Cani, polli arrosto e marijuana: viva Harry e Meghan

Meghan. “Quello che Meghan vuole, Meghan ottiene” (il principe Harry).

Corgi. I cagnolini corgi della regina, che abbaiano quando arriva Harry, s’accucciano quando vedono Meghan.

Nozze. Harry e Meghan, dopo essersi sposati nella cappella aromatizzata, per ordine di Meghan, da centinaia di candele francesi Dyptique, escono a braccetto dopo la cerimonia, passano davanti alla regina e non si inchinano.

Rolls. I vetri delle Rolls-Royce di Elisabetta sono più ampi perché “una regina deve essere vista per essere creduta”.

Cowboy. Nell’Accademia militare di Sandhurst nessuno aveva riservato a Harry un trattamento di favore. Veniva punito come tutti per un letto fatto male o per un paio di calzoni non perfettamente stirati. “Il corso di Sandhurst è molto duro e già nelle prime settimane si registra ogni anno più del 10 per cento di abbandoni. Si lavora dall’alba al tramonto, bisogna essere sempre pronti a fare qualcosa, sempre in ordine, continuamente giudicati da sottufficiali che non te ne perdonano una. Era esattamente quello che Harry voleva: ‘A me piaceva correre nel fango sparando proiettili: io sono così, lo adoro’”. Poi, dopo Eton, Harry fece esperienza in Australia, presso la Tooloombilla Station, un ranch del Queensland lontano 540 chilometri dalla città più vicina, Brisbane. Si proponeva di diventare uno jackaroo, il cowboy australiano che governa le mandrie di mucche o di pecore e deve cavalcare per decine di miglia solo per andare ad aggiustare un recinto.

Guerra. Harry partì per Kandahar il 14 dicembre 2007 e raggiunse la 52ª Brigata nella provincia di Helmand. Aveva a disposizione un letto, una coperta, un armadietto e una bottiglia d’acqua al giorno. Non c’erano docce o acqua corrente: “È davvero bizzarro: sono qui, non faccio la doccia da quattro giorni, non lavo i vestiti da una settimana, e tutto sembra assolutamente normale”.

Diaz. Cameron Diaz chiese al principe Harry il numero di telefono. Lui non glielo diede.

Meghan. Meghan, attrice il cui telefono, prima della serie Suits, non squillava mai. Fece l’hostess in un ristorante, poi andò a confezionare pacchi in un negozio, infine, grazie alla bella calligrafia, venne assunta per vergare cartoncini di invito ai matrimoni e alle feste di Hollywood.

Suits. Ingaggiata in Suits soprattutto perché non abbastanza bella da rubare la scena alle protagoniste.

Marijuana. Le bomboniere del primo matrimonio di Meghan con Trevor Engelsson erano pacchettini su cui era scritto “Shh…” e che contenevano spliff di marijuana.

Addio. Modo in cui Meghan lasciò Trevor dopo il successo di Suits: fede infilata in una busta e spedita per posta in California.

Vino. Vino preferito di Meghan: il Tignanello, creato nel 1970 da Piero Antinori nella tenuta di San Casciano.

Cory. A Toronto, Meghan aveva avuto una storia col grande cuoco Cory Vitiello. Finì tutto quando lei si mise a dire che i piatti li preparava lei.

Pipì. Harry, dopo aver conosciuto Meghan, colpito dal fatto che Meghan non aveva paura di andare a fare pipì nei boschi.

Sì. Lei, che in cucina sta arrostendo un pollo. Lui che si inginocchia con l’idea di chiederla in moglie. Lei che non lo fa neanche cominciare e domanda: “Posso dire subito di sì?”. (2. Fine)

Notizie tratte da: Vittorio Sabadin “La guerra dei Windsor”, Utet, 286 pagine, euro 26

 

Questa sporca dozzina. Da Ciabatti (favorita) a Bruck

Autofiction, geografia locale se non rionale, storie di famiglia, madri e sorelle: messo così, come l’ha apparecchiato Melania Mazzucco (presidente del Comitato direttivo, ndr), il menu di questo 75esimo Premio Strega non suona appetitoso. Eppure la cernita della dozzina è stata scremata a partire da ben 62 titoli proposti dagli Amici della Domenica: ecco i primi dodici finalisti – 7 donne contro 5 uomini – e le nostre pagelle. Generosissime.

Andrea Bajani, Il libro delle case, Feltrinelli: 8. Con un espediente à la Perec, non inedito ma certo originale, Bajani rende unica una vita “comune” (in parte autobiografia) dando più peso allo spazio che al tempo. Il libro delle case è anche delle cose, e “oggettivazione” parola chiave. L’autore chiama il protagonista “Io” e lo narra in terza persona (je est un autre, gli altri sono solo Madre, Nonna ecc). I muri hanno parlato.

Edith Bruck, Il pane perduto, La Nave di Teseo: 8 ½. Non suoni blasfemo, ma Edith Bruck, quasi 90 anni, è in missione per conto di Dio, quasi come sua madre che lo invocava a tutte le ore del giorno, pure per vincere la stitichezza. Poi c’è l’orrore: numero 11152, Auschwitz. Ma al di qua e al di là, incontri, amori, balli e vita, la vita di una “figlia adottiva dell’Italia, che mi ha dato molto di più del pane quotidiano”.

