Merkel revoca lockdown e si scusa: “Ho sbagliato”

“Èstato un errore e gli errori vanno corretti in tempo. Questo è ancora possibile. Me ne assumo la responsabilità”. A capo chino, Angela Merkel ha chiesto perdono ai suoi cittadini con la giacca gialla, un’espressione greve in volto e parole precise, che ha scandito per fare una plateale e subitanea marcia indietro sulla proposta di lockdown totale per le vacanze pasquali e di prolungamento delle misure fino al 18 aprile.

In seguito a dure critiche della stampa, rumorosa frustrazione e rabbiose proteste della popolazione per la decisione di far trascorrere la Pasqua tedesca a saracinesche abbassate – comprese quelle dei supermercati –, la Merkel ha fatto dietrofront prima di una riunione d’emergenza indetta con i leader delle 16 regioni. Al suo sedicesimo anno di governo, la Cancelliera ha chiesto scusa mentre si fa sempre più alta la terza ondata del virus che copre l’orizzonte, dove nessuno intravede più le sei milioni di dosi di vaccino promesse per concludere una campagna vaccinale che avrebbe dovuto essere finita, secondo quanto dichiarato, a fine estate.

Il progetto di lockdown non era comunque “realizzabile in poco tempo”, è stata “una scelta sbagliata” compiuta comunque in nome di “buone ragioni: cioè frenare la terza ondata e far calare la curva dei contagi”. Un documento ufficiale del Bundestag qualche giorno fa informava: “Senza restrizioni significative, il numero di nuove infezioni aumenterà al punto che il sistema sanitario rischierà il collasso, necessarie azioni forti”. Con oltre due milioni e mezzo di infetti e almeno 75 mila decessi per Covid-19, la Germania – che ha riaperto le scuole a metà febbraio e parrucchieri e negozi a marzo –, arranca registrando ogni giorno 13 mila nuovi casi.

“Senza piano, senza idee, senza coraggio” secondo le parole del quotidiano Bild. “Senza piano, senza fantasia” secondo Die Welt. Come le fiale del vaccino che può fermare la pandemia, mancano autorità competenti per l’organizzazione della campagna vaccinale iniziata prima dello scorso Natale, digitalizzazione del processo di inserimento nelle liste per ricevere le dosi, approvvigionamenti di fiale. “Si ha la nauseante sensazione di vivere in un Paese rotto”, in una nazione “ritardataria” che insegue gli altri Stati, ha scritto invece Der Spiegel, giornale che ha inflitto un colpo più profondo degli altri elencando la lista di promesse politiche infrante. “La nuova incompetenza tedesca” è il titolo di una copertina: “La Repubblica rivela una debolezza sistemica, la pazienza dei cittadini è al limite”. Se la Merkel perde, la coalizione Cdu-Csu precipita: dopo “lo scandalo delle mascherine” che ha visto coinvolti i membri del partito della Cancelliera, secondo i sondaggi, sono tre i punti persi e il consenso tra i cittadini è sceso al 26%, pericolosamente vicino a quel 22% detenuto dai Verdi. L’incapacità non è ormai più solo sanitaria, ma quella endemica di uno “Stato disfunzionale”, figlio di un governo “passivo e stanco”. I “discorsi melodrammatici” della Merkel, conclude il giornale, “sembrano appelli preoccupati di una nonna che chiede ai nipoti se hanno i vestiti caldi”.

“AstraZeneca, le fiale di Anagni per il Belgio”. Ue tratta con Uk e Usa

Il sospetto del commissario Ue Thierry Breton era che ad Anagni (Frosinone), nello stabilimento della Catalent che si occupa di infialare il vaccino AstraZeneca, ci fossero 29 milioni di dosi in parte destinati a Paesi extra-Ue. Forse al Regno Unito, che si è accaparrato milioni di dosi anche prodotte (ben 10 milioni) nell’Unione europea, alla quale invece AstraZeneca non ha ancora consegnato le 30 milioni di dosi previste per il primo trimestre, che sono già un terzo di quelle inizialmente pattuite. Questa l’ipotesi consegnata da fonti della Commissione Ue a La Stampa, che ne ha scritto ieri mattina.

Breton, sabato, ha chiamato Mario Draghi, che a sua volta ha avvertito il ministro della Salute Roberto Speranza il quale ha mandato i carabinieri del Nas ad Anagni. Tra sabato e domenica, i carabinieri hanno ispezionato l’impianto: le dosi c’erano, precisamente 29.294.700, ma secondo la documentazione consultata erano destinate allo stabilimento AstraZeneca di Saneffe, in Belgio, che gestisce la logistica e le spedizioni dei lotti in Europa e a quello di Leida, Paesi Bassi, dal quale partono i lotti destinati altrove. Nessun provvedimento è stato adottato. Anche Draghi ha confermato che “due lotti” stoccati ad Anagni sono “partiti” per il Belgio. “Dove andranno da lì non lo so”.

