Argan, la Grande bellezza Roma, megalopoli mal tenuta, che conserva ogni goccia di Storia

È un’idea di cui bisogna essere grati alle Edizioni di Comunità, quella di avere tratto da una grande intervista un grande libro, Un’idea di Roma. È l’intervista di un grande giornalista, Mino Monicelli, a Giulio Carlo Argan, grande critico d’arte e sindaco di Roma.

Questo libro restituisce ai lettori (specialmente ai più giovani) due voci che spostano le litanie di elogi, amore ammirazione e lamento su ciò che è stata ed è diventata Roma: una rappresentazione che anticipa e rende rigoroso e moderno il discorso su questa città; induce a conoscerla e riconoscerla al di la dei potenti luoghi comuni e delle astratte dichiarazioni d’amore.

Argan porta in questa conversazione un’immagine diversa della città, meno ornamentale e più complessa, che rende la Capitale italiana non facilmente confrontabile con altre capitali europee. La visione di Argan comprende la Storia non solo come vanto e gloria ma anche come un problema in cui si compie un miracolo, e si incontra un ostacolo.

Roma è una città continuamente costruita che non perde un frammento di secolo né un evento di storia; che passa (unica al mondo) dalla grandiosità classica e bianca fondata sulla potenza (ma anche su una ricerca di bellezza che non finisce mai) a una civiltà medievale di mattoni, chiese e costruzioni che occupano tutti gli spazi liberi come una vegetazione, fino a un progressivo accumulo di palazzi. Ciascun edificio col nome di luoghi, famiglie e secoli, ciascuno con una identità di forme e di strutture che non si trova né prima né dopo nel tempo. Può tutto ciò – questo accumulo di bellezza ma anche la vitalità dei secoli che non passano, dell’antichità che non si lascia domare, della città che si ricostruisce continuamente – essere allo stesso tempo una capitale, ovvero la rappresentanza di tutto un Paese?

Monicelli, giornalista colto molto al di sopra della sua professione, porta al dialogo una conoscenza della Roma contemporanea che, allo stesso tempo, si esibisce e si sottrae, e intanto diventa il luogo e la vittima di una grande speculazione di terra e case, e ruba a se stessa l’immensa dignità del suo passato. La bellezza si fissa nella storia, celebrata dai grandi visitatori per il suo spazio, il suo tempo, i reperti della sua lunga vita. Ma la città, che dovrebbe essere la capitale d’Italia, resta la sfuocata immagine di una megalopoli mal tenuta, bella in ogni dettaglio e, nell’insieme, priva dell’autorevolezza che dovrebbe subito distinguerla.

Unica città al mondo che esibisce tutti i secoli. Ma meno capitale di Torino o di Napoli. Questo libro ci dice dove potrebbe cominciare una inchiesta e un dibattito su Roma che non ha mai avuto luogo.

 

Che fine fa la P.A. Il merito come panacea dei mali. Pensierini di Cottarelli adesso servitor di Brunetta

Ve le ricordate le emoticon di Brunetta? Sì, quelle che servivano a dare i voti ai dipendenti pubblici. Un reperto archeologico della Seconda Repubblica? Forse no. Nel suo ultimo libro (“All’inferno e ritorno”, Feltrinelli), Carlo Cottarelli non parla di “faccine”, ma scrive che è “essenziale (…) che si comincino a utilizzare per tutta la pubblica amministrazione, in modo sistematico, indicatori del grado di apprezzamento della qualità dei servizi pubblici” da parte di cittadini e imprese. Non a caso l’economista è stato chiamato proprio dal neo-ri-ministro Brunetta come consigliere.

Nel volumetto, che contiene proposte per la “rinascita sociale ed economica” dell’Italia, Cottarelli elogia la riforma Brunetta del 2009. Per lui si dovrebbe ricominciare da lì. Per stimolare gli investimenti privati e rendere più fluidi quelli pubblici, serve agire in due modi: ridurre la burocrazia, togliere “lacci e lacciuoli” che ostacolano l’attività economica; introdurre obiettivi di risultato premiando chi si impegna a conseguirli. Sorge un dubbio: così non si rischia un’ulteriore burocratizzazione? Cottarelli non si pone il problema. Anzi, riduce la questione a un problema di “adeguati incentivi”, senza fare il minimo accenno al sottodimensionamento e all’elevata età media della PA italiana. Il pensiero che servano nuove assunzioni non lo sfiora.

