Sì al vaccino obbligatorio per i sanitari

Aver proposto una legge per obbligare alla vaccinazione il personale sanitario che opera all’interno di strutture pubbliche e private e delle residenze per anziani sta costando alla senatrice di Forza Italia, Licia Ronzulli, una valanga di insulti sul web.

Una misura eccezionale, ma indispensabile, la cui adozione, a lume di buon senso, avrebbe dovuto precedere la nuova ondata pandemica. Infatti, desta meraviglia che il governo Draghi (e prima ancora il governo Conte) non abbia inserito il provvedimento nell’elenco delle priorità, poiché le campagne di vaccinazione vanno benissimo, ma se poi non si provvede a tutelare i soggetti cosiddetti fragili nei luoghi dove maggiore è il rischio di contagio restiamo fermi all’enunciazione dei massimi sistemi.

Una legge regionale analoga è stata proposta dal presidente della Liguria, Giovanni Toti, dopo il caso di focolaio di variante inglese scoppiato all’ospedale San Martino di Genova, dove è stata trovata positiva anche un’infermiera che non aveva accettato di sottoporsi alla vaccinazione. Toti deve rispondere di un bilancio disastroso nella battaglia anti-Covid (la Liguria è al secondo posto in Italia per letalità del virus, cioè per rapporto tra persone malate e persone decedute, senza contare l’allarme rosso sull’alto numero di malati rispetto alla popolazione), ma come dargli torto quando dice che “chi rifiuta di proteggere se stesso con il vaccino non protegge i pazienti di cui dovrebbe prendersi cura”?

Anche se a livello regionale qualcosa si è mosso sull’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari (Emilia-Romagna e Puglia), a livello nazionale un segnale concreto potrebbe venire dal Pd a guida Enrico Letta. Augurandoci che una certa cautela riscontrata a sinistra sull’argomento non sia dettata dal timore di inimicarsi un importante serbatoio di consensi come il comparto sanitario. La pressione dell’intera maggioranza sul governo perché proceda nella direzione giusta sarebbe il segno più tangibile di solidarietà per la violenta aggressione social subita dalla senatrice forzista. Oltreché una dimostrazione di unità nazionale sulle cose giuste da fare.

I giallorosa dovrebbero farne un caso nazionale

Barcolla, ma non cade. La Regione Lombardia, governata ininterrottamente dalla destra fin dal giugno del 1994, rivela cedimenti strutturali dei suoi apparati nei quali convivono litigiosamente stratificazioni di funzionari intenti a sbranarsi a vicenda. La fine ingloriosa del quarto mandato di Roberto Formigoni nel 2013, favorì l’avvento del predominio leghista, ma ha comportato altresì un rapido deterioramento dei meccanismi clientelari di gestione del potere.

La clamorosa inefficienza rivelata nell’emergenza sanitaria, il doppio fiasco delle campagne vaccinali, prima anti-influenzale e ora anti-Covid, l’ecatombe di direttori dell’assessorato al Welfare, non hanno trovato rimedio nella promozione di figure mediatiche come Bertolaso e la Moratti, leste a esibirsi nella presa di distanze dalle strutture con cui lavorano. Il disastro ormai è sotto gli occhi di tutti. Non dovesse autotutelarsi nell’inchiesta giudiziaria che coinvolge la sua famiglia per l’affare dei camici, il presidente Fontana sarebbe già andato a casa. Salvini gli chiede di resistere perché la caduta della roccaforte lombarda darebbe un colpo letale alla sua leadership. Ma il sistema della lottizzazione precipita nel rimpallo di responsabilità fra i nuovi venuti e le diverse correnti leghiste.

Nonostante tutto ciò, il centrosinistra finora non è stato capace di trasformare lo scandalo Lombardia in un caso politico nazionale. Sembra dare per scontato che l’egemonia della destra in Lombardia resti inscalfibile. Nessun leader del Pd si è sentito investito di una missione – il ribaltamento dei rapporti di forza in una regione di cui pure amministra le principali città – che oggi sarebbe alla sua portata.

