L’irruzione di Morra nel centro medico: “Era un mio diritto”

Dopo le infelici frasi su Jole Santelli (“era noto a tutti che fosse una grave malata oncologica”), costate un’indagine per diffamazione aggravata, il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, finisce al centro di un’altra polemica per un episodio avvenuto sabato scorso negli uffici dell’Asp di Cosenza. Il senatore del M5S avrebbe aggredito verbalmente il responsabile della Centrale operativa territoriale, Mario Marino, che si occupa della gestione delle prenotazioni dei vaccini e che si è sentito male dopo l’incontro con l’esponente grillino. “Ho avuto un malore, aritmie e crisi ipertensiva”. “È venuto Morra con la sua scorta – racconta Marino –. Ha alzato la voce per sapere come erano andate a finire le prenotazioni di due suoi parenti. Gli ho spiegato che c’era la questione legata alla nuova piattaforma. Gridava terribilmente. Un’aggressione verbale inaudita. Ha telefonato al sottosegretario Sileri dicendo ‘Questi non sono organizzati’. Me l’ha passato e ho ribadito: c’è la nuova piattaforma”.

Come se non bastasse, i poliziotti della scorta avrebbero chiesto i documenti al funzionario dell’Asp e ad altri medici: “Adesso risolvo i miei problemi di salute e dopo vedo di denunciarlo per abuso di potere”.

Mentre Matteo Salvini chiede le dimissioni di Morra, tre parlamentari di Fratelli d’Italia lo attaccano: “È un abuso inaccettabile”. “Lui ha chiamato il sottosegretario per dire che? – si domanda il funzionario dell’Asp Marino –. Che i suoi parenti non vengono vaccinati?”.

Per siti locali si trattava dei suoi suoceri. Morra, però, smentisce: “I miei suoceri non c’entrano, uno è morto l’anno scorso e mia suocera si è vaccinata già un paio di settimane fa. La scorta li ha identificati perché senza mascherina”. Per il senatore è stata un’ispezione “di un parlamentare affinché il diritto alla salute venga rispettato anche in Calabria e a Cosenza. Questa è la verità dei fatti”.

Vaccini, Regioni in crisi. Ma Figliuolo annuncia “un mln di dosi Pfizer”

Oggi arriveranno alle Regioni “circa un milione di dosi del vaccino Pfizer”, ha annunciato ieri sera il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo. “È il lotto più importante e consentirà di dare impulso alla campagna vaccinale”. Sono i vaccini per gli over 80 e le persone più fragili. Il generale Figliuolo è convinto che “alla fine del primo trimestre – secondo le previsioni relative agli approvvigionamenti in corso – saranno oltre 14 milioni i vaccini distribuiti”. Ora siamo a 9,5 milioni di dosi consegnate. Si vedrà nei prossimi giorni se l’annuncio si concretizzerà. Già alcune Regioni trovano inverosimile che a livello nazionale si riesca a raggiungere la quota di 500 mila vaccini al giorno, l’obiettivo fissato dal governo. Secondo Luigi Genesio Icardi, assessore alla Salute del Piemonte e coordinatore dell’area Sanità della Conferenza delle Regioni, “al momento le 500 mila vaccinazioni appaiono un obiettivo difficilmente raggiungibile, molto dipenderà dalla disponibilità dei vaccini”. In modo più o meno sfumato, lo pensano molti governatori. Dal presidente della Campania, Vincenzo De Luca (“Dipende da quante dosi abbiamo”) a Michele Emiliano (Puglia), secondo il quale il quale, come spiegano dal suo staff, la macchina delle somministrazioni è in moto ma la velocità è legata all’approvvigionamento. “Mezzo milione al giorno per noi significherebbe quasi 40 mila – osserva, a sua volta, l’assessore alla Salute dell’Emilia-Romagna, Raffaele Donini –. È un obiettivo raggiungibile, ma ci devono essere due condizioni: tanti vaccini a disposizione e una comunicazione dei flussi in arrivo che ci consenta di programmare bene i ritmi di somministrazione”.

I “buchi” dopo lo stop. Nel frattempo le Regioni cercano di recuperare il terreno perduto durante la sospensione della scorsa settimana del siero AstraZeneca, del quale la casa farmaceutica anglo-svedese anche ieri ha ribadito la sicurezza sulla base di uno studio condotto in America che ha coinvolto quasi 21.600 persone: nessun aumento del rischio di trombosi. In Toscana, dove erano saltate 34 mila vaccinazioni, tra venerdì e ieri ne sono recuperate oltre 9.300; in Abruzzo, negli ultimi tre giorni, 3.200 su 15.400; in Calabria ne sono stati fatti più di 1.600. In Campania sono già state richiamate praticamente tutte le circa 3 mila persone “bloccate”. La stessa cosa in Trentino, dove le vaccinazioni erano ripartite, dopo la sospensione nel pomeriggio del 15 marzo, con Pfizer e Moderna. Mentre in Puglia erano rimaste ferme 15 mila vaccinazioni e dovrebbero riassorbirle in una settimana. In Friuli-Venezia Giulia il completo recupero è previsto entro la metà di aprile. Nel Lazio, dove devono essere riassorbite circa 30 mila prenotazioni, si punta a completarle questa settimana: significa passare da 7 mila vaccinazioni al giorno a 11-12 mila.

