Guai se depotenziano l’ergastolo ai mafiosi

“Il mondo è cambiato, ma la mafia non ha fatto che adattarsi; essa è oggi quella che è sempre stata fin dalla sua origine: una società segreta cementata dal giuramento che insegue il potere e il denaro coltivando l’arte di uccidere e di farla franca”. Quel che lo storico John Dickie ha scritto per Cosa Nostra (estensibile alle altre mafie) va condiviso in toto, magari aggiungendo all’arte di uccidere quella di corrompere e di pescare sempre nuovi complici nella inesauribile “zona grigia”. A cambiare siamo invece noi: noi Stato, noi cittadini.

Falcone prima di essere ucciso a Capaci aveva ispirato il cosiddetto “ergastolo ostativo” per i mafiosi, una normativa di giusto rigore che (combinata col 41-bis, approvato subito dopo le stragi del 1992, e con le norme sui “pentiti”) ha contribuito agli imponenti successi ottenuti dagli inquirenti contro la mafia.

Nel 2019 la Corte costituzionale ha “innovato” la materia, nel senso che il magistrato di sorveglianza può concedere permessi premio a tutti i detenuti condannati al massimo della pena per fatti di mafia. Tutti, anche quelli che non si sono pentiti, cioè non hanno “saltato il fosso” e dato una mano collaborando con la giustizia. In sostanza, una robusta spallata all’ergastolo ostativo e di riflesso al pentitismo, non più decisivo per i benefici. Dunque una spallata a due collaudati capisaldi dell’antimafia.

Oggi la Consulta deve stabilire se introdurre un ulteriore cambiamento, così che l’ergastolano mafioso non pentito possa accedere anche alla libertà vigilata. La decisione del 2019 (secondo Giovanni Bianconi) era stata votata con la stretta maggioranza di 8 a 7. Vedremo come andrà a finire questa volta. Certo è che si è già registrato un rilevante cambiamento, nel giro di pochi gironi, da parte dell’Avvocatura dello Stato. In prima battuta essa aveva chiesto alla Consulta di respingere il ricorso del detenuto che aveva sollevato il caso, ora invece ha cambiato avviso, chiedendo alla Corte una sentenza che (senza dichiarare l’incostituzionalità della norma impugnata) la interpreti, nel senso che il giudice di sorveglianza dovrà verificare in concreto quali sono le ragioni che non consentono la condotta collaborativa. L’Avvocatura rappresenta il governo e questo suo ripensamento va appunto collegato al cambio di governo.

Resta comunque difficile capire come un delicato problema intrecciato a filo doppio con la lotta alla mafia possa esser diversamente valutato a seconda della bandiera che sventola a Chigi. La cifra con cui l’esecutivo si rapporta alla mafia dovrebbe essere sempre la stessa, tanto più se ci si vanta – come l’attuale governo – di ispirarsi a un sano pragmatismo.

Ora non è solo pragmatismo, ma plurisecolare e immutabile realtà della mafia (confermata da esperienze univoche e convergenti) che senza “pentimento” manca ogni segno esteriore di apprezzabile concretezza per poter valutare la possibilità di un effettivo distacco dal clan con conseguenti prospettive di reale recupero. La realtà (il “cemento” di cui parla Dickie) esclude in modo assoluto che lo status di uomo d’onore possa mai cessare, salvo che nell’ipotesi (unica!) di collaborazione processuale. In assenza del pentimento le decisioni del magistrato di sorveglianza (oltre a comportare una forte sovraesposizione personale) rischiano di essere una sorta di azzardo surreale.

Vero è che il magistrato di sorveglianza può avvalersi di varie informazioni (del carcere, del Comitato provinciale ordine e sicurezza pubblica, del procuratore nazionale e distrettuale antimafia) sull’attualità dei collegamenti. Ma è anche vero e risaputo che questi “contributi” risultano per lo più di facciata. In particolare, soltanto Alice nel paese delle meraviglie potrebbe fidarsi del mafioso che rivendica come titolo valutativo quello di essere stato un detenuto modello, perché il rispetto formale dei regolamenti carcerari non equivale a un inizio di resipiscenza, ma è una regola che il mafioso “doc” si impone proprio in quanto irreversibilmente “doc”.