Affezionati alla loro romanità, questi dirigenti dimenticano che le spinte di progresso in Italia sono sempre state alimentate dal vento del Nord. Cosa aspettano?

Marcucci rompe con Letta: i dem renziani ammutinati

Dopo una giornata di ordinario logoramento, Andrea Marcucci passa direttamente allo strappo: è pronto a presentarsi, a farsi rivotare alla guida del gruppo di Palazzo Madama, a chiedere ai senatori di Base Riformista (22 su 35) di scegliere tra lui e il segretario. Nonostante l’invito di Enrico Letta a farsi da parte, insieme al capogruppo alla Camera, Graziano Delrio, in favore di due donne. Ridimensionate, annichilite, vagamente sorprese le famigerate correnti cercano una strategia di sopravvivenza rispetto all’entrata “a gamba tesa” di Letta che non sembri diserzione.

La prima reazione era stata rimandare il problema, pur di fronte alla visita che oggi farà ai gruppi di Montecitorio e Palazzo Madama il Letta reloaded. Marcucci aveva convocato una riunione in streaming: impossibile votare, dunque. Per essere più sicuro di controllare la situazione, non l’aveva messa neanche all’ordine del giorno, l’elezione del nuovo capogruppo. Solo per meditare in serata di convocarne un’altra, subito dopo la prima, per andare allo strappo. La mossa non piace a Lorenzo Guerini, ma per ora fermare Marcucci non pare semplice. Base Riformista ha i voti per rieleggerlo o per ripiegare su Simona Malpezzi, oggi sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento. Soluzione che avrebbe un vantaggio: Marcucci, dallo scambio, ci guadagnerebbe un posto al governo. Ma gli altri stanno a guardare? Si torna a fare il nome di Roberta Pinotti, che di certo piacerebbe pure a Dario Franceschini. Un’aggueritissima Monica Cirinnà (zingarettiana) è pronta a dare battaglia. E ad aumentare il caos: “Se gli incarichi devono ruotare, allora questo deve valere pure per i capigruppo in Commissione. Sono tutti uomini”, dirà oggi in Senato. Nel frattempo, a Montecitorio la situazione è più fluida. Raccontano che Graziano Delrio ci sia rimasto piuttosto male, soprattutto per la modalità. Letta lo ha chiamato sabato, gli ha detto come la vedeva. E poi domenica lo ha di fatto licenziato in un’intervista al quotidiano locale di riferimento.

“Modello Renzi”, lo definiscono in molti. Letta ha chiarito che non entra nell’indicazione del nome della capogruppo. 65 su 90 sarebbero pronti a rivotare l’uscente. Potrebbero allora scegliere Debora Serracchiani, a lui vicina. Le tre candidate di Base Riformista, Anna Ascani, Alessia Rotta, Alessia Morani, sembrano più deboli. Avevano messo su la rivolta delle donne contro Zingaretti. In questi giorni sono più silenti. Meglio non rischiare di usare lo stile sbagliato. Paola De Micheli sembra fuori: passerebbe per un’imposizione del segretario. E anche Marianna Madia, altro nome che corre sulle bocche di molti, non ha “madiani” pronti a votarla.

Intanto Letta reloaded continua il suo tour de force. Ieri ha visto il premier, Mario Draghi. I due si conoscono benissimo e si sono parlati più volte in questi giorni. In un’ora, però, hanno affrontato le priorità sul tavolo: metodo di raccordo tra governo e maggioranza, e quindi anche Pd, e politiche per il rilancio dopo le pandemia, l’Europa e il piano vaccinale. L’agenda dei due su molti punti coincide. E a proposito di correnti, il neosegretario ha ridimensionato pure il ruolo dei ministri, visto che il filo diretto con il premier ce l’ha lui. Il capo delegazione di fatto è Andrea Orlando, anche perché il ministero del Lavoro è più centrale degli altri per la mission dell’esecutivo. Ma quel che è certo è che non esiste una diarchia come Zingaretti-Franceschini, durante il governo Conte. Letta ha potuto ribadire a Draghi il suo pieno appoggio e il ruolo del Pd come perno dell’esecutivo. Che si esplicita anche negli attacchi frontali a Matteo Salvini. Essenziali per portare avanti l’identità dei dem, pur in un esecutivo insieme. Tanto è vero che i due dibatteranno nei prossimi giorni in occasione di un appuntamento organizzato dall’Ispi. Tutte queste strategie però hanno bisogno del sostegno dei parlamentari. Come Zinga ha imparato benissimo, c’è anche un Marcucci di troppo.