Chi non si è presentato. In quasi tutte le Regioni si registrano delle defezioni da parte di chi, o per imprevisti o per paura dopo lo stop temporaneo di AstraZeneca, non si è presentato all’appuntamento. Si oscilla tra il 20 e il 30% in Piemonte, in Campania si è arrivati – tra sabato e domenica – a punte del 40% tra il personale scolastico e universitario, in Puglia la percentuale si è fermata invece al 10%. 979 sono le persone che non si sono presentate in Toscana, circa 60 in Abruzzo. “Il vero problema non è recuperare le somministrazioni bloccate nei giorni scorsi ma affrontare la fase dei grandi numeri, quando arriveremo alla vaccinazione di massa – spiega Roberto Testi, direttore del dipartimento di Prevenzione dell’Ausl Città di Torino –. Abbiamo il problema delle scorte vaccinali: stiamo raschiando il fondo del barile”. Ieri pomeriggio a livello nazionale erano rimaste poco più di 1,6 milioni di dosi (tra Pfizer, Moderna e AstraZeneca), il 17,6% di quelle consegnate dall’inizio della campagna.

Fontana è solo una bolla d’Aria: via il cda, ma non il dg della Lega

Cacciare (quasi) tutti, per non cambiare (quasi) nulla. È la soluzione trovata da Matteo Salvini per salvare quel poco di credibilità che resta al presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e alla sua giunta travolta dai ripetuti fallimenti della società regionale Aria, nella gestione dei vaccini degli over 80. Che dovesse cadere qualche testa, nell’agenzia controllata dall’assessore leghista Davide Caparini, era chiaro, dopo le critiche e gli attacchi arrivati da medici e da esponenti dell’opposizione politica, ma anche dallo stesso assessore alla Sanità, Letizia Moratti, arrivata alla vicepresidenza della Regione per volere di Forza Italia. Così ieri Fontana – su input di Matteo Salvini – ha ordinato al consiglio d’amministrazione di Aria di dimettersi, a partire dal presidente Francesco Ferri, pupillo di Silvio Berlusconi e uomo del suo partito.

Fontana ha poi stabilito che il controllo di Aria passi all’attuale direttore generale dell’agenzia, Lorenzo Gubian, l’uomo chiamato proprio da Caparini (dunque dalla Lega) solo pochi mesi fa per far uscire Aria da un altro fallimento, quello degli acquisti dei vaccini antinfluenzali.

Così, paradossalmente, a pagare con le dimissioni sarà il presidente forzista di Aria, e non il vero responsabile operativo, il leghista Gubian. Un fallimento della Lega si è trasformato in una vittoria di Salvini e in una disfatta di Forza Italia che, dopo aver subito le figuracce inanellate da Letizia Moratti, ha dovuto incassare anche la perdita della presidenza di una società fondamentale nella macchina regionale come Aria. Un ennesimo capitolo nello scontro che sta infiammando la maggioranza di centrodestra del Pirellone, con Caparini che resta intoccabile, nella partita di questi giorni come in quella che ha visto sconfitto e cacciato l’ex assessore forzista Giulio Gallera. La politica gioca i suoi riti, i vertici della Regione offrono qualche testa per accontentare l’opinione pubblica, ma intanto – è questo che più interessa ai milioni di lombardi ancora in attesa del vaccino – Gubian, il principale responsabile dei disservizi di Aria, non solo non è stato silurato, ma è addirittura promosso.

Per indorare comunque la pillola, ieri Fontana ha sostenuto che “situazioni di criticità, come quelle verificatesi nel fine settimana, offrono una immagine distorta dei risultati già raggiunti”. Risultati che ha rivendicato: “Il totale delle vaccinazioni in Lombardia è 1.231.413 individui”, ha detto, “la percentuale di chi ha ricevuto una dose degli over 80 che hanno aderito (circa 600 mila), supera di gran lunga il 50 per cento”. Ma le cose non stanno così. Fontana, infatti, ha confuso il numero delle dosi somministrate con quello dei vaccinati. Secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili (al 16 marzo), in Lombardia sono state somministrate, in totale, 722.208 prime dosi e 332.589 seconde dosi. Dunque i vaccinati “completi” al 16 marzo sono solo 332.589 e non 1,2 milioni. Sbagliati i dati di Fontana anche sugli over 80: a fronte di una platea di 725 mila anziani, i vaccinati con la prima dose a ieri erano 279.354, cui si aggiungono 70.440 che hanno avuto la seconda. Molti meno, quindi, del 50 per cento annunciato dal presidente.

Il vero protagonista degli ultimi tre giorni, tuttavia, è stato Salvini. Tra le decine di annunci fatti, il più importante lo ha pronunciato ieri mattina: “Entro la settimana, pochi giorni, dovrebbe arrivare Poste”, a sostituire nella campagna vaccinale la piattaforma di Aria (costata 22 milioni di euro). Un sospiro di sollievo, quindi? Neanche per sogno, visto che Poste italiane non prenderà la gestione delle prenotazioni a breve. E, soprattutto, non gestirà la vaccinazione degli over 80. Si occuperà, invece, della Fase 2, quella massiva, quando si dovranno inoculare 6,5 milioni di dosi. Tuttavia la data di inizio della Fase 2 continua a slittare a causa dei ritardi della fase 1/ter, quella degli anziani.

Negli incontri tecnici avvenuti nelle scorse settimane tra Regione Lombardia e Poste, il focus è sempre stato sulla sola Fase 2. E infatti, voci interne all’azienda ieri hanno manifestato tutto il loro stupore per le parole di Salvini. Lo aveva confermato lo stesso Gubian, in un’intervista alla Provincia di Como: “Stiamo valutando e pianificando di utilizzare il loro portale (di Poste, ndr) per la gestione delle prenotazioni per gli under 80”. E sui tempi aveva aggiunto: “Dal punto di vista informatico, penso che potremmo essere pronti alla prima settimana di aprile, poi c’è tutto il problema organizzativo che è in capo all’Unità di crisi”.