Maria Grazia Calandrone, Splendi come vita, Ponte alle Grazie: 7. Una poetessa racconta le ferite della sua esistenza. Il rapporto con la madre adottiva è un disamore scandito da incomprensioni e rincorse. Attraverso brani di un lirismo struggente, macchie nere di ricordi sulle pagine bianche, madre e figlia si riconciliano in un riscatto che commuove.

Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani: 8–. Non ci si può avvicinare ai cigni senza pensieri, attaccano spesso. Così farà sempre Gaia, anche con chi le tenderà il “suo tozzo di pane duro, la sua elemosina d’amore”. In un percorso di (non) formazione in cui le ingiustizie sociali spengono ogni chance di riscatto, ci si dibatte in un limaccio di umiliazioni e vendette.

Teresa Ciabatti, Sembrava bellezza, Mondadori: 8/9. Una scrittrice che dice io – di carta profilata con un dosaggio di realtà e finzione – racconta un’adolescenza da emarginata e una maturità da moglie adultera e madre respinta. Un’autofiction che sfiora la verità tanto più è inautentica. Brucia un seme di rivalsa ma a incendiare le pagine è il rimpianto.

Donatella Di Pietrantonio, Borgo Sud, Einaudi: 7++. L’Arminuta è diventata adulta. Costretta a tornare nel suo paese d’origine ritrova il microcosmo ripudiato: la pesca e la fatica come valore, le superstizioni e il culto della famiglia. Il richiamo arcaico del sangue ha il sopravvento sul suo scarto intellettuale. Un romanzo sulla fatica di amare: spietato.

Lisa Ginzburg, Cara pace, Ponte alle Grazie: 7++. Non sempre la famiglia è nido. Non lo è per Maddi e Nina, “orfane senza esserlo”, costrette a fare della sorellanza protezione. Nell’intimo, con metaforico richiamo al guscio delle testuggini, casa e scudo, Ginzburg indaga gli effetti dell’abbassare le difese per arrendersi e riconciliarsi, con se stessi, con la vita.

Giulio Mozzi, Le ripetizioni, Marsilio: 6–. Mario è un uomo irresoluto; talvolta soffre di “disseccamento della logorrea” e ha tre donne: A (Agnese, la figlia) e B (Bianca, la ex) + V (Viola). Mozzi è scaltro: muove personaggi, trame e stile come in un gioco enigmistico, già letto e ambizioso. E il romanzo è invero una collezione di racconti sul protagonista e nel protagonista, fin dentro i suoi pensieri. Viene la labirintite già dall’indice. L’ha capito solo Walter Siti.

Daniele Petruccioli, La casa delle madri (TerraRossa): 7+. Le case non si possiedono, sono loro ad abitare noi. Nel fluviale esordio di Petruccioli, in cui echeggia Gita al faro, la domus è lente attraverso cui scansionare i legami di tre generazioni: i gemelli Ernesto ed Elia, i loro genitori, i nonni, in una polifonia che alterna luci e ombre, distanze e (ri)avvicinamenti.

Emanuele Trevi, Due vite, Neri Pozza: 7. Due scrittori amici morti: Rocco Carbone e Pia Pera. Non un romanzo, ma pur sempre letteratura. L’apoteosi del privato in pubblico, in cui Trevi non ha paura di mostrarsi. Il libro riprende, e amplifica, il genere di Qualcosa di scritto e come quello si nutre del dolore dei ricordi.

Alice Urciuolo, Adorazione, 66thand2nd: 5/6. Adolescenti, Agro Pontino, assassinio: la sceneggiatura è perfetta, e infatti la firma una degli autori della serie Skam Italia. La carta però non perdona: troppo “descrizionismo”, troppi dialoghi. Diana, Vera, Vanessa, Giorgio, Christian, Gianmarco… E poi Elena, la morta, ed Enrico, l’omicida… Più che riflettere sul femminicidio, vien da rimpiangere Beverly Hills 90210.

Roberto Venturini, L’anno che a Roma fu due volte Natale, Sem: 6+. Torvaianica, villaggio Tognazzi: negli anni 60 era il salotto estivo del cinema, ora è periferia. Villette sul mare scrostate fanno da variazione a un panorama di sottoproletari. Godibile la trama un po’ pazza, con al centro un piano per trafugare la salma di Raimondo Vianello. Cinismo senza cantautorato, parafrasando una band.

“Maltrattate e mal pagate”. Donne contro la Boldrini

Lilia è una collaboratrice domestica moldava e qualche giorno fa si è dovuta rivolgere a un patronato della Capitale perché quella che è stata la sua datrice di lavoro per otto anni, a dieci mesi dalla rottura del contratto, non le pagava la liquidazione. Fin qui non ci sarebbe nulla di così inedito se quella datrice di lavoro non avesse un nome che pesa. Un nome che ha impostato la sua politica e la sua comunicazione politica sulla difesa delle donne, delle minoranze, degli stranieri, dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici più fragili. E quel nome è Laura Boldrini.

