King Bibi avrà bisogno del suo “nemico” Bennet per governare

Nello Stato ebraico che è andato al voto per la quarta volta in due anni gli elettori sono stanchi. Ieri sera, nel dato raccolto alle 20, quasi il 5% in meno si era recato alle urne rispetto alle elezioni dello scorso marzo alla stessa ora. Che nei partiti vi sia stato un contraccolpo, lo dimostra la richiesta in extremis del partito Blu e Bianco a cinque minuti dalla chiusura stabilita alle 22: estendere le elezioni di due ore, sostenendo che la bassa affluenza alle urne era da imputare alle restrizioni per la pandemia. Richiesta caduta nel vuoto e ieri, quattro minuti appena dopo la chiusura dei seggi, Channel 11 aveva già pronta la sua proiezione: al Likud del premier uscente Netanyahu, 31 seggi; a Yesh Atid del centrista Lapid,18; Blu e Bianco del vice premier Benny Gantz, 7 seggi. In termini di alleanze per agguantare la maggioranza di 61 seggi su 120 alla Knesset, il campo pro-Netanyahu si ferma a 54; arriverebbe a 61 se King Bibi convincesse Naftali Bennett e il suo partito Yamina (A Destra) a dargli sostegno. Il blocco anti King Bibi è a 59 seggi. Il partito arabo Ra’am non riesce a superare la soglia dello sbarramento. Poche le differenze dell’exit poll di Channel 13 che assegna due seggi in meno al partito di Lapid e disegna comunque lo stesso scenario: il blocco pro Bibi a 54 seggi, il contrario a 59 con la variabile Yamina a 7.

In definitiva i sondaggi ricalcano quanto temuto, una situazione di stallo che potrebbe persino portare a una quinta elezione entro la fine del 2021. Se le proiezioni saranno confermate, a Netanyahu serve l’appoggio di Bennett che prima della scissione è stato suo capo dello staff ed ha già partecipato a un governo con King Bibi. Hanno avuto motivo di festeggiare ieri sera dopo i primi exit poll i sostenitori del blocco di estrema destra del Partito Sionista Religioso (ex Unione nazionale Tukma) che hanno superato le aspettative con 6/7 seggi, i sondaggi li davano a 4. Come da copione, durante la giornata da Gaza è partito un razzo verso il sud di Israele, si è abbattuto in una zona disabitata nei pressi di Beersheva poco dopo che il premier Netanyahu aveva concluso il suo appuntamento elettorale. Un episodio simile avvenne nel settembre del 2019 quando un razzo fu lanciato dalla Striscia mentre Netanyahu era impegnato in un comizio ad Ashkelon e fu costretto a lasciare il palco in fretta e furia.

Libano, profughi e torture. Altro incubo per i siriani

Senza cibo né sonno, costretti a stare in piedi per giorni, ammanettati o bendati. Colpiti ripetutamente con tubi di plastica e metallo o con scosse elettriche ai genitali. Percossi finché le ferite aperte non si sono infettate e sono apparsi i vermi. “Speravo di morire” è il titolo, nero su giallo, di Amnesty International, che ha raccolto nel suo ultimo report le testimonianze di 23 siriani detenuti nel centro d’intelligence libanese di Ablah: tra loro quattro minori e due donne, molestate sessualmente e costrette ad assistere alle torture di figli e mariti. Il rapporto riferisce del “trattamento crudele, violento e discriminatorio delle autorità libanesi nei confronti dei rifugiati siriani detenuti perché sospettati di reati di terrorismo”: scappavano dalle repressioni spietate di Assad e hanno cercato asilo in un Paese che gli ha inflitto esattamente “gli stessi orrori delle prigioni siriane”, ha chiosato Marie Forestier, ricercatrice dell’ong.

Tra le violazioni disumane subite dal 2014 al 2021 di cui hanno riferito c’era il “tappeto volante”, “la stessa tecnica di tortura usata nei centri di detenzione siriani”: i prigionieri vengono legati ad una tavola di legno pieghevole e vengono violati con scosse elettriche o mazze. Sospesi dai polsi legati dietro la schiena, crocifissi alle porte che gli agenti sbattevano violentemente contro la parete, 14 dei 23 siriani hanno confessato crimini che non hanno mai commesso.