Quando la notizia aveva fatto il giro del mondo, l’azienda anglo-svedese ha comunicato che “al momento non sono previste esportazioni oltre ai Paesi Covax”, Paesi cioè “a basso e medio reddito” per i quali “l’Ue sostiene pienamente la fornitura” secondo gli accordi con l’Organizzazione mondiale della sanità. Nell’impianto italiano “ci sono 13 milioni di dosi di vaccino in attesa di rilascio del controllo qualità per essere inviate a Covax” scrive ancora AstraZeneca, ricordando che “il vaccino è stato prodotto al di fuori dell’Ue.” Sempre alla Catalent, prosegue la nota, ci sono “altri 16 milioni di dosi di vaccino in attesa del rilascio del controllo di qualità e destinate all’Europa. Quasi 10 milioni di dosi saranno consegnate ai Paesi dell’Ue durante l’ultima settimana di marzo, il saldo ad aprile“: all’Italia, su 16 milioni, ne toccherebbero oltre 2 milioni. Così AstraZeneca intendeva “chiarire alcune dichiarazioni inesatte relative alle dosi di vaccino nello stabilimento di Anagni”, che “non è corretto – sostiene – descrivere come una scorta.” A Pratica di Mare (Roma) nel frattempo ne sono arrivate dal Belgio 270 mila dosi. È certamente “paradossale”, come ha osservato l’assessore alla Salute della Regione Lazio, Alessio D’Amato, ma funziona così: i vaccini infialati nel nostro Paese ripassano da Saneffe anche per ritornare qui.

Il caso sembra chiuso, almeno in Italia. Non si ripete il blocco disposto su richiesta italiana qualche settimana fa per 250 mila dosi destinate all’Australia. Se la vedranno in Belgio e nei Paesi Bassi. La Commissione europea e il governo italiano vogliono far sentire il fiato sul collo all’azienda, la sorveglianza continua come conferma lo stesso Draghi. La tensione resta alta per le ripetute inadempienze a cui AstraZeneca promette di rimediare. Anche se nei contratti firmati dall’esecutivo Ue, conviene sempre ripeterlo, mancano adeguate penali a carico dei fornitori per le consegne tardive. Per le esportazioni, anche verso i Paesi Covax, serve l’autorizzazione. Il principio-guida nei rapporti con gli altri, per la Commissione, è la “reciprocità”. Non è ammissibile, ha detto ieri il commissario al Mercato esterno Breton, che in Gran Bretagna siano arrivate 10,9 milioni di dosi prodotte nell’Ue (soprattutto Pfizer/Biontech uscite dagli impianti di Puurs, sempre in Belgio) e zero abbiano attraversato la Manica in senso opposto. Fonti della Commissione sottolineano la “mancanza di trasparenza” da parte di AstraZeneca su “quante dosi” sono state prodotte, “dove” e “da chi”. Ma un accordo per un’ulteriore stretta dopo quella di febbraio, anche senza arrivare al blocco dell’export, tra i 27 non c’è: Belgio, Paesi Bassi, Irlanda e altri non concordano sulla linea dura di Francia, Germania e Italia. Dopo giorni di tensione si profila un accordo con Londra. E si punta sull’aiuto che l’America di Joe Biden potrà dare all’Ue.

Draghi alla prova dei vaccini. L’Europa (divisa) chiama Biden

Insiste sul “pragmatismo europeo” in tema di vaccini, Mario Draghi, intervenendo in Parlamento in vista del Consiglio europeo. Perché l’arrivo delle dosi sufficienti è tutt’altro che garantito, i Paesi dell’Unione procedono in ordine sparso su temi cruciali, come il blocco dell’export, mentre a livello geopolitico il pressing degli Usa sul Vecchio continente rischia di essere un ulteriore elemento di complicazione. Per Draghi, evidentemente, l’obiettivo resta quello di ottenere il più ampio numero di sieri possibile. Ma il Consiglio europeo di oggi e di domani si appresta a essere un passaggio interlocutorio. Rispetto degli accordi da parte delle multinazionali, sanzioni se questi accordi non sono rispettati, pronta sostituzione dei sieri mancanti con quelli di un’altra azienda, sono i tre pilastri della strategia italiana. Intanto, però, si moltiplicano le variabili. La prima è la notizia di 29 milioni di dosi di Astrazeneca ferme ad Anagni, mentre la campagna vaccinale in tutta Europa arranca. Un segnale quantomeno inquietante. La seconda è la difficoltà sempre più plastica di Angela Merkel (e di conseguenza della Germania), che ieri annunciava di aver cambiato idea sul lockdown di Pasqua.