Facile prevedere che i legali degli ergastolani per delitti di mafia sosterranno che costoro non sono liberi di scegliere di collaborare, perché metterebbero in pericolo l’incolumità propria e dei familiari. Ma l’obiezione urta contro la constatazione che ormai da anni lo Stato italiano ha dimostrato coi fatti di essere in grado di proteggere migliaia di pentiti e le loro famiglie.

So bene che mi sono guadagnato una grandine di accuse, tipo forcaiolo e manettaro. Ma proprio le vittime di mafia ci hanno insegnato che indipendenza significa fare quel che si ritiene giusto. Anche se le “anime belle” vorrebbero altro.

 

Trump, Biden, la palestina e la scelta di puntare tutto sul gioco d’azzardo

Si chiama “The U.S. Palestinian Reset and the Path Forward” il promemoria con il quale l’Amministrazione Biden intenderebbe cestinare l’Accordo del secolo, la “soluzione di pace” per israeliani e palestinesi presentata da poco più di un anno da Donald Trump (Michele Giorgio, il manifesto, 19 marzo).

Notizie dal futuro. Cestinato l’Accordo del Secolo (il piano di Trump che nel 2020 confinò i palestinesi in un minuscolo Stato-fantoccio senza confini e senza sovranità, alla periferia di Gerusalemme Est, chiamato beffardamente Freedonia), l’Amministrazione Biden tentò di riportare Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, al tavolo delle trattative con Israele, tramite un piano che intendeva “far avanzare la libertà, la sicurezza e la prosperità sia per gli israeliani che per i palestinesi” nel quadro di una soluzione a due Stati basata “sulle linee del 1967, con scambi di terre concordati e accordi sulla sicurezza e sui profughi”. Il piano conteneva critiche (“Non ci piace il colore delle case”) alla colonizzazione israeliana dei territori palestinesi, che è illegale per la legge internazionale; e, come risarcimento per le persecuzioni e le discriminazioni subite dal popolo palestinese fin dal 1917 (dichiarazione di Balfour), proponeva di concedere a Hamas il permesso di edificare e gestire alberghi e casinò, sull’esempio delle concessioni federali Usa ai nativi americani. Dopo il voto favorevole della Knesset (che stupì solo chi non ricordava l’origine di Hamas da gruppi islamisti anti-OLP sostenuti, anche finanziariamente, da Israele: un classico del divide et impera), i casinò palestinesi presero a moltiplicarsi nel deserto inospitale del Negev, e oggi sono moltissimi. Circa il 40 per cento dei palestinesi (i cosiddetti “Apache arabi”) gestisce dei casinò. Il fenomeno è regolato da una legge del 2022, l’Israeli Gaming Regulation Act, per la quale i ricavi derivanti dal gioco d’azzardo devono essere utilizzati da Hamas per finanziare sussidi al popolo palestinese. Il giro d’affari intorno a questo fenomeno è enorme: il Jerusalem Post parla di un ricavo annuale di 300 milioni di sicli. Grazie ai casinò, Hamas continuerà a esercitare da una posizione di forza il proprio ruolo divisivo nella comunità palestinese, come conviene a Israele. Dati gli ingenti interessi economici, peraltro, negli ultimi anni la gestione dei casinò è stata segnata da tensioni interne molto gravi, nelle quali i membri delle otto tribù palestinesi sono arrivati pure a mordersi il naso a vicenda, prima di togliersi il saluto. Un caso di utilizzo improprio di questi fondi è stato scoperto di recente nel nord del bantustan, la riserva dove, secondo l’accusa della tv pubblica israeliana, la famiglia Said, che si occupava della gestione di un casinò, avrebbe rubato 10 milioni di sicli dai conti di Hamas, usando quel denaro per condurre una vita definita “oscenamente lussuosa”. Il casinò coinvolto nel caso è l’Intifada Sands, aperto nel 2025 con un concerto di Al Bano. I quattro famigliari incriminati – un ex-attivista di Hamas, sua madre, sua sorella e suo cognato – avrebbero speso quei milioni in gioielli, una villa di lusso con piscina, e viaggi aerei in località di sogno. Secondo la tv israeliana, la famiglia Said è ricorsa per anni a metodi intimidatori nei confronti delle altre tribù palestinesi per non essere denunciata (“Se ci denunciate, vi mettiamo i lombrichi nel letto.”). Pare anche che i Said abbiano fornito documentazioni false agli agenti del Mossad che stanno indagando sul caso, ma siano stati sgamati perché le banconote dentro i passaporti non erano sufficienti.