Essere avversi al governo di Assad in nove casi è bastato per giustificare l’accusa di terrorismo. Finiti dinanzi alla Corte militare nonostante fossero civili, senza possibilità di difesa legale o confronto con un avvocato che ne prendesse le parti prima, durante e dopo i crudeli interrogatori, ai rifugiati sono stati negati diritti assicurati dalla stessa legge libanese contro la tortura varata nel 2017. Incapace di salvare se stesso, il Libano al collasso continua ad avere nel suo ventre, dalla valle della Bekaa a Beirut, milioni di vittime del conflitto che hanno varcato il confine in cerca di salvezza dalla guerra di Damasco per finire intrappolati nel caos di Beirut. Se dentro le carceri c’è tortura, fuori dalle mura delle prigioni c’è fame ed una crisi economica a spirale che avvolge ogni settore finanziario del Paese. La pandemia, l’instabilità politica, la disoccupazione ormai cronica e la prospettiva di bancarotta: volatile come le promesse di cambiamento a cui i libanesi non credono più è anche la valuta del Paese, che ha perso quasi il 90% del suo valore dal 2019, anno in cui hanno cominciato a ripetersi le proteste della società civile.

Dopo l’esplosione dell’estate scorsa al porto di Beirut, divorato dalle fiamme che ha ucciso 200 persone e lasciato dietro di sé solo cenere e miliardi di danni, il Libano continua a esplodere mese dopo mese di ira e povertà: nonostante la pressione internazionale continui, non esiste ancora una nuova squadra di governo in grado di risollevare lo Stato dalla crisi.

Il Libano colleziona fallimenti e l’ultimo risale a lunedì scorso: a sette mesi dalla tragedia il primo ministro Saad Hariri e il presidente Michel Aoun non sono riusciti a riallineare gli schieramenti per formare un nuovo esecutivo. “Ho chiesto al presidente di dare una possibilità al governo tecnico, capace di avviare le riforme”: la proposta strategica del premier per superare lo stallo ha ottenuto in risposta le critiche di Aoun, che ne ha chiesto le dimissioni in caso di incapacità di convogliare tutte le voci dei partiti nazionali, anche quelle del leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah. Seppure i fuochi del porto sono stati spenti, altri falò continuano a bruciare nelle lunghi notti libanesi: a Tripoli, la seconda città più popolosa ma anche la più povera, le manifestazioni sono iniziate durante il lockdown obbligatorio per arginare il Covid-19. Proprio come i rifugiati siriani, ora anche metà dei cittadini è costretta a vivere sotto la soglia di povertà. Per qualcuno la crisi è peggiore perfino di quella della guerra civile durata fino agli anni 1990: le proteste di quanti, nonostante il salario, non riescono a pagare affitti, beni primari e cibo, accenderanno altri fuochi, destinati a bruciare molto più a lungo di quelli che hanno sfigurato per sempre il volto della Capitale.

Nino e gli ideali di quando amavamo

Quanto è cambiata l’Italia nell’ultimo mezzo secolo? Impossibile non chiederselo durante la visione del toccante documentario Uno, nessuno e cento Nino realizzato dal figlio Luca, andato in onda nel giorno del centenario dalla nascita di Nino Manfredi (lunedì, Rai2 e Sky Arte). Non bisogna stupirsi più di tanto se la ricorrenza sta passando sottotraccia, ancora più del centenario di Sordi (non era facile), perché tutta la grandezza di Manfredi è stata sottotraccia. “Manfredi è stato il meno tipo dei personaggi della commedia all’italiana, e il più personaggio”, osserva Gianni Canova in Uno, nessuno e cento Nino; costruiva le sue interpretazioni con lo stesso puntiglio amoroso di Geppetto che scolpisce Pinocchio, e questo spiega la molteplicità delle sue maschere. Con un filo conduttore indistruttibile, però. Se Gassman, Sordi e Tognazzi finiscono per fondare ognuno la propria tipologia, la mescolanza agrodolce di allegria, malinconia e ferocia degli anni d’oro della commedia all’italiana ha il volto smarrito, popolare, amaro e felice di Nino Manfredi. E la maschera più indimenticabile tra le cento e una di Nino nasce proprio dal canto del cigno di quegli anni d’oro, C’eravamo tanto amati (dopo gli italiani avrebbero continuato a odiarsi come sempre, ma non si sarebbero più amati come prima). Quel che mette il capolavoro di Ettore Scola in odore di magia è il contrappunto tra Manfredi e Gassman, l’ottava maggiore e l’ottava minore della commedia all’italiana, e della generazione del Dopoguerra. Una partita a scacchi tra il superuomo e il restare umani di cui la vita si incarica di sparigliare gli esiti. Antonio, il portantino comunista che restando fedele agli ideali della giovinezza non fa carriera, nasce e resta un perdente, ma proprio per questo è l’unico a conservare l’anima, è un personaggio simbolo dell’Italia di mezzo secolo fa. Chissà come se la caverebbe oggi, Antonio, oggi che la politica è la prima ad aver perduto l’anima.