Agli over 80, dunque, non resta che attendere. Inoltre, prima che inizi la Fase 2, si dovrà procedere alla vaccinazione dei “fragili”, circa 400 mila persone. E neanche queste rientrerebbero nelle competenze di Poste italiane.

Intanto le prenotazioni di over 80 e fragili passeranno alle Asst (le aziende ospedaliere) e alle Ast (le aziende territoriali). Ovvero, agli organismi che hanno tappato finora i buchi di Aria, convocando d’urgenza i pazienti quando le liste dei vaccinandi erano vuote. Sono in molti a chiedersi perché mai il Pirellone non abbia delegato fin dall’inizio a Asst e Ats la gestione delle vaccinazioni, visto che hanno i dati di tutti i pazienti e le relative anamnesi. Informazioni che invece fino a oggi sono state caricate nella piattaforma di Aria. Se avessero gestito tutto Asst e Ats, Regione Lombardia avrebbe anche risparmiato i 22 milioni destinati alle casse di Aria.

Sallusti uno di noi

Premio Riflessi Pronti 2021 ad Alessandro Sallusti, che mette il naso fuori e titola: “Brutta Aria in Lombardia” (battuta sull’agenzia regionale omonima). Denuncia persino i “disagi sulla vaccinazione” e, parlando con pardon, il “caos nelle prenotazioni”. Figurarsi se noi, scrivendo queste cose da un anno, possiamo dissentire: benvenuto fra noi. Purché tragga dalla tardiva ma lucida analisi le conclusioni che ne trarrebbe pure un bambino ritardato: i responsabili si chiamano Fontana, Moratti, Bertolaso e gli altri assessori e dirigenti. Che non sono piovuti lì per caso. Sono stati scelti da Lega, FI e FdI nel famoso “modello Lombardia” che tutto il mondo ci invidiava. E che per 13 mesi ha cambiato assessori, manager e commissari, ma non il prodotto. Zero sanificazione al pronto soccorso di Alzano, niente zona rossa in val Seriana, infetti nelle Rsa, sprechi al Fiera Hospital, camici del cognato di Fontana con soldi tra Bahamas e Svizzera, gallerate di Gallera e degli altri ancora al loro posto, lockdown a gennaio per i dati sballati, vaccini antinfluenzali fantasma, regali ai privati e ogni volta scaricabarile su Roma ladrona.

Il 27 febbraio 2020 il Fatto, in beata solitudine, titolava “Fontanavirus”. Il 3 marzo “Lombardia e Lazio, sanità colabrodo”. Il 22 “Lombardia fuori controllo”. Il 26 “Regione Lombardia, i 10 errori sul virus”. Il 28 “Dimettono anche chi è contagioso”. Il 15 aprile “Commissariare Lombardia e Piemonte”. Appena incrociavamo Sallusti o un suo clone in tv, ci davano degli “odiatori dei lombardi” e degli “sciacalli sui morti” (noi). Persino De Bortoli gridava al “sentimento anti-lombardo”, come se i lombardi non dovessero temere i serial killer che li sgovernano, ma chi li critica. I giornaloni magnificavano la supercompetenza di noti collezionisti di fiaschi come Bertolaso&Moratti. E cercavano gli incapaci altrove: negli orari serotini di Conte, tra le siringhe e le primule di Arcuri, sugli Spelacchio e nelle buche della Raggi, nel curriculum del bibitaro Di Maio, nella blocca-prescrizione di Bonafede, nei banchi a rotelle della Azzolina, nel Sussidistan del reddito di cittadinanza e dei bonus ai poveri. E nascondevano quel monumento al latrocinio e all’incompetenza che è il forza-leghismo lombardo. Fino a riportarne i mandanti al governo travestiti da Migliori. Ora tutti scoprono il disastro. Persino Sallusti. Che però non si rassegna: governano Fontana, Moratti e Bertolaso, ma la colpa è di “qualcuno”, “invidioso e geloso” (ma di che?), “gioca sporco nell’ombra”: “sabotatori interni” che vanno stanati “subito”, di “qualunque parte politica” siano. Siccome arriva sempre un anno in ritardo, se vuole risparmiare tempo e fatica ci faccia un fischio: i nomi glieli diamo noi. Gratis.

Diderot lo sa: non c’è arte senza rapporti umani

Ècapitato a tutti. Deprimerci dopo essere stati rifiutati dalla persona che ci piace finché come una tardiva alba sorge una verità a consolarci: “Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace”. Nessuno lo sospetta, ma è Diderot il padre del farmakon per i cuori infranti di tutto il mondo. Eh già: è, infatti, sbagliato figurarsi il filosofo sempre nella sua soffitta a Rue de Taranne alla scrivania a redigere l’Encyclopédie con una robe de chambre blu, come ci appare nel ritratto di Louis-Michel van Loo (1767). Denis era un viveur. Basti pensare a una delle sue massime più chiare: “I miei pensieri sono le mie puttane”. Ma non fu una delusione da parte delle sue amanti Sophie Vollant o Madeleine de Pulsieux a insegnargli la soggettività del bello, né i capricci delle sue egerie Mme Geoffrin prima e Caterina di Russia dopo. No, fu l’arte.

