Sciopera il mondo Amazon: “Noi schiavi di un algoritmo”

Il primo sciopero dell’intera filiera italiana di Amazon – che ha visto fermarsi il 75% dei driver – ha colpito nel segno, e la dimostrazione è tutta nella mossa con cui il colosso dell’e-commerce ha aperto la giornata di ieri. La country manager italiana, Mariangela Marseglia, si è rivolta non ai lavoratori bensì ai clienti, come a volersi scusare perché per questa volta il servizio potrebbe non essere rapido ed efficiente come sempre. Una lettera che inizia con un ringraziamento personale “ai colleghi e ai dipendenti dei fornitori dei servizi di consegna che ogni giorno lavorano per assicurare che possiate ricevere i vostri ordini”. Amazon, insomma, ha provato a spostare l’attenzione sul diritto dei consumatori a ricevere i loro acquisti in tempi molto brevi, dicendo a loro di essere impegnata nel rispettare i diritti dei suoi lavoratori. Una scelta che sembra confermare proprio la principale delle ragioni che hanno spinto la protesta dei sindacati, i quali parlano di un’azienda preoccupata più della soddisfazione di chi fa acquisti che delle condizioni dei suoi addetti. Le sigle dei trasporti di Cgil, Cisl e Uil speravano di poter essere loro i destinatari di una lettera da parte dell’impresa di Jeff Bezos, magari per riaprire le trattative nelle quali discutere i carichi di lavoro. Lo sciopero, infatti, è partito dopo il nulla di fatto degli ultimi incontri sia con Amazon sia con le associazioni che rappresentano la galassia degli appalti.

Oggi i ritmi imposti costringono i corrieri a portare a volte oltre 200 pacchi al giorno, con 150 fermate dettate da un algoritmo che disegna l’itinerario e, benché utilizzato dalle aziende della filiera, è stabilito a livello centrale da Amazon. I sindacati vogliono che il sistema venga negoziato e non calato dall’alto. Il colosso ha già nei giorni scorsi spiegato, da parte sua, come funziona: “Vengono utilizzate tecnologie con diversi fattori per determinare quante consegne un autista possa effettuare in sicurezza”. Aggiungendo poi che “il numero di pacchi è assegnato in maniera appropriata e si basa sulla densità delle aree di consegna, sulle ore di lavoro, sulla distanza da percorrere”. Una narrazione aziendale che stride con la realtà, fa notare un driver lombardo: “Quella programmazione funziona se va tutto liscio, se non trovi semafori rossi o il furgoncino della spazzatura davanti – dice Donato Pignatello –. Non posso prevedere in quanto tempo scenderà il cliente, un conto è quello al primo piano, un altro è al dodicesimo”. Prima della pandemia, si viaggiava su medie di 130 stop al giorno, ora sono aumentate. “Avete presente che significa fare 130 parcheggi in un giorno in una città? – aggiunge Pignatello, che è anche delegato Filt Cgil – Se perdo un solo minuto per ogni fermata, accumulo oltre due ore di ritardo rispetto alla tabella di marcia”. I driver raccontano la propria come un’esistenza dipendente da un sistema informatico, quasi un videogioco comandato a distanza, in cui se ci si blocca per oltre cinque minuti il monitor segna una spia rossa. Una pressione “da caserma” che fa tornare a casa la sera ancora accelerati dall’adrenalina.

Le donne, poi, dicono che hanno difficoltà durante la giornata a ricavare il tempo per trovare un posto decente in cui andare al bagno. Nonostante lo sciopero fosse proclamato per l’intero pianeta di Amazon, quindi comprendendo anche gli hub sparsi in tutta Italia, è riuscito soprattutto tra quelli che lavorano in strada, i cosiddetti addetti “dell’ultimo miglio”. L’adesione dei magazzini è stata più contenuta. Come da tradizione, i dati forniti dall’azienda sono molto distanti da quelli sindacali: Amazon parla del 20% nelle aziende fornitrici e addirittura del 10% tra i suoi dipendenti diretti.

Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio da 191 miliardi di dollari. Secondo i dati di MedioBanca pubblicati lo scorso ottobre, in Italia Amazon ha fatturato 1 miliardo di euro ma ha versato solo 10,9 milioni. “Vogliamo che questa ricchezza sia in qualche modo ridistribuita tra i lavoratori”, ha detto il segretario generale Filt Stefano Malorgio. In Italia, la famiglia “allargata” di Amazon offre 40 mila posti di lavoro, ma andrebbe valutato il saldo considerando i possibili effetti negativi sui piccoli negozi di paese. Comunque, un quarto degli addetti è precario, e con un turn over molto frequente. Quelle lotte sindacali, che una volta avevano le fabbriche come luogo privilegiato, oggi si sono spostate nel settore della logistica, con Amazon che si candida a essere quello che è stata la Fiat sul finire degli anni 70 e, forse, sotto sotto spera che la “marcia dei 40 mila” contro gli scioperi la facciano i consumatori.