Foggia, il sindaco leghista e la rete di mafiosi. E ora il Comune rischia il commissariamento

C’è anche il nome di Franco Landella, sindaco di Foggia da poco confluito nella Lega di Matteo Salvini, tra quelli finiti nella relazione consegnata dalle forze dell’ordine ai membri della commissione che dovrà decidere se sciogliere o meno il Comune per infiltrazioni mafiose. Nella relazione che polizia, carabinieri, Gdf e Dia hanno consegnato ai membri della commissione, c’è un paragrafo dedicato al primo cittadino eletto nel 2014 e riconfermato nel 2019 alla guida del Comune dilaniato dalle guerre tra le batterie “Moretti-Pellegrino”, “Sinesi-Francavilla” e “Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese” che negli ultimi anni avevano deciso di cambiare strategia: superando la spartizione del territorio e le sanguinose faide, avevano optato per una cassa comune in cui i soldi delle estorsioni sarebbero stati divisi fra i tre gruppi. Nel documento visionato dal Fatto si parla dei rapporti con esponenti della “Società foggiana”: gli investigatori scrivono, ad esempio, che nelle Regionali 2010, pur non eletto, Landella avrebbe avuto “annoverato tra i suoi più fattivi sostenitori, alcuni componenti della famiglia ‘Piserchia’, noti pregiudicati in materia di traffico di stupefacenti”. Gli investigatori, inoltre, ricordano che sua moglie è cugina di Claudio Di Donna coinvolto nel 2009 in un’inchiesta per associazione mafiosa e che suo figlio è stato denunciato per truffa aggravata in concorso con Francesca Bruno, compagna di Antonio Tizzano, figlio di Francesco Tizzano definito “esponente di rilievo della batteria Moretti-Pellegrino”.

E ancora. Nel documento spuntano i nomi di consiglieri comunali, ex assessori e dipendenti ritenuti vicini ai clan. Come Bruno Longo, consigliere di Fd’I, arrestato a febbraio 2021 per tangenti: proprio in quella inchiesta venne fuori un’intercettazione nella quale uno degli indagati consegnando il denaro a Longo avrebbe affermato “qui c’è la quota per Landella”. Nei prossimi mesi la commissione dovrà decidere se il Comune è stato controllato dalla criminalità che finora ha incassato il pizzo da ogni attività foggiana: costruttori, imprese funebri, sale scommesse, i fantini in corsa negli ippodromi, imprese di trasporti e dell’industria alimentare, commercianti e persino gli ambulanti del mercato settimanale. E lo spiega bene un mafioso intercettato nell’ambito dell’indagine denominata “Decima azione bis”. “Se soldi non ne tiene – dice – chiude… deve chiudere”.

No Tav, scontri in piazza nel 2019: 13 misure cautelari

Resistenza a pubblico ufficiale per gli scontri contro la polizia e violenza privata per avere insultato e picchiato alcuni militanti del Pd a un corteo. Sono le accuse della Digos di Torino nei confronti di 13 No Tav e antagonisti, colpiti da misure di custodia cautelare per avere preso parte ai tafferugli al corteo del Primo maggio del 2019. La gip Giorgia De Palma, che ha accolto la richiesta del pm Enzo Bucarelli, ha ordinato i domiciliari per un indagato, il divieto di dimora per altri tre e l’obbligo di presentazione alla pg per nove persone. Gli indagati, secondo la gip, “con continue e coordinate azioni di pressione, minaccia e aggressione”, impedirono “a un rilevante numero di pacifisti, festanti e inerti cittadini, di potere esercitare liberamente e in modo sereno e sicuro, il diritto costituzionale di manifestazione ed espressione del pensiero”. “Ancora reati d’opinione – dicono i No Tav – siamo di fronte a un’inchiesta selettiva in cui ad essere colpiti sono compagni e compagne noti per la loro generosità e partecipazione alle lotte”.