Il porto delle nebbie della città eterna

Carmelo Spagnuolo non è il solo magistrato romano ad avere un comportamento più che discutibile. La Procura della Repubblica di Roma s’è già conquistata la non invidiabile fama di essere il “porto delle nebbie”, secondo la felice espressione di Stefano Rodotà, ovverosia il punto terminale su cui confluisce una serie di inchieste spinose per il potere e per i poteri criminali che vengono regolarmente inghiottite nel buco nero delle decisioni dei vertici della magistratura romana, compresi quelli della Corte di Cassazione.

Il processo per la strage di piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969, fu il primo esempio di tale prassi perché fu, “con l’acquiescenza del procuratore della Repubblica di Milano”, spostato a Roma, dove il giudice istruttore Ernesto Cudillo si pronunciò a favore degli uffici giudiziari romani dichiarati competenti. Solo nel 1972 la Corte d’assise di Roma s’accorse che “Cudillo aveva sbagliato” e che la competenza era dei giudici di Milano. Costoro, però, non celebrarono il processo perché il procuratore della Repubblica di Milano, Enrico De Peppo, scrisse al procuratore generale per manifestare la propria convinzione che, svolgendosi il dibattimento nella città colpita dalla strage, si sarebbe potuta “realizzare una massiccia e odiosa pressione sul collegio giudicante”, e perciò fu la Corte di cassazione a decidere che tutto avrebbe dovuto svolgersi a Catanzaro. La rimessione degli atti ad altra sede fu decisa in un solo giorno da Mauro Gresti, che a seguito della morte del procuratore generale di Milano, Luigi Bianchi d’Espinosa, reggeva in via provvisoria l’ufficio perché sostituto più anziano. La decisione subito sollevò forti proteste da parte sia dei magistrati milanesi sia di avvocati e giuristi come Giuliano Vassalli e Giovanni Conso.

Non è un incidente di percorso, quello della Cassazione su piazza Fontana; semmai è una costante, perché dal 1969 al 1976 la Cassazione trasferì i procedimenti che riguardavano la strategia della tensione – ad esempio quelli iniziati a Torino per opera di Luciano Violante sul “golpe bianco Sogno” e a Padova per opera di Giovanni Tamburino sulla “Rosa dei venti” – a Roma, “Pm, immancabilmente, Claudio Vitalone”. Tutto finì con un nulla di fatto, “nel senso voluto da Vitalone e Achille Gallucci (all’epoca capo dell’ufficio istruzione): ma senza la mia firma” ci tiene a precisare Enrico Di Nicola che più volte aveva manifestato la sua contrarietà a quell’indirizzo della procura, aggiungendo che “per colpa di certi magistrati, la politica, non quella vera voluta dalla Costituzione, ma quella sporca, troppo spesso soffochi e continui a soffocare la giurisdizione”.

Anche la vicenda dei fondi neri del petrolio scoperta dal pretore Mario Almerighi nel 1974 mostrò un’aspra dialettica dentro la magistratura romana e svelò la propensione di alcuni giudici a essere ossequienti con il potere economico e politico. La rilevanza dei soggetti imputati e le divisioni interne ebbero un’eco particolare sulla stampa nazionale che, ed è il mestiere dei giornalisti, amplificò tutti i fatti. Di Nicola esprime un giudizio negativo sull’operato di Achille Gallucci, accomunato a quello di Giovanni De Matteo, procuratore della Repubblica, e a Orazio Sava, sostituto procuratore. Gli interessi toccati erano enormi e perciò ci fu anche l’intervento politico teso a mettere un freno ai magistrati. Se ciò fu possibile lo fu “anche a causa dei comportamenti di quei magistrati che, per ignavia, viltà, carrierismo o per motivi politici o interessi individuali, hanno tradito la loro funzione istituzionale e costituzionale”.

È una storia molto particolare, quella della Procura di Roma, perché “ha operato come istituzione ‘di chiusura’, nel senso che ha svolto una funzione di controllo delle ultime conseguenze che talune vicende (politiche o affaristiche che fossero) potevano avere nella dimensione giudiziaria”. E così “Roma è la sede ‘naturale’ di tutte le vicende che fanno capo all’apparato centrale dello Stato, ai grandi enti pubblici e via dicendo”. Di più: “con una notevole disinvoltura processuale la procura romana si è sforzata di affermare una sorta di ‘competenza delle competenze’, che dovrebbe consentire di gestire ogni affare giudiziario politicamente rilevante, quale che sia il luogo in cui ha avuto origine”.