Tutto il libro si fonda su un “armamentario ideologico” (così lo chiama lui) che ruota attorno al concetto di “merito”. L’economista ci costruisce sopra un’agenda politica, proprio mentre la meritocrazia è criticata da più parti (si pensi a Markovits e Sandel, che Cottarelli ha letto). Per lui a valutare il merito devono essere “le forze di mercato”. Come affidarsi a questo giudizio se la concorrenza è distorta? Liberalizzando. Quali settori non è chiaro, dato che non si parla dei grandi conglomerati industriali e si fa solo un post scriptum sulle multinazionali. Cottarelli riconosce che la meritocrazia ha dei limiti e che, per raggiungere una vera “uguaglianza di possibilità”, deve essere moderata da principi di solidarietà e redistribuzione. Tuttavia, sembra ritenere che sia possibile correggerla con dei semplici aggiustamenti al margine. Il principio di solidarietà, alla base della Costituzione, viene relegato a uno strumento di policy. Un’interpretazione dell’articolo 3 della Carta che solleva qualche dubbio.

Cottarelli poi delinea un’agenda politica per garantire “l’uguaglianza di possibilità”. Alla base c’è una visione economica quasi solo dal lato dell’offerta, unita al suo cavallo di battaglia: la “sostenibilità finanziaria”. Tradotto: il debito pubblico, prima o poi, andrà ridotto. Al solito, lo Stato viene paragonato a una “famiglia indebitata”, che deve comportarsi in maniera “responsabile”. Una fallacia confutata ormai da schiere di economisti e smentita dalla crisi attuale. Proprio questa fallacia è un marchio di fabbrica della macroeconomia à la Cottarelli. Eppure anche il mainstream (quantomeno nelle sue frange più accorte) sta pian piano abbandonando questa visione.

 

Pochi colossi e tanta finanza l’instabilità è qui per restare

Una caratteristica dell’era che viviamo è l’enorme volatilità dei prezzi delle materie prime. L’anno scorso il prezzo del greggio era negativo, oggi il Brent supera i 60 dollari al barile L’instabilità dei prezzi è il terreno in cui prosperano i “trader” che commerciano risorse agricole, metalli e petrolio. Sono nomi che pochi conoscono come Cargill, Glencore, Trafigura, Vitol. Hanno sedi in Svizzera e Singapore e muovono buona parte delle risorse commerciate nel mondo. Glencore commercia un terzo del cobalto mondiale. I cinque più grandi trader di petrolio vendono un quarto del petrolio mondiale. I sette maggiori trader agricoli commerciano la metà del grano prodotto nel mondo. Sono attori aggressivi che riescono ad influire sul prezzo finale delle merci. Sono di proprietà di un esiguo numero di persone: solo Cargill ha reso miliardari 14 dei suoi azionisti.

Due giornalisti di Bloomberg, Javier Blas e Jack Farchy, spiegano le quattro ragioni per l’ascesa dei trader: l’apertura di mercati fino a quel momento controllati da oligopoli privati, dopo le nazionalizzazioni degli anni ’70 nel settore petrolifero; il collasso dell’Unione sovietica e l’assalto al sottosuolo russo; il boom della domanda della Cina; e la finanziarizzazione dell’economia che ha reso disponibile ai trader capitali di rischio. Eppure l’epoca dei trader sembra volgere al tramonto. L’informazione sui prezzi delle materie prime è oggi più “democratica”. Gli enormi profitti dal commercio di petrolio sono insidiati dalla transizione energetica. In Cina emergono nuovi protagonisti meno vincolati dal controllo di autorità europee e americane. Su tutto: il rischio di un ritorno al protezionismo del commercio mondiale.

Se ci sarà un nuovo “ciclo delle commodities” è probabile che sarà legato alla transizione verde ma rimarrà il problema che non esistono strutture nel mercato delle risorse naturali per stabilizzarne i prezzi, scongiurare il rischio di collasso dei Paesi produttori e mettere in sicurezza i consumatori.

La festa di papà Matteo e la giornata del sonno: elogio del buon dormire

 

PROMOSSI

I sonni son desideri. Venerdì è stata la giornata mondiale del sonno, istituita nel 2008 per sensibilizzare le persone sui disturbi legati a una vitale necessità degli esseri umani. Perché ci prendiamo il disturbo di parlarne qui? Perché il sonno non è più vissuto come un bisogno, ma come un privilegio, sempre più sacrificato e sacrificabile nella nostra efficiente società. Il tempo del sonno è tempo buttato. Dormire molto è ormai un vizio di cui vergognarsi, un grave peccato contro l’umanità chiamata a produrre e consumare. Solo Paperino si può permettere il lusso di lunghe notti cuscinose (e di pisolini sull’amaca). Ma non cascateci: ribellativi, e dormite.

Tutti Dundee. Con la pandemia da Coronavirus, l’Australia è uno dei pochi posti al mondo in cui i contagi sono sempre stati sotto controllo e da mesi sono vicini allo zero. Nell’anno passato il governo ha finanziato l’industria cinematografica con 400 milioni di dollari. Ci sono più di 20 produzioni internazionali già in corso e altre ne arriveranno, come Ticket to Paradise con George Clooney e Julia Roberts o l’ultimo degli Avengers. Hollywood Tasmania!