 

L’uso e l’abuso delle donne democratiche

Come nuovo segretario del Pd, Enrico Letta (eletto quasi per acclamazione) ha tutto il diritto di cambiare le presidenze dei gruppi parlamentari con due donne (o con chi preferisce), ma se al Senato la consistente fronda che sostiene l’attuale capogruppo barricato Andrea Marcucci protesta per “l’uso strumentale delle donne”, qualche ragione ce l’ha.

Infondata non sembra neppure l’osservazione di Base riformista (così si chiamano i renziani imboscati al Nazareno) che rimprovera a Letta di non avere usato il tema della parità di genere quando non gli conveniva: “Per il gruppo a Bruxelles o quando non ha chiesto ai ministri maschi del Pd di lasciare il posto a donne” (La Stampa). A parte l’unanimità di facciata finita subito in pezzi, da parte di Letta non sarebbe stato più rispettoso parlar chiaro? Dire per esempio: propongo queste due parlamentari al vertice dei gruppi non solo per le loro indubbie capacità, ma anche perché più in linea con la mia proposta politica rispetto a Delrio e Marcucci? La parità di genere non dovrebbe essere una quota rosa, e neppure blu, ma il rispetto rigoroso della Costituzione là dove si stabiliscono le pari opportunità tra le persone senza distinzione alcuna? Il che dovrebbe significare non un astratto equilibrio numerico, ma la possibilità per le donne di occupare, sulla base del merito, perfino tutti i posti disponibili in un’assemblea o in un cda se ciò assicurasse un beneficio collettivo.

E cosa dire del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che propugna la creazione di “piattaforme anonime che denuncino chi viola l’art. 27 del codice delle Pari opportunità”, cioè la norma che “proibisce ai datori di lavoro di fare domande personali a una donna” durante un colloquio di impiego? Un’abitudine odiosa, non c’è dubbio, ma lo strumento della denuncia anonima non rischia di essere un rimedio peggiore del danno quando venisse usato, in dispregio della privacy, per spargere veleni, o addirittura per colpire le lavoratrici invece di tutelarle? Si ha l’impressione che sulla questione il Pd abbia una grossa coda di paglia e si muova un po’ come capita senza un metodo e una visione complessiva. Dove non si sente la voce dei dem, infatti, è sulla emergenza drammatica dei nidi e delle scuole d’infanzia sbarrati causa lockdown. Sono servizi essenziali la cui privazione ha conseguenze devastanti per le famiglie, a cominciare dalle mamme costrette in situazioni disperanti. Altro che uso politico della parità di genere e pari opportunità di facciata.

Super Mario e il “tutorial” sull’uso scorretto della mascherina

È un esercizio divertente – purché non lo si prenda troppo sul serio – confrontare le immagini di Mario Draghi in conferenza stampa, venerdì scorso, con le linee guida del ministero della Sanità sul corretto utilizzo della mascherina.

A ben vedere, il presidente del Consiglio si è prestato a fare da testimionial, impeccabile, di come non si deve assolutamente portare una mascherina. Le istruzioni per l’uso ormai si dovrebbero conoscere a memoria, ma torna utile rileggerle insieme (citando il testo dell’Istituto superiore di Sanità): “Indossare la mascherina toccando solo gli elastici o i legacci e avendo cura di non toccare la parte interna;  se si deve  spostare la mascherina manipolarla sempre utilizzando gli elastici o i legacci; se durante l’uso si tocca la mascherina, si deve ripetere l’igiene delle mani; non riporre la mascherina in tasca e non poggiarla su mobili o ripiani;  quando si rimuove manipolare  la mascherina utilizzando sempre gli elastici o i legacci; lavare le mani con acqua e sapone o eseguire l’igiene delle mani con una soluzione alcolica”.

In pochi minuti Draghi riesce a infrangere tutte le norme di comportamento con una naturalezza esemplare: si sfila la mascherina, ne tocca l’interno, la chiude e inizia a passarla da una mano all’altra; la tiene premuta tra pollice e indice come a tastarne la consistenza, la poggia sul tavolo per un po’ e quando finisce di parlare se la rimette in faccia come se nulla fosse.