Il porto delle nebbie entra in funzione ancora una volta su una vicenda inquietante, quella della loggia massonica segreta denominata p2. Al momento della sua scoperta, il 17 marzo 1981, da parte dei giudici istruttori di Milano Gherardo Colombo e Giuliano Turone, la Procura della Repubblica di Roma fa di tutto per sottrarre la competenza a Milano. E ci riesce perché il pubblico ministero Domenico Sica, con provvedimento controfirmato dal procuratore Gallucci datato 20 giugno 1981, si dichiara competente anche per i procedimenti pendenti a Milano. La sezione feriale della Corte di cassazione, e non è la prima volta che ciò accade, radica la competenza a Roma. Anche in questo caso si arriva a un nulla di fatto. Il consigliere istruttore Ernesto Cudillo, su richiesta di Gallucci, emette una sentenza di proscioglimento generale. Il giorno prima, le motivazioni della sentenza sulla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura erano pervenute a “conclusioni opposte”.

Insomma, la procura romana può essere ricondotta a un quadro più generale, essere considerata come un pezzo di quella rete di protezione in quegli anni pazientemente tessuta a tutela del malaffare pubblico e privato, come copertura di operazioni oscure consumata all’ombra di servizi più o meno deviati. Questo modo di operare guadagnò alla Procura di Roma l’appellativo di “porto delle nebbie”. Quando, però, l’insabbiamento o l’occultamento non erano possibili (ecco) l’attivismo della magistratura contro chi non stava alla regola del gioco.

Caso Palamara, Cantone al csm e tutti i dubbi sull’inchiesta

Due giorni fa, il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, è stato sentito dal Csm nell’ambito di una pratica a tutela dei pm perugini. Il Csm gli chiede spiegazioni su alcune scelte investigative nell’inchiesta per corruzione a carico di Luca Palamara. Scelte che Cantone difende (sebbene non adottate da lui, giunto a Perugia a inchiesta avviata).

Per esempio: perché negli atti manca l’audio del 9 maggio 2019, quando Palamara cena con l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone? Cantone spiega: l’audio non esiste, non fu programmato, gli investigatori non avevano alcun elemento per ritenere che la cena fosse prevista (l’intercettazione che la menzionava fu ascoltata dopo). Poi precisa: a suo avviso la captazione sarebbe stata inutile poiché era un incontro con le rispettive mogli e, in quei casi, Palamara non si lasciava andare. Ma se quindi la sera prima Palamara, Lotti e Ferri (gli ultimi due non indagati) si fossero presentati nell’hotel Champagne con le mogli, saremmo stati privati delle celebri conversazioni sul futuro procuratore di Roma? Si dirà, l’episodio dimostra che Cantone ha ragione: i tre parlarono eccome e senza mogli al seguito. Ci sia tuttavia permesso dubitare che si tratti di una regola affidabile per valutare se accendere o spegnere un trojan. Anche perché non c’è prova del contrario. Aggiungiamo: pure le conversazioni che lasciavano presagire il dopocena all’hotel Champagne – e avrebbero imposto lo stop delle intercettazioni ai parlamentari – furono ascoltate dopo. Ma – sono i casi della vita – il trojan era acceso.

E ancora: perché s’intercettò Palamara (presunto corrotto) e non Fabrizio Centofanti (presunto corruttore)? Dice Cantone: le precedenti indagini dimostravano che Centofanti lasciava il telefono, parlava in codice, alzava il volume della radio, quindi s’inoculò il trojan a Palamara proprio per incastrare il furbo Centofanti. Il quale – dobbiamo dedurre – parla solo in presenza di trojan altrui o non parla proprio. E infatti il trojan di Palamara non lo intercettò mai. Ci sia permesso di aggiungere: se pure per sbaglio qualche frase Centofanti l’avrà detta, non essendo direttamente intercettato, non lo sapremo. E mai sapremo – per quanto penalmente irrilevante, al pari delle conversazioni dell’hotel Champagne – di cosa si parlò nella cena tra Palamara e Pignatone. E consorti.