“Vorrei esprimere forte soddisfazione per la partecipazione del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, a un segmento del Consiglio europeo”, esordisce Draghi nel primo intervento di ieri, quello del Senato, ribadendo un atlantismo che non è in discussione. Eppure, la presenza di Biden oggi pomeriggio alla video conferenza dei leader europei, pone più di un problema all’ipotesi di “fare da soli”, che resta sul tavolo. Espressa venerdì sia dalla Merkel sia dallo stesso Draghi sullo Sputnik. Per esempio. Senza contare che il governo tedesco ha chiesto alla Commissione europea di intavolare dei colloqui tra gli Stati membri per ipotizzare un contratto con i russi per la fornitura del loro siero, quando sarà autorizzato dall’Ema. Ma non è all’ordine del giorno. Sarà l’esito del Consiglio, ragionano a Palazzo Chigi, che potrà far ragionare anche su questo.

“L’Unione europea deve fare pieno uso di tutti gli strumenti disponibili, incluso il Regolamento Ue per l’esportazione dei vaccini, approvato il 30 gennaio”, ha ribadito Draghi ieri. Da gennaio, però, sono state 380 le richieste di esportazione autorizzate verso 33 destinazioni, per un totale di circa 43 milioni di dosi. Ieri la Commissione europea ha proposto una revisione del meccanismo per l’autorizzazione all’esportazione, aggiungendo la “reciprocità” e la “proporzionalità” tra i criteri da valutare per il via libera. L’obiettivo è che le richieste di export non costituiscano una minaccia per la sicurezza dell’approvvigionamento dei sieri per i 27 Paesi dell’Ue. Questo significa che il blocco può attuarsi anche per i Paesi che rispettano gli impegni. La modifica, però, non è destinata a essere recepita dal Consiglio di oggi. Contrari soprattutto i nordici, Svezia, Irlanda, Olanda, Belgio. La bozza della dichiarazione dei 27 si limita dunque a “sottolineare l’importanza dell’estensione dello schema di autorizzazione delle esportazioni”. Sul tavolo, resta l’opzione di utilizzare l’articolo 122 dei Trattati per obbligare le aziende a garantire la fornitura.

Da notare un passaggio nella replica di ieri di Draghi in Senato, rispondendo a Casini che insiste sul “sovranismo europeo”. Il premier assicura: “Non deve avere timori reverenziali su quale che sia partner; e d’altronde mi pare, di aver sempre dimostrato estrema indipendenza nella difesa dei valori fondamentali dell’Europa e della nazione”. L’anticipazione di quello che potrebbe succedere. Dopo però il vertice di oggi e di domani. A Palazzo Chigi parlano di un quadro in movimento, guardano con favore gli accordi tra l’Inghilterra di Boris Johnson e l’Europa. Si aspetta anche una promessa di Biden di trasferire un surplus di dosi in Europa. Tutto da verificare alla prova dei fatti.

Vaccino anti-bava

Diversamente dal suo governo, Draghi ispira simpatia. Sia per quel che ha fatto per l’euro, sia per la gatta da pelare che s’è preso. L’altro giorno poi, quando ha confessato alla stampa di temere “future delusioni pari all’entusiasmo di oggi”, la simpatia è diventata empatia. Perciò ci permettiamo di suggerirgli un messaggio chiaro e netto alle penne alla bava: “Ragazzi, piantatela di leccarmi i piedi e tutto il resto”. Passare dal servo encomio al codardo oltraggio è un attimo. Ma purtroppo il vaccino anti-saliva è di là da venire. La Stampa titola: “Draghi vuole riaprire le scuole”. E ci mancherebbe. Purtroppo, essendo il capo del governo e non un passante o un Bertolaso, se vuole riaprire le scuole le riapre. O non era lui che “parla solo di fatti e non di annunci”? Sui vaccini, il problema è noto: ne arrivano pochi; e i medici rispondono alle Asl, che dipendono dalle Regioni. Quindi il mantra del “cambio di passo” perché “Draghi accelera”, “accentra”, “striglia le Regioni”, “mobilita i farmacisti”, “schiera l’esercito”, “vaccina nelle aziende” è un pessimo servizio alla verità, ma pure a lui. Accentrare non può, salvo abolire le Regioni con una riforma costituzionale (tempo minimo un anno): può raccomandare ai presidenti di fare i bravi e seguire le linee guida del governo. Accelerare è un bel verbo per titoli di giornale e di tg, ma se Big Pharma ci tiene in pugno grazie agli euroaccordi-capestro e molte Regioni sono un casino, bisogna solo sperare che col tempo le cose migliorino (quando Arcuri lasciò, 210 mila vaccinati al giorno; l’altroieri 218 mila). Mobilitare l’esercito, già peraltro mobilitato dal governo precedente per i compiti logistici, non ha alcun senso: nessuno si farebbe vaccinare da uno solo perché è maresciallo o generale o esibisce qualche mostrina in meno di Figliuolo (di più è impossibile). I farmacisti non sono abilitati a vaccinare senza formazione, serve sempre un medico. Idem per le aziende.