Il carnevale del signor Ermini

In un’intervista comparsa sul Messaggero del 21 marzo, il vicepresidente del Csm ha affermato: “Personalmente sono dell’avviso che nel valutare la professionalità di un magistrato vi sia anche un controllo sulla qualità e sulla tenuta dei suoi provvedimenti; se ad esempio la gran parte dei processi chiesti da un pm finiscono in assoluzione o se le sentenze di un giudice civile vengono riformate in quantità, va considerato o non in una valutazione di professionalità?”.

Do atto che l’avverbio “personalmente” limita la portata delle affermazioni a un’opinione personale del vicepresidente, ma l’autorevolezza della carica ricoperta richiede alcune puntualizzazioni, anche oltre quelle, condivisibili, già espresse del presidente dell’Anm il giorno successivo su Repubblica.

Cominciamo col dire che il decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109 prevede quali illeciti disciplinari per i magistrati: “g) la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile; h) il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile; i) il perseguimento di fini estranei ai suoi doveri ed alla funzione giudiziaria; l) l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge; m) l’adozione di provvedimenti adottati nei casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali”. Inoltre, ogni quattro anni, i magistrati sono sottoposti a valutazioni di professionalità (dalla prima alla settima) al superamento delle quali è legata, quando prevista, la progressione economica. Per tali valutazioni, accanto al rapporto del capo dell’ufficio e all’autorelazione dell’interessato, è prevista l’acquisizione a campione dei provvedimenti adottati dal magistrato da valutare. Dovendo escludere che il vicepresidente del Csm non conosca queste disposizioni, che attengono proprio alla qualità dei provvedimenti, occorre concentrarsi sulla tenuta delle decisioni e qui la questione diventa complessa. Siccome nell’intervista si fa riferimento alla tenuta per “ad esempio la gran parte dei processi”, nel misurarla occorrerebbe monitorare per ogni magistrato tutti i processi fatti nei quattro anni per vedere se le difformità riguardano pochi o tanti processi. Tale valutazione dovrebbe essere fatta non solo per i magistrati del pubblico ministero, ma anche per i giudici (nell’intervista si fa riferimento alle riforme delle decisioni dei giudici civili, ma non vi è ragione, anche per il carattere esemplificativo, di escludere i giudici addetti al settore penale). Secondo i dati Istat ogni anno pervengono alle Procure della Repubblica circa 3.000.000 di procedimenti (tra quelli a carico di noti e quelli a carico di ignoti). Nel settore civile (tralasciando quelli del giudice di pace) sopravvengono circa 2.500.000 processi. All’evidenza impossibile controllarli tutti, ma anche inutile. Molti processi sono di competenza collegiale e il segreto della camera di consiglio non consente di sapere se il singolo giudice condivideva o meno la decisione riformata, sicché non si potrebbero contestare a un magistrato le riforme di decisioni collegiali.

Soprattutto però vi è un errore nell’idea che, in caso di mancato accoglimento delle richieste del pm o di riforma di una decisione di primo grado o di appello da parte del successivo giudice, l’errore sia del primo magistrato, perché ben potrebbe avere sbagliato chi ha emesso la pronuncia difforme.

Nel libro La Giustizia è cosa nostra, Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo raccontano, fra l’altro, la allucinante vicenda relativa all’omicidio del capitano Emanuele Basile, comandante della Compagnia carabinieri di Monreale (per inciso fu assassinato anche il suo successore capitano Mario D’Aleo). La lettura di quel volume ha l’effetto di un pugno nello stomaco per la sequenza di decisioni di assoluzioni e annullamenti, nonostante le schiaccianti prove a carico di tre appartenenti a Cosa Nostra. Fra l’altro fu anche annullata dalla prima sezione della Corte di cassazione la sentenza di condanna pronunciata dalla prima Sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Antonino Saetta, che pagò con la vita il suo coraggio. La condanna definitiva arrivò dopo 15 anni e dodici processi. Chi aveva sbagliato? E in ogni caso il magistrato del pubblico ministero che aveva esercitato l’azione penale avrebbe dovuto attendere 15 anni per superare la valutazione di professionalità?

La questione, in realtà, è molto più complessa di quanto il vicepresidente del Csm sembra immaginare: esiste o no una verità storica antecedente al processo? Molti sostenitori dell’attuale codice di procedura penale dicono che la verità storica non esiste o non è conoscibile dagli uomini. A tacere del fatto che se così fosse sarebbe inutile fare i processi, la professoressa Roberta De Monticelli ha risposto che coloro che sostengono che la verità non esiste non si accorgono di fare un’affermazione che pretende di essere vera. Ma se esiste una verità storica antecedente al processo, in ogni caso di difforme decisione sarebbero necessarie complesse attività, per scoprire chi ha sbagliato.