“Pessima idea e il Parlamento allargherà ancora di più le maglie”

“La lunga battaglia sul condono che ha bloccato il dl Sostegni è solo l’antipasto di quello che accadrà in Parlamento, dove Lega e FI torneranno all’attacco per accontentare meglio i loro elettori. Alla fine conviene sempre non pagare multe e imposte, perché prima o poi arrivano i soliti stessi partiti in soccorso dei più furbi”. Paolo Balduzzi, economista dell’Università Cattolica e redattore de lavoce.info non ha dubbi: “La cancellazione di una parte delle cartelle esattoriali è un colpo di spugna che accontenta solo la politica”.

Ha fatto bene il governo a varare l’ennesimo condono?

Il condono non è mai una notizia positiva. È un bruttissimo messaggio politico quello che è passato, l’idea che gli evasori possano essere sempre salvati. Cambiamo, invece, una volta per tutte la richiesta da fare alla politica: serve una semplificazione del sistema tributario per far funzionare il meccanismo di controllo e di discarico dei crediti non riscossi.

Il premier Mario Draghi ha parlato di un fallimento dello Stato.

Ha anche anticipato una futura riforma dell’attività di riscossione per evitare in futuro situazioni analoghe. Ma intanto a pagarne le conseguenze è tanto lo Stato quanto gli enti locali. Ci sono migliaia di Comuni che hanno messo a bilancio dei crediti iscritti a ruolo che ora non saranno più esigibili. Ma per loro c’è già un meccanismo che dopo qualche anno li obbliga a non considerare più i vecchi residui. Mentre a livello statale non è previsto nulla con le varie manovre che hanno messo a bilancio le entrate delle rottamazioni. Soldi che rientreranno tra parecchi anni sempre che non vengano fatti altri condoni. Quindi più i residui invecchiano più i bilanci che li riportano sono falsati.

Cosa si può fare adesso?

Diverso sarebbe se la procedura di riscossione prevedesse una cancellazione automatica dopo un certo numero di anni. Farebbe sempre schifo, ma almeno sarebbe trasparente.

Il governo sana anche le cartelle ancora esigibili

Per il sottosegretario leghista Claudio Durigon “chi parla di condono lo fa senza cognizione”. Ma a usare quella definizione, e a ragion veduta, è stato venerdì lo stesso Mario Draghi: il colpo di spugna sui debiti fiscali fino a 5mila euro accumulati tra il 2000 e il 2010 da contribuenti con reddito Irpef fino a 30mila non cancella solo quelli davvero inesigibili.

A smentire il mantra ripetuto in questi giorni dai sostenitori della sanatoria è la Relazione tecnica del decreto Sostegni, che quantifica in 451,3 milioni l’impatto del provvedimento sulle casse dello Stato: si tratta di soldi che il fisco stava già incassando a rate – da chi aveva aderito alla rottamazione ter o al saldo e stralcio del governo gialloverde – o su cui comunque aveva ancora “un’aspettativa di riscossione”. Quasi mezzo miliardo di euro che era esigibile eccome, dunque, ma va al macero per effetto del condono. Sommando anche i 215 milioni di rimborso delle spese di notifica delle cartelle, il conto totale arriva a 666,3 milioni.

La cifra può apparire relativamente contenuta se si confronta con il valore nominale dei crediti annullati: ministero dell’Economia e Agenzia delle Entrate Riscossione non sono ancora in grado di quantificarlo, ma stime conservative parlano di almeno 20 miliardi. Quel che conta però è il messaggio inviato a chi ha vecchie pendenze con l’erario: non è il caso di pagare, basta attendere e prima o poi qualcuno interverrà per azzerare il conteggio. Tanto più che anche questa volta non si parla solo di piccole cifre: un contribuente che abbia debiti verso diversi enti potrà vedersi abbuonare anche decine di migliaia di euro.