Dammi due parole. Ospiti di Programma, il live del giovedì di FQMagazine condotto da Claudia Rossi e Andrea Conti, i Maneskin hanno risposto alle critiche di chi non condivide la loro decisione di togliere due parole (anzi, parolacce) del testo di “Zitti e buoni”, canzone vincitrice di Sanremo, in vista della partecipazione all’ Eurovision. “Il messaggio della canzone è una cosa molto più ampia di ‘cazzo’ e ‘coglioni’, quindi cambiare quelle parole non cambia il senso del testo. Se ci avessero detto ‘cambiate il testo, cambiate le sonorità’ allora è chiaro che lì è un discorso di integrità”. Tra quelli che hanno avuto da ridire c’è Mario Adinolfi, che ha scritto: “Pur di partecipare all’Eurofestival, i Maneskin hanno accorciato il brano con cui hanno vinto a Sanremo e cancellato tutte le parolacce. Ve la immaginate la risposta di Guccini se gli avessero chiesto di farlo dall’Avvelenata? I Maneskin invece sono stati ‘zitti e buoni’”. Risposta lapidaria dei ragazzi: “Perché Adinolfi si occupa di noi?”. Ma infatti Mario, perché?

 

NON CLASSIFICATI

Cara terra sua. “Putin? Le cose che ha fatto politicamente e mondialmente sono di notevole valore”. Così Al Bano Carrisi risponde al nostro Peter Gomez durante la puntata de La confessione che lo aveva protagonista: “Io ho conosciuto Putin quattro volte”, ha esordito il cantante pugliese (che non conosce bene il significato del verbo conoscere). La sensazione mia è stata positiva, le cose che politicamente e mondialmente ha fatto Putin sono di notevole valore e lo ha dimostrato. Dice che “Di un paese discutiamo sempre da un punto di vista che non è il nostro. Putin, negli anni del dopo Eltsin (Boris Eltsin, presidente della Russia dal 1991 al 1999, ndr) è riuscito a tirare in alto le sorti della Russia. Io l’ho vista migliorare”. Citofonare Navalny.

Sei forte papà! E’ la festa dei papà di destra. Matteo Salvini ha pubblicato una foto insieme alla fidanzata Francesca con in testa una corona di alloro: “Stamattina qualcuno è diventato dottore magistrale in Economia e direzione delle imprese”. Forse fuorviati dal clima “festa del papà”, alcuni follower (e alcuni haters, ovviamente) di Salvini hanno pensato che la fanciulla fosse la di lui figlia. “Che bello vedere un papà orgoglioso di sua figlia. Viva Matteo e Viva l’Italia”. Umorismo involontario per uno che dice “brava come il papà”. Cioè Denis Verdini (agli arresti domiciliari per il crac del Credito fiorentino), vecchio amico di Silvio Berlusconi che per la festa del papà ha ricevuto gli auguri di Piersilvio via giornali: “Caro Papà, tutti conoscono le imprese straordinarie della tua vita. Quanti mestieri: l’imprenditore, il Milan, la politica… Ma io so che sei unico anche nel mestiere più bello e importante del mondo: sei un grande papà. Ti abbraccio forte forte”.

 

Draghi spegne le fanfare dei giornali innamorati: “Arriveranno delusioni”

Roberto non Giobbe. Il ministro della Salute è un ruolo complesso da ricoprire in qualsiasi circostanza, molto complesso nel corso di una pandemia, complessissimo in un quadro pandemico aggravato dall’obbligo di compromesso politico. Roberto Speranza è reduce da un anno d’incredibile difficoltà, nel corso del quale ha dimostrato serietà e senso di responsabilità, privilegiando le decisioni giuste a quelle popolari, senza cedere alle lusinghe del consenso, a differenza di tanti altri politici che al plauso collettivo hanno affidato i propri orientamenti sanitari. Probabilmente è per questo che il suo ministero è l’unica delle caselle chiave che non è stata toccata con il cambio di governo: tutte le altre figure centrali per la gestione dell’emergenza sono state sostituite in corsa, all’insegna della tanto invocata “discontinuità”. Il prezzo pagato da Speranza per rimanere in carica a guardia della salute pubblica, nonostante le ripetute richieste delle forze politiche antagoniste di sbarazzarsi di lui, è stata la sostituzione di tutte le figure a lui contigue: in altre parole gli si è chiesto di rimanere a far da vestale alla linea del rigore ma, nel contempo, di allargare le braccia ai nuovi venuti all’insegna del cambio di passo. L’impresa, già non semplice di suo, si è resa particolarmente ardua quando nel rimpiazzo del Cts sono cominciate ad apparire figure i cui trascorsi vanno in direzione evidentemente contraria a quella del ministro (per dirla con Fratoianni “fanno venire il dubbio che si sia voluto dare più spazio a coloro che nei mesi passati hanno sospinto un clima di sottovalutazione dell’emergenza sanitaria”), qualcuna dal curriculum talmente improbabile da essersi dovuta dimettere dopo una manciata di ore. È vero che il governo Draghi nasce in nome dell’unità nazionale e che la ricerca del compromesso politico è un obbligo a cui non può sottrarsi, ma se quello che nominalmente ambiva ad essere il governo dei migliori, in nome della mediazione deve diventare quello dei peggiori, qualcosa non va. Speranza è ragazzo paziente, ma di nome fa Roberto non Giobbe. Voto 9

