Beppe Grillo, popolarissima nella base del M5S. Intoccabile, anche per Conte, che con il Campidoglio non ha contatti da tempo.

Invece Letta deve capire chi candidare per il Pd. Roberto Gualtieri è pronto, ma il segretario e molti big hanno dubbi. Così rimane forte la spinta sul governatore del Lazio ed ex segretario Nicola Zingaretti, che per ora continua a dire no. Ma tutte le città sono un rebus. Si pensi a Napoli, dove il presidente della Camera, il grillino doc Roberto Fico, vuole fortissimamente correre. Il governatore dem De Luca fa muro. Però Fico, giurano fonti qualificate, non si preoccupa troppo: “L’importante è che il Pd locale non escluda De Luca e lo coinvolga nel progetto”. Però non sarà facile trovare la quadra. A Torino invece l’arrivo di Letta potrebbe favorire la convergenza su un candidato comune deglutibile per i grillini, il rettore del Politecnico di Torino Guido Saracco: ma a livello locale dem e 5Stelle sono ancora lontani. Per questo, Conte e il dem si vedranno periodicamente per costruire le candidature. Ma il prossimo capo del M5S pone un paletto: “Matteo Renzi non rientra nella nostra idea di coalizione”. Non lui, che ha fatto cadere il Conte II e che spodestò da Palazzo Chigi Letta. Ma nel colloquio si parla anche di legge elettorale, con il dem che spinge per il Mattarellum, sistema maggioritario che obbligherebbe Pd e M5S ad allearsi nei collegi. Soprattutto, ricorda, non vuole le liste bloccate.

E si discute poi di riforme: ossia del diritto di voto ai 16enni e del disegno di legge per consentire ai 18enni di votare per il Senato. “Sto lavorando a un progetto per rilanciare il Movimento” ricorda Conte uscendo. Un piano su cui aggiorna solo Beppe Grillo e il reggente Vito Crimi. La stragrande maggioranza del M5S non ne sa nulla. “Non risponde a nessuno” si lamentano due big. Un malessere che l’ex premier vuole placare con una serie di incontri con tutti gli eletti, in cui illustrerà il suo piano di rifondazione. Consultazioni interne, insomma.

Figli in dad, i congedi non ci sono

Scuole chiuse e famiglie esasperate. A quasi due settimane dal decreto che ha previsto i congedi Covid e il bonus baby sitter, le misure non sono ancora attive: mancano le circolari dell’Inps. L’istituto sta adattando tutte le procedure amministrative e, soprattutto, informatiche per tracciare le nuove categorie e le varie incompatibilità del nuovo decreto. E le polemiche sulla loro attuazione non si placano con i genitori costretti ad andare in ufficio o spediti a casa in smart working a vigilare sui figli in dad.

Riavvolgiamo il nastro. Il passaggio in rosso di oltre la metà delle Regioni si è tradotto nella didattica a distanza per 7 milioni di studenti, compresi anche i piccolissimi di asili e materne. Il governo è stato quindi costretto a fare presto, come piace tanto dire ai politici, per approvare un decreto ad hoc che prevedesse le misure a sostegno dei genitori scadute il 31 dicembre. Così, venerdì 12 marzo, spacchettati dal dl Sostegni, sono stati annunciati in pompa magna il bonus baby sitter (100 euro settimanali destinati a partite Iva, autonomi, lavoratori sanitari, forze dell’ordine) e i congedi parentali Covid (retribuiti al 50% dello stipendio per chi ha figli minori di 14 anni e non retribuiti per chi ha figli tra 14 e 16 anni). Peccato che si tratta di interventi di sostegno limitati, con effetti paradossali.

A poter richiedere il congedo sono, infatti, solo i genitori che non possono svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile. In altre parole, la maggior parte dei lavoratori dipendenti. Anche se non ci sono dati ufficiali, lo smart working è diventata la modalità prevalente di lavoro nelle grandi imprese, nella scuola, nella pubblica amministrazione e, in special modo, tra le impiegate.

Il decreto ha, quindi, sentenziato che i genitori che lavorano a casa in smart working debbano anche occuparsi dei figli under 14 in dad anche se è altrettanto evidente che le due misure, il congedo e il lavoro agile, non possano essere considerate alternative poiché il lavorare da casa rende, comunque, incompatibile la cura e l’assistenza ai figli che studiano a casa, soprattutto se sono piccoli. Anche sul fronte del bonus baby sitter le accuse non mancano: sono soldi che coprono a malapena dieci ore di servizio, equivalenti per gran parte dei genitori a una sola giornata lavorativa. A oggi mancano le circolari attuative dell’Inps che dovrebbero regolarne il funzionamento e l’erogazione dei benefici. L’Inps dal canto suo spiega che i genitori che hanno requisiti (chi, quindi, non può fare smart working), possono accedere ai congedi informando il proprio datore di lavoro che poi regolarizzerà la domanda sul portale dell’Inps, con valore retroattivo. Sempre che il datore voglia anticipare il 50% dello stipendio al dipendente.