Meno celebre della méditation philisophique è l’attività di Diderot come critico d’arte. Prima, però, un passo indietro. Dalla seconda metà del 600, Luigi XIV su consiglio di Colbert e dell’Académie Royale de Peinture et de Sculpture autorizza in Francia i Salons, una specie di biennale d’arte cui partecipano artisti ammessi dall’Accademia. Ma i francesi, ovviamente, non vogliono privare il mondo della grandeur esposta nei Saloni, così – per gli appassionati delle corti lontane – vengono stilati dei resoconti. Ma sarà a partire dal 1759, quando cioè vi parteciperà per la prima volta su incarico dell’editore Friedrich Melchior von Grimm per Correspondance littéraire, che Diderot inventa la critica d’arte per come la intendiamo oggi. Fino al suo ultimo bollettino nel 1781, ogni lettera è territorio per luminose contemplazioni estetiche, storiche e filosofiche sull’arte ma non solo. Eccolo allora, nel Salon Carré del Louvre, di fronte a La Tour “sorprendente per la vita e la verità”, le cui opere sanno “di poesia, di morale, di teologia, di metafisica e di politica”; del pittore Drouais annota che “dipinge bene i bambini. Mette nei loro occhi la vita, la trasparenza e l’umido e il grasso e il fluttuante che li caratterizza. Sembra che vi guardino e vi sorridano”. Come leggiamo nel prezioso I Salons (Bompiani, dal 311 marzo in libreria, a cura di Maddalena Mazzocut-Mis), il filosofo non risparmia le critiche. A volte tranchant, come su Guérin: “Non lo conosco e nessun’anima vivente ne parlerà”; altre volte ideologiche, come per Fragognard di cui scrive “mi sembra di aver visto abbastanza tette e culi”; o per le opere dei barocchi da cui emana “un chiasso insopportabile”.

Tuttavia, non deve stupirci che l’encylopédiste fosse così sensibile. Da un punto di vista artistico, il 700 è un secolo ibrido. Nonostante si professi il Secolo dei Lumi e dell’apologia della ragione, al contempo guadagna centralità il sentimento e la sensibilità per la ricerca del “bello” (artistico). È finito il tempo dell’arte come mìmesis per lasciare spazio al sentimento, per Kant alla base della relazione tra osservatore e oggetto estetico. Il pensatore che incarna la relazione tra logos e sentimento è Diderot.

Sfogliamo la già citata Encyclopédie: “È bello tutto ciò che contiene in sé qualcosa che possa risvegliare nel mio intelletto l’idea di rapporti”. Concetto mutuato dal drammaturgo Corneille, il rapporto è la relazione soggettiva dell’opera con chi la guarda. Il bello (non solo artistico) non è, allora, l’immobile contemplazione di una verità ideale, ma è movimento, conoscenza soggettiva della realtà attraverso i suoi nessi vitali. A questo, si unisce la rivoluzionaria definizione che dà di “arte” come “ogni sistema di regole o di strumenti tendenti a uno stesso fine” in cui Diderot non solo include e nobilita anche le arti tecniche (agli albori dell’industrializzazione) ma supera il canone elitario del filosofo Charles Batteux sulle “belle arti”. Definizione rivoluzionaria perché introduce un concetto inedito nell’Illuminismo: la felicità. Lo scopo di ogni arte, per Diderot, è manipolare gli elementi e le forme della natura e della materia al fine di accrescere la civilisation, e poiché la storia di un’arte è anche la storia del suo riferimento alla materia e alla natura, è in rapporto a come essa ci rende felici che dobbiamo giudicarla.

Grazie al suo spirito di illuminista “in crisi”, mentre passeggia su e giù per i Salons inventa la critica d’arte e sconvolge i concetti stessi di bello e di arte. Ma sarà la generazione successiva a capirlo. Scrive Schiller a Goethe alla fine del 700: “Ieri mi è capitato sotto gli occhi Diderot che davvero mi incanta e ha scosso profondamente il mio spirito. È come un lampo che illumina i segreti dell’arte, e le sue osservazioni riflettono così fedelmente ciò che l’arte ha di più alto e di più intimo da poter costituire un’indicazione non meno per il poeta che per il pittore”. E Goethe risponde: “È davvero magnifico”. Ecco sfatato un altro mito: nato illuminista, Diderot fu il primo dei romantici.

“La guerra partigiana e la lotta in fabbrica: il mio Pci era libertà”

Il compagno Renzo Sarteur porta sulle spalle i suoi 90 anni di storia con la leggerezza di un bambino. È un signore sorridente, un conversatore ironico e generoso. Racconta una vita da film: l’infanzia in collegio, l’adolescenza partigiana in un passo alpino della Val d’Aosta, la gioventù da operaio in Olivetti, le lotte sindacali e la militanza comunista. Continua a contemplare, alla sua non più tenera età, un orizzonte rivoluzionario. Un’utopia di rivoluzione gentile: “Il pensiero comunista – dice – non deve resuscitare perché non è mai morto. È un modo di vedere il mondo. Mica solo dei comunisti, anche di molti cattolici. In fondo, Cristo diceva le stesse cose che dicevamo noi”.

Cosa ha significato per lei il Pci?

Per me il comunismo era ribellione. Era un grido interiore, una presa di coscienza: “Io voglio essere libero”. Il sentimento per me nasce negli anni del collegio, ancora prima di maturare una vera coscienza politica. È una reazione al bigottismo iper religioso dell’ambiente in cui sono stato costretto a crescere.

Cosa si ricorda di quegli anni?

Tutto, purtroppo. Sono arrivato in collegio a 8 anni e sono rimasto per 5. Mi ci portò mia madre, orfana dalla prima guerra mondiale, non poteva occuparsi di me. In quei 5 anni l’avrò vista forse due volte. Gli altri bambini mi prendevano in giro perché ero “quello senza papà”. Avevo il numero di matricola 128. A Natale i genitori potevano passare un po’ di tempo con i figli e portarli a casa per pranzo, poi tornavano la sera. Ci mettevano in fila fuori dallo studio della direttrice in attesa che ci venissero a prendere. Io però non avevo nessuno. I miei compagni tornavano con caramelle e giocattoli, io niente. Quella condizione mi faceva riflettere: perché per me non esiste Gesù bambino? Credo sia in quel momento che è maturato il senso di ribellione alle ingiustizie che mi ha accompagnato per tutta la vita.