 

Uomo autoavvisato. Una volta appurato che Mario Draghi parla, che è in grado di rispondere a delle domande (certo, se ce ne fosse stata anche qualcuna sulla composizione del Cts non sarebbe stato male…) e che per farlo ha scelto un linguaggio semplice e diretto in antitesi con l’immagine austera e sacrale che si ha di lui, non si può non fare cenno all’ironia con cui lui stesso ha commentato le aspettative smisurate che la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica ripone in lui: “Mi auguro che le future delusioni non siano uguali all’entusiasmo che c’è oggi”. Perché Draghi, da uomo di mondo qual è, sa benissimo che la mutevolezza del pensiero collettivo ha solo in parte a che fare con il comportamento di chi ne è l’oggetto, ma dipende soprattutto dallo scorrere del tempo sul calendario, come il succedersi delle stagioni. Saperlo da subito è un buon vaccino contro le delusioni. Senza effetti collaterali. Voto 7

 

Champions league. Il naufragio dell’Italia Club vecchi, col terrore di affidarsi ai giovani

Autocitarsi non è elegante, ma un anno e mezzo fa, il 22 luglio 2019, proprio in questa rubrica Il Fatto pubblicava un mio articolo intitolato L’ospizio Serie A: record di club anziani, in cui davo conto di uno studio del Cies, il centro con sede a Neuchatel che studia ogni aspetto del calcio mondiale, che dimostrava come la Serie A fosse diventata il cimitero degli elefanti: nella classifica dei club più vecchi dei 5 top campionati europei (Inghilterra, Spagna, Germania, Italia e Francia), ai primi tre posti c’erano Chievo, Parma e Juventus; e nei primi 10 eravamo presenti 5 volte grazie anche alla Spal 9ª e alla Roma 10ª.

Un vero disonore; aggravato dal fatto che ad essere pieno zeppo di vecchie cariatidi non erano solo i nostri club di punta, come la Juventus, stabilmente al primo posto tra le più anziane della Champions (nel 2018-’19 era la più vecchia davanti a Bayern e Barcellona e lo è rimasta anche nel 2019-’20 e nel 2020-’21), ma anche i piccoli club in lotta per la salvezza come Spal, Chievo e Parma, che dovrebbero essere fucine di giovani da svezzare, lanciare e cedere al miglior offerente.

Ebbene, 18 mesi dopo, mentre i nostri media piangono la prematura scomparsa di tutti i club italiani in Champions (in un sol colpo se ne sono andati, al primo scoglio a eliminazione diretta, Juventus, Atalanta e Lazio che hanno raggiunto l’Inter, spirata già ai gironi) annotando con raccapriccio alcune statistiche raggelanti (come questa: in Italia i giocatori over 35 hanno segnato 54 gol contro i 3 gol dei vecchi bomber della Bundesliga e l’1 delle vecchie glorie della Premier League; all’opposto, i gol degli under 20 in Serie A sono stati 4 contro i 15 segnati nella Liga e i 29 in Bundesliga), statistiche che dimostrano come solo da noi possano ancora fare la differenza 39enni come Ibrahimovic e 36enni come Ronaldo, sempre il Cies ha reso noti i risultati di uno studio sui giovani calciatori più utilizzati nei campionati di tutto il mondo.

Ebbene, guardando alla Serie A italiana c’è da spararsi. Nei primi 10 posti delle quattro classifiche dei ragazzi nati nel 2000, nel 2001, nel 2002 e nel 2003 e oltre, cioè di ventenni, diciannovenni, diciottenni e sedicenni mandati in campo con più frequenza, l’unico made in Italy tra i 40 è Kulusevski della Juventus, nono per presenze tra i nati nel 2000 dove ai primi tre posti troviamo tre giovani campioni della Bundesliga (Sancho del Dortmund, Davies del Bayern e Haaland del Dortmund) in buona compagnia con giovani gioielli della Premier come Foden e Ferran Torres del Manchester City e Neto del Wolverhampton. A questo punto la Serie A italiana sparisce da ogni radar. Tra i nati nel 2001, dove primeggiano Saka dell’Arsenal, Greenwood del Manchester United e Badiashile del Monaco, nessuno dei nostri; tra i nati nel 2002, dove dominano Pedri del Barcellona, Doku del Rennes e Reyna del Dortmund, nessuno dei nostri; tra i nati nel 2003 e 2004, dove ancora la Bundesliga la fa da padrona con Wirtz del Leverkusen, Bellingham del Dortmund e Musiala del Bayern, nessuno dei nostri.

