Dal sacrificio greco al bail-in: il lato “merkeliano” di Mario

Il premier Mario Draghi, quando passò da Goldman Sachs a governatore della Banca d’Italia, divenne noto e celebrato. La sua linea delle aggregazioni rese varie banche italiane più grandi. L’errore clamoroso fu nel 2007, quando consentì al Montepaschi (Mps) di comprare Antonveneta dal Banco Santander dello spagnolo Emilio Botin. Si rivelò un mega-bidone. Mps finì sull’orlo del tracollo e in inchieste penali drammatizzate dalla morte del capo della comunicazione David Rossi, precipitato da una finestra della sede di Siena. Lo Stato nel frattempo ci ha messo miliardi senza risolvere nulla, un po’ come con Alitalia: ora tocca proprio a Draghi salvare quel che resta del Mps.

In un Ecofin a Porto, nel 2007, l’allora governatore di Bankitalia offrì ad alcuni giornalisti italiani quasi una “lezione magistrale” sugli alti profitti delle innovazioni dei mercati liberalizzati, che contrappose ai “margini bassi” del credito tradizionale. Il crac della banca Lehman di New York e la grande crisi finanziaria poi lo spiazzarono. Innovativi e complicati “titoli tossici” ad altissimo rischio erano serviti a grandi furbi per svuotare tante banche. Gli Stati dovettero ripianare le perdite con migliaia di miliardi dei contribuenti. La deregolamentazione anglo-Usa, cara a Draghi e ai quotidiani finanziari di Londra e New York, finì sotto accusa.

Nella prima fase della crisi le banche italiane si salvarono proprio per la loro arretratezza, che le limitò a pochi “titoli tossici”. Non fu così in Germania. Deutsche Bank sconterà un’esposizione lorda su rischiosi derivati stimata fino a 48 mila miliardi, circa 20 volte il debito dell’Italia. Altre banche tedesche e francesi traballavano. La cancelliera tedesca Angela Merkel dovette impiegare centinaia di miliardi per aiutare il sistema bancario nazionale. Lo scandalo dei bilanci truccati della Grecia, che aveva tra i suoi consulenti proprio Goldman Sachs, peggiorò tutto.

Così Merkel “convinse” i Paesi della zona euro ad accollarsi i crediti a rischio con Atene di banche private tedesche e francesi. Il premier Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti accettarono. Il governatore di Bankitalia, pur spesso in contrasto con Tremonti, non urlò per protestare. Era in corsa per guidare la Banca centrale europea (Bce) e vinse gli otto anni in Europa: superando le critiche sul passato in Goldman Sachs e sulla frequentazione di lobby riservate come Bilderberg e Gruppo dei 30 di Washington.

Nell’agosto 2011, già designato alla Bce, Draghi scrisse – con l’uscente francese Jean-Claude Trichet – una dura lettera al governo di Roma sulla gestione dei conti pubblici. Era un diktat, gradito a Berlino e a Bruxelles. Faceva intuire che la Bce poteva fermare gli acquisti di titoli di Stato italiani. Il governo Berlusconi saltò di lì a poco: era certo indifendibile, ma l’atto di Draghi e Trichet non fu una interferenza nella sovranità di uno Stato? In più a novembre divenne premier l’ex commissario Ue e consulente in Goldman Sachs Mario Monti, che attuò l’austerità voluta da Berlino e Bruxelles. Risultato: aumento del debito pubblico, discesa della produzione industriale e salita della disoccupazione.

Draghi alla Bce si rivelò poi assai rigido con la Grecia al collasso. Il nuovo governo di Alexis Tsipras (sinistra) non aveva colpe per i debiti pregressi, ma non piaceva a Merkel. La famigerata Troika dei creditori (Bce, Commissione Ue e Fmi di Washington) impose misure di austerità drammatiche per i greci, già stremati dalla crisi. Durante il confronto, Draghi frenò l’accesso delle banche elleniche alla liquidità d’emergenza. La costosissima sede della Bce a Francoforte divenne meta di proteste. Perfino il lussemburghese filo-tedesco Jean-Claude Juncker poi ammetterà che quell’austerità fu “eccessiva” e un “errore”.

Draghi, però, consolidò l’alleanza con Merkel, vera padrona dell’Europa. Da lì procederà in tandem con lei, che lo ascoltava come il presidente della Francia e molto più dei mediocri politici voluti da Berlino ai vertici di Commissione e Consiglio europeo. Quando Merkel dovette calmare i contribuenti tedeschi, irritati dai troppi aiuti dello Stato ai banchieri nazionali, l’appoggio tecnico di Draghi favorì la nascita della direttiva Ue “Bail-in”, voluta dalla cancelliera. Contribuì Fabrizio Saccomanni, già suo braccio destro in Bankitalia, nominato ministro dell’Economia da Enrico Letta, “draghiano” da quando era stato nel Comitato euro al Tesoro. Quella riforma che limitò i salvataggi pubblici (ma solo dopo che Merkel li aveva attuati) in Italia colpirà ingiustamente sei banche e migliaia di risparmiatori. Se la cancelliera doveva rassicurare i suoi elettori – furiosi quando Draghi comprava anche titoli italiani – spuntava il presidente “merkeliano” della Bundesbank, Jens Weidmann, per criticare il collega in un gioco delle parti.