Ma anche se fosse possibile compiere tale enorme operazione il risultato finale sarebbe solo quello di convincere i magistrati a stare lontano da rischi di difformi decisioni e quindi di non tentare neppure di discostarsi da giurisprudenza consolidata anche se divenuta palesemente ingiusta. Negli anni Settanta, molti giudici civili si scostarono dalle decisioni della Corte di cassazione che non ammettevano la rivalutazione monetaria dei crediti, pur a fronte di una inflazione a due cifre, che rendeva ingiusto quell’orientamento che danneggiava i creditori e favoriva i debitori inadempienti. Le sentenze di primo grado e di appello venivano annullate, fino a quando la Corte suprema si rese conto che avevano ragione i giudici di merito. Secondo la proposta avanzata quei magistrati coraggiosi oggi sarebbero valutati negativamente in sede di professionalità.

Eppure l’attività del magistrato dovrebbe essere sine metu e sine spe, senza timore di punizione e senza speranza di ricompensa, per poter decidere liberamente secondo legge e giustizia, essendo peraltro soggetti, secondo la Costituzione della Repubblica, solo alla legge e non alle pronunzie di altri giudici.

La proposta del vicepresidente del Csm mi ha fatto ricordare ciò che diceva un magistrato da molti anni a riposo, Camillo Passerini, che a lungo presiedette la Corte d’assise e poi la Corte d’assise d’appello a Milano: “Se un problema complesso sembra avere una soluzione semplice qualcosa ti sfugge”.

 

Ora c’è “Lui”. E i cottarelli arrivano in orario

Davveroè cambiato tutto. Da quando c’è Lui i treni arrivano in orario, si dorme con le porte aperte e pure le cose che prima sembravano brutte profumano di viole. Non ci credete? Leggete l’editoriale di Carlo Cottarelli, pubblicato ieri da Repubblica, sul decreto Sostegni (ah, che bel nome): Debito cattivo? Giammai, buono, buonissimo, “del tutto appropriato nelle attuali circostanze”, che tanto poi finisce tutto alla “Bce che compra Btp per motivi di politica monetaria”. Direte: magari all’economista ex Fmi non piaceranno i ristori alle imprese? Macché: certo, così potrebbero finire anche a chi non ne ha “vero bisogno”, perché “ha altre fonti di reddito”, ma che vuoi fare? E il condono? “Lo scrivente ha spesso biasimato il perpetuo ricorso ai condoni. Ma, a ben vedere, si tratta di un’operazione non assimilabile a quelli cui ci eravamo abituati”, anzi è “un’operazione di semplificazione: l’eliminazione contabile di 16 milioni di vecchi crediti di fatto inesigibili”. È sicuramente così, ma è merito Suo: quando un’operazione assai simile la fece il governo gialloverde, Cottarelli parlò di “boomerang per le casse dello Stato”, di agenzie fiscali oberate dai condoni e denunciò che così “si incoraggiano le aziende a non pagare tasse”. Questo prima, ora c’è Lui: ah, ecco il treno…

Monoclonali, l’arma in più

Siamo così abituati alle cattive notizie che neanche l’arrivo di un’arma terapeutica vincente contro il Covid ci distrae dalla tragedia. Ci sono i primi vaccini, altri se ne aggiungeranno presto e sono finalmente arrivati gli anticorpi monoclonali. Trump, colpito dal Covid nei primi giorni di ottobre dello scorso anno, li ha assunti e in tre giorni è stato dimesso dall’ospedale. Non posso dimenticare le critiche che mi sono arrivate, dopo aver commentato positivamente la notizia apparsa proprio nelle pagine del Fatto, da un gruppo di ricerca olandese che stava sperimentando questa opportunità terapeutica. Era marzo 2020, e parlare di anticorpi monoclonali era una vera eresia. È stato così per un anno. O vaccini o nulla. Perché? Contro la pandemia non bisogna ignorare alcuna possibilità che possa contrastarla. Vaccini e monoclonali, usati con finalità e modalità diverse, possono rivelarsi essere la vittoria definitiva. E se si aggiungessero antivirali efficaci, ancora meglio. Tanto più ciò ha valenza se consideriamo che i vaccini non potranno essere sufficienti per tutti in tempi molto brevi. Eppure se a metà dicembre non ci fosse stata una pesante critica da parte di alcuni clinici sul fatto che addirittura l’Italia stesse producendo anticorpi monoclonali, ma solo per venderli all’estero, senza avere la possibilità di usarli, forse non avremmo raggiunto il traguardo.

Il pressing operato anche dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei medici, unitosi a quello del nuovo presidente dell’Aifa, prof. Palù, ha sbloccato la situazione. È vero che possono essere usati con alcune limitazioni, ma è anche provato che funzionano nel 70% dei pazienti con alto rischio di evoluzione della malattia, prevenendo persino l’ospedalizzazione. Sono, di fatto, l’abbinamento ottimale alla campagna vaccinale. Mentre questa procede, chi si dovesse ammalare potrà essere curato. E non solo: stiamo parlando di anticorpi, perciò potranno essere utilizzati anche per rendere immune quella popolazione che si trova in una condizione di rischio elevato, o perché affetta da malattie gravi o perché esposta al contagio per motivi di lavoro.