A fronte di questo disincentivo alla fedeltà fiscale – che avrà ovvie conseguenze sulla “lotta all’evasione” evocata dal premier – l’operazione scalfisce appena il maxi magazzino da 987 miliardi che è la vera emergenza da affrontare, perché zavorra la riscossione e ne riduce l’efficacia. Dopo lo stralcio, infatti, l’erario resterà comunque ingolfato da oltre 100 milioni di cartelle e avvisi di accertamento. In buona parte davvero senza speranza di recupero perché la controparte è un’impresa fallita, un nullatenente, un contribuente morto nel frattempo.

Per questo ora la partita cruciale è la revisione del farraginoso meccanismo di discarico dei crediti non riscossi, che il dl Sostegni rinvia a un provvedimento del Tesoro da adottare entro 60 giorni. Il governo Draghi ha davanti due strade. La prima è quella prevista nelle prime bozze del decreto: cancellazione automatica dopo cinque anni dall’affidamento all’ex Equitalia. Il risultato sarebbe nei fatti un condono permanente. “Mettere una tagliola temporale a prescindere dal fatto che si sia tentata un’azione esecutiva indebolirebbe l’intero sistema”, commenta Maria Cecilia Guerra, sottosegretaria all’Economia in quota Leu che al condono si è opposta fino all’ultimo. “Equivarrebbe a dire al contribuente che a fronte di un debito certificato nessuno andrà a chiedergli quei soldi”. L’alternativa? “Facilitare la cancellazione dal magazzino dei soli crediti davvero inesigibili, rispetto ai quali siano state tentate tutte le azioni cautelari ed esecutive permesse dalla legge. Oltre ovviamente a quelli che fanno capo a nullatenenti o imprese fallite”.

Condono permanente garantito o cancellazione “chirurgica”, dunque. Per farsi un’idea del contesto in cui va presa la decisione, più della stima sull’evasione complessiva (104,6 miliardi l’anno) vale un altro dato. Per mediare tra le richieste massimaliste di Lega e Forza Italia e la linea di Pd e Leu, prima del Cdm si è deciso di limitare l’arco temporale oggetto del condono al 2010 e di riservarlo a chi abbia un reddito Irpef inferiore a 30mila euro. Poi si sono fatti i conti e si è visto – ad attestarlo è ancora la relazione tecnica – che il paletto serve a poco: su un campione di 3 milioni di italiani con debiti iscritti a ruolo l’83% dichiara meno di quella cifra. Tra evasione, elusione e omessa dichiarazione, calcola la commissione incaricata di quantificare il fenomeno, autonomi e imprese versano in media solo un terzo dell’imposta dovuta.

Ecco perché lo Stato non riesce a incassare

La riscossione coattiva delle imposte langue. Una spessa cortina fumogena favorisce la fuga da un’amministrazione finanziaria lenta e con le armi spuntate con il risultato che sia chi ha i soldi, sia chi non li ha, alla fine non paga. C’è sempre qualcosa di nuovo nel fisco italiano: novità che però sanno d’antico. Come l’annuncio del condono fatto dal presidente del Consiglio Mario Draghi nella sua prima conferenza stampa, che parte da una presa d’atto dal sapore amaro dell’ennesima resa dello Stato: la macchina della riscossione non riesce a stare dietro alle cartelle emesse dall’Agenzia delle Entrate, dall’Inps, dall’Inail, dagli enti locali. E non da adesso ma da almeno da vent’anni.

È il 6 aprile 2017. La sesta Commissione Finanze della Camera ascolta in audizione la relazione dell’allora amministratore delegato di Equitalia, Ernesto Maria Ruffini. “A oggi – spiega – sono circa 21 milioni i contribuenti che risultano avere debiti a vario titolo con gli enti creditori (…). Il carico contabile residuo, affidato dai diversi enti creditori tra il 1 gennaio 2000 e il 31 dicembre 2016, ammonta a 817 miliardi di euro”. Oltre il 43% segnalava già allora Ruffini, difficilmente recuperabile. Equitalia Spa, società a totale controllo pubblico (51% all’Agenzia delle Entrate, 49% all’Inps) aveva ereditato dall’ottobre 2006 il compito di occuparsi della riscossione dei tributi su tutto il territorio nazionale, Sicilia esclusa, da 39 esattori privati, in prevalenza banche. Nel periodo 2000-2005 le società concessionarie private avevano incassato in media ogni anno circa 2,9 miliardi di euro. Con Equitalia la cifra è salita a 7,8 miliardi di euro fino a toccare nel 2016 gli 8,7 miliardi di euro, ma a fronte di 3 miliardi e 209 milioni di passivo di bilancio (nonostante un aggio, cioè la remunerazione dell’agente della riscossione, che ha oscillato negli anni tra l’8 e il 6%) e un carico di 7.600 dipendenti.