Poi ci meravigliamo se una volta in Europa troviamo squadre che corrono il doppio e ci mandano a gambe all’aria alla prima sfida che conta. D’altronde, noi siamo quelli che considerano ancora oggi Dybala, 27 anni, 4 mesi e 7 giorni, un giovane. Questo è il nostro calcio, questi siamo noi. Ridicoli. Forse qualcuno dovrebbe dirlo, all’Istituto Luce che ogni giorno ci regala i suoi peana.

 

Riti civili. Commemorare le vittime di mafia nello strano clima della piazza in lockdown

Inomi risuonano uno in fila all’altro davanti a Palazzo Marino, di rimpetto alla Scala. Bandiera tricolore, bandiera europea e bandiera biancorossa sul balcone del Comune, sopra lo striscione che chiede “verità per Giulio Regeni”. Bandiere simmetriche sulla facciata del grande teatro lirico. Sul mio lato destro gli stendardi della mostra del Tiepolo. I nomi si inseguono. Sono quelli delle vittime innocenti di mafia, che vengono pubblicamente recitati da ventisei anni il primo giorno di primavera. Stavolta si recitano il 20, essendo il 21 di domenica. E c’è il lockdown, divieto di marce, di “fiumi di giovani”, di piazze gremite. Nessuna manifestazione nazionale. Testimonianze simboliche nelle piazze di tutte le città. Anche a Milano, che ha le sue vittime di mafia benché si creda spesso l’opposto. Nessuno legge i nomi da un podio. È l’altoparlante che rimanda voci registrate: alcune ben scandite, altre sussurrate, qualcuna addirittura biascicata. Una trentina di familiari distribuiti nella piazza, una dozzina di telecamere che aumentano via via che si attende l’arrivo del sindaco. Una ventina di curiosi che non capiscono ma forse afferrano, fermando il passeggio o le bici.

È un clima strano, rarefatto. Ripassa davanti agli occhi, grazie ai nomi, un pezzo della storia d’Italia. E per la prima volta cerco di dare un tempo preciso a quelli che sento, di riordinare almeno quelli che conosco. Realizzo così, è una folgorazione, la stupefacente concentrazione di nomi di vittime negli anni ottanta e nei primi anni novanta. Osservo inquieto i simboli di Milano. E penso che in quegli anni di mattanza questa era diventata la Milano da bere, la città felice che correva incontro al futuro, mentre i delitti e la violenza si scatenavano in Campania, in Calabria, in Sicilia, luoghi lontani che nessuno riteneva avessero a che fare con il destino della città. E da cui invece era già partita da tempo la conquista progressiva di territori e di hinterland, o la fila dei malloppi della finanza sporca.

Che amarezza esala da quei nomi che si condensano nella piazza semivuota, la fila di taxi alla mia destra che non si muove. Alla mia sinistra due bimbetti tengono sui due lati una piccola bandiera lilla di Libera. Dietro la mascherina della loro mamma riconosco Ilaria, la ragazza che quasi dieci anni fa – è un’immagine di repertorio – spuntò per prima in piazza Beccaria portando sulle spalle ricciolute la bara con i poveri resti di Lea Garofalo ai funerali pubblici della giovane madre calabrese ribelle. Storie che si sovrappongono, più che incastonarsi. Come quelle in arrivo dalla Sicilia e dalla Puglia, dalla Calabria e dalla Lombardia: Antonio Fava, Marisa Fiorani, Francesca Bommarito, Francesca Ambrosoli, Maria Luisa Rovetta, Maria Concetta Riggio, Arianna Mazzotti, Paolo Setti Carraro, Marino Cannata, Rosy Tallarita, Lorenzo Sanua, Jamila Chabki, i nomi dei parenti che si allineano alla distanza prescritta.

Fisso la facciata della Scala. Ripenso alla mia infanzia. A quando mio padre e mia madre andavano alla prima del 7 dicembre, i loro nomi sulla cronaca della Notte quotidiano della sera (“il maggiore Carlo Alberto dalla Chiesa e la signora Dora”), il biglietto omaggio e la citazione a compensare col prestigio le fatiche di una coppia sempre in lotta con la fine del mese.

Mai avrei mai immaginato di commemorare davanti a quel luogo di festa e di successi né mio padre né altri uccisi dalla mafia con i loro parenti al mio fianco. Lucilla che porta in mano le sue poetiche stelle di carta, Caterina allieva di università che giunge nel mezzo della cerimonia con i suoi ragazzi della giustizia riparativa, sono un altro mondo che entra con delicatezza nel mio. Ce la faremo, dice il sindaco Sala. E lo penso anch’io. Intanto però quanto vantaggio gli abbiamo dato, santo cielo. Per non curarci del sud, e nemmeno del nord.