La missione principale della Bce era l’inflazione “vicina ma sotto al 2%”. Draghi fallì l’obiettivo. Ma Merkel lo apprezzava soprattutto perché si giovava della sua politica monetaria “accomodante”: garantiva liquidità a bassissimo costo alle banche tedesche in difficoltà e la Germania poteva addirittura farsi pagare per indebitarsi. I Bund tedeschi andavano a ruba, anche grazie ai richiami della Commissione Ue che di fatto rendevano rischiosi i titoli del Sud Europa.

Poi venne il “Tutto quello che serve” per cui fu accreditato come salvatore dell’euro: divenne “Supermario”. Veniva applaudito nelle sue audizioni di due-tre ore all’Europarlamento, unico controllo politico-istituzionale sulla Bce. Ma in quei confronti emerse che migliaia di miliardi pubblici, usati per difendere la moneta comune, aiutarono molto banche, grandi imprese e ricchi investitori, tenendo alte le quotazioni sui mercati, mentre la trasmissione all’economia reale era secondaria. Draghi replicava che la liquidità della Bce diventava anche prestiti per piccole imprese e famiglie e stimolava l’occupazione.

Nell’ottobre 2019, nel suo ultimo Eurogruppo da presidente della Bce, Draghi salutò – oltre ai ministri finanziari – anche i giornalisti italiani, che l’avevano seguito nei vertici e nelle audizioni-fiume a Bruxelles e a Strasburgo. Dopo i convenevoli e le foto ricordo, gli fu chiesto se puntava a Palazzo Chigi o al Quirinale. La risposta fu che non aveva niente in programma. Allora uno dei veterani gli propose di incontrarlo “ai giardinetti” su una panchina per pensionati. Draghi rise e annuì. Quel giornalista, conoscendolo, non gli credette.

(3, fine)

L’Europa a breve sarà “plastic free” (ma non per scelta)

Oramai è assodato, è l’effetto pandemia: ciò che valeva a gennaio 2020, un anno dopo è del tutto capovolto. Anche se non con la declinazione immaginata. Se fino allo scorso anno ancora si parlava della necessità di eliminare la plastica dal pianeta per contrastare la crisi climatica, oggi si elencano i rischi della sua possibile scomparsa e della carenza degli approvvigionamenti: fino al punto – si dice – che a risentirne possano essere le campagne vaccinali per la mancanza del materiale medico utilizzato per realizzarli e delle siringhe per iniettarli. Non aiuta l’aumento dei prezzi ancora in corso, a partire dagli Usa.

Secondo le rilevazione dell’Icis (Indipendent Commodity Intelligence Service), più del 60% del Pvc statunitense è ancora indisponibile, quasi un mese dopo il gelo che ha colpito le reti elettriche di Texas e Louisiana mandando in blocco la catena produttiva. I prezzi delle esportazioni sono quasi raddoppiati fino a raggiungere 1.625 dollari la tonnellata. I prezzi del polipropilene, impiegato per il confezionamento di beni di consumo, sono a livelli record e più del doppio della media 2019-2020. Il costo del polietilene ad alta densità, utilizzato per flaconi di shampoo e sacchetti della spesa, è ai massimi dal 2008: “A lungo termine i prodotti petrolchimici sono destinati a essere la principale fonte di crescita della domanda di petrolio a causa dell’espansione economica e dell’aumento dell’uso di plastica nei beni di consumo a livello globale” spiega il rapporto Oil 2021 dell’Agenzia internazionale per l’energia. Il petrolio e la nafta, utilizzati come materie prime chimiche in Asia e in Europa, rispetto al 2019 saranno quasi il 70% della maggiore domanda di qui al 2026.

In Europa, se il 2020 non ha dato grossi problemi, i prezzi hanno iniziato a salire in autunno e molti polimeri hanno iniziato a sparire. L’economie di Cina e India hanno ripreso vigore e con esse gli ordini di materie prime, plastica inclusa. Gli Usa, vista anche la crisi improvvisa del Texas, è stato più restio a esportare. Un problema per l’Ue che si approvigiona soprattutto dall’America e dal Medio Oriente. “In Europa ci sono circa 50mila piccole e medie aziende di trasformazione della plastica, che devono affrontare la carenza di materie prime e i significativi aumenti di prezzo senza alcuna leva nelle trattative coi produttori multinazionali di polimeri”, è l’allarme lanciato nei giorni scorsi dal presidente di EuPC Renato Zelcher: “Se la situazione continua così, sempre più aziende dovranno ridurre la propria produzione, con grossi problemi per alcuni settori come l’industria edilizia o automobilistica”.

Nel