Il mio ritorno

Vaccinare stimola la memoria. Non è ancora scientificamente provato, ma posso dare conto di una piccola esperienza personale. Questi i fatti. È il giorno 17 corrente mese, primo della campagna vaccinale dalle mie parti. Non tengo conto del numero cosiddetto menagramo. Fuori tira vento. Sono nella palestra comunale di cui percepisco l’immutabile odore, linoleum e un veleggiare di sudori che da anni passano e vanno. Siamo di fronte io, vaccinatore, e lui, vaccinando. Come tanti e tante prima di lui non ha dubbi né incertezze, non fa domande. Vuole essere finalmente vaccinato. Però non si alza dalla sedia quando ho finito di compilare il questionario che lo riguarda. Anzi, mi fissa, scuote la testa. Poi si decide. “Non mi riconosci, eh?”, chiede. “Dovrei?”, ribatto. Allora, per un istante, abbassa la mascherina, solleva gli occhiali. “Adesso?”, fa. O bestia, penso io. “Bentornato”, conclude lui ridendo. Faccio un calcolo poi concludo, e sì, è proprio lui, ottant’anni ci stanno tutti. Perché dall’ultima volta che avevo messo piede nella palestra sono passati una quarantina di anni, se non di più. Era domenica mattina ed era in corso una partita di basket. Io stavo in panchina, occupavo una spazio che ormai era mio per destinazione fin dall’inizio del campionato a testimonianza del fatto che nel mio destino non c’era la carriera del cestista. Una verità che mi si rivelò quella mattina, inconfutabile. Spinto da essa, quasi guidato, senza dire niente a nessuno, men che meno all’allenatore, quello che adesso mi sta davanti, e che allora era invece in piedi a seguire le varie fasi del gioco, mi alzai, raggiunsi lo spogliatoio, mi cambiai e me ne tornai a casa. Da allora nessuno più mi vide né mi cercò. Non ebbi rimpianti né venni rimpianto, contenti tutti. “Buon vaccino, mister”, gli dico. Ma ancora non si muove. So cosa sta pensando: non centravo un canestro che era uno, sarò in grado di beccargli la spalla? Lo tranquillizzo, le siringhe le manovrano infermiere infallibili come cecchini.

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E se proponessimo di abolire le Regioni?

Ormai è evidente: le Regioni sono inutili e dannose, da abolire al più presto. Bisognerebbe presentare una proposta di legge costituzionale di 2 articoli. Art 1. Tutti gli enti regionali sono aboliti. È ripristinata la situazione ante 1970, incluse anche le Regioni a statuto speciale. Art. 2. I dipendenti degli enti regionali vengono distribuiti in enti statali e/o pubblici.

Gianfranco Nitti

 

Storie di “ordinaria” vaccinazione meneghina

Ho prenotato il 15 febbraio la prima vaccinazione. Già venerdì 19, via sms, sono stato convocato al centro vaccinale di piazza Principessa Clotilde per le ore 09.17 di lunedì 22, e due ore dopo, anche presso il centro vaccinale di via Ippocrate per le ore 08.17 di domenica 21. Richiesti chiarimenti telefonici, mi è stato detto di ignorare la seconda convocazione. Ho quindi avuto lunedì 22 la prima vaccinazione, con l’invito a ripresentarmi, sempre in piazza Clotilde, alle ore 09.17 del 15 marzo. Mercoledì 1 marzo ho però ricevuto una nuova convocazione in via Ippocrate per domenica 14 marzo. Naturalmente l’ho ignorata, e mi sono presentato lunedì 15, ore 09.17, in piazza Clotilde, dove ho avuto la seconda vaccinazione. Tutto bene, dunque, ma lo stesso giorno sono stato nuovamente convocato nello stesso centro vaccinale per le ore 9.17 (cioè 9 ore prima del messaggio!). Come ottuagenario, mi considero fortunato (conosco novantenni che non sono ancora stati convocati).

Bruno Cavallone

 

Sostegni, dopo lo stralcio si aiutino anche gli onesti

Alla luce dell’ultimo condono, credo che anche i cittadini virtuosi, cioè quelli che le tasse le hanno sempre pagate tutte, abbiano diritto a un premio. La premialità si potrebbe individuare, ad esempio, nella soppressione per un semestre degli oneri sulle bollette di luce/acqua/gas. Non trovo giusto che chi ha frodato il fisco, abbia occhi di riguardo, sia pure in momenti tragici come questi.