Il racconto parte da qui, da una soffiata dal mondo vicino ai Caf, e poi si allarga, perché cercando di comprendere come sia stato possibile arrivare a una frizione così insanabile da chiedere l’intervento del patronato, succede di scoprire che i rapporti di lavoro con la Boldrini sono stati complicati anche per altre sue ex collaboratrici. Ma partiamo da Lilia che, contattata, precisa subito: “Io non voglio pubblicità, ma confermo che a maggio dello scorso anno ho dovuto dare le dimissioni perché la signora, dopo tanti anni in cui avevo lavorato dal lunedì al venerdì, mi chiedeva di lavorare meno ore, ma anche il sabato. E io ho famiglia, dovevo partire da Nettuno e andare a casa sua a Roma, per tre ore di lavoro. Siamo rimaste che faceva i calcoli e mi pagava quello che mi doveva, non l’ho più sentita. Io sono andata al patronato, ho fatto fare da loro i calcoli. La sua commercialista mi ha detto che mi contattava e invece è sparita. Alla fine, tramite l’avvocato messo a disposizione dal patronato, ora siamo in contatto, mi faranno sapere. Io comunque la signora non l’ho mai più sentita, non la volevo disturbare. Mi dispiace perché non sono tanti soldi, circa 3.000 euro, forse è rimasta male che non abbia accettato di andare il sabato. Io ero dispiaciuta”. A questo punto, contatto alcune persone vicine alla Boldrini per sapere se conoscono questa vicenda, qualcuno mi dice di sì con imbarazzo, altri rispondono con frasi smozzicate, lasciando intendere che Lilia non è la sua prima dipendente donna ad aver avuto dei problemi e che in fondo quella è la punta dell’iceberg. Addirittura, mi viene riferito con una certa reticenza, che il suo portavoce storico Flavio, la scorsa estate, abbia interrotto il suo rapporto di lavoro con la Boldrini anche a seguito di numerosi scontri avuti con lei per il trattamento riservato ad alcune collaboratrici. Contattato, si è rifiutato di commentare questa voce: “Dico solo che ho fatto altre scelte”. Roberta, una sua ex collaboratrice parlamentare, invece accetta di parlare: “Ho lavorato due anni e mezzo con la Boldrini e posso dire che ho tre figli, partivo il martedì alle 4.30 da Lodi per Roma, lavoravo per tre giorni 12 ore al giorno, dalla mattina presto alle nove di sera. Per il resto lavoravo da casa, vacanze comprese. Guadagnavo 1.200/1.300 euro al mese, da questo stipendio dovevo togliere costi di alloggio e dei treni da Lodi”. Chiedo a Roberta quali fossero le sue mansioni. “Ero assunta come collaboratrice parlamentare e pagata quindi dalla politica per agevolare il lavoro di un parlamentare, ma il mio ruolo era anche pagare gli stipendi alla colf, andarle a ritirare le giacche dal sarto, prenotare il parrucchiere. Praticamente facevo anche il suo assistente personale, che è un altro lavoro e non dovuto. Dovevo comprarle trucchi o pantaloni. Lei ha una casa a Roma, quando rimaneva sfitta io portavo pure gente a vedere l’appartamento o chiamavo le agenzie immobiliari. Per questi problemi con la colf bisognava ricostruire tutti i suoi pagamenti, un’ansia pazzesca”. Roberta mi spiega quale sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: “A maggio, finito il lockdown, ho chiesto di rimanere in smart working anche perché ho tre figli, di cui uno che si era ammalato seriamente che doveva essere operato. Di treni poi ce n’erano pochi e costosissimi. Lei mi ha risposto che durante il lockdown con lo smart working avevo risparmiato. A un certo punto parte del suo staff aveva pensato di fare una colletta per pagarmi i treni. Ho dato le dimissioni sfinita”. E aggiunge: “Chiede di essere eletta perché dice che la sua politica tutela le donne e poi chi lavora con lei non si sente tutelata. Io mi sentivo senza più autostima, pensavo di essere capace solo di prenotare alberghi e fare fotocopie, ora faccio un lavoro che mi gratifica”.

Un’altra persona che collaborava con la Boldrini conferma: “Tutti i giorni scrive post sui bonus baby-sitter o sui migranti in mare, poi però c’erano situazioni non belle in ufficio. O capricci assurdi. Se l’hotel che le veniva prenotato da noi era che so, rumoroso, in piena notte magari chiamava urlando. Poi magari non ti parlava per due giorni. Io credo che ritenga un privilegio lavorare con lei, questo è il problema. Chiarisco però che alcuni dipendenti li tratta bene, specie chi la adula o chi si occupa della comunicazione, perché quello è il ramo che le interessa di più”. Torno da Roberta, le chiedo perché abbia accettato di parlare e di metterci la faccia: “Perché scomodiamo tanto la solidarietà femminile e poi magari parla solo la colf moldava. Mi dispiace per la Boldrini, io le auguro una vita felice, le ero anche affezionata, ma forse ritiene che lavorare per lei sia un privilegio e per me è inaccettabile”. E Lilia, la sua ex colf aggiunge: “Io non voglio avere problemi perché parlo, non voglio che mi denunci, sono una straniera che non si può permettere un avvocato, lei è una persona importante, chiedo solo quello che mi spetta”.