 

Mail box

 

La gestione disastrosa della Sanità lombarda

Mi sono recato per iscrivermi nelle liste dei soggetti da vaccinare, dal mio medico non curante. Disabile, obeso, con problemi a un polmone tanto da avere prescritta l’ossigenoterapia, pensavo di rientrare tra i soggetti fragili, ma il medico mi ha detto: “La Regione Lombardia non prevede la categoria dei soggetti fragili, potrà essere vaccinato solo quando rientrerà nella graduatoria in base all’età”. Non ho parole, così funziona l’eccellenza lombarda.

E. S.

 

Bergamo, la tragedia non ha insegnato nulla

A Bergamo, da mesi è saltato il contact tracing perché il personale sanitario in servizio è lo stesso di quello precedente alla pandemia. Non si capisce perché, nonostante gli stanziamenti, i dirigenti Ats non assumano. Chi ci va di mezzo sono ancora una volta gli assistenti sanitari e la popolazione già duramente colpita. Questa triste realtà dimostra come la prima ondata non abbia insegnato nulla ai vertici Ats di Bergamo. Nella commemorazione del 18.3, Draghi ha detto “non accadrà più che le persone fragili non siano assistite e protette”, ma questo a Bergamo avviene tutti i giorni.

Marco Lorenzi

 

I “cristiani per la guerra” e le parole del Papa

Di fronte al Papa e alle sue parole contro le guerre e il commercio di armi, si sarà pentito l’ex democratico cristiano, ora Fratello d’Italia, Guido Crosetto, già sottosegretario alla Difesa, che ha abbandonato ogni incarico ma non quello di presidente della Federazione aziende italiane per l’Aerospazio, la difesa e la sicurezza (Aiad)? E di presidente di Orizzonte Sistemi Navali, impresa creata come joint venture tra Fincantieri e Leonardo e specializzata in sistemi ad alta tecnologia per le navi militari e di gestione integrata dei sistemi d’armi? Cristiani per la guerra?

Melquiades

 

Un proverbio toscano per gli elogi all’esecutivo

A proposito delle lodi “a prescindere” al governo Draghi, vorrei citare il poco elegante ma efficace proverbio maremmano: “Fatti un nome, piscia in letto, e diranno che hai sudato…”.

Umberto Mosca

 

Sulle balle dei giornali è utile l’ironia di Biagi

Caro Marco, leggendo il tuo editoriale “Dragon Ball”, ho ricordato una frase del grande Enzo Biagi, forse letta su Epoca dei Ricciardetto, degli Orvieto o Del Buono: “Ce n’est pas faux parce qu’il est faux, il est faux parce qu’il a dit monsieur Arnault”.

Pasquale

 

La rabbia dei lettori dopo il condono di Mario

Qual è il senso del condono nel decreto Sostegni? Cosa c’entra il Covid con le cartelle dal 2000 in poi? Ben venga una sospensione anche lunga per chi non ha la possibilità di pagare, ma chi può perché non dovrebbe?

Alessandra Serelli

 

Allora io che non sono andato per anni e anni in ferie, che ho rinunciato a molte cose, sono un pirla? Giusto dare tempo a chi è rimasto indietro, ma non è giusto condonare. Si faccia pagare tutti in comode rate mensili Che diavolo!

Massimo Giorgi

 

Ho sempre lavorato e pagato le tasse, io e mia moglie abbiamo lavorato da dipendenti per 87 anni in due. Non capisco perché il governo Draghi debba stralciare con condono tombale le cartelle esattoriali. Perché Pd e M5S non protestano? Draghi non era quello che doveva cambiare la fiscalità italiana in positivo? Se questo è l’inizio… A me sembra una buffonata pazzesca nei confronti di tutti gli italiani onesti.

Enrico Cherchi

 

Il presidente Mattarella ha sbagliato molto

Alla luce dei provvedimenti assunti fino a oggi dal governo, possiamo dire, senza essere accusati di vilipendio, che il presidente Mattarella ha consegnato il Paese alle destre politiche senza passare per regolari elezioni?

Italo Longo

 

Sì, almeno finché i 5 Stelle, il Pd e LeU non si sveglieranno dal letargo.

M. Trav.

 

Dalle misure di Conte agli ex banchieri

Ricordo con commozione le parole pronunciate da Conte al Consiglio europeo nella notte tra il 19 e il 20 luglio 2020: “Io questi morti li devo onorare, con dignità”. Dopo giorni di trattative ottenne il risultato insperato dei 209 miliardi del Recovery. Ora, con il nuovo governo, questi miliardi li abbiamo messi in “banca”!

Domenico Moscatelli

 

Le colpe di Enrico nella lunga crisi dei dem

Enrico Letta ha dato un contributo decisivo al declino e alla crisi del Pd: il governo di larghe intese del 2013 da lui guidato (e deciso senza consultare la base). Quell’esperienza finì per aprire la strada a Renzi e oggi il Pd subisce le conseguenze di quella sciagurata politica: un disastro.

Maurizio Burattini

 

La prima di Millennium: un quadro da appendere

Sapete cosa ho deciso? Ritaglio la copertina di Fq Millennium e ci faccio un bel quadretto.