Massimo Fabbrini

 

Nella conferenza stampa di venerdì, il presidente Draghi ha dichiarato testualmente che “in questo momento gli italiani devono ricevere e non dare”. Sono certo che il presidente non intendeva limitare questa generosità a una categoria specifica di cittadini, ma che al contrario intendeva estenderla anche a chi come me, lavoratore dipendente, non può tecnicamente evadere le imposte, nemmeno volendo. Pertanto attendo di sapere con fiducia con quale modalità questa generosità potrà concretizzarsi, ad esempio con un rimborso diretto in busta paga delle imposte Irpef che mensilmente pago o con un “ristoro” o “sostegno” erogato tramite bonifico sul mio conto corrente.

Carlo Alberto Dosi

 

Perché Letta insiste a dialogare con Renzi?

Leggere che il nuovo segretario del Pd è aperto a un dialogo con tutti, e tra questi pure con Renzi, significa che Letta è desideroso di avere come alleato un traditore professionista, l’amico del mandante di chi ha ucciso e fatto a pezzi il corpo di un giornalista.

Corrado Saltarelli

 

Trasformismo, si apre il dibattito tra i lettori

Ho letto della proposta di Letta per contrastare il trasformismo parlamentare. Non mi convince. Mi pare giusto impedire il passaggio dei parlamentari da un partito all’altro e la costituzione di nuovi gruppi che non rispecchiano le elezioni. Mi sembra però opportuno mantenere la possibilità di uscire dal proprio gruppo per confluire nel misto, senza che ciò determini degli svantaggi. La fuoriuscita, infatti, può essere indicativa di serietà e dirittura morale, nel caso in cui il partito di appartenenza non rispetti i programmi e le promesse all’elettorato. Si rischierebbe di colpire proprio quelli che prendono più sul serio il mandato parlamentare.

Viola Dellavedova

 

Mi sembra buona la proposta di Letta su quanti diventano dissenzienti e transfughi. In pratica toglie ogni possibilità di creare “aree destabilizzanti” e in vendita al miglior offerente. Mi sembra logico e opportuno; sei stato eletto con una formazione e non sei più d’accordo? Benissimo, esci però, vai in un “limbo” e lì resti. Non ci vedo alcuna violenza, ma giustizia!

Maurizio Dickmann

 

Ong, sul “Fatto” vive la pluralità delle idee

Uno dei motivi per cui amo Il Fatto è che su di esso non trovo una marmellata di pensiero, ma opinioni diverse. Qualche giorno fa c’è stato uno scambio tra Lerner e il direttore sul tema delle Ong e domenica Furio Colombo ha dato delle indicazioni a Letta mettendo in evidenza di non apprezzare la politica di Minniti e le scelte degli accordi con la Libia. Mentre in qualche editoriale il direttore riconosceva a Minniti un merito sulla gestione di questo problema. Tutto ciò lascia spazio alle valutazioni dei lettori che percepiscono chiaramente che non ci sia un ordine di scuderia. Grazie.

Giancarlo Fiammelli

Boldrini. “Soldi alla colf, solo ritardi col Caf”. “Ma ci vogliono 10 mesi?”

 

In riferimento a quanto pubblicato ieri sul vostro giornale in un articolo a firma di Selvaggia Lucarelli, dal titolo “Maltrattate e mal pagate. Donne contro la Boldrini”, vorrei avanzare le seguenti precisazioni. Riguardo la mia ex collaboratrice domestica, Lilia, stiamo trovando un accordo per formalizzare la chiusura del rapporto di lavoro, purtroppo con un ritardo da me non voluto ma causato da una difficoltà oggettiva a contattare la persona del Caf referente della vicenda. Il punto è che ci sono delle discrepanze da verificare sui saldi finali del Tfr da me già versato per ogni anno di lavoro. Dunque è in corso una verifica, che sta terminando, da parte della mia commercialista e del Caf. Questi raffronti si rendono abitualmente necessari quando si conclude un rapporto di lavoro regolare, com’è stato quello tra Lilia e me. Per quanto riguarda la mia collaboratrice alla Camera, Roberta, la cui retribuzione corrispondeva a criteri stabiliti dall’amministrazione della Camera, devo dire che ha svolto un buon lavoro in anni intensi e complessi, sempre manifestandomi la volontà di voler far parte della mia squadra, nonostante le difficoltà logistiche che doveva affrontare ogni settimana, venendo da Lodi, e che io stessa fin dall’inizio le avevo fatto presente. Per questo sono rimasta stupita e dispiaciuta nel leggere quanto da lei dichiarato, visto il rapporto che si era sviluppato con lei. Alla luce di quanto spiegato, penso sia comprensibile l’amarezza provata anche nel leggere il titolo che mi indicava come una persona che maltratta e mal paga le donne.