Lei è stato un giovanissimo partigiano.

Non ho partecipato alla lotta armata, ma se per partigiano si intende chi fu costretto a fare una scelta e a prendere parte, non ho mai avuto dubbi nel rifiuto del fascismo, è stato netto.

La lotta armata però l’ha vista da vicino.

Nell’estate del ’44 finalmente lasciai il collegio e raggiunsi mia madre, il suo compagno e mio zio in un passo alpino della Val d’Ayas, in Valle d’Aosta, ai piedi del Monte Rosa. Vivevamo negli alpeggi, oltre i 2mila metri, in mezzo alle mucche e al bestiame. La lotta partigiana era in mezzo a noi e sotto di noi. Mio zio era scappato da una caserma di Ivrea, come tanti altri militari. Dentro una baita nella nostra valle c’erano quattro ex prigionieri dei tedeschi – un americano, un australiano, un neozelandese e un inglese – che erano riusciti a fuggire. Noi li nascondevamo e gli davamo da mangiare, in attesa di trovare una soluzione per fargli attraversare il confine.

Aveva paura?

No, avevo un’incosciente voglia di partecipare. Vedevo le bande partigiane che si organizzavano e attraversavano la valle. Avevo 13 anni e mezzo, non mi permisero di portare armi pesanti. Ero un ragazzino, davo una mano come potevo. Mi diedero solo un moschetto, che sapevo montare e smontare da solo – con grande sorpresa di mio zio – perché l’avevo imparato in collegio, quando ci obbligavano a partecipare alle manifestazioni dei balilla fascisti. Quell’estate andavo a dormire in altura: eravamo io, il moschetto, il cane e un centinaio di pecore. Ogni tanto sentivo dalla valle, in basso, il rumore dei rastrellamenti e delle mitragliatrici tedesche.

Poi arriva la primavera del ’45, i partigiani scendono dai monti, l’Italia è libera.

Ricordo bene la fine della guerra. Tutti volevamo partecipare. Avevo il desiderio ardente di scendere con loro, volevo unirmi al gruppo del partigiano Fulmine. Mi fermò mia madre: “Ue bòcia, dove credi di andare? Tu resti qui”.

Il nucleo della sua vita adulta è in Olivetti, a Ivrea.

Ho iniziato a lavorare lì subito dopo la guerra, a 14 anni, partecipando al loro centro di formazione tecnica. Poi per alcuni anni ho viaggiato, la vita di fabbrica mi metteva angoscia: ho sempre odiato l’automazione, l’idea che qualcun altro decidesse i tempi e i modi delle mie azioni, mi privasse della personalità e della coscienza. Ho girato, ho conosciuto un po’ di mondo. Poi sono tornato in Olivetti, ma senza smettere di aspirare all’emancipazione.

Quello di Olivetti è passato alla storia come un modello straordinario. È sbagliato?

La vita degli operai era sicuramente molto migliore in Olivetti che nelle altre fabbriche. Ha speso soldi per la cultura, l’istruzione, le biblioteche. Ha avuto una funzione informativa, se non altro, del tipo di condizione che poteva essere in una società industriale matura.

Eppure con il Pci ha combattuto il suo Movimento Comunità.

Avevamo le nostre ragioni, ma forse avremmo potuto aiutare quel movimento a evolvere e trasformarsi, a farlo diventare uno strumento per una società socialista.

Sua figlia mi ha mostrato una lettera che le ha mandato Palmiro Togliatti.

La conservo con tanto orgoglio. Sono stato rappresentante sindacale, ho diretto per anni il giornale interno del partito di Ivrea, si chiamava Il Tasto. Ho collaborato con Vie Nuove e con l’Unità, andavo a distribuire il giornale. L’Unione Sovietica era l’utopia, l’andammo a vedere grazie a un viaggio organizzato in fabbrica: ricordo il treno della Transiberiana e il primo maggio a Mosca. Nel comunismo ho riconosciuto me stesso, il bisogno di lottare contro le ingiustizie, di garantire i diritti per tutti.

Cosa rimane di questa storia?

L’educazione, la cultura: un modo di osservare la realtà.

Dad, scuola di disuguaglianza. E l’università premia i “clan”

Come ogni anno nei giorni in cui inizia la primavera, Libera ci invita alla memoria e all’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Ebbene, Antonino Capponetto non si stancava di ripetere che “la mafia teme la scuola più della giustizia”. Ma se vogliamo che queste parole ci scuotano fin nelle viscere, allora dobbiamo chiederci: di quale scuola ha davvero paura la mafia? Di quale università? Di quale cultura?

Danilo Dolci, mite profeta di giustizia, lo spiegava nel 1955. Per vincere la mafia, scriveva, “occorre una scuola che collabori alla realizzazione del mondo nuovo. Efferati o incoscienti si è, se non si dà modo subito a tutti di partecipare alla vita: di lavorare, studiare, curarsi, di partecipare alla pari alla responsabilità, alla vita pubblica. Cominciando a garantire proprio gli ultimi, quelli che non ce la fanno, a qualsiasi costo (costo giusto, si capisce): proprio, in un certo senso, il contrario di come si sta facendo”.