G. Spinelli

Dipendenti pubblici. Ma davvero serve assumere? La risposta è sì

Gentile redazione, sempre più frequentemente mi capita di leggere o di sentire che ci sia la necessità di assumere altri dipendenti pubblici. Personalmente ho la sensazione, non suffragata da alcun dato concreto, che nel nostro Paese ci siano già troppi dipendenti pubblici, considerando le numerosissime tipologie di attività svolte da entità di natura pubblica. Non è possibile avere raffronti con altre nazioni per vedere come si posiziona il nostro Paese circa l’incidenza dei lavoratori pubblici sul totale dei lavoratori attivi?

Pietro Volpi

 

Gentile Volpi, la sua sensazione sui numeri del pubblico impiego è sbagliata e – prima di citare le statistiche – va chiarito che lo è per un motivo che ha a che fare con quella che un tempo si chiamava “egemonia culturale”: la svalutazione del ruolo del pubblico, cominciata decenni fa, è oggi senso comune sui media e persino nell’accademia (largamente pubblica). Quest’anno, ad esempio, abbiamo scoperto che aver tagliato posti letto e personale del Ssn – dipendenti pubblici – è stata una pessima idea… Veniamo ai numeri. All’ultimo censimento Istat (2018) gli “statali” erano 3,4 milioni, in diminuzione dell8,1% rispetto a 10 anni prima, oggi – tra pensionamenti e blocco del turn over – il ministero ne accredita 3,2 milioni. Le comparazioni sui Paesi sviluppati (Ocse) che leggerà sono invece del 2017: dunque dati approssimati per difetto. La percentuale di dipendenti pubblici sugli occupati era del 13,4%: meno della media Ocse (17,7%), meno della metà dei Paesi scandinavi (tra il 28 e il 30%); in Europa solo la Germania (10,5%) – che però persino nel welfare ha un sistema misto pubblico-privato – fa peggio. Più interessante, stante la bassa percentuale di occupati italiani, è il rapporto col totale della popolazione: nel 2017 in Italia gli statali erano il 5,6% degli abitanti, in fondo alla classifica con la Germania (5,7%), poi ci sono Spagna (6,4%), Usa (7), Francia (9,1) su su fino alla Norvegia (16,1%). L’Italia insomma ha pochi dipendenti pubblici e la scelta suicida di non “rinnovare” la P.A. ha avuto un più generale effetto perverso sull’economia: oltre a cattivi servizi, da oltre un decennio l’assunzione di pochissimi giovani laureati, categoria che già “paga” l’arretratezza dell’impresa privata.

Marco Palombi

Pregi e (molti) difetti di Draghi: troppe concessioni alla Lega

Molti colleghi dicono che è ancora troppo presto per giudicare Draghi. Sarebbe vero, o anche solo accettabile, se Draghi non fosse stato acriticamente venerato da quasi tutti prim’ancora che muovesse un muscolo. Dunque, se non era presto prima per incensarlo, non è presto adesso per trarre un piccolo bilancio del cosiddetto “governo dei migliori”.

Sin qui è parso impossibile essere qualcosa di diverso dall’innamorato acritico o dall’arrabbiato prevenuto. Cerchiamo qui di fare altro, ovvero soppesare pregi e difetti.

È un pregio, almeno per i mercati, il nome stesso di Draghi, che calma lo spread (che a dire il vero si stava calmando pure prima di lui) con la sola imposizione del pensiero. È un pregio la caratura internazionale del presidente del Consiglio, che certo può guardare alla pari i grandi della Terra. È un pregio la sua capacità dialettica, palesata venerdì scorso in una conferenza stampa assai tardiva, perché non esiste al mondo che un premier accetti le prime domande dei media dopo più di un mese. Draghi non è empatico e neanche trascinatore, ma sa rispondere e si muove con la scaltrezza di chi sapeva mettersi in tasca la Bce. Figurarsi un Bechis o un De Angelis.

Ed è un pregio anche aver chiuso una volta per tutte la porta in faccia al Mes, come peraltro Draghi ripeteva pure quando c’era Conte.

Poi però ci sono anche i difetti, a partire da una lista di nomi – ministri e sottosegretari – che troppo spesso non solo non è “migliore” ma, a dirla tutta, mette pure un po’ imbarazzo. Certo non è (solo) colpa di Draghi, perché il livello del Parlamento è quello che è, ma se scegli le Gelmini e le Borgonzoni ci metti di sicuro anche un po’ del tuo.

È un difetto, anzi un errore politico, avere sospeso Astrazeneca per 72 ore contro il parere di quasi tutto il mondo della scienza. La pausa ha terrorizzato ancora di più gli italiani, complicando ulteriormente il piano vaccinale.

È inaccettabile avere avallato l’idea oltremodo balzana di Salvini, ovvero lottizzare il Comitato tecnico scientifico con studiosi assai “ottimisti” la scorsa estate (“L’emergenza è finita”) e dunque graditi al leader della Lega. Velo pietoso, poi, sul mitologico Gerli, insigne statistico innamorato del bridge che prima di dimettersi aveva sbagliato tutto lo sbagliabile quanto a previsioni pandemiche. Chi l’aveva scelto per il Cts?!?