L’evasione dell’ultimo bandito di Milano

Se n’è andato Sante Notarnicola: scrittore, poeta, militante politico, gestore di osterie e rapinatore. Era infatti l’ultimo sopravvissuto della famosa banda criminale messa in piedi da Pietro Cavallero. Pietro era un ex militante del Pci, nato e cresciuto in una barriera operaia di Torino, che sognava la rivoluzione e che invece, tra il 1963 e il 1967, mise a segno con i suoi compagni come Notarnicola e Adriano Rovoletto, diciotto rapine, nel corso delle quali morirono sette persone.

Sante, pugliese di Castellaneta, dove era nato nel dicembre del 1938, veniva, come Cavallero, dal milieu comunista. E, come lui, agli inizi degli anni Sessanta, decise di passare all’azione diretta e come Cavallero avrebbe voluto aiutare la rivoluzione algerina; Sante, a sua volta, dopo avere ricoperto il ruolo di segretario della FGCI (i giovani del Pci) di Biella, e alternato al lavoro di venditore ambulante di fiori quello di facchino, si era avvicinato ai primi gruppi della sinistra rivoluzionaria. Il destino volle invece che diventassero lui, Cavallero, Rivoletto, i nemici pubblici numeri uno dell’Italia che stava consumando i fuochi estremi del Miracolo Economico.

Le rapine, le sparatorie, la cattura. Dopo l’ultimo sanguinoso colpo, li catturarono tutti. Al processo Cavallero cantò “Figli dell’officina”, una nota canzone anarchica. Notarnicola in carcere prese parte alle rivolte dei detenuti e divenne una sorta di icona del movimento carcerario della sinistra antagonista di quegli anni. Nel 1972 Feltrinelli gli pubblicò il suo primo libro: L’evasione impossibile. Nel 1978 venne indicato come il primo nella lista dei 13 nomi dei detenuti da liberare che le Brigate Rosse indicarono per il rilascio di Aldo Moro

Alla fine ebbero la libertà, dopo avere scontato un bel po’ di anni di carcere. Cavallero si mise a dipingere, si dedicò a opere di carità. Sante continuò a scrivere e aprì osterie di “compagni” in giro per l’Italia, come a Bologna, dove sarebbe morto ieri, a 83 anni (e dopo aver superato anche il Covid, ndr).

Poi Pietro Cavallero e Rovoletto morirono, Restava ancora lui, per niente cambiato nei sogni disperati di cambiare il mondo. Il suo libro più famoso, quella “Evasione impossibile”, era il manifesto della sua vita. La frase era stata presa in prestito dal rivoluzionario libertario Victor Serge: in un modo “senza evasione possibile”, non restava che battersi per “un’evasione impossibile”.

 

Bentivogli e i suoi (tanti) fratelli: la staffetta lisergica “riformista”

La “maratona riformista” lanciata domenica da Marco Bentivogli è un’esperienza surreale. Una corsa sbilenca; una staffetta improbabile in cui ognuno va per conto suo. Ai nastri di partenza i rappresentanti di una galassia numerosa ma asfittica, mai abbastanza sottovalutata: dem moderati, italoviventi, +europeisti, ex montiani, ex socialisti, ex radicali, ex di tutto e di più.
Si definiscono “riformisti” e liberaldemocratici. Ognuno ha un’idea diversa su cosa voglia dire. Per dirla con Montale, sanno soprattutto ciò che non sono: non sono di sinistra, se c’è una parola d’ordine è l’antipatia per lo Stato. L’unica linea comune è l’adesione acritica al draghismo e il rifiuto dell’asse con Conte e i grillini.

Start, si inizia con lo scatto bruciante di Alessandro Barbano, ex direttore del Mattino: “Che cos’è il riformismo? È dire parole di verità”. Enrico Letta al Nazareno è già bocciato: “Vuole rifare l’Ulivo”. All’Italia serve un grande soggetto lib-dem: “Basta con il protagonismo dei partitini personali, basta con le stupide pregiudiziali personali”. È un appello accorato ai Renzi e ai Calenda che però non si sono iscritti alla maratona, sarà per la prossima volta.

La staffetta riformista passa per mani illustri: Isabella Conti (la sindaca di San Lazzaro passata a Italia Viva), Camillo D’Alessandro (Iv), Emma Fattorini (Pd). Il primo inciampo è quando prende la parola Marco Taradash: il suo cane Tarù esprime dissenso abbaiando furiosamente. Taradash non perde lucidità e azzittisce il quadrupede. Ha vissuto di peggio: è stato radicale, liberale, berlusconiano, +europeo e fondatore dell’imprescindibile associazione “CentroMotore”. Vuole un terzo polo centrista. Quando parla di Draghi si scioglie: “Abbiamo il premier dei nostri sogni”.