Il contrario di come si sta facendo: le parole, miti ma chiarissime, di Dolci colpiscono anche le nostre sicurezze di oggi. Ci invitano a convertirci: cioè, letteralmente, a cambiare strada. Perché la scuola che fa paura alla mafia è quella della Costituzione: quella che forma cittadini. Per esempio, rifiutandosi di formare pezzi di ricambio per lo stato delle cose (per esempio con l’alternanza scuola-lavoro intesa come una palestra di schiavitù), ma trasmettendo, accanto agli strumenti cognitivi e a quelli culturali, il pensiero critico necessario per essere cittadini. E dunque per esercitare un discernimento civico, anche in relazione al voto: “La buona scuola reale è quella che interroga il mondo per cambiarlo, non quella che insegna ad adattarsi al mondo com’è” (Andrea Ranieri). Invece, la scuola che traveste l’ingiustizia sociale da “meritocrazia” non fa affatto paura alla mafia: perché non è la scuola che prepara il mondo nuovo, ma una scuola che cementa il mondo vecchio. Una scuola che di fatto seleziona per censo, lasciando intatti i privilegi, non forma alla giustizia, ma alla legge del più forte: che è proprio quella in cui la mafia si riconosce. “Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose”: sono parole di don Lorenzo Milani.

Ed è purtroppo ancor più verso la diseguaglianza che la Dad della pandemia ha spinto la scuola italiana.

All’università le cose vanno ancora peggio, se possibile. Oggi si laurea solo il 5,3% dei figli di genitori senza titolo di studio, il 14% dei figli di genitori con la sola licenza elementare, il 45% dei figli di diplomati e l’83,6% dei figli di laureati. E le università non condividono il sapere con i cittadini ma propongono una offerta formativa a clienti. E vengono misurate attraverso ottusi meccanismi aziendalistici, che alcuni vorrebbero spingere fino a creare un’oligarchia della ricerca.

Ma, allora, che posto ha la giustizia nell’università italiana di oggi? E, per dirla proprio tutta, che paura può fare alla mafia un’università sempre più devastata da fenomeni di corruzione, di potere, di concorsi truccati? Fenomeni per i quali le procure ravvisano il reato di associazione a delinquere, e i giornali parlano, non a torto, di “mentalità mafiosa”: perché fondata sull’appartenenza a clan accademici, perché violentemente vendicativa, fortemente gerarchica e acritica. Davvero pensiamo che questa università possa fare paura alla mafia?

Qualche anno fa, l’allora presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche disse letteralmente che “il dovere nostro è di fare andare avanti l’Italia. Quindi, di fare sinergie, mettere insieme le forze, senza pensare a principi etici”. Se vogliamo che le parole – profetiche – di Antonino Caponnetto siano ancora vere, dobbiamo costruire una scuola e un’università che invece pensino, eccome, ai principi etici. Quelli della nostra Costituzione: l’eguaglianza sostanziale da costruire, il pieno sviluppo della persona umana come obiettivo, il rifiuto del principio d’autorità e il primato del pensiero critico. Ci vuole un’università in cui un giovane brillante nato in una famiglia povera, emarginato dalla scuola pubblica e quindi “adottato” da un clan mafioso e avviato a una formazione da manager, da colletto bianco al servizio degli interessi criminali – sappiamo bene quante storie così esistono davvero – ebbene, un’università in cui quello studente brillante e destinato al peggio possa imparare che il successo e il profitto non sono l’unico metro; possa imparare non solo una tecnica che lo renda competente ed esperto, ma anche un orientamento morale, e una responsabilità civile; possa incontrare professori spogli di ogni potere, se non quello della conoscenza: non padroni, capi, baroni, ma servitori del bene comune. E che, allora, almeno un dubbio possa attraversargli la mente: facendogli vedere che c’è un’alternativa.

Che un riscatto è possibile.

Al Shanti, prima (e unica) donna di Hamas fra i dirigenti

Hamas prova a cambiare immagine in vista delle prossime elezioni parlamentari palestinesi. È stata annunciata la nomina di una donna come membro del suo ufficio politico per la prima volta dalla sua creazione nel 1987, nell’ambito delle elezioni interne del movimento. Jamila al-Shanti, 64 anni, è la prima donna a diventare membro del Politbjuro composto da 15 membri. Shanti, che vive nel campo profughi di Jabaliya – nel nord della Striscia di Gaza – ha una laurea in lingua inglese presso l’Ateneo di Ain Shams in Egitto e insegna all’Università Islamica di Gaza. Si guadagnò un’ampia popolarità nei circoli di Hamas, dopo aver guidato una marcia di donne nel novembre 2006 per revocare l’assedio dell’esercito israeliano contro 70 militanti di Hamas barricati nella moschea An-Nasr a Beit Hanoun, nel nord della Striscia. Due partecipanti alla marcia vennero uccise dai proiettili israeliani e dozzine quelle rimaste ferite. Hamas tiene le sue elezioni interne ogni quattro anni e ha lanciato l’attuale round in febbraio in tre regioni, Striscia di Gaza, Cisgiordania e fuori dai Territori palestinesi. Vengono rivelati solo i nomi del capo del Politbjuro (Ismail Haniyeh), dei leader delle tre regioni (Yahya Sinwar, è stato confermato come leader del movimento a Gaza) e i membri del Politbjuro. “La nomina di una donna nell’ufficio politico – è stato il commento di Shanti – è uno sviluppo notevole che riflette la convinzione del movimento nell’importanza del ruolo delle donne e nella loro capacità di occupare posizioni decisionali”.