Assai sgradevole anche il condono, ammesso candidamente in conferenza stampa dallo stesso Draghi. Un’altra concessione a Salvini, che da mesi straparla di stralcio delle cartelle esattoriali. E un altro schiaffone in faccia a quei “bischeri” che, le tasse, le pagano. Quanto al dl Sostegno, è sostanzialmente identico al dl Ristori del governo Conte-2, solo che è stato licenziato con due mesi di ritardo.

Draghi, al momento, non solo non sta compiendo miracoli – ed era stupido aspettarseli, anche se molti giornalisti hanno alimentato tale aspettativa – ma non sta nemmeno imprimendo chissà quali cambi di marcia. E le uniche discontinuità rispetto all’esecutivo precedente sono regali a Salvini (e quindi anche a Renzi, il Matteo meno politicamente dotato dei due). Il condono. Il Cts lottizzato. Il cambio ai vertici della Protezione civile. La defenestrazione di Arcuri.

Se a ciò si aggiunge un’impronta economica dichiaratamente improntata alla destra tecnocratica, ci si domanda quanto ancora Pd, M5S e Leu saranno disposti a sopportare un governo travestito da unità nazionale, ma nei fatti sempre più destrorso. E pure un po’ casinista. Draghi è un fuoriclasse, ma il suo governo – purtroppo – per ora proprio no.

 

Contro i voltagabbana serve la decadenza dal mandato

La recente proposta “antivoltagabbana” di Enrico Letta, che dovrà essere formalizzata dai gruppi Pd del Senato e della Camera e presentata alle rispettive Giunte del Regolamento, ha il merito di avere riaperto il dibattito sulle modifiche dei Regolamenti parlamentari in vista della nuova composizione delle Camere nella prossima legislatura, quale disegnata dai “Sì” al referendum sulla legge costituzionale che ha ridotto il numero dei senatori da 315 a 200 e quello dei deputati da 630 a 400.

Occorre preliminarmente avvertire che eventuali misure da infliggere ai parlamentari che cambiano, con la bandiera, il gruppo emanazione del partito che li ha fatti eleggere e al quale si sono liberamente iscritti all’inizio della legislatura, non hanno nulla a che vedere con il divieto di mandato imperativo sancito dall’art. 67 della Costituzione. Per esso il parlamentare rappresenta l’intera Nazione e non può essere assoggettato ad alcun ordine, direttiva o istruzione riguardanti l’esercizio delle sue funzioni, una prerogativa di valore assoluto che lo accompagna per tutta la durata della carica, quali che siano i suoi passaggi da un gruppo a un altro (i trasformisti – eredi della italica tradizione cha va da De Pretis a Giolitti, ma che risulta pressoché sconosciuta nelle prime legislature della Repubblica – figurano tra gli appartenenti al Gruppo misto che attualmente conta 78 deputati e 39 senatori, mentre sono 216 i cambi complessivi di gruppo). Contro questo indegno fenomeno migratorio che finisce anche per alterare il rapporto numerico tra maggioranza e opposizione, Enrico Letta propone di adottare la regola del Parlamento europeo per cui i deputati che abbandonano il loro gruppo senza aderire ad altra formazione parlamentare acquistano lo status di “non iscritti ”. Attualmente, nel Parlamento Ue che conta 705 membri, i “non iscritti “ sono appena 29 e ciascuno di essi dispone di una segreteria e di altre strutture amministrative (art. 36 del Regolamento) continuando a percepire l’indennità prevista dall’art. 9 dello Statuto dei deputati europei.

In Italia i parlamentari che si dimettono dal gruppo originario transitano obbligatoriamente nel Gruppo misto (sono attualmente alla Camera e al Senato) senza alcuna limitazione né nell’esercizio della funzione (per gli interventi in aula devono sottostare alla ripartizione dei tempi assegnati al Gruppo misto) né sul piano economico (l’indennità parlamentare prevista dall’art. 69 della Costituzione è intoccabile, mentre le altre voci del trattamento economico quali la diaria, il rimborso spese ecc. non incontrano alcuna riduzione). Come si vede, non solo non esiste alcun disincentivo che distolga il parlamentare dalla tentazione dell’abbandono ma, al contrario, costui è incentivato a passare al Gruppo misto sia per ragioni politiche sia per motivi pratici (non dovrà più sborsare i contributi finanziari che si era impegnato a versare al gruppo di origine). Letta ha ragione quando afferma che all’estero i cambi di casacca e i Gruppi misti del Parlamento italiano non sono capiti, ma visto che l’esodo massiccio dei nostri Arlecchini verso nuovi lidi è destinato a continuare, non resta che ricorrere alla drastica e definitiva soluzione della decadenza dal mandato parlamentare che si giustifica oltre ogni dubbio per ragioni politiche e morali. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, “il parlamentare è libero di cambiare partito e anche di votare in dissenso dal suo gruppo. Ma, se lascia la maggioranza con cui è stato eletto per passare all’opposizione, o viceversa (caso molto più frequente) subito dopo deve decadere da parlamentare: perché ha tradito i propri elettori e ha stravolto il senso politico della sua elezione”.