Il re è nudo e va in palestra. Così si aggira la zona rossa

Il re è nudo, ma se non lo fosse indosserebbe una tuta. Zone rosse, scuole chiuse, restrizioni per ristoranti e bar. Un’economia quasi ferma e tante persone che rispettano le misure imposte dal governo per contenere i contagi. Eppure, come sempre accade, c’è chi ha trovato il modo di aggirare le regole. Non una tantum: quasi tutti conoscono qualcuno che nonostante le limitazioni riesce ad andare in palestra o ad allenarsi, diventato improvvisamente “agonista”. Ed è molto più facile di quanto si creda.

“Queste sono le mie allieve, che da ottobre a oggi stanno studiando danza nelle loro camere”. Licia, nome di fantasia, mostra le foto e i video delle sue piccole studentesse di danza sui social. “Ci sono stati molti escamotage per altre realtà (diverse dalla nostra) per riaprire, ma non per me, non per la nostra scuola, non per loro. Un sistema di ingiustizie che decide che le associazioni sportive dilettantistiche (Asd o Assd, ndr) possono avere agonisti e le scuole di danza no. Agonisti perché hanno un certificato medico sportivo con scritto “agonista” e possono allenarsi in presenza. Noi no. Ci sono realtà come la mia che allena allievi da anni per far si che possano essere futuri danzatori. Ma noi non possiamo farli allenare in presenza. Perché? Domande a cui non mi do risposte da mesi con i ragazzi che mi chiedono come mai alcuni si e altri no e io che non so cosa rispondergli”.

Abbiamo contattato dieci diverse palestre in ogni parte d’Italia, partendo dagli annunci messi sui canali online: Facebook, contatti telefonici, chat. “Ciao! Mi hanno mandato il tuo post sulla riapertura della sala attrezzi. È possibile iscriversi?” chiediamo. “Ciao! sì, ma bisogna consegnare certificato agonistico PESISTICA” è la risposta istantanea. Chiediamo come funzioni: “Bisogna fare l’iscrizione, 29 euro€ l’anno che servirà insieme al certificato per avere il nulla osta. Poi la mensilità è di 39 euro”. Lo possono fare tutti, ci spiegano. Basta andare dal medico sportivo e pagare. La struttura sportiva, affiliata a una federazione riconosciuta farà risultare l’iscrizione a una gara riconosciuta di “preminente interesse nazionale” che però poi si può anche evitare di disputare. “Si accede normalmente o con ingressi contingentati?” chiediamo. “Normalmente. La palestra è grande, poi se la clientela agonistica aumenta faremo ingresso contingentato”. I messaggi e le risposte sono le stesse per qualsiasi altro caso. Basket, karate. Addirittura pilates. Ci arriva un video su Whatsapp. “Riapriamo – scrive una palestra che tiene corsi – basterà portare alla prima lezione il certificato medico sportivo per attività agonistica. Per venire incontro a questa esigenza abbiamo avviato una convenzione con un medico sportivo che a seguito della visita rilascerà il certificato medico. L’attività agonistica prevede l’iscrizione a una delle gare organizzate dal Coni, ma di questo parleremo da vicino”.

Le recenti norme, infatti, prevedono che le attività di palestre, piscine, centri natatori, centri benessere e centri termali sono sospesi, fatta eccezione per l’erogazione delle prestazioni rientranti nei livelli essenziali di assistenza per le attività riabilitative o terapeutiche e per gli allenamenti degli atleti, professionisti e non professionisti, che devono partecipare a competizioni ed eventi riconosciuti come di rilevanza nazionale con apposito provvedimento.

E negli ultimi mesi il riconoscimento da parte del Coni è stato massiccio. A novembre sono state riconosciute tali tutte le competizioni e gli eventi del Csi, il Centro Sportivo Italiano, mentre le federazioni inviano continue richieste per far riconoscere come tali i campionati delle varie serie. Per la Fip, la federazione di pallacanestro, ad esempio sono stati riconosciuti tutti i tornei senior e quelli giovanili. Si svolgeranno anche le “Yoghiadi” e riprenderà anche il campionato di Eccellenza. “Un certificato medico per attività agonistica, a Roma prima del lockdown, costava circa 50 euro€ sotto i 40 anni e 80€ sopra i 40 anni. Oggi ti rilasciano un certificato per attività agonistica anche a 25€euro, non ho mai visto in 30 anni di attività tante competizioni di interesse nazionale e tanti agonisti allo sbaraglio”: Stefano ha una palestra ma ha deciso di rispettare le norme. “Non è la soluzione e non voglio applicare questo tentativo estremo di aggirare la legge per poter lavorare”.