Ricordate le famigerate Primule di Arcuri, pensate per dare a ogni città un grande padiglione-hotspot per concentrare vaccinatori e vaccinati in aggiunta ai 3mila punti indicati dalle Regioni, risparmiando risorse, personale, tempo ed energie? Tutti giù a ridere e a strillare allo spreco, senza sapere quante fossero né quanto costassero (il prezzo l’avremmo scoperto dopo la gara: il bando ne prevedeva da un minimo di 21, una per Regione, a un massimo di 1500). Ora Fabrizio Curcio, capo della Protezione civile dei Migliori, tomo tomo cacchio cacchio si vende al Corriere l’ideona di “un hotspot per i vaccini in ogni città”. Ma tu guarda: è primavera e rispuntano le Primule. Il grande cambio di passo sarà chiamarle Margherite, o Gerani, o Tulipani, o Narcisi Tromboni.

“Assembly”, la magia di Strummer per scoprire cos’è il (vero) genio

“La gloria – recita un aforisma di Shakespeare – è come un cerchio nell’acqua, che non cessa mai di allargarsi, finché, a furia di spandersi, si sperde nel nulla”. John Graham Mellor, alias Joe Strummer, in vita fu poeta punk, chitarrista, compositore, attore e icona di stile, che annientò i confini musicali e culturali sia come cantante dei Clash sia come artista solista. Sarà proprio per evitare che quella gloria conquistata in anni di carriera si sperda nel nulla, che la Dark Horse Records, storica etichetta fondata da George Harrison, annuncia per il 26 marzo l’uscita di un nuovo best of della leggenda dei Clash, intitolato Assembly. Un doppio vinile (o Cd) che raccoglie i brani preferiti dai fan e rarità dal catalogo solista di Joe Strummer, tra cui Coma Girl, Johnny Appleseed fino alla sua iconica interpretazione di Redemption Song di Bob Marley e contributi alle colonne sonore come Love Kills (dal film Sid and Nancy). La compilation, composta da 16 tracce, contiene tre versioni inedite di brani classici dei Clash, tra cui l’inedita Junco Partner (Acoustic) e le performance live di Rudie Can’t Fail e I Fought The Law, le ultime due delle quali registrate da Joe Strummer and the Mescalero alla Brixton Academy di Londra nel 2001. Inoltre, Assembly include note di copertina scritte appositamente da Jakob Dylan, il figlio di Bob, da sempre fan dei Clash.

Nato in Turchia nel 1952, al seguito del padre diplomatico – una spia che lavorava per il ministero degli Esteri – nei suoi primi anni di vita Joe è un vero e proprio giramondo, fino a quando decide di stabilirsi in modo stabile in terra di Albione, per dedicarsi anima e corpo alla musica con lo pseudonimo di Joe Strummer. Le sue canzoni oggi suonano urgenti e vitali come quando le scrisse all’epoca, chiamando in causa le ingiustizie sociali e dando voce alle lotte della classe operaia. Con i Clash, formatisi in piena era Punk nel 1976, diventa il più ispirato cantore di un mondo in rapido e convulso cambiamento, e la band, grazie alla propensione che ha nel contaminarsi con i vari generi – dal reggae allo ska, al dub e al rock – riesce a crearsi l’immagine di gruppo dall’istinto ribelle e politico, gestita con gran lucidità. Dopo lo scioglimento definitivo della band, Strummer conduce un’attività artistica dispersiva: lavora nel cinema, con registi del calibro di Alex Cox e Jim Jarmush, si unisce ai Pogues e torna a essere un girovago professionista della scena Rock. Fino alla morte, improvvisa, avvenuta nel 2002 mentre porta a spasso i cani. L’ironia sta nel fatto che i suoi lavori da solista vennero ignorati sia dalla critica sia dal pubblico, e apprezzamenti alla sua carriera in solitaria arrivarono solo poco prima di morire. Per chi se la fosse persa, Assembly è un ottimo punto di partenza.

“Si può fare!”: due spiantati alla conquista di Hollywood

Ci sono vuoti dei quali ci accorgiamo solo quando finalmente arriva un’opera a colmarli: ed è nel momento in cui arriva – solo in quel momento – che ci rendiamo conto di quanto ci mancasse “qualcosa del genere”. Ecco cosa si prova leggendo Si può fare!, graphic novel pubblicato da BeccoGiallo e firmato dall’esordiente Isabella Di Leo.

Ma partiamo dall’inizio.

L’inizio è Frankenstein Junior: parodia del filone horror degli anni 30 incentrato sul mostro nato dalla penna di Mary Shelley, questo film di Mel Brooks e Gene Wilder del 1974 racconta le avventure di un discendente del barone Von Frankenstein che decide di riprendere i folli esperimenti del suo avo. Il resto è storia del cinema e una sfilza di tormentoni (“Gobba? Quale Gobba??”) il cui successo ancora oggi – a quasi 50 anni dal debutto – si rinnova di generazione in generazione.