Disse “magistrati sono un cancro”, Salvini assolto

Aveva detto durante un comizio a Collegno (To), che i magistrati sono “stronzi, una schifezza, un cancro da estirpare”. E per queste sue affermazioni, il leader della Lega, Matteo Salvini, era stato processato. Ieri il gup Roberto Ruscello ha assolto Salvini (difeso da Claudia Eccher) per la “particolare tenuità del fatto”. Il procuratore aggiunto Emilio Gatti aveva chiesto una multa da 3.000 euro per vilipendio all’ordine giudiziario. Era il 14 febbraio 2016. Al congresso piemontese del Carroccio, Salvini, come segretario federale, aveva detto: “Difenderò qualunque leghista indagato da quella schifezza che si chiama magistratura italiana, che è un cancro da estirpare. Non accetto che qualcuno usi gli stronzi della giustizia per fare campagna elettorale. Magistrati lazzaroni che ci mettono otto anni a fare una sentenza, invece di occuparsi della mafia”. “Sono contento – ha detto ieri Salvini – la giustizia italiana va riformata, il sistema Palamara va smontato per il bene dei cittadini e dei tanti magistrati davvero liberi e indipendenti”.

Affare Eni-Nigeria, il pg chiede l’assoluzione dei 2 mediatori condannati in primo grado

La Procura generale di Milano chiede l’assoluzione, in appello, per i mediatori dell’acquisizione del blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria. Il nigeriano Emeka Obi e l’uomo d’affari Gianluca Di Nardo avevano scelto il rito abbreviato ed erano stati condannati in primo grado a 4 anni di reclusione per corruzione internazionale. L’accusa: aver mediato l’acquisto della licenza Opl 245 con Eni e Shell, con l’esborso nel 2011 da parte delle compagnie di 1,092 miliardi di dollari, considerati dalla Procura di Milano una gigantesca tangente finita tutta a pubblici ufficiali, ministri, politici nigeriani e mediatori internazionali.

Mercoledì 17 marzo, il Tribunale di Milano, collegio presieduto da Marco Tremolada, ha concluso il processo in rito ordinario stabilendo che la corruzione internazionale non esiste, che “il fatto non sussiste” e assolvendo dunque tutti gli altri imputati: i vertici Eni (l’allora amministratore delegato Paolo Scaroni e il suo successore Claudio Descalzi), i manager del Cane a sei zampe coinvolti nell’affare (Roberto Casula, Ciro Antonio Pagano e Vincenzo Armanna), i dirigenti Shell (Malcom Brinded, Peter Robinson, Guy Colgate e John Coplestone), gli intermediari dell’operazione (Luigi Bisignani, il russo Ednan Agaev e l’imprenditore Gianfranco Falcioni) e le due società petrolifere.

Ora la Procura generale si allinea a quel verdetto e chiede l’assoluzione anche per i già condannati Obi e Di Nardo. Il sostituto procuratore generale Celestina Gravina ha chiesto anche che gli atti riguardanti Vincenzo Armanna – imputato (ma assolto) per aver intascato una parte dei soldi pagati da Eni, poi diventato però grande accusatore di Eni – siano mandati alla Procura perché valuti l’ipotesi che con le sue accuse abbia calunniato Eni e i suoi vertici: le sue dichiarazioni non sono state evidentemente credute dai giudici, che hanno assolto tutti gli imputati, lui compreso; dunque sono calunnie (il sostituto pg Gravina lo definisce un “avvelenatore di pozzi”). Prossima udienza, 13 aprile: allora si saprà se la sentenza “allineerà”, con un’assoluzione, i due tronconi processuali celebrati sugli stessi fatti.