 

Libertà lgbt. Il Papa non benedice coppie gay: “Lo Stato laico ci salverà, se la politica evolverà”

 

“Bella la festa del papà, ma io sono un errore senza genitori”

Ciao Selvaggia, bella la festa del papà. Per chi ha avuto un padre, però. Per chi ha avuto una famiglia in cui i genitori sono stati genitori, però. Non per me. Mio padre e mia madre sono stati due scellerati che mai avrebbero dovuto diventare genitori. Ma lei, già psicologicamente fragile, era troppo vecchia per la società, aveva 34 anni e iniziavano a chiamarla zitella. Lui, un giovanotto col padre alcolizzato e la madre maresciallo che non ha ricevuto una carezza in vita sua. Risultato? Tre figli, il primo disabile al cento per cento, che ha disintegrato quel poco di forza che poteva esserci in questi due esseri completamente ignari di come fare ad amare qualcuno. E di come farsi amare, da qualcuno. Io e mia sorella nonché ultima figlia siamo stati due errori: ce l’hanno sempre detto che siamo stati degli incidenti di percorso nelle rare volte in cui si sono incontrati a letto.

Lui, ad un certo punto se ne è andato, dicendo che non sopportava nostra madre e che lui, padre, non poteva imparare ad esserlo. E sono rimasta io. A 18 anni a fare da capofamiglia. A lavorare per loro, a non poter realizzare i miei sogni e a fare quello che avrebbe dovuto fare lui. Mi sono persa molte volte, ho vissuto gli anni più belli a metà. Mi sono sposata per scappare e, naturalmente, ho fallito. Però sono riuscita ad essere un genitore, un buon genitore. Ma per trovare l’equilibrio ci ho messo tanto, perché il buco nero lasciato dalla mancanza d’amore di mia madre e mio padre, mi divorava dall’interno. Se non mi amano loro, chi potrà mai amarmi? Se non mi amano loro, vuol dire che io sono davvero un errore. Così cerchi di diventare ciò che gli altri vorrebbero, e perdi ciò che sei davvero. Mi ci sono voluti quarant’anni e la sclerosi multipla per avere quella scossa elettrica così forte da svegliarmi, un lavoro introspettivo con una psicoterapeuta che mi ha devastato, per rinascere. Sto crescendo ancora, sai?

Ho ripreso gli studi e recuperato la mia strada. A volte mi dico che sono vecchia per rifare tutto, poi però penso che non è così, che siamo sempre tutti più giovani di quello che crediamo! Da tre anni sono una persona un po’ meno ammaccata. Ho capito che cercare di riempire quel vuoto avrebbe creato soltanto altro vuoto. Nulla può rimpiazzare l’amore di una madre, così sono diventata madre di me stessa. Ho preso in braccio quella bimba disperata, e stiamo crescendo insieme. Non li ho perdonati, non ci riesco. Ma ci proverò, così sarò davvero libera.

Have a nice day.

Viviana

 

“Diventare genitori di se stessi”, che bella espressione che hai usato, cara Viviana. Come sempre non è quel che ci succede, ma quello che ne facciamo, che fa la differenza. E mi sembra che tu ne stia facendo la cosa più giusta e più sana per te e per la tua “nuova giovinezza”: stai lasciando andare il dolore e le recriminazioni. Stai accettando che le cose non siano andate come dovevano, che i tuoi genitori siano stati imperfetti. Che non ci sia più il modo di aggiustare le cose, ma che alle cose rotte si sopravvive. Come mi disse qualcuno, “il perdono rende liberi”. Sei libera. Buona vita.

 

“Nel testo Biblico, omosessuali sterminati a Sodoma e Gomorra”

Ciao Selvaggia, ti scrivo piuttosto stupita della polemica di questi giorni sul rifiuto del Vaticano di benedire le unioni omosessuali. Ti scrivo a fianco della mia compagna, che ti saluta; con lei ho parlato a lungo dell’argomento. La posizione ufficiale della Chiesa non ci ha sorpreso né indignate, forse perché non siamo cattoliche, per cui del parere del Papa sul nostro peccaminoso rapporto non ce ne importa affatto. Mi sembra che la Bibbia sia abbastanza chiara a riguardo: gli omosessuali verrano sterminati da un’enorme palla di fuoco a Sodoma, quindi già il fatto che non vengano più a cercarci con le torce mi sembra piuttosto progressista. Come si fa a credere che i membri di un club (un club molto influente) che basano il proprio potere sull’esistenza di un’entità certificata da un libro, poi ne rinneghino i contenuti? A me stupisce il contrario: le aperture plateali, la comunione ai divorziati, il permesso di mangiare carne il venerdì, ad esempio. Non mi stupisce che negli articoli sull’ennesima posizione conservatrice ci sia sempre, a contraltare, l’immagine di un prete che benedice armi. Dio è pur sempre il signore degli eserciti, cosa dovrebbe benedire?
Tra l’altro, la laicità dello stato corre verso l’emancipazione da tutti i dogmi religiosi, non possiamo nemmeno lamentarci troppo. Non siamo in Arabia Saudita, qui si possono celebrare le unioni civili, fra un po’ potremo adottare figli, siamo libere di volare all’estero per metterne al mondo uno e presto (se la politica evolverà) potremo farlo anche qui. Non fraintendermi, non va tutto bene per noi. Ma dobbiamo lottare per cambiare lo Stato, non la dottrina cattolica. Non la voce di un dio e dei suoi rappresentanti terreni, e anzi appelli simili mi hanno sempre fatto ridere. Se è la volontà di dio, chi siamo noi per opporci? Se dice no è no, avrà le sue ragioni. Male che vada, bruceremo all’inferno. Finché siamo vivi, invece, cerchiamo di stare meglio su questa terra. Un caro saluto peccaminoso.