L’audizione di Ruffini, che diventerà pochi mesi dopo direttore dell’Agenzia delle Entrate, rappresenta una sorta di verbale di liquidazione di Equitalia e il simbolico passaggio delle chiavi delle casse della riscossione a un nuovo ente economico. Tuttavia il vecchio chiuderà in bellezza. Il 21 aprile successivo, infatti, sarà l’ultimo giorno utile per aderire alla rottamazione Equitalia, ossia l’ennesima definizione agevolata delle cartelle esattoriali che permetteva di mettersi in regola pagando le imposte non versate senza sanzioni e interessi di mora.

Senza che nessuno nel gruppo Equitalia sia costretto a cambiare scrivania, il primo luglio 2017 nasce così, su iniziativa del governo Gentiloni, l’agenzia delle Entrate-Riscossione, ente strumentale dell’Agenzia delle Entrate.

E veniamo ai giorni nostri. “Al 31 dicembre 2020 il magazzino complessivo dei crediti affidati dagli enti creditori all’Agenzia delle Entrate-Riscossione dal 2000 al 2020 ormai ha raggiunto circa 1.000 miliardi di crediti non riscossi, accumulati nel corso di 20 anni, il che è un’anomalia e sono riferiti in gran parte a soggetti che non sono in grado di sostenere la riscossione”, ha ripetuto a Telefisco il direttore Ruffini.

Conclusione: in tre anni presso la nuova Agenzia si sono accumulati altri duecento miliardi di crediti, in maggioranza non esigibili. Per la verità questa cifra roboante è concentrata su circa il 20 per cento delle situazioni debitorie, fa osservare la Corte dei Conti nel suo Rendiconto annuale. Basterebbe selezionare gli obiettivi e focalizzare anche gli sforzi per ottenere risultati migliori. Ma è l’intero sistema che congiura contro l’agente della riscossione. E prima di tutto il tempo.

La prima comunicazione di irregolarità dal fisco al contribuente arriva almeno dopo tre anni. Se non si paga, come avviene spesso, si procede all’iscrizione a ruolo. Per la notifica della cartella passa un altro anno e intanto molte attività, soprattutto commerciali, sono svanite insieme ai debiti fiscali e agli incassi Iva. Trascorsi i termini di legge inizia la ricerca dei beni da aggredire sulle banche dati, ma non tutto è pignorabile, come l’abitazione principale e le automobili non intestate e in leasing. Le altre al massimo rischiano un fermo amministrativo. Finito questo giro l’agente del fisco può tentare il pignoramento verso terzi, cioè canoni e stipendi. Sulle pensioni si può fare ben poco. Per trattenere una parte dello stipendio si deve presentare richiesta al sostituto d’imposta ma si può prelevare solo un quinto.

L’attività di riscossione può funzionare molto di più nei confronti di qualcuno che ha un grosso patrimonio e molte fonti reddituali, un soggetto del tutto ideale, per il nostro funzionario delle Entrate. Ma se sei socio, come accade a una parte sempre maggiore di operatori, di una società a responsabilità limitata, agli occhi del fisco ti trasformi per legge in una persona fisica che non ha niente di intestato e gode al massimo di un reddito di sopravvivenza.

La rincorsa all’ambito status di “socio di capitali” è confermato dai trend degli ultimi anni registrati all’anagrafe delle imprese. Secondo i dati dell’Anagrafe tributaria, il numero di imprese individuali è diminuito da 3,7 milioni nell’anno 1993 a 1,6 nel 2017, mentre il numero delle società di capitali è costantemente salito, passando da 626 mila nel 1993 a 1,2 milioni nel 2017, di cui l’89,1 per cento erano srl. Le ultime rilevazioni ci dicono che l’aggregato delle società a responsabilità limitata ha ormai superato 1,7 milioni di soggetti a fronte di 3,1 milioni di imprese individuali (a loro volta, in buona parte in regime forfetario).