La staffetta passa a Giorgio Gori. Il sindaco di Bergamo sostiene il contrario di Taradash: “Non credo a un terzo polo, ma a uno schieramento di centro sinistra largo in cui i riformisti siano in grado di egemonizzare l’agenda politica”. Carlo Cottarelli dà un contributo prezioso: “Ma cosa vuol dire essere riformisti? Vuol forse dire essere liberali? E allora perché non usiamo la parola liberali? E poi che vuol dire essere liberali in Italia nel XXI secolo?”. Confuso.

Alla maratona corrono in tandem Lia Quartapelle (Pd) e il marito, l’eterno Claudio Martelli (ex Psi). Franco Debenedetti, fratello dell’ingegner Carlo, è letteralmente terrorizzato dal fantasma del socialismo in Italia: “Il nostro Paese è un’anomalia assoluta, in tutta Europa, per la vastità e l’ampiezza della proprietà pubblica dei mezzi di produzione”. Bisogna resistere: “Tornare indietro da una presenza così massiccia dello Stato sarà difficile, l’obiettivo ora è non farlo crescere”. L’ex montiano Pietro Ichino, con apparente mitezza, dà uno schiaffo agli ego enormi del piccolo centro italiano: “Un partito non si crea senza un leader molto forte, che io non vedo al momento in questa area”. Roberto Giachetti è sempre di una comicità straripante e involontaria: “Quello che non dobbiamo fare è un’operazione di palazzo”. Dice lui.

La staffetta passa al corridore italo-francese Sandro Gozi (che nella sua libreria ha in bella mostra una copertina con la faccia di Sandro Gozi, giusto per aumentare il senso distopico): “Questo è un momento darwiniano, vince chi è più bravo ad adattarsi. Soffia un vento che fa vincere i liberaldemocratici in tutta Europa”. Che previsioni meteo gli avranno spacciato? Il direttore d’orchestra renziano Alberto Veronesi: “Cito Marx: ‘Non bisogna interpretare il mondo, ma cambiarlo’. Ieri Renzi ha detto: ‘I riformisti cambiano il mondo facendo leggi, non convegni’”. Da Marx a Renzi in 10 secondi.

Il povero Tommaso Nannicini sembra raccogliere l’appello di Riccardo Magi sulle droghe: “Quando ascolteremo i riformisti del XXI secolo, li riconosceremo – dice Nannicini – ma che cosa diranno non è ancora chiaro”. Lisergico.

Chiude, dopo quattro ore e mezza di parole rubate al silenzio il grande officiante Marco Bentivogli: “I riformisti sono come i virologi: hanno lo stesso scopo e ricette simili, ma si attaccano a sfumature che li fanno apparire antagonisti”. Lancia un appello agli assenti: “Ci si divide ancora prima di iniziare. Evitiamo veti e personalismi sulla leadership”. Se Renzi e Calenda fanno un passo indietro, magari lui si vede meglio.

La visione a corto raggio di Netanyahu: vaccini per tutti in nome del consenso

A oggi in Israele è stato vaccinato il 100% della popolazione, di cui più del 50% ha già ricevuto la seconda dose. Sono cifre che collocano lo Stato ebraico al vertice di questa particolare classifica. Molti hanno parlato di ‘miracolo israeliano’, ma è davvero il termine giusto? Quali i fattori determinanti di questo indubbio successo? Anzitutto la capacità del Paese di organizzarsi di fronte alle emergenze, sfruttando le infrastrutture presenti sul territorio. Poi, certo, la tempestività del Premier Netanyahu ad accordarsi con Pfizer e Moderna, i due vaccini adottati per la popolazione israeliana. Dico tempestività e non abilità, come spesso vedo si usa. Più si va avanti, più in Israele si alzano voci critiche nei confronti dell’operato del Premier, che ha svolto in proprio trattative fulminee a tutto vantaggio delle case farmaceutiche. Anzitutto la questione dei dati sensibili. Le due mutue che si occupano della distribuzione del vaccino hanno grossi impedimenti nel fornire i dati della campagna vaccinale agli ospedali perché promessi in prima battuta a Pfizer. Secondo perché pare che il prezzo che Netanyahu è stato disposto a pagare sia doppio o addirittura triplo rispetto a quello pagato da Usa ed Europa. Inutile dire quanto sia miope una strategia simile, che offre il manico del coltello a Big pharma. Così, le ditte farmaceutiche non solo hanno usufruito di finanziamenti pubblici senza precedenti, ma ora possono permettersi di vendere al miglior offerente. Logica avrebbe voluto che gli Stati facessero cartello nei confronti di questi colossi industriali, ma questo avrebbe previsto una strategia più a lungo termine. La scelta israeliana sembra piuttosto ricalcare quella inglese: utilizzare la campagna vaccinale per recuperare il consenso perduto dopo la disastrosa gestione della pandemia con le naturali conseguenze economiche a tutti note (Israele è stata la nazione col più lungo lockdown ed è arrivato a essere lo Stato con la maggiore percentuale di infezioni in rapporto alla popolazione). La cosa non stupisce, anzi si inserisce nella consueta visione a corto raggio del Primo ministro israeliano. Chiaramente l’obiettivo erano le elezioni del 23 marzo, con cui si giocava tutto sul mero piano personale. Ora tre domande appaiono d’obbligo per valutare la bontà della sua strategia: 1) le stesse autorità sanitarie israeliane confermano l’alta probabilità che questo sarà un vaccino annuale come quello influenzale. Il governo pagherà ogni volta il doppio o il triplo per garantirsi la priorità ogni anno? E se qualcuno, vedi i nuovi amici degli Emirati che già oggi vendono pacchetti turistici di migliaia di dollari con incluso il vaccino, deciderà di pagare il quadruplo o il quintuplo Israele parteciperà all’asta? Ha le risorse? 2) Il turismo è una voce importantissima dell’economia israeliana, in incremento negli ultimi anni, anche grazie alla capacità dei governi Netanyahu di promuovere il Paese. Basta osservare le cifre per vedere quanto di questo turismo venga dall’Europa. Chi verrà l’estate prossima a risollevare il tessuto economico di Gerusalemme e Tel Aviv, dove pare siano a rischio il 30% delle attività commerciali? Un po’ alto il costo di aver contribuito a sottrarre, perché di questo si tratta, i vaccini a un’inebetita Ue. 3) Rivolta a tutti gli Stati: la variante brasiliana, resistente a una serie di anticorpi, non induce a pensare che sarebbe stata meglio una strategia coordinata che estirpasse il virus dal pianeta il prima possibile? Anche qui, se i vaccini odierni non si dimostreranno efficaci in futuro si riaprirà un’asta al rialzo? E ancora, per quanto gli aeroporti potranno rimanere sostanzialmente chiusi? Il Ben Gurion a oggi permette un traffico di 3.000 persone al giorno, per quanto potrà permettersi di contingentare gli arrivi dall’estero? Il rischio è che per guadagnare 3 mesi sul fronte della crisi sanitaria si protragga a dismisura quella economica. Ricordiamo sempre che mezzo mondo è fuori dal Covid perché i governanti non hanno avuto paura di imporre regole stringenti alla popolazione per un periodo ridotto. Da esempio della campagna vaccinale, Israele potrà così diventare il Paese in cui si evidenziano i limiti di questo “sovranismo vaccinale”, dimostrando una volta di più la crisi dello Stato nazione, modello per natura impotente di fronte a crisi che travalicano i propri confini. Del resto, difficile cambiare prospettiva per leader che hanno abituato l’elettorato a un immediato scambio dare/avere.