Tutto perfetto, non c’è altro da aggiungere.

Finché non arriva il graphic novel della Di Leo che, raccontandoci la genesi e il dietro le quinte di quel capolavoro, ci fa rendere conto che invece un vuoto da colmare c’era.

I protagonisti di Si può fare! sono proprio Gene Wilder e Mel Brooks: due ebrei che faticano a sfondare a Hollywood e che decidono – contro tutto e tutti – di puntare su un film comico dedicato al mostro di Frankenstein (“Ancora Frankenstein?!”) e di girarlo in bianco e nero (“Nessuno pagherebbe per vedere un film che sembra vecchio!!”). Il racconto di questo sodalizio artistico si intreccia a digressioni che scavano nelle vite private dei due cineasti restituendoci un’amicizia cementata da sconfitte, sacrifici, stroncature e insuccessi fino alla sera del debutto, e siamo ormai sul finale: il lettore arriva nelle ultime pagine a condividere con i protagonisti l’emozione e la paura, a chiedersi insieme a loro se il film andrà bene o sarà un flop. Prima che la proiezione in sala inizi, il libro finisce: quello che succederà poi – lo abbiamo già detto – è storia del cinema.

Come viene in mente a un’autrice, classe 1988, nata e cresciuta a Milano, di cimentarsi con un materiale così difficile da ricostruire? E – soprattutto – come fa a riuscirci così bene nonostante sia esordiente e completamente autodidatta? Com’è possibile che Gene Wilder e Mel Brooks prendano davvero vita tra le pagine del fumetto, non mostrando quasi nessuna scollatura rispetto agli originali? Parte del merito è sicuramente del lavoro di ricerca che la Di Leo ha fatto (e il cui risultato ha pubblicato – post dopo post – sulla sua pagina Instagram): filmati, riviste, interviste, film, libri, studi. Niente, in Si può fare!, è lasciato al caso. Anche gli abiti indossati dai personaggi nel fumetto sono riprodotti da fotografie originali e le battute sono quasi tutte frasi realmente dette dai protagonisti tra interviste e biografie. Ma perché il “Gene” e il “Mel” sulla pagina sembrino “davvero vivi” non basta la documentazione. Non basta nemmeno la perfetta resa grafica dei volti e delle espressioni dei due autori, che pure la Di Leo riesce a rendere con una naturalezza impressionante. Perché l’esperimento riesca ci vuole anche un indiscutibile talento narrativo e l’autrice – alla sua prima prova con un biopic di questo calibro – sembra averlo. Con tanto di colonna sonora dedicata, toni, ambientazioni e umorismo da serie tv brillante (siamo dalle parti de La fantastica signora Maisel), Isabella Di Leo è riuscita a creare una storia che prende vita proprio come il mostro di Frankenstein, riempiendo uno di quei vuoti che ignoravamo ci fossero. Come c’è riuscita? La risposta la grida lo stesso titolo del libro: “SI – PUÒ – FARE!”.

La guerra mondiale all’arte

La “guerra mondiale a pezzi” (come la definiva già anni fa Papa Francesco) continua a imperversare, e non produce solo incalcolabili perdite umane, ma anche depredamenti e distruzioni di un immenso patrimonio culturale.

Succede, tanto per cominciare, in Siria, sulla cui tragica situazione, allo scadere del decimo anno di conflitto, ci ha aggiornato su questo giornale (21 marzo) il reportage di Hussam Hammoud. Dei sei siti Unesco si è in qualche modo salvata la Città Vecchia di Damasco, mentre ad Aleppo, negli scontri fra truppe governative e ribelli, sono andate distrutte madrase (scuole coraniche) e moschee; danneggiato anche il medievale mercato coperto, il più grande del mondo.

Situazione critica, poi, per il teatro romano di Bostra, per il grandioso castello crociato detto Crac des Chevaliers, per i villagi tardoantichi della Siria settentrionale.

Siti Unesco a parte, dobbiamo ricordare gli scempi di Apamea, città ellenistica con una grande strada colonnata. ma due sono i casi più eclatanti. Ebla (2500-1500 a.C.), presso l’attuale Idlib, ha rivelato (in un famoso scavo condotto dall’Università La Sapienza dal 1964) mura possenti, templi, case, palazzi: nel “Palazzo Reale G” è stato trovato un archivio di oltre 17.000 tavolette in cuneiforme, che ci rivelano le relazioni commerciali e politiche (in cui Ebla appare egemone) con città vicine e lontane.

Ma siamo in un’area strategica a 30 km dal confine con la Turchia, e proprio fra le rovine si era insediato un gruppo di ribelli: un bersaglio per l’esercito governativo. Gli scavi sono interrotti da anni, i danni gravissimi, anche se le tavolette sono al sicuro.