Si deve concludere che gli unici che hanno una visibilità fiscale sono i dipendenti e che, nella catena dei possibili creditori, lo Stato sia l’anello più debole. La minaccia della sanzione pecuniaria, come sottolineano gli esperti della Corte dei Conti, evidentemente non funziona. Meglio puntare all’applicazione di sanzioni accessorie, come la chiusura dell’esercizio commerciale e l’interdizione degli amministratori delle società, anche se difficilmente applicabili per il gran numero di segnalazioni alle Camere di commercio e alle banche da effettuare per renderle veramente efficaci.

Mario Draghi ha annunciato di voler mettere mano al meccanismo inceppato della riscossione nei prossimi 60 giorni: probabilmente troppo pochi se non si vuole limitare a fissare una prescrizione periodica delle cartelle esattoriali inesigibili, rendendo così il condono perpetuo.

“Crescent abusivo” I pm: “un anno e mezzo per Vincenzo De Luca”

I fan dello sceriffo possono stare relativamente tranquilli. La richiesta di condanna di Vincenzo De Luca a un anno e mezzo di reclusione nel processo d’appello per il Crescent, il maxi edificio sul lungomare di Salerno, non comporta rischi di sospensione dalla carica di governatore della Campania. Riguarda due capi di imputazione relativi a presunte violazioni paesaggistiche del codice Urbani del 2004. Le accuse di abuso d’ufficio, quelle sì pericolose per la legge Severino, si sono prescritte insieme alle accuse di falso dopo l’assoluzione in primo grado. Lo ha sancito ieri la requisitoria dei pm di Salerno nell’aula bunker del carcere di Fuorni. Secondo i quali il Crescent “è chiaramente abusivo” e dunque “va confiscato e destinato al patrimonio pubblico del comune di Salerno”.

Una requisitoria durissima, accompagnata dalla richiesta di condanna di De Luca, all’epoca dei fatti sindaco di Salerno, e di altri sei imputati per i quali i pm hanno sollecitato pene variabili dai 14 ai 16 mesi di reclusione, per una vicenda tecnico-amministrativa che secondo i sostituti procuratori si è consumata tra “macroscopiche illegittimità”, attraverso “permessi provvisori e parziali in assenza di un unico permesso a costruire”. Ad aprile toccherà alle difese. Poi la sentenza.

Cartabia non ferma il blitz degli impuniti

Un mese fa, appena insediata in via Arenula, aveva sventato il blitz contro “la blocca-prescrizione” di Alfonso Bonafede. Ma stavolta, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, non è riuscita a fermare l’assalto dei “garantisti”, ma solo a rinviarlo di una settimana. Perché il nodo politico che ruota intorno al principio della presunzione di innocenza dentro la maggioranza resta. E la Guardasigilli se n’è resa conto ieri durante la riunione con i capigruppo in commissione Giustizia per provare a evitare il voto sugli emendamenti alla legge di Delegazione europea 2019-2020 presentati dal deputato di Azione, Enrico Costa, ma anche da Lega, Forza Italia e Italia Viva. L’obiettivo del centrodestra più i renziani è quello di recepire la direttiva europea che impone all’Italia di adeguarsi sul principio della presunzione di innocenza aggiungendo a essa degli emendamenti in funzione anti-pm: limitazione delle dichiarazioni dei magistrati durante le inchieste, lo stop alla diffusione di intercettazioni, audio e video, ma anche il divieto di pubblicare “integralmente” le ordinanze di custodia cautelare.

Inoltre Costaha presentato un emendamento secco per chiedere di recepire la direttiva del Parlamento Ue del 2016 “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Ma su un tema così delicato la maggioranza si sarebbe spaccata in aula per la contrarietà del M5S. Così ieri è intervenuta Cartabia convocando la riunione e chiedendo alla maggioranza di “esprimersi” e provando a mettere in campo la sua moral suasion per far ritirare gli emendamenti e inserire le modifiche nella riforma del processo penale di cui si sta occupando la task force di via Arenula. Oltre alla pressione del ministro dei Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, per far ritirare gli emendamenti, anche il sottosegretario alle Politiche Ue del Pd Enzo Amendola ha chiesto che la legge di Delegazione sia approvata il prima possibile per evitare una procedura d’infrazione evitando un nuovo passaggio in Senato: cosa che avverrebbe nel caso in cui gli emendamenti di Costa&c. venissero approvati. Ma nessuno ha deciso di ritirare le proposte di modifica.