Dalla fondazione di Hamas, il ruolo delle donne è stato limitato all’educazione dei figli, come previsto dallo statuto del movimento del 1988. Ma le cose hanno iniziato a cambiare durante la seconda Intifada tra il 2000 e il 2005. Nelle elezioni legislative del 2006 (le ultime che si sono svolte a Gaza e in Cisgiordania, le prossime saranno in maggio), sei donne di Hamas vennero elette nel parlamento palestinese. Talal Okal, che scrive per il quotidiano Al-Ayyam, spiega: “L’elezione di una donna nell’ufficio politico di Hamas è un salto significativo nell’apertura del movimento al mondo femminile, ma certo la nomina di una sola donna su 14 membri maschi sembra essere solo simbolica”.

 

L’Isis è sempre una minaccia la sua arma si chiama zakat

“Siamo soldati dello Stato islamico e ti ordiniamo di pagare la zakat per la tua attività commerciale con le pecore. Non parlare a nessuno di questo messaggio, tanto nessuno ti può aiutare”. Othman non dimenticherà mai il giorno in cui, nel dicembre 2020, ha trovato sulla soglia di casa sua, a Raqqa, quel foglio di carta con il timbro dell’organizzazione terroristica, lo stesso che gli uomini dell’Isis usavano quando controllavano la città, più di tre anni fa. “Se non ci fosse stato avrei pensato a una finta minaccia, ma quel timbro ha riportato a galla tutti i ricordi più brutti – racconta Othman, 50 anni -. Quando i soldati di Daesh erano a Raqqa, si vedeva dappertutto. Lo usavano per informarci della morte di una persona cara in una delle loro prigioni, o quando andavamo a pagare la zakat nei loro uffici, perché così ci avrebbero lasciato tranquilli”.

La zakat è il terzo pilastro dell’Islam. Un’“elemosina legale” che ogni musulmano deve versare a favore della comunità in base alla sua ricchezza e che l’Isis, sin dalla sua creazione, ha trasformato in mezzo di finanziamento. La zakat è diventata per l’organizzazione terroristica un sistema di racket che gli permette di gestire le sue cellule clandestine, acquistare le armi e ottenere la liberazione dei suoi membri più importanti nelle prigioni o nei campi nel nord-est della Siria. Othman, che ha quattro figli e vive a Raqqa, è uno dei numerosi commercianti di pecore della città. La sua attività gli sta permettendo di ricostruire la sua casa, distrutta in un raid aereo della coalizione internazionale. Una sera, quattro giorni dopo aver ricevuto quel primo messaggio, qualcuno ha bussato alla sua porta ed è fuggito via. Sui gradini Othman ha trovato un altro messaggio, in cui gli veniva chiesto di pagare una somma di denaro: 12 milioni di lire siriane, l’equivalente di circa 4.400 dollari (3.700 euro). “Minacciavano di rapire mia figlia. Sapevano che usciva di casa tutti i giorni alle otto del mattino per andare a scuola insieme a mia moglie – ricorda -. Capii che non avevo scelta: dovevo pagare se volevo proteggere la mia famiglia”. Tre giorni dopo, Othman ha ricevuto le istruzioni degli uomini dell’Isis: il denaro doveva essere consegnato a mezzogiorno in luogo ben preciso, a una trentina di chilometri a est di Raqqa. “Mi hanno detto di presentarmi da solo. Ho messo i soldi in una busta di plastica nera, sono salito nella mia auto e ho seguito le istruzioni”. Due uomini dell’Isis lo aspettavano sul lungo dell’incontro. Uno di loro aveva una pistola. Più lontano, un terzo uomo sorvegliava la zona. Othman ha consegnato i soldi e gli è stato ordinato di rientrare a casa. “L’uomo armato mi ha detto di non parlarne mai a nessuno e che forse mi avrebbero ricontattato”. Secondo le informazioni che abbiamo raccolto, anche i venditori di auto sono regolarmente vittime di questo tipo di racket, a Raqqa. Preferiscono pagare sperando che l’organizzazione terroristica li lasci in vita. Tutti sanno di cosa sono capaci gli uomini di Daesh e dopo averlo sopportato per quattro anni, tornano a farne l’esperienza oggi. In realtà le cellule dell’Isis, dormienti in apparenza, sono sempre rimaste attive nella regione di Deir ez-Zor, est della Siria, anche dopo la caduta di Baghouz, il 23 marzo 2019, data che segna, per la coalizione internazionale, la sconfitta territoriale dello Stato islamico. A Deir ez-Zor, vicino alla frontiera con l’Iraq, le Forze democratiche siriane (Sdf), un’alleanza curda e araba formatasi nel 2015, non sono mai riuscite a riprendere completamente il controllo.