“Ussignur, nessuno è peggio di Fontana. Ridateci Gallera…”

“Prima guardo il Paradiso delle Signore e poi parliamo”.

Questi sono gli effetti collaterali da lockdown cara signora.

Se becco qualcuno a cantare sui balconi (qualunque strofa, anche dell’ultimo Sanremo) gli lancio una pietra con la fionda. Con le mie amiche ci siamo accordati sull’utilizzo di un’arma vintage ma abbastanza micidiale. Abbiamo convenuto che bisogna stendere i fanatici.

Intanto voi lombardi siete stati stesi dal vostro governatore.

Che figura coi vaccini, ussignur! Ce la siamo tanto tirata noi bauscia e alla fine siamo finiti in braghe di tela. Ha visto che disastro?

Sveva Casati Modignani – sciura

milanese over 80 – sforna romanzi come il panettiere le brioche. Finora ha superato i dodici milioni di copie vendute. I suoi sono racconti familiari: cuori che si incontrano, vite che si scontrano e lacrime e baci.

Roma in tema di vaccini sembra la Svizzera. Qua tutto funziona, come fossimo a Zurigo. Voi milanesi, invece, e con rispetto, sembrate la nuova terronia.

Ci sarebbe piaciuto che fossero i napoletani a essere inguaiati col virus. E invece no, siamo noi portati a spasso dagli incompetenti leghisti. Ci rimandino subito un Gallera, uno al quale puoi dir di tutto ogni giorno.

Salvini fischietta, Fontana dà la colpa alla burocrazia.

Nel mio ristorante si mangia da schifo e io, la proprietaria, dico agli avventori: colpa dello chef! Ma si può essere più stronzi?

Comunque lei si è vaccinata.

Ottantatré primavere, mio caro. Ho vinto la lotteria, ma devo però fare il richiamo, mica è detto che arrivi…

Signora benestante e polemica. La radical chic che si lagna.

Radical un corno. Vivo in periferia, quartiere Padova, che è tenuto uno schifo. Altro che bosco verticale, qui è cemento massivo. Finiamola pure con queste stupidaggini da via della Spiga. E comunque pago le tasse fino all’ultimo euro.

Anche Draghi le sta sulle scatole?

Dico al Signor Salvatore della Patria che il condono è ributtante, riprovevole, una indecenza.

E a Fontana?

Si dimetta.

E a Salvini?

Che la verità è l’unica arma a disposizione: dica che più di così la Lega non sa fare.

Lo vuole morto.

Macché, i suoi elettori sono degli invasati. Già parlano dei vaccini che non arrivano, già sono pronti a scaricare le colpe sul tipo che ha il petto foderato di mostrine.

Anche il generale Figliuolo non le aggrada?

Un po’ pasticcione. Buona volontà, ma qualche casino l’ha provocato pure lui.

L’Italia capovolta. Milano è il Sud questa volta.

Effettivamente c’è qualcosa di straordinario in questa vicenda. Abituati alle lodi incessanti, alla locomotiva che traina il resto del Paese e stupidaggini varie, oggi non sappiamo più chi siamo.

Lei sembra afflitta.

Ma che afflitta! Ho già in mente il nuovo romanzo su noi milanesi, cinesi d’Europa. Un romanzetto pronto per l’autunno, non più di 250 pagine. Siamo noi il buco nero.

Noi meridionali non siamo razzisti.

Noi un po’ sì.

Il bauscia de Milan.

A far lezione al mondo intero e ora si ritrova col culo per terra.

Nonostante Letizia Moratti.

Perché non ci restituiscono Gallera? Almeno lo gonfiamo di cattivi pensieri, gli ribaltiamo quel po’ di ira con cui facciamo i conti ogni giorno. A una super manager che si dice?

Sono stati gentili quando le hanno inoculato il Pfizer?

Garbati e professionali. Ho anche messo la foto su Facebook e sa che mi hanno scritto?

Cose belle.

Sei vaccinata perché sei nota. Come la Segre. Non ti vergogni?