 

L’anno del fallimento della Scienza medica

L’annus horribilis segna una straordinaria défaillance della Scienza medica. Si è fatta sorprendere da un’influenza, certamente molto aggressiva, ma pur sempre un’influenza, non un morbo sconosciuto venuto da Marte. Di influenze ce ne sono ogni anno, vengono studiate, classificate, monitorate. La Scienza medica si basa, come ogni altra scienza, sulla ricerca, il che vuol dire non solo ricercare strumenti nuovi e più efficaci per curare un morbo conosciuto, ma provare a prevederne gli sviluppi. È arrivato un profluvio di interventi di epidemiologi, di virologi, di infettivologi, nessuno dei quali era d’accordo con l’altro, segno appunto che non se ne sapeva e non se ne capiva niente, confondendo ulteriormente una popolazione già turbata. L’unica cosa che la Scienza medica è riuscita a dirci è: restate a casa. Ma questo avrebbe potuto dirlo anche un bambino di 5 anni. Dopo aver utilizzato cure non solo inefficaci ma a volte dannose, dando così il colpo di grazia al malato, si è deciso di ricorrere ai vaccini. Con un certo ritardo direi, se la campagna vaccinale è cominciata, più o meno in tutti i Paesi, da poco più di un mese.

Adesso per inoculare il vaccino si sono ingaggiati medici di base, odontoiatri, dottorandi, infermieri, farmacisti. Ma, logistica a parte, il problema non è questo: fare un’iniezione è cosa che è in grado di fare una domestica o un marinaio o lo stesso interessato, avendo le necessarie informazioni. Il problema sta nel fatto che il medico di base dovrebbe essere in grado di capire alla svelta se certi sintomi segnalati dal paziente sono Covid o col Covid non hanno nulla a che fare, ed eventualmente, nei casi meno preoccupanti, curarlo a casa evitando di intasare gli ospedali. Ma, pur con molte eccezioni, il medico di base non è in grado di farlo, di fare il medico, è un burocrate che ha bisogno dell’ausilio della tecnologia. Quando vai in ambulatorio non ti guarda nemmeno in faccia, ti prescrive subito una mezza dozzina di esami, con perdita di denaro e soprattutto di tempo che nel caso del Covid è particolarmente decisivo. C’è una differenza fondamentale fra l’attuale medico di base e il vecchio “medico di famiglia”. Il medico di famiglia conosceva bene la tua storia e appunto quella della tua famiglia ma, soprattutto, il suo unico strumento di conoscenza era proprio il corpo del malato, gli respirava addosso (adesso non vengono a visitarti nemmeno a casa, le diagnosi le fanno a distanza, magari utilizzando il video). E conoscendo il corpo e le reazioni, fisiche e psicologiche, dei suoi pazienti, era in grado di fare le necessarie comparazioni e valutazioni, la diagnosi. Il rapporto di fiducia col proprio medico è già una cura. Non si può avere lo stesso rapporto con una macchina.

Sui vaccini si è capito poco. Si sa che gli attuali vaccini anti-Covid non immunizzano per sempre, ma hanno una durata limitata. Per un anno? Per soli sei mesi, per tre? Se fosse per tre mesi o anche per sei sarebbe un grosso guaio, non solo per i rifornimenti e la logistica, ma per la psicologia del cittadino il quale non ha troppa voglia di farsi ogni due per tre la trafila per rivaccinarsi, come fosse un malato di reni perennemente in dialisi. E questo potrebbe aumentare l’istintiva ripulsa verso i vaccini. Non è certo che chi è vaccinato non sia più contagioso. Non si sa a che livello di vaccinati si raggiunge l’agognata “immunità di gregge”.

C’è stato poi il “pasticciaccio” Astrazeneca che ha creato il panico nelle popolazioni, ma anche nei governi. E la sfiducia nella Scienza medica su base tecnologica è giunta al punto che le rassicurazioni dei vari Enti di controllo, Ema, Aifa, Oms, hanno ottenuto l’effetto opposto. Le morti sospette in seguito al vaccino sono, a ora, una trentina circa su decine di milioni di vaccinati (gli “effetti indesiderati” sono molti di più, questo è fisiologico, perché nessuna medicina, anche la più usata, poniamo l’aspirina, è del tutto innocente, perché altera comunque gli equilibri del nostro corpo, basta leggere un qualsiasi “bugiardino”). Una trentina di decessi su decine di milioni di vaccinati fanno in percentuale lo 0,000 virgola. Un’inezia (anche se poi vai a dirglielo a uno che è morto in seguito al vaccino che lui è irrilevante per la statistica, e questo vale anche per quel che dirò in conclusione). È quindi del tutto irragionevole aver paura per dei decimali di pericolosità. Ma questo vale anche per il Covid-19. La percentuale, in un anno, di decessi per Covid in Italia è stata dello 0,16%. Poniamo pure che senza le misure di contrasto, fra le quali la più decisiva è il distanziamento sociale, i decessi sarebbero quadruplicati. Saremmo allo 0,60% della nostra popolazione. È stato ragionevole per questo 0,60 derubare il restante 99,4 di un periodo di vita che non tornerà più, frantumare la socialità, la struttura nervosa, l’economia di un’intera popolazione, oltretutto con gravi conseguenze che si protrarranno molto oltre la fine della pandemia, se mai fine ci sarà? Secondo me no.