Palmira, città carovaniera presso un’oasi nel deserto, ha origini antichissime, ma il massimo sviluppo è in età imperiale romana, quando la città funge da cardine fra l’Urbe e l’Oriente e si arricchisce ospitando e organizzando carovane su lunghissima distanza.

L’impianto urbano è attraversato da una bella via colonnata, e su uno dei suoi due snodi sorge un maestoso arco; splendidi anche il teatro e due templi dedicati a divinità orientali, Bel e Baalshamin, ma con colonne, capitelli, frontoni di tipo grecoromano. Ampiezza di influssi, cultura cosmopolita che l’Isis sembra aver scelto come esemplare di ciò che è contrario alla sua visione del mondo: nel 2015 ha fatto saltare in aria l’arco e i santuari, mentre nel teatro ha messo in scena l’uccisione “spettacolarizzata” di prigionieri.

È stato anche saccheggiato il Museo, e il direttore Khaled al-Asaad, l’archeologo-eroe che cercava di opporsi, è stato imprigionato e trucidato.

Questa dei saccheggi (in funzione di un fiorente mercato illegale) è l’altra catastrofe, oltre alle distruzioni. In due famosi siti sull’Eufrate (l’antichissima città semitica di Mari e la fortezza ellenistica di Dura Europos) si registrano scavi selvaggi di clandestini.

Saccheggi e distruzioni si sono verificati anche in Iraq: ladri scatenati nel Museo di Baghdad in occasione dell’attacco anglo-americano del 2003, ma anche, nel 2014, bombe sulla tomba attribuita al profeta Giona (venerato in tutte e tre le religioni monoteistiche).

Distruzioni si registrano a Nimrud, antica capitale del regno assiro (fatto esplodere il grandissimo palazzo di Assurnarsipal II, del IX secolo a.C.), e anche a Ninive sul Tigri (capitale nel VII) e a Hatra (capitale, più tardi, del regno partico).

La cacciata dell’Isis da Palmira nel 2016, con l’appoggio della Russia, è importante anche se non pone fine ai conflitti. La riapertura nel 2018 del Museo di Damasco, pur parziale, è indicativa di una nuova fase in cui (con il contributo soprattutto dell’Ermitage di San Pietroburgo, ma anche di équipes italiane) si programmano grandi restauri: i progetti russi su Palmira, secondo alcuni, sembrano per la verità concepiti più per i turisti che per gli studiosi. Per i restauri in Iraq, pure, non mancano problemi, ma è da segnalare la lunga collaborazione di studiosi italiani alla ricostruzione di Hatra e del Museo di Baghdad.

Anche più a sud, nella penisola araba, infuria la guerra, con l’attacco saudita allo Yemen, purtroppo condotto anche con armi italiane (in gran parte vendute all’epoca del governo Renzi). Nel bersaglio pure le “città di terra”, con splendidi edifici, anche altissimi, costruiti con mattoni di fango essiccati al sole, e impreziositi da stucchi bianchi che paiono merletti: soprattutto Sana’a, dove Pasolini girò alcune scene del Decameron e de Il fiore delle Mille e una notte.

Gli abitanti non si arrendono e, con la tecnica tradizionale, ricostruiscono man mano ciò che le bombe distruggono.

Per finire, vediamo che idee hanno dei beni culturali certe menti elevate. Dopo che un drone americano aveva ucciso il generale Qassam Suleimani, Trump ninacciò che, se l’Iran avesse tentato una ritorsione, gli Usa avrebbero distrutto 52 monumenti di quel Paese.

Senza commenti.

Due Sicilie, Cornovaglia & C. I ribelli del calcio non allineato

Chi capisce soltanto di calcio, dice José Mourinho, in realtà non sa nulla di calcio. Come spiegare sennò, con i soli manuali del football, un Europeo con dentro la Padania, l’Ossezia, la Lapponia e, ultimo qualificato al ballo, il borbonico Regno delle Due Sicilie? L’appuntamento è a Nizza per il prossimo luglio, Covid permettendo, ma per capirci qualcosa serve un passo indietro.

Se la Fifa organizza i più noti mondiali di calcio, la Conifa (Confederation of Independent Football Associations) si è fatta carico di federare tutte quelle nazionali apolidi, non riconosciute, vuoi perché rappresentano uno Stato che non esiste sulle cartine geografiche vuoi perché, per secolari dispute politiche, la loro Patria tarda ad affermarsi. È il caso anche di tre squadre che vivono e lottano tra noi italici: la Sardegna, la Padania e il Regno delle Due Sicilie, tutt’e tre ammesse all’Europeo in programma in estate insieme ad altre nazionali che titillano i nostri ricordi scolastici: la Cornovaglia, il Nagorno, l’Abcasia, oltre alle già citate Ossezia e Lapponia e alle fiere Ciamuria e Contea di Nizza.