Nove ministri lombardi: silenzi e imbarazzi

Nove su 23 vengono dalla Lombardia. Eppure quasi nessun ministro in queste ore ha voglia di esporsi sul disastro della gestione vaccinale nella Regione governata dal leghista Attilio Fontana. Una situazione che imbarazza il governo, ma i cui effetti sulla campagna nazionale di vaccinazione – la Lombardia è di gran lunga la Regione più popolosa d’Italia – avrebbero forse meritato maggiore loquacità, anche al netto della già nota (e qui rinnovata) propensione al silenzio del premier Mario Draghi. Per avere risposte sul caso, il Fatto ha provato a contattare i nove ministri lombardi.

Mariastella Gelmini

L’unica ministra che decide di parlare e metterci la faccia è la titolare degli Affari regionali, Mariastella Gelmini. Bresciana, responsabile di Forza Italia in Lombardia e oggi capodelegazione dei berlusconiani al governo, conosce benissimo le dinamiche del Pirellone. Ma il messaggio che vuole mandare è quello di unità contro “un virus che non guarda al colore politico delle regioni”. “La Lombardia – dice al Fatto – ha utilizzato quasi l’80% delle dosi che sono arrivate. Poi negli ultimi giorni ci sono stati sicuramente problemi nelle prenotazioni, ma il presidente Fontana è intervenuto tempestivamente anche con decisioni dure chiedendo l’azzeramento dei vertici di Aria”. La ministra, anche in qualità di titolare dei rapporti con le Regioni, poi spiega che ritardi e difficoltà non ci sono solo in Lombardia, ma anche in altre zone d’Italia, come la Toscana, dove solo il 5,9% degli over 80 è stato vaccinato. “Il virus non guarda al colore politico – continua Gelmini – e tutte le Regioni, di centrodestra e di centrosinistra, sono state colpite e sono state zone rosse. Io per esempio ritenevo Stefano Bonaccini un ottimo presidente dell’Emilia-Romagna quando la sua regione era in zona gialla e lo penso anche adesso che è in zona rossa. Adesso basta polemiche: ci vuole uno sforzo collettivo di tutti contro il virus”.

Giancarlo Giorgetti

Contattato dal Fatto, invece, Giancarlo Giorgetti fa sapere tramite il suo staff di non voler rispondere ad alcuna domanda sulla questione lombarda. Un silenzio che pesa visto che proprio il numero due della Lega è il padre politico dell’operazione che a gennaio ha spostato l’asse del governo lombardo dalla gestione targata Salvini – Attilio Fontana coadiuvato dai salviniani Davide Caparini e Giulia Martinelli – a quella di Moratti e Bertolaso. Era stata di Giorgetti la decisione di portare Moratti in giunta e nominare il suo fedelissimo Guido Guidesi come assessore allo Sviluppo economico. Dopo due mesi, quel modello diarchico è fallito e, ancora una volta, un blitz di Salvini lo ha messo in discussione ordinando l’azzeramento dei vertici di Aria e tornando a fare la voce grossa al Pirellone contro il vecchio corso leghista. Una mossa che non deve essere piaciuta al suo numero due.

Massimo Garavaglia

Neanche il ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, anche lui leghista di Cuggiono (nel Milanese) e molto vicino a Giorgetti, vuole commentare la disfatta leghista sulla gestione della pandemia e dei vaccini. Lui i corridoi e le dinamiche del Pirellone li conosce bene avendo fatto politica sul territorio per molto tempo prima di approdare a Roma come parlamentare ed essendo anche stato assessore regionale al Bilancio della giunta di Roberto Maroni nel 2013. A metà febbraio, quando il governo decise di non riaprire gli impianti sciistici, Garavaglia fece una conferenza stampa con Fontana per chiedere “indennizzi” agli operatori. Il Fatto ha inoltrato le domande al suo portavoce, ma il ministro ha preferito non commentare.