Marta

 

Ciao Marta, nel caso molto improbabile che tu e la tua compagna finiate all’inferno, fatemi sapere qual è il posticino migliore, perché dopo il divorzio comunque non mi sento tanto sicura nemmeno io.

 

Papa Francesco. Ambiente, economia e carità: il programma della Chiesa dopo la pandemia

Sostiene papa Francesco che dopo il “buio” della pandemia c’è l’occasione di “fare nuove tutte le cose”, citando non a caso l’Apocalisse. Un bisogno, oltre che un’occasione. Per cambiare l’economia, per curare l’ambiente, per vivere nella speranza, “che mai delude”.

C’è tutto il nucleo della fede di Bergoglio nell’intervista con Domenico Agasso, vaticanista della Stampa, di cui abbiamo scritto la settimana scorsa: Dio e il mondo che verrà (Piemme/Libreria Editrice Vaticana, 125 pagine, 15). Un libro veloce e denso allo stesso tempo, e che sfata per l’ennesima volta le accuse di clericali di destra e vecchi teocon a Bergoglio “pauperista e comunista”. Del resto il concetto più ostico per chi ha un approccio farisaico alla fede in nome della Dottrina e della Tradizione – e rimpiange il pontificato accademico di Benedetto XVI, compresi gli scandali di potere – è quello della carità, che per San Paolo è la cosa “più grande di tutte”, pure di fede e speranza. E nel mondo che verrà la carità è centrale per un credente.

Dice Francesco: “La carità è sempre la via maestra del cammino di fede. Ma la carità non è semplice filantropia, bensì, da una parte, è guardare l’altro con gli occhi stessi di Gesù e, dall’altra parte, è vedere Cristo nel volto del bisognoso. I semi d’amore, che sapremo gettare, con la benedizione di Dio germoglieranno nel presente e nel tempo genereranno frutti di bene”. Una verità semplice e grande ma che risulta inaccettabile per quanti in maniera stupida degradano la Chiesa bergogliana a una Ong. Invece una Chiesa “in uscita” è una Chiesa che non “giudica e divide” e non pratica “il rigore ottuso di fronte ai comandamenti”. È una Chiesa che evangelizza ma evita “lo sbaglio spirituale” che “nasce dal credersi giusti”.

Ovviamente, Francesco non elude i buchi neri della Chiesa, ereditati dopo lustri di scandali sessuali e finanziari. Il richiamo è alle decisive Congregazioni generali “che hanno preceduto il Conclave” nel 2013. “Noi cardinali abbiamo rivolto un appello al nuovo Papa che era già lì fra noi: chi sarà scelto dovrà guidare questa battaglia, perché da troppo tempo qui ci sono angoli che puzzano: vanno scovati e bonificati, e poi costantemente monitorati”. Ed è per questo che Francesco aggiunge che è “il tempo della trasparenza”. È la sua sfida principale da quando venne eletto nel marzo di otto anni fa. E oggi? Risponde: “Sono fiducioso perché si stanno spalancando porte e finestre per cambiare aria, far uscire quella viziata, nauseante e pestilenziale ed entrare quella fresca e rigenerante per portare un’atmosfera di onestà”. Toh, anche il papa cita la tanto vituperata onestà.

Il suo è un programma cristiano ma pure politico nel senso più alto del termine: “Trasparenza, e poi risparmi, sobrietà e buon esempio. Senza togliere fondi alla carità. Promuovere investimenti etici ed ecologici. Comportamenti all’insegna del rigore e della chiarezza. E basta con i segreti”. Sapendo, infine, che Cristo nella sua “condizione di servo” ha messo al centro del suo annuncio i poveri. “Ricordo un santo vescovo brasiliano che diceva: ‘Quando mi prendo cura dei poveri dicono che sono un santo; quando domando a tutti sulle cause di tanta povertà nel mondo, mi dicono comunista’”.