I borbonici si sono qualificati la scorsa settimana, complice la rinuncia causa Covid del Cipro del Nord, e ora rischiano di regalarci un poetico derby con la Padania. All’Europeo arriveranno guidati dall’ex portiere del Napoli Gennaro Iezzo, che ha accettato la sfida con orgoglio: “È qualcosa che senti dentro e anche tutti i giocatori dovranno avere senso di appartenenza e difendere i colori della nostra terra”. Iezzo promette ampio scouting “anche in Serie B”, ma ammette che il sogno sarebbe convincere l’ex bomber siciliano Emanuele Calaiò, attaccante da 200 gol in carriera già idolo a Napoli e Siena, oggi 39 anni. D’altra parte le selezioni si fanno un po’ così, pescando tra vecchie glorie o giocatori in attività nelle serie minori e sperando in qualche colpo tra i professionisti, a patto che le società non abbiano nulla in contrario.

E qui la Padania ha regalato gli aneddoti migliori. Basti pensare che il presidente e allenatore è stato per anni Renzo Bossi, all’epoca consigliere regionale in Lombardia prima che l’Italia lo conoscesse come “Il Trota” per il noto scandalo che travolse la Lega. In panchina Bossi si è dimostrato fenomenale: diciassette vittorie su diciannove partite e tre Mondiali in bacheca, palmares degno quantomeno di un assessorato (se solo la storia non si fosse messa di traverso). Per gli ultimi mondiali, la Padania aveva invece reclutato Marius Stankevicius, ex terzino lituano con un passato in Champions League che deve aver prevalso, nei criteri di scelta del mister, sulle origini non proprio padane del biondissimo atleta. Niente però in confronto a quanto avvenne sette anni fa, quando la nazionale del sopra Po convocò Enoch Barwuah, fratello minore di Mario Balotelli. Ironia del destino – o epifania dell’integrazione –, nella stessa selezione c’era pure tale Riccardo Grittini, assessore leghista all’epoca denunciato (assolto solo qualche anno più tardi) per cori razzisti nei confronti del ghanese Kevin Prince Boateng.

A ogni modo, tra orgoglio e folklore non si scherza e la competizione è sentitissima. Anche per questo si può immaginare l’enorme dispiacere con cui la nazionale dell’Isola d’Elba qualche mese fa ha dovuto dire addio al sogno Europeo, rinunciando alla partecipazione. Tutto era stato preparato nei dettagli, con la richiesta di riconoscimento del club fatta arrivare a inizio 2020 al Meeting Conifa nel Baliato di Jersey, l’isola della Manica alle dipendenze della corona inglese: “Hanno votato a favore i rappresentanti di Sierra Leone, gli asiatici del Kurdistan e del Turkmenistan e tanti altri”, annunciava entusiasta l’elbano Gaetano D’Auria. Erano pronti pure l’inno (“Elba, terra nostra”) e la maglia bianco rossa, ma poi il coronavirus ha compromesso la preparazione atletica dei giocatori, che hanno preferito rinunciare anche solo per salvare l’onore dell’isola: “Presentarsi impreparati e con tante incertezze è un segno di irresponsabilità”. Ci riproveranno tra due anni, ben sapendo che l’esiguità dei 31 mila abitanti dell’isola non deve spaventare, ché di là dagli oceani sono pronti a schierarsi le nazionali dell’Isola di Pasqua (7 mila residenti) e di Tovalu, già Isole Elice, 9 mila fortunati che vivono nel quarto Stato più piccolo al mondo, in Polinesia, temperatura media che durante l’anno oscilla tra i 25 e i 35 gradi. Inadatti – come gli altri – per la Fifa, ma con un posto tutto loro nel mondo del calcio.

Cosa fare di 15.000 piccoli migranti: i dubbi di “zio Joe”