L’8 febbraio scorso, gli uomini dell’Isis hanno attaccato la fermata di un autobus ad Al-Busirah, una città sull’Eufrate. Ahmed era presente al momento dell’attacco: “Erano circa le 11 del mattino, due uomini armati hanno fatto irruzione in moto mentre delle persone aspettavano l’arrivo del bus. Sono scesi dalla moto e hanno sparato a un uomo, davanti a tutti. È stato orribile”. È accaduto a soli 200 metri da un posto di blocco delle Sdf, in pieno giorno. Più di cento persone ne sono state testimoni. Per Ahmed, i soldati dell’Isis non temono niente e nessuno: “Dopo aver ucciso quell’uomo, hanno cominciato a urlare che erano di Daesh e che la stessa sorte spettava a chiunque avesse fatto resistenza. Ci hanno proibito di portare soccorso alla vittima. Poi sono andati via, senza che nessuno avesse avuto il coraggio di intervenire. Questi uomini non hanno nulla di umano”. Le forze democratiche siriane hanno installato dei posti di blocco nella provincia di Deir ez-Zor, ma solo nelle città. La lunga strada che porta al confine con l’Iraq non è più sicura da quando le Sdf hanno abbandonato le loro postazioni in seguito ai ripetuti attacchi dell’Isis. Ma nessuna zona della Siria sotto il controllo delle Sdf è risparmiata. Il 24 gennaio 2021, due donne sono state decapitate nei pressi di Hassaké, in zona curda. Le vittime facevano parte del Consiglio civile della città di Al-Shayer. Secondo i media locali, erano state rapite da un gruppo di uomini armati. I loro corpi sono stati ritrovati alcune ore dopo abbandonati lungo la strada. La coalizione internazionale, guidata da Washington, sta perdendo il controllo delle zone liberate dall’Isis? Il CentCom, il Comando centrale degli Stati Uniti, ci ha confermato che l’organizzazione terroristica “rappresenta ancora una minaccia”. E aggiunge: “Non interveniamo più regolarmente nella regione di Raqqa. Forniamo supporto e consiglio alle Forze democratiche siriane. La transizione è fatta”. Washington rinvia quindi la responsabilità alle Sdf, a maggioranza curda, la cui presenza è sempre più contestata dalla popolazione nelle zone arabe che controllano. In un’intervista a un media curdo nel febbraio 2021, Mazloum Abdi, comandante curdo delle Sdf, ha chiesto alla coalizione internazionale “di restare mobilitata nelle zone liberate dallo Stato islamico” per permettere alle Sdf di “portare avanti una campagna più efficace” contro l’organizzazione terroristica. Secondo Matteo Puxton, autore di Historicoblog, che monitora l’attività dell’Isis dall’inizio del 2021, l’organizzazione ha rivendicato 16 attacchi in Siria contro i posti di blocco delle Sdf ma anche contro dei camion del regime di Damasco.

“Non si può parlare di rinascita dell’Isis, perché i suoi combattenti in realtà non se ne sono mai andati. Negli ultimi mesi hanno moltiplicato le pubblicazioni sui loro media, foto, video. Sono molto efficaci – dice -. Mi preoccupa soprattutto il deserto siriano. Lì i gruppi terroristi, molto presenti, attaccano i pastori e le installazioni petrolifere del regime di Damasco”. Secondo le nostre informazioni, l’Isis starebbe puntando anche alle installazioni petrolifere di Deir ez-Zor, in una regione sotto il controllo delle Forze democratiche siriane. L’organizzazione terroristica avrebbe organizzato anche un sistema di racket nella zona. Youssef, siriano, è responsabile di tre pozzi di petrolio nella regione di Deir ez-Zor. Non riuscendo a gestire da sole l’estrazione del petrolio, le Sdf hanno affidato alcune installazioni a imprenditori locali. In cambio, Youssef deve versare il 30% dei suoi profitti alle autorità locali. Ma deve anche versarne all’Isis. “Vengo contattato regolarmente su WhatsApp – spiega – da un uomo che si presenta come un membro di Daesh. Mi chiede di pagare la zakat per il petrolio che estraiamo. Ogni imprenditore della zona versa in media tra 3.000 e 4.000 dollari, una o due volte l’anno. Uomini armati, col viso coperto, vengono a recuperare i soldi nei pressi dei pozzi di petrolio. Hanno una lista con i nomi degli imprenditori e a mano a mano che questi pagano cancellano il loro nome dalla lista”. Youssef assicura che le Sdf sono al corrente, ma questo non cambia nulla. Continuerà dunque a pagare la zakat a Daesh, rassegnato. Othman, il venditore di pecore, è “stanco del caos che regna nel paese da troppo tempo. Ho l’impressione – dice – che ci abbia intrappolato, che ci insegua anche se tentiamo di sfuggirgli”.

(Traduzione di Luana De Micco)

Il peccato. La bellezza è un’equazione sbagliata: “Se sei magra sei accettata, ma io penso grasso”

Signori della corte, Signor Giudice, mi trovo ad aver l’onere di difendermi, qui si pone una questione delicata, di carattere estetico prima che giuridico. Le cose che sono peccato è un vero peccato che lo siano, tuttavia io non voglio che mi si accusi di nulla di cui non sia direttamente colpevole, se non per la mia pancia, il giro vita. Quello è il mio vero peccato originale, per cui mi costringo a una vita di diete. Da quando sono piccola tutte le mattine mi specchio e inorridisco davanti a quei centimetri in più, tiro in dentro la pancia e trattengo il fiato.

Signori della corte, io così mi vedo bella! Allora penso che le mie forme assomiglino a quelle di Linda Evangelista e passo il resto della giornata a pancia in dentro e petto in fuori, una fatica. Sembro una specie di corazziere sull’attenti, anche se i corazzieri non hanno tette! Almeno credo. Porto la 42, non sono grassa, ma penso grasso, penso rotondo e non riesco a vedermi magra e a sentirmi a posto. Io, che da bambina, quando mi veniva chiesto che mestiere avessi voluto fare da grande rispondevo: essere bella. Perché essere bella voleva dire essere amata! E quindi essere magre vuol dire essere accettate.

La mia amica Pina, taglia 50 abbondante, dice che sono una dilettante del sovrappeso, e tutti i giorni si ingurgita mezzo chilo di gelato al cioccolato. È felice, sicura e stracorteggiata. Io amo il cioccolato, ma quando cedo alla tentazione, mi sento come Dante persa nella selva oscura. Un inferno, perdo il controllo e mi sazio di sensi di colpa. Il grasso e lo zucchero mi avvolgono di piacere.

Chiedo di essere assolta per assoluta incapacità di intendere e di volere questo mondo infarcito di zuccheri. Ma chi se ne frega penso grasso, il mio peccato è poco originale e Pupo è un grande “Gelato al cioccolaato, dolce un po’ salaato…”.