 

Il Reddito di cittadinanza ora va difeso e rafforzato

Il sostegno al reddito di cittadinanza appare oggi fragile. Le resistenze rimangono diffuse e le difese spesso tiepide, più pronte a mettere paletti che ad asserire con forza il valore di un diritto al reddito. Ora, è evidente che se tutti avessimo non solo un lavoro che paghi una retribuzione decente, le ragioni per il reddito di cittadinanza (o strumento simile di reddito minimo) verrebbero a cessare e tanta sofferenza sarebbe evitata. Essendo ben lontani da questa situazione, il reddito di cittadinanza resta insostituibile. Come rafforzarne, allora, il sostegno? Vorrei indicare tre vie.

La prima riguarda l’informazione. L’attenzione mediatica oggi è tutta sugli imbroglioni, ma, oltre all’aneddoto, quanti sono effettivamente e chi sono? Sono evasori non poveri che prendono un beneficio oppure poveri che lavorano in nero per integrare con pochi euro il reddito di cittadinanza o persone che smettono di lavorare o di cercare lavoro? Avere informazioni sull’entità dei comportamenti scorretti è vitale per identificare correttivi e generare fiducia. In ogni caso, la contabilità dei costi e dei benefici deve essere completa. Accanto ai comportamenti scorretti, vanno rilevati i tanti casi in cui il reddito è l’unica àncora cui aggrapparsi nonché i possibili risparmi per la collettività. Potrebbe, ad esempio, evitare il ricorso, più costoso, a case-famiglia per minori che altrimenti sarebbero sottratti alle famiglie originarie.

La seconda via riguarda il rafforzamento della connessione fra poveri e percettori del Rdc. Come abbiamo scritto sul menabò di Etica e Economia, il reddito di cittadinanza non riuscirà mai a includere tutti i poveri per la mera ragione che la povertà è definita in termini di reddito, mentre il reddito di cittadinanza seleziona i percettori considerando anche la ricchezza (il riferimento è presente sia nell’Isee sia nelle soglie di patrimonio mobiliare e immobiliare da non superare). Le discrepanze diventano inevitabili, ma si possono ridurre modificando la scala di equivalenza oggi usata – che penalizza le famiglie numerose – riducendo la soglia degli anni di residenza in Italia per gli stranieri e allentando i requisiti patrimoniali. Nessuna di queste scelte è gratuita. Ad esempio, quando fu introdotto il reddito di cittadinanza, Banca d’Italia aveva stimato che, a parità di spesa, introdurre la scala di equivalenza del vecchio Reddito di inclusione (Rei) avrebbe richiesto una riduzione di 100 euro del trasferimento. L’alternativa è alzare i fondi.

La terza via investe le politiche di attivazione al lavoro. Qui, la premessa è d’obbligo: per prima cosa è dirimente la domanda di lavoro. Non dimentichiamo quanto dice l’Anpal: dei 3 milioni di percettori del RdC, meno della metà è abile al lavoro, e fra questi più del 70% ha un titolo di studio che non supera la scuola secondaria di I grado, vive in territori con bassa domanda di lavoro e spesso è disoccupato di lungo periodo. Qualche miglioramento, però, è possibile. Alcune proposte mirano a ridurre la decurtazione dell’assegno all’aumentare del reddito guadagnato, in modo da incentivare il lavoro o a migliorare i servizi per l’impiego. Nuove vie vanno però esplorate.

In un libro molto suggestivo, Hilary Cottam racconta un esperimento che ha effettuato in Gran Bretagna dove, insieme a altri assistenti sociali, ha offerto l’opportunità a percettori di sussidi e frequentatori abituali dei centri per l’impiego di partecipare a due progetti di assistenza, uno rivolto ad abitanti della Tanzania e un altro a senza fissa dimora in Gran Bretagna. L’obiettivo era sostituire l’approccio top down tipico dei centri per l’impiego, basato sull’osservanza delle procedure – dalla corrispondenza fra curricula dei disoccupati e offerte di lavoro all’imposizione ai “clienti” di adempienze formali e routinarie, passivizzanti e inefficaci – con un approccio centrato sulla voce dei soggetti da attivare, sulle loro aspirazioni e speranze e sullo sviluppo di relazioni fra pari. Conta anche l’attivazione individuale. I risultati sono stati il forte miglioramento nelle abilità sociali, elemento centrale nel mercato del lavoro, l’aumento della fiducia in sé, lo sviluppo di relazioni e con esso anche la conoscenza di altri con cui cooperare per iniziare un lavoro insieme, con effetti complessivi positivi sull’occupazione (e sullo star bene). L’esperimento non ha funzionano per tutti, sebbene Cottam documenti successi anche per i disoccupati scoraggiati di lunga durata. È una via che va almeno esplorata.

Insomma, il reddito di cittadinanza ha bisogno di alcuni aggiustamenti che lo rafforzino, non va certo messo in discussione. La buona notizia è che il ministro Orlando ha nominato una commissione di prim’ordine per occuparsi di questi problemi.