Elena Bonetti

La ministra renziana alle Pari opportunità è tra le poche a esporsi, lei che a Milano è docente universitaria. Pur non cavalcando i toni duri di un commissariamento della Regione o della richiesta di dimissioni di Fontana, Elena Bonetti ci ribadisce quanto detto a SkyTg24: “La Lombardia merita oggi un’organizzazione efficace e come ministro invito il livello istituzionale a metterlo in pratica”.

Lorenzo Guerini

Ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini è volato in missione verso Gibuti, il Paese incagliato tra Eritrea, Etiopia e Somalia. Le oltre nove ore di volo hanno distratto il ministro dalla nostra richiesta, ma c’è da dire che sul disastro lombardo Guerini non ha battuto ciglio neanche nei giorni precedenti, nonostante il ministro sia da sempre molto attivo sul territorio, avendo alle spalle nove anni da presidente della provincia di Lodi e sette da sindaco nella stessa città. Per il momento vince allora il quieto vivere, seppure il Pd, il partito di Guerini, in Regione Lombardia sia da mesi sulle barricate contro la giunta leghista.

Roberto Cingolani

Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, si tiene lontano dalla mischia, pur sollecitato dal Fatto. Anche perché, come ci spiegano, pur essendo nato a Milano è cresciuto in Puglia, vivendo poi a lungo a Genova. Meglio quindi un bel tacere.

Vittorio Colao

Nato a Brescia e giramondo per lavoro, il ministro della Transizione digitale, Vittorio Colao, finora lo si è sentito e letto molto poco. Restio a parlare sull’innovazione tecnologica, il suo staff ci spiega che il ministro preferisce non esporsi neanche sul resto, inclusi i guai della Lombardia.

Maria Cristina Messa

Maria Cristina Messa è stata a lungo rettore dell’Università Bicocca di Milano e ora è alle prese da vicino coi guai della Regione nella gestione vaccini, non foss’altro perché il personale che lavora negli Atenei – di cui è titolare la ministra Messa – sono partiti con le immunizzazioni. Nonostante questo, la professoressa preferisce non commentare.

Marta Cartabia

Anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia, nata a San Giorgio su Legnano, è molto legata alla Lombardia dove ha studiato Giurisprudenza prima di fare il salto fino alla Consulta. Prima di oggi, scelta da Draghi come Guardasigilli, non aveva mai avuto un incarico politico. Il Fatto ha provato a cercarla ma, per i molti impegni al ministero, non è riuscito a ottenere risposta.

Rissa Putin-Ue su Sputnik V. L’Ema: “In corso la valutazione”

Vladimir Putin ha definito “strane” le dichiarazioni di Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno incaricato per la campagna di vaccinazione, che domenica sera in un’intervista alla televisione francese Tf1 ha affermato: “L’’Unione europea non ha assolutamente bisogno dello Sputnik V”. Così il presidente russo Putin, intervenendo in videoconferenza a una riunione con gli sviluppatori dei vaccini russi, ha replicato in questo modo: “Non costringiamo nessuno a fare nulla, ma ci interroghiamo sugli interessi difesi da queste persone, quelli delle case farmaceutiche o quelli dei cittadini europei?”.

Polemica geopolitica a parte, chi deve decidere se introdurre anche il vaccino russo in Europa, cioè l’Ema, l’agenzia europea del farmaco, puntualizza con Marco Cavaleri, responsabile vaccini e prodotti terapeutici per Covid-19: “Noi andiamo avanti con la valutazione dei dati disponibili e con le ispezioni ai siti produttivi, che sono in programma il mese prossimo. A fine aprile faremo il punto della situazione e capiremo meglio la tempistica di una potenziale autorizzazione, qualora i dati la supportassero.

Putin ha poi tenuto una conversazione telefonica con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, secondo quanto riferito dal servizio e, fra le altre cose, hanno discusso “in particolare la possibilità di utilizzare il vaccino russo Sputnik V”. Putin ha definito insoddisfacente lo stato della relazione tra Mosca e l’Ue, a causa di quella che è stata definita una linea non costruttiva, a volte conflittuale, da parte di Bruxelles. Il 25-26 marzo è in programma il Consiglio europeo, vertice nel quale si discuterà della relazione tra i due Paesi.