L’ondata di indignazione scatenata dalle foto pubblicate dal deputato democratico Henry Cuellar in cui si vedevano i migranti a terra, ammassati in spazi divisi da separatori in plastica mette in difficoltà l’Amministrazione Biden. I funzionari hanno rifiutato di definire “crisi” la situazione in cui si trovano 15mila minori, ma è un fatto che nelle strutture è vietato l’ingresso anche ai legali volontari che conducono monitoraggi e le agenzie federali hanno respinto o ignorato decine di richieste dei giornalisti di entrare nei centri. Le critiche al presidente Biden aumentano, anche da parte degli alleati democratici. Gli Usa faticano, soprattutto, ad accogliere i minori che arrivano non accompagnati: il ministro della Sicurezza interna, Alejandro Mayorkas, lo ammette: “Siamo sul punto di avere più persone alla frontiera col Messico di quante ne abbiamo mai avute negli ultimi 20 anni”. Il confine “è chiuso”, aggiunge Mayorkas: ma è pure un colabrodo: “Stiamo espellendo le famiglie e gli adulti soli”. Il problema più spinoso sono i minori senza genitori, alcuni di appena sei o sette anni: a differenza degli adulti non sono rispediti in Messico o nel Paese di origine. Le strutture di accoglienza alla frontiera sono “affollate” e le autorità “non sono in grado di accogliere il flusso di bambini attuale”. La situazione è peggiore che ai tempi dell’Amministrazione Trump, che, però, aveva nei confronti dei minori meno remore umanitarie. Ma i Repubblicani mettono Biden sotto accusa per avere cancellato con decreto molti provvedimenti anti-migranti del suo predecessore. In febbraio, oltre 100 mila migranti irregolari sono stati arrestati: oltre 70 mila adulti soli, circa 20 mila in famiglia e 9457 minori non accompagnati, di cui 4200 tuttora in custodia. Il ricorso agli alberghi è un tentativo: un contratto da 87 milioni di dollari con una Ong di San Antonio (Texas) garantisce 1239 letti e altri servizi in “siti di accoglienza familiari” allestiti in hotel del Texas e dell’Arizona. Biden intende recarsi al confine col Messico e sta lavorando perché migranti in cerca di asilo possano farne domanda nei Paesi dove vivono.

Armi, i Dem annaspano e le stragi non si fermano

Le leggi per un giro di vite sulle vendite delle armi, che i Democratici portano avanti in Congresso, non fermano le stragi nell’Unione: due in una settimana, dieci morti in un supermercato di Boulder nel Colorado, l’altra sera; otto morti in locali per massaggi ad Atlanta in Georgia, martedì 16 marzo. L’11 marzo, la Camera aveva approvato – Democratici contro Repubblicani, con poche eccezioni – due proposte di legge per aumentare ed estendere i controlli sulle vendite delle armi. Probabilmente, entrambe sono destinate ad arenarsi in Senato: ci vogliono 60 voti perché passino e i Democratici ne hanno solo 50 su 100. Un’eventuale approvazione sarebbe subordinata a sostanziali annacquamenti dei due provvedimenti, già poco stringenti.

“Dobbiamo agire” dice il presidente Joe Biden, sollecitando il Congresso ad agire contro la violenza delle armi e ad approvare le leggi. “Dobbiamo chiudere le scappatoie nel sistema dei controlli di background. Possiamo vietare le armi d’assalto e i caricatori ad alta capacità”, sottolineando che le misure sulle armi non dovrebbero essere una questione di parte. La speaker alla Camera, Nancy Pelosi, rilancia: “Troppe famiglie in troppi posti sono costretti a sopportare questo dolore e questa angoscia incomprensibili”. Ma la buona volontà non basta: la sparatoria in Colorado è avvenuta dopo che un tribunale locale ha bloccato il bando dalla città delle armi d’assalto semi-automatiche, deciso nel 2018 per prevenire sparatorie di massa come quella nel liceo di Parkland in Florida nel 2017. Non è chiaro se il provvedimento avrebbe impedito al killer del supermercato di acquistare o detenere l’arma, un fucile semi-automatico Ar-15. Le sparatorie in serie di Atlanta e Boulder tornano ad accendere il dibattito sulle armi da fuoco, C’è chi invoca sui social il ritorno ai lockdown perché, durante le chiusure anti-pandemia, le sparatorie erano cessate. Ma né nell’Unione né nel Congresso c’è il consenso per modificare l’emendamento della Costituzione che garantisce il diritto alle armi.

L’autore della strage nel supermercato in Colorado è stato identificato: Ahmad Al Aliwi Alissa, ha 21 anni ed è di Arvada, una trentina di km a sud di Boulder, ma non si sa ancora perché abbia ucciso. Ferito a una gamba prima dell’arresto, è stato operato, è in condizioni stabili e sarà presto trasferito in carcere. Tutte le vittime sono state identificate, avevano un’età tra i 20 e i 65 anni: fra loro clienti e personale del King Sooper Grocery Store e il primo agente di polizia accorso, Eric Talley, 51 anni. Le stragi sono ricorrenti in Colorado: dal massacro del liceo di Columbine, nel 1999, a quello del cinema di Aurora, nel 2012.

Nella piattaforma elettorale di Biden, il controllo delle armi ha molto spazio, ma il presidente non ha né mezzi né poteri per cancellare il II emendamento. Nel 2017, dopo l’eccidio di 14 studenti al liceo di Parkland in Florida, c’era stato un movimento guidato da ragazzi e ragazze superstiti: pareva la volta buona. Dopo il voto di midterm del 2018, la Camera, a maggioranza democratica, varò alcune misure, che furono però bloccate dai Repubblicani che controllavano il Senato. I killer delle sparatorie usano molto spesso fucili d’assalto. Associazioni delle vittime e attivisti chiedono di metterli al bando