Laura Boldrini

 

Il rapporto di lavoro con la colf è terminato 10 mesi fa, risulta dunque poco realistico che in tutto questo tempo non sia stato possibile contattare il commercialista del Caf e che la ex collaboratrice domestica si sia dovuta rivolgere a un avvocato, sebbene la si stesse cercando da quasi un anno. Inoltre, la colf ha lavorato per lei per ben 8 anni, la vicenda si sarebbe potuta sbloccare pacificamente con una semplice telefonata alla signora Lilia, che di sicuro non era introvabile. Riguardo invece la vicenda relativa alla sua ex collaboratrice Roberta, è vero che gli accordi economici iniziali con lei erano quelli, ma è anche vero che la pandemia, la malattia del figlio e, semplicemente, un po’ di empatia per una condizione di difficoltà economica di una lavoratrice madre di tre figli avrebbero potuto comportare un adeguamento almeno per il rimborso delle spese. Inoltre, se è vero che gli accordi sullo stipendio erano quelli, forse non era altrettanto chiaro fin dall’inizio che tra le mansioni richieste a una collaboratrice parlamentare potessero esservi anche la prenotazione di parrucchieri e il ritiro abiti in lavanderia.

Selvaggia Lucarelli

I Miserabili di Hugo nella città dell’Expo: dal “food” alla fame

C’era una volta la città dell’Expo, “nutrire il pianeta” diceva lo slogan. Sul palazzo che ospita la giunta regionale (per la quale ci sono ormai solo tre parole: andate a casa) campeggiava a caratteri cubitali la scritta “Lombardy, feeding the future”. La città del food oggi è una città alla fame: in dicembre avevamo raccontato delle file chilometriche davanti alla sede di Pane quotidiano, tre giorni fa abbiamo visto nuove immagini di quella coda che sembrava interminabile prima di Natale, ancora più lunga. Non ci stupisce: all’inizio del mese l’Istat ha diffuso il report con i dati di stima preventiva sulla povertà. Dice così: “La povertà assoluta torna a crescere e tocca il valore più elevato dal 2005. Le stime preliminari del 2020 indicano valori dell’incidenza di povertà assoluta in crescita sia in termini familiari (da 6,4% del 2019 al 7,7%, +335mila), con oltre 2 milioni di famiglie, sia in termini di individui (al 9,4%, oltre 1 milione in più) che si attestano a 5,6 milioni”. La onlus Pane quotidiano esiste a Milano da più di un secolo, e ogni giorno distribuisce cibo a chi non ha mezzi per procurarselo. Le persone bisognose si mettono in fila dall’alba, oggi sono strette tra la circonvallazione e i nuovi palazzi della Bocconi, un club esclusivo di economisti da cui frequentemente s’odono pensosi avvertimenti sui pericoli dell’assistenzialismo. Un’altra delle mille contraddizioni di Milano. A Pane quotidiano il sindaco Sala ha consegnato l’assegno da centomila euro di Carlo Crocco, imprenditore dell’orologeria: “Anche di quel gesto di solidarietà dovremo cogliere il risvolto”, ha scritto Gad Lerner in dicembre sul Fatto. “Crocco figura nelle classifiche dei maggiorenti italiani trasferitisi a Lugano, in Svizzera, a meno di un’ora da Milano. E nel 2008 il suo marchio Hublot fu venduto alla multinazionale francese del lusso Lvmh”. In questo anno abbiamo visto testimonianze di solidarietà da moltissimi imprenditori a favore delle istituzioni di beneficenza. Che fanno un lavoro necessario, lodevole, per cui bisogna essere grati. Ma è evidente che non basta. Anzi, non è giusto per una società che si vuole definire democratica, affidarsi al buon cuore di chi ha di più.

In questo disgraziato anno abbiamo imparato una lezione: principi che il pensiero dominante riteneva dogmi sono stati radicalmente messi in discussione. Le eccellenze (vedi la sanità lombarda) si sono rivelate modelli sbagliati, perché a essere chiamata in causa dalla pandemia è la collettività, non l’individuo. Finché si trattava di individui, non importa se molti, si potevano propagandare le stesse bugie, a vari livelli. Il coronavirus ha sollevato il velo, non solo sulle nostre paure ma anche sulle nostre fragilità collettive. Il modo di stare insieme, quindi il modello di sviluppo, va ripensato (e subito) in un senso solidaristico e costituzionale: questo vuol dire più Stato, non più privati. È lo Stato che deve combattere povertà e disoccupazione, non la carità dei ricchi. In un meraviglioso capitolo dei Miserabili, Jean Valjan riflette sulla sorte che l’ha condotto al bagno penale per aver rubato del pane. E si chiede se non era stata una pazzia “prender violentemente per il bavero tutta la società e pensare di uscire dalla miseria con il furto”. Poi si domanda: “Era lui il solo ad aver avuto torto in questa fatale storia? Non era una cosa grave che a lui, lavoratore, fosse mancato il lavoro, a lui, così operoso, fosse mancato il pane?”. Un secolo e mezzo dopo non siamo ancora riusciti a dare risposte. O meglio: quelle che avevamo, le abbiamo gettate al vento.

