Il premier Mario Draghi, quando passò da Goldman Sachs a governatore della Banca d’Italia, divenne noto e celebrato. La sua linea delle aggregazioni rese varie banche italiane più grandi. L’errore clamoroso fu nel 2007, quando consentì al Montepaschi (Mps) di comprare Antonveneta dal Banco Santander dello spagnolo Emilio Botin. Si rivelò un mega-bidone. Mps finì sull’orlo del tracollo e in inchieste penali drammatizzate dalla morte del capo della comunicazione David Rossi, precipitato da una finestra della sede di Siena. Lo Stato nel frattempo ci ha messo miliardi senza risolvere nulla, un po’ come con Alitalia: ora tocca proprio a Draghi salvare quel che resta del Mps.
In un Ecofin a Porto, nel 2007, l’allora governatore di Bankitalia offrì ad alcuni giornalisti italiani quasi una “lezione magistrale” sugli alti profitti delle innovazioni dei mercati liberalizzati, che contrappose ai “margini bassi” del credito tradizionale. Il crac della banca Lehman di New York e la grande crisi finanziaria poi lo spiazzarono. Innovativi e complicati “titoli tossici” ad altissimo rischio erano serviti a grandi furbi per svuotare tante banche. Gli Stati dovettero ripianare le perdite con migliaia di miliardi dei contribuenti. La deregolamentazione anglo-Usa, cara a Draghi e ai quotidiani finanziari di Londra e New York, finì sotto accusa.
Nella prima fase della crisi le banche italiane si salvarono proprio per la loro arretratezza, che le limitò a pochi “titoli tossici”. Non fu così in Germania. Deutsche Bank sconterà un’esposizione lorda su rischiosi derivati stimata fino a 48 mila miliardi, circa 20 volte il debito dell’Italia. Altre banche tedesche e francesi traballavano. La cancelliera tedesca Angela Merkel dovette impiegare centinaia di miliardi per aiutare il sistema bancario nazionale. Lo scandalo dei bilanci truccati della Grecia, che aveva tra i suoi consulenti proprio Goldman Sachs, peggiorò tutto.
Così Merkel “convinse” i Paesi della zona euro ad accollarsi i crediti a rischio con Atene di banche private tedesche e francesi. Il premier Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti accettarono. Il governatore di Bankitalia, pur spesso in contrasto con Tremonti, non urlò per protestare. Era in corsa per guidare la Banca centrale europea (Bce) e vinse gli otto anni in Europa: superando le critiche sul passato in Goldman Sachs e sulla frequentazione di lobby riservate come Bilderberg e Gruppo dei 30 di Washington.
Nell’agosto 2011, già designato alla Bce, Draghi scrisse – con l’uscente francese Jean-Claude Trichet – una dura lettera al governo di Roma sulla gestione dei conti pubblici. Era un diktat, gradito a Berlino e a Bruxelles. Faceva intuire che la Bce poteva fermare gli acquisti di titoli di Stato italiani. Il governo Berlusconi saltò di lì a poco: era certo indifendibile, ma l’atto di Draghi e Trichet non fu una interferenza nella sovranità di uno Stato? In più a novembre divenne premier l’ex commissario Ue e consulente in Goldman Sachs Mario Monti, che attuò l’austerità voluta da Berlino e Bruxelles. Risultato: aumento del debito pubblico, discesa della produzione industriale e salita della disoccupazione.
Draghi alla Bce si rivelò poi assai rigido con la Grecia al collasso. Il nuovo governo di Alexis Tsipras (sinistra) non aveva colpe per i debiti pregressi, ma non piaceva a Merkel. La famigerata Troika dei creditori (Bce, Commissione Ue e Fmi di Washington) impose misure di austerità drammatiche per i greci, già stremati dalla crisi. Durante il confronto, Draghi frenò l’accesso delle banche elleniche alla liquidità d’emergenza. La costosissima sede della Bce a Francoforte divenne meta di proteste. Perfino il lussemburghese filo-tedesco Jean-Claude Juncker poi ammetterà che quell’austerità fu “eccessiva” e un “errore”.
Draghi, però, consolidò l’alleanza con Merkel, vera padrona dell’Europa. Da lì procederà in tandem con lei, che lo ascoltava come il presidente della Francia e molto più dei mediocri politici voluti da Berlino ai vertici di Commissione e Consiglio europeo. Quando Merkel dovette calmare i contribuenti tedeschi, irritati dai troppi aiuti dello Stato ai banchieri nazionali, l’appoggio tecnico di Draghi favorì la nascita della direttiva Ue “Bail-in”, voluta dalla cancelliera. Contribuì Fabrizio Saccomanni, già suo braccio destro in Bankitalia, nominato ministro dell’Economia da Enrico Letta, “draghiano” da quando era stato nel Comitato euro al Tesoro. Quella riforma che limitò i salvataggi pubblici (ma solo dopo che Merkel li aveva attuati) in Italia colpirà ingiustamente sei banche e migliaia di risparmiatori. Se la cancelliera doveva rassicurare i suoi elettori – furiosi quando Draghi comprava anche titoli italiani – spuntava il presidente “merkeliano” della Bundesbank, Jens Weidmann, per criticare il collega in un gioco delle parti.
La missione principale della Bce era l’inflazione “vicina ma sotto al 2%”. Draghi fallì l’obiettivo. Ma Merkel lo apprezzava soprattutto perché si giovava della sua politica monetaria “accomodante”: garantiva liquidità a bassissimo costo alle banche tedesche in difficoltà e la Germania poteva addirittura farsi pagare per indebitarsi. I Bund tedeschi andavano a ruba, anche grazie ai richiami della Commissione Ue che di fatto rendevano rischiosi i titoli del Sud Europa.
Poi venne il “Tutto quello che serve” per cui fu accreditato come salvatore dell’euro: divenne “Supermario”. Veniva applaudito nelle sue audizioni di due-tre ore all’Europarlamento, unico controllo politico-istituzionale sulla Bce. Ma in quei confronti emerse che migliaia di miliardi pubblici, usati per difendere la moneta comune, aiutarono molto banche, grandi imprese e ricchi investitori, tenendo alte le quotazioni sui mercati, mentre la trasmissione all’economia reale era secondaria. Draghi replicava che la liquidità della Bce diventava anche prestiti per piccole imprese e famiglie e stimolava l’occupazione.
Nell’ottobre 2019, nel suo ultimo Eurogruppo da presidente della Bce, Draghi salutò – oltre ai ministri finanziari – anche i giornalisti italiani, che l’avevano seguito nei vertici e nelle audizioni-fiume a Bruxelles e a Strasburgo. Dopo i convenevoli e le foto ricordo, gli fu chiesto se puntava a Palazzo Chigi o al Quirinale. La risposta fu che non aveva niente in programma. Allora uno dei veterani gli propose di incontrarlo “ai giardinetti” su una panchina per pensionati. Draghi rise e annuì. Quel giornalista, conoscendolo, non gli credette.
(3, fine)