Lega e FI hanno fatto sapere che avrebbero ritirato i propri emendamenti se lo avessero fatto tutti, ma il niet è arrivato da Costa e da Maria Elena Boschi di Iv. Quest’ultima ha detto che sulla presunzione di innocenza “non possono esserci ambiguità” legando il ritiro degli emendamenti a una legge con corsia preferenziale. Ma Costa va avanti: “Io non ritiro niente – spiega – se ci sono incertezze sulla presunzione di innocenza è un problema politico che va risolto”. Così Cartabia ha detto: “Mettetevi d’accordo”. Il voto di oggi è stato rinviato. Ma il nodo politico resta.

Mafiosi in libertà, adesso il governo inizia a cedere

Cambia il governo e cambia pure la posizione dell’Avvocatura dello Stato, che apre a un ammorbidimento della norma che impedisce ai mafiosi condannati all’ergastolo di ottenere la libertà condizionata dopo 26 anni di carcere, se non collaborano con la giustizia. Ieri, davanti alla Corte costituzionale, l’Avvocatura dello Stato, a sorpresa, fa un’apertura anche se lascia il classico cerino acceso in mano alla Consulta. Dice no alla richiesta della Cassazione di dichiarare incostituzionale quella norma appena spiegata, ma aggiunge che la Corte potrebbe interpretarla nel senso di dare discrezionalità al giudice competente “Il giudice di Sorveglianza – ha detto l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia – deve verificare in concreto le ragioni che non consentono di realizzare una condotta collaborativa”. Un concetto che mutua una sentenza della Corte costituzionale del 2019, quando presidente era proprio la neo ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che ha dichiarato incostituzionale la stessa norma ora in discussione, ma con riferimento ai soli permessi premio.

La Corte, però, nel 2019, relatore come ora Nicolò Zanon, ha comunque messo dei paletti che il giudice di Sorveglianza deve seguire per poter spingersi a fare concessioni a un mafioso ergastolano non pentito. Allora, però, con l’ex governo e l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, l’Avvocatura dello Stato si era pronunciata contro qualsiasi apertura. Ora il cambio di passo: mentre inizialmente aveva chiesto l’inammissibilità o l’infondatezza della questione di costituzionalità sollevata dalla Cassazione, adesso invita a una cosiddetta sentenza interpretativa di rigetto, chiedendo che ci sia una certa discrezionalità del giudice di Sorveglianza, anche alla luce non solo della sentenza della Corte, ma anche di quella della Cedu di Strasburgo, di pochi mesi prima, critica verso l’Italia. Ed ecco che suggerisce pure la linea: “Il governo ritiene che ci sia la possibilità di praticare un’esegesi maggiormente corrispondente alla ratio della norma, assicurando uno spazio discrezionale al magistrato, in termini di verificare in concreto le motivazioni su quella mancata collaborazione che è condizione per ottenere il beneficio”. La Cassazione si è rivolta alla Corte costituzionale per il caso del mafioso siciliano Salvatore Francesco Pezzino: difeso dall’avvocata Giovanna Araniti, ha chiesto la libertà condizionata senza aver mai collaborato.

Esprime grande preoccupazione il pm antimafia Nino Di Matteo, ora consigliere del Csm, che ci dice: “Poco alla volta, nel silenzio generale, si stanno realizzando alcuni degli obiettivi principali della campagna stragista del 1992-1994 con lo smantellamento del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose ideato e voluto da Giovanni Falcone”. Lo stesso Di Matteo, ieri, al plenum del Csm, ha evidenziato delle criticità sull’organizzazione della Procura europea e la ministra Cartabia, presente al plenum, presieduto da Sergio Mattarella, ha assicurato che le valuterà. “Dobbiamo evitare – ha detto Di Matteo – che il suo avvio rappresenti in concreto nel nostro Paese un depotenziamento dell’altissimo livello di contrasto alle mafie finora assicurato dall’attribuzione in via esclusiva alle competenze” dei magistrati italiani. Il plenum ha votato il parere a favore della Procura europea con la sola astensione di Di Matteo e dei laici della Lega, Stefano Cavanna ed Emanuele Basile.