 

La rivincita di Letta “il meraviglioso”: boxe, aoristi e Sciences-Po

La prima cosa bella di lunedì 15 marzo 2021 è nascosta nel ritorno di Enrico Letta: la durata dell’esilio, 7 anni. Conferma l’esistenza di un ciclo vitale. Valido anche per Hagler, l’amore e la guerra (Gabriele Romagnoli, Repubblica, 15.03)

Meraviglioso Letta, il politico che picchia come voleva mamma. Non è Marvelous. Per niente. Ma a lui piace quel soprannome, anzi quell’identità. È un grandissimo politico: duro, resistente, solido. Chi lo affronta, dopo non è più lo stesso: Renzi è finito al 2% (se Renzi si vanta di aver portato Draghi al governo, confondendo il post hoc col propter hoc, Enrico Letta può vantarsi di aver portato Renzi al 2% lasciandogli tutto il ring, dove si è spompato, mentre lui si riposava a Parigi). Salvini, che quando diventò ministro tutti gli dicevano “Uuuh, che bravo!” come si fa con i bambini ritardati quando riescono a infilarsi il cucchiaio in bocca, lo fotografa così: “Letta è un pezzo di acciaio. Quando lo colpisci coi tuoi colpi migliori e lui continua a venire avanti, ti scoraggi e capisci che dentro hai solo alluminio”. Letta non colpisce di più, ma incassa meglio. E non è uno sbruffone: ha patito molto, da giovane Dc, il nonnismo dei Casini e dei Follini. La segreteria del Pd è la sua rivincita. Madre single, sei figli, la loro casa a Pisa era bruciata nella contestazione del ’68, così si erano trasferiti a Strasburgo, la città di Marcel Marceau. Poi il lavoro in cantiere. Mattoni e calce per tre franchi al giorno. A 10 anni! A 14, la famiglia torna a Pisa, dove Enrico frequenta contemporaneamente il liceo classico e, nei sotterranei del Palasport, la palestra di boxe di Piero “Gallaccio” Del Papa, che falsifica la sua data di nascita per farlo esordire. Tra i primi avversari, nell’82, un tipo che gli aveva fatto un occhio nero al ginnasio. “E il sangue mi aveva sporcato la nuovissima giacca di camoscio con le frange”. A Wembley contro James Cameron finì in rissa. “Vinsi e mi tirarono di tutto: lattine, bottiglie di birra, perfino uno scarpone. Dovetti fuggire nello spogliatoio. Lui aveva continuato a dire che non avrebbe mai perso il titolo con un italiano. Come fossimo una specie inferiore. Ok, venivo da Pisa, ma volevo riprendermi quello che la società mi aveva tolto”. Letta è all’antica: vuole dimostrare di valere, spinto da un bisogno continuo di mettersi alla prova. Non capisce i ragazzi che cercano la fama al Grande Fratello, lui la sua l’ha costruita nel sacrificio: fatiche sul Rocci e sul ring, calvari voluti e accettati. Ha un destro pesante e un aoristo che devasta. Non gli manca nemmeno l’ironia: sostiene che l’avversario più duro era sua madre. “L’avrei mandata volentieri ko, ma non puoi picchiare la mamma”. Anna Banchi, la madre, non si perdeva nessuno dei suoi incontri, sedeva in prima fila, e se lui non ci dava troppo dentro con gli avversari lei gli urlava: “Uccidilo”. L’Italia però non era sedotta da Letta, troppo concreto, poco fascinoso, per niente chiacchierone. Anche quando era il campione, sembrava sempre lo sfidante. La prova fu la volta che finì al tappeto nel febbraio 2014 dopo un colpo sotto la cintura sferrato da Renzi, il cocco della Troika. Letta schiumava rabbia: “Sono stato derubato, il Pd non avrebbe dovuto farmi questo affronto, dopo tutto quello che ho dato al partito”. Se ne andò a Parigi, SciencesPo: restò Meraviglioso, ma una creatura da mondo dei vinti. Si era ripromesso di non perdere la dignità fuori dal ring: “Mi è servito vedere Occhetto solo, alla Stazione Termini, in attesa che gli mollassero qualche euro. Non avrei fatto quella fine”. Ci è riuscito. A questo serve la politica: a sistemare i conti della vita. Ora è segretario del Pd. Ed essere del Pd significa… boh, ne so quanto voi.