 

King Bibi può vincere ancora, ma teme la “variabile” Lapid

“Dov’è Yair?”. Benjamin Netanyahu stava sempre cercando Yair Lapid. In ogni apparizione che ha fatto durante la sua campagna elettorale abbreviata per la pandemia, lo stava cercando. “Dov’è Yair? Qualcuno ha visto Yair Lapid di recente?” Poi cominciava a guardare dietro il podio. “Avete notato che di recente è scomparso?”, diceva ridendo. Lo sketch si è ripetuto a ogni comizio, perché il leader di Yesh Atid preoccupa Netanyahu. Al poker elettorale sono solo quattro i giocatori che contano. Netanyahu con il suo Likud (29-30 seggi accreditati dai sondaggi sui 120 della Knesset), i suoi due ex collaboratori Gideon Sa’ar – con New Hope (10) – e Naftali Bennett – con Yamina (10-11 seggi) e Yair Lapid (19 seggi). C’è, ovviamente, una ragione tattica per concentrarsi sul Lapid “di sinistra” piuttosto che su Sa’ar, che è il Likud in carne e ossa – ne è stato il n. 2 fino a pochi mesi fa – e non può essere visto come un vero rivale. In ogni discorso, Netanyahu ha accusato Sa’ar e Bennett “di nascondere il fatto che non hanno un governo senza Lapid a guidarlo e stanno trasferendo voti da destra a sinistra”.

Il leader centrista ha seguito fedelmente il piano del suo “guru elettorale” del Partito democratico Usa arrivato da Washington, Mark Mellman. Lapid ha obbedito militarmente ai suoi ordini, mantenendo un profilo basso e non lasciandosi trascinare in un combattimento con la macchina da guerra del Likud, prendendo di mira solo gli obiettivi che Mellman si era prefissato. E ha funzionato. Gli altri sfidanti di Netanyahu, Gideon Sa’ar e Naftali Bennett, sono in politica da più tempo di Lapid e conoscono Netanyahu molto meglio. Ma hanno raggiunto il picco nei sondaggi all’inizio della campagna elettorale, solo per cominciare poi a scendere lentamente. L’ascesa di Lapid, al contrario, è stata lenta ma costante e inesorabilmente verso l’alto. Netanyahu teme che Lapid possa costruire una coalizione per sostituirlo e, se necessario, sa che è pronto anche rinunciare alla poltrona di primo ministro per ottenere questo risultato. In Israele non c’è un politico devastante e spietato come Netanyahu, è riuscito anche nell’impossibile: dividere il fronte arabo. La United Arab List che al voto dello scorso anno si era affermata come quarto partito con 15 seggi adesso non esiste più, si è spezzata in due. Lo slogan elettorale “Sconfiggi Netanyahu” sembrava realizzabile, l’elettorato arabo poteva stabilire una nuova agenda per il governo ed esercitare un’influenza sul processo decisionale. Ma in poche settimane tutto andò in pezzi, perché Benny Gantz e il suo partito Kahol Lavan (oggi accreditato solo di 3 seggi) preferirono il compromesso con Netanyahu, il cui fallimento ha portato a queste quarte elezioni in due anni. Una cosa è chiara: Israele non è ancora pronto per un passo così drammatico. Uno scenario come quello del governo di Yitzhak Rabin del 1992 , che contava sul sostegno di cinque membri della Knesset dei partiti arabi, non si ripeterà.

 

Ciad, il regime protetto da Parigi

I raduni pacifici sono sistematicamente repressi nella violenza, ma sabato scorso, giovani e militanti dell’opposizione sono scesi di nuovo nelle strade di N’Djamena per chiedere elezioni trasparenti. A decine sono stati arrestati. Il Ciad è chiamato alle urne l’11 aprile per eleggere il suo presidente ma lo scrutinio sembra già scritto. Il presidente Idriss Déby, 68 anni, al potere dal colpo di Stato del 1990, corre per il suo sesto mandato e sembra avere la strada spianata. Il clima si è fatto più teso in Ciad nelle ultime settimane. Da tempo Déby non ha più il consenso della popolazione. Il presidente reprime le manifestazioni e imbavaglia le opposizioni per impedire ogni alternanza politica democratica.

Da più di un anno vieta l’accesso a Internet e censura i social. “I ciadiani non credono più nelle elezioni. La partecipazione è al 15%-20%. Il voto ancora una volta sarà truccato, come lo è dal 2001, e Déby verrà rieletto col 60% o più. Tutti sanno che il cambiamento in Ciad non verrà dalle urne, non fintanto che Déby sarà vivo”, analizza il sociologo Roland Marchal, ricercatore a Sciences Po, Parigi. Nel 2019 Déby ha fatto votare una legge ad hoc alzando a 45 anni l’età per potersi candidare, così da tenere fuori gli oppositori più giovani. Per questo motivo il leader del partito I Trasformatori, Succès Masra, che organizza le “marce del popolo” a N’Djamena, non si è potuto presentare. Amnesty International denuncia regolarmente gli arresti “arbitrari” di decine di giovani militanti che chiedono solo che il Ciad diventi un paese democratico.

Il 28 febbraio, la polizia ha fatto irruzione a casa di Yaya Dillo Djerou, che due giorni prima si era candidato contro Déby per il Fronte nuovo per il cambiamento. Dillo è accusato di aver diffamato e insultato Hinda Déby, la moglie del presidente. Ma il tentativo di arresto è finito in tragedia, con la morte di cinque persone, tra cui la madre di Yaya Dillo, che da allora è in fuga. Diversi oppositori hanno allora gettato la spugna e ritirato la loro candidatura. Anche Saleh Kebzabo, principale oppositore di Déby, candidato quattro volte contro di lui per l’Unione nazionale per lo sviluppo e il rinnovamento, e arrivato secondo alle elezioni del 2016 (col 12,8% dei voti), si è ritirato dalla corsa, denunciando la “militarizzazione del clima politico” e invitando a “boicottare” queste elezioni-“farsa”. Yaya Dillo, dal suo luogo di esilio, ha lanciato a sua volta su France Tv Monde un appello alla comunità internazionale. “Sin dagli anni 90 Déby si è accanito contro chiunque gli facesse ombra. Nel 2008 – spiega Marchal – Ibni Oumar Mahamat Saleh, portavoce dell’opposizione nel Partito per le libertà e lo sviluppo, scomparve in circostanze inspiegate dopo l’assalto ribelle su N’Djamena. Per l’opposizione è impossibile organizzarsi. A gennaio – aggiunge il ricercatore, la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu a N’Djamena ha permesso a Déby di acquisire tecnologie avanzate di controllo e criptaggio dei social”. Il Ciad, tra Libia, Sudan e Niger, è un paese ricco di risorse, ma la popolazione è povera. L’ex colonia francese ha ottenuto l’indipendenza nel 1960. “Déby deve la sua sopravvivenza politica anche alla Francia – spiega Marchal –. La sua abilità è stata di rendersi indispensabile nella lotta contro il terrorismo in Sahel, investendo mezzi, soldi e uomini nel preparare il terreno in Mali all’operazione militare Serval, lanciata nel 2013 da Hollande, poi diventata Barkhane. E come il suo predecessore, anche Macron ha finito con l’avallare il regime di Déby”.

Il presidente del Ciad ha del resto presieduto il recente G5 Sahel al quale Macron, partecipando da Parigi in videoconferenza, ha confermato la presenza delle truppe francesi nel Sahel. Anche gli Stati Uniti chiudono un occhio su Déby da quando “N’Djamena è diventata una base importante per le forze Usa”. Ma per poter restare al potere, Déby deve anche tenere le fila di un sistema vacillante e corrotto. “Per mantenere l’unità del suo gruppo etnico, i Zagahwa, e evitare colpi di stato, Déby è obbligato a distribuire soldi e posti di prestigio – aggiunge Marchal –. Il caso di Yaya Dillo, un familiare di Déby che prima ha appoggiato il regime e poi se ne è allontanato, mostra la frattura che esiste all’interno del clan. Da una decina d’anni infatti Déby deve anche gestire le rivalità e le gelosie legate al ruolo politico assunto da sua moglie Hinda, altrettanto efficace e corrotta, ma di un’altra etnia. Tra i Zagahwa, in molti pensano che lei abbia troppo potere”.

Intanto dall’ultimo dossier del Gruppo di lavoro regionale sulla Sicurezza alimentare e la nutrizione, guidato da Pam, Unicef, Fao, Acf e Oxfam, “quest’anno nel bacino del lago Ciad, 6,24 milioni di persone non saranno in grado di soddisfare i loro bisogni alimentari, mentre 1,2 milioni di bambini con meno di 5 anni soffriranno di malnutrizione acuta, di cui 416.000 della sua forma più grave”.

 

Il declino di Assolombarda in guerra

Il futuro di Assolombarda sta per finire nelle mani di un manager che ha venduto l’azienda di famiglia a una società americana con sede in un paradiso fiscale. Non proprio un bel segnale per la storica associazione degli industriali di Milano e provincia che oggi eleggerà il successore di carlo Bonomi, approdato alla Confindustria nazionale. In pole c’è Alessandro Spada, già numero due di Bonomi. Proprio come il suo “maestro”, tecnicamente, Spada non è nemmeno un imprenditore: ha ceduto nel 2018 l’azienda di famiglia – la Vrv – alla Chart Industries, una società Usa costituita secondo diritto del Delaware. Ora la Vrvè controllata dalla Safe Investment Holding, dove Spada è stato nominato amministratore delegato. Un fatto che fra gli industriali milanesi ha suscitato qualche mal di pancia. Perché per guidare gli imprenditori più “pesanti” d’Italia, ci vuole un imprenditore. Non un manager, ma qualcuno che rischia in proprio.

Oggi il Consiglio Generale di Assolombarda deve proporre all’Assemblea un nome. Lo sfidante di Spada si chiama Alessandro Enginoli (Biostrada srl, Settala Gas, Synthesis Chimica). Sconosciuto ai più, si è candidato solo a febbraio. Insomma, la strada è spianata per l’ex delfino di Bonomi, che potrebbe perfino essere il candidato unico.

La scelta sta creando qualche malumore. Spada scrive nel curriculum ufficiale di essere vice presidente della Vrv, cosa che però non risulta dalle visure camerali, dove compare solo come membro del cda senza deleghe. La società non è nemmeno stata inserita nella “Top500” del 2020, la classifica stilata da Assolombarda con Bpm e PwC che elenca le “eccellenze” industriali “di Monza e Brianza”. Il motivo? Non sarebbe stato depositato il bilancio in tempo da parte della nuova proprietà americana. Il bilancio però c’è. Fatturato di 48,6 milioni di euro, zero utili e ben 18,2 milioni di perdite.

Ad ogni modo, l’elezione non sembra molto sentita. Da quanto risulta al Fatto, entrambi i candidati non sono riusciti a raggiungere il quorum del 15% dei consensi – rispetto al peso contributivo degli associati – durante le consultazioni dei “saggi” di Assolombarda. Un dato che mostra lo scollamento dei vertici rispetto alla base industriale sul territorio e quanto la “linea Bonomi” non sia particolarmente sentita tra gli industriali. Assolombarda replica che “il dato relativo al quorum è riservato”. Contattata, ha spiegato che “nessuno dei candidati può parlare di ciò che attiene al percorso elettorale”. Per quanto riguarda il profilo di Alessandro Spada, l’associazione comunica che “a prescindere dalla visura camerale” è lui “il vice presidente del gruppo Vrv e di quattro società controllate”. Mentre sui requisiti per candidarsi alla guida di Assolombarda sono i probiviri a decidere chi ammettere alla corsa “elettorale”.

In francia Ikea a processo: spiava i dipendenti

P rocesso a Parigi, Tribunale di Versailles, per Ikea France: da ieri mattina sono imputati per spionaggio dei dipendenti, in un’aula di tribunale, ex dirigenti della filiale francese del gigante svedese dell’arredamento, poliziotti e il capo di una società privata di sorveglianza. Ikea, rappresentata davanti ai giudici dalla direttrice generale e finanziaria Karine Havas, rischia un massimo di 3,75 milioni di euro di ammenda come persona morale. Sono alla sbarra anche 15 persone, tra cui direttori di punti vendita, funzionari di polizia ed ex dirigenti. Lo scandalo venne a galla nel 2012 grazie al settimanale satirico Le Canard Enchainé. Sull’onda delle denunce, Ikea France fu costretta a licenziare 4 dirigenti. L’istruttoria mise in luce, secondo i termini della Procura, un “sistema di spionaggio” di dipendenti e candidati all’assunzione esteso su tutto il territorio della Francia: centinaia di persone passate al setaccio, la loro vita privata, i precedenti penali o le loro abitudini di vita. Il processo dovrebbe durare fino al 2 aprile. Gli accusati devono rispondere, fra l’altro, di violazione del segreto professionale, raccolta e divulgazione di informazioni private.