 

Vaccini. Vivere in Lombardia è più pericoloso che fare il bagno con l’orso

Nella top ten delle cose che è meglio evitare, subito sotto “fare il bagno nella vasca dell’orsa assassina”, ma sopra “guidare a fari spenti nella notte”, c’è “abitare in Lombardia”, una cosa che può diventare letale se siete – come tutti – in attesa di un vaccino.

Bellissima terra, con laghi e montagne, dove il cielo “è bello quando è bello” (cit) e i cittadini sono abituati a guardare tutti gli altri italiani dall’alto in basso, perché qui c’è l’eccellenza, signora mia. Ecco, questa terra di eccellenze e primati, passata in poco più di duemila anni dalle palafitte a Bertolaso si chiede ora, con una certa apprensione, se a ben vedere non fossero meglio le palafitte. Il caparbio commissario-a-tutto aveva solennemente promesso al momento dell’insediamento (era il 2 febbraio): “Tutti i lombardi vaccinati entro giugno”, cioè dieci milioni di persone. Ricevette grandi applausi. Passa un mese e mezzo e Bertolaso, stentorea la voce e gonfio il petto, ri-dichiara volitivo (18 marzo): “Tutti i bresciani vaccinati entro luglio”, cioè duecentomila persone invece di dieci milioni, ma un mese in più.

Basterebbe questo, in un Paese normale (ahah, ndr) per cacciare con ignominia un simile caciarone, che nonostante il surreale dispiego di scempiaggini lamenta oggi (altra intervista, sul Corriere) di non avere abbastanza potere, di non poter spendere un euro, di non firmare niente e (ciliegina!) “Dovrei stare all’ultimo piano di palazzo Lombardia”, non si capisce bene se per fare il Presidente al posto di Fontana o per buttarsi di sotto, da lombardo temo la prima ipotesi.

Per il resto, Bertolaso a parte, la Lombardia vive un grande momento di autocombustione: tutta la Sanità lombarda, dai vertici all’ultima Asl, è di nomina politica e al 90 per cento gestita da marescialli, sergenti e caporal-maggiori della Lega, tutti agli ordini di Salvini che ha tuonato per i giornali: “Chi ha sbagliato deve pagare!”, ma poi, invece di andare a costituirsi, ha fatto un po’ di tetris con le nomine, incastrando uno qua e uno là, sempre dei suoi. Le altre forze della destra fanno un po’ tenerezza, con i balilla di Fratelli d’Italia che lamentano di aver poco potere e Forza Italia che ha dovuto sacrificare il più esilarante assessore alla Sanità dai tempi dei Longobardi (il mai dimenticato Giulio Gallera) per sostituirlo con lady Moratti, mossa si dice approvata e caldeggiata da Salvini medesimo. Ora si narra di guerre intestine, ferri corti e sgambetti, con la Moratti che si installa in un altro grattacielo e si comporta da vero presidente della Regione, mentre Fontana – di fatto commissariato – si rivela per quello che è: un signore buono a tagliar nastri e ad annuire nei convegni di Assolombarda, maldestro persino negli affarucci col cognato e ricco di soldi scudati in Svizzera. Una prece.

Quel che esce da questa eccellenza, più che una soave descrizione manzoniana, sembra un quadro di Bosch, coi vecchietti convocati a cento chilometri di distanza, a volte spediti in due posti contemporaneamente, a volte non avvertiti per niente perché la Regione non riesce a spedire i messaggi di convocazione, cosa che indigna Bertolaso: “Siamo atterrati su Marte e non riusciamo a spedire gli sms”. Bella frase, ma un po’ oscura: “Siamo atterrati” chi? I lombardi? La Lega? La Moratti? Se la regione Lombardia avesse organizzato la spedizione su Marte ora saremmo qui incantati a rimirare immagini di qualche palude nel Varesotto, con Fontana che dichiara: “Be’, dài, ci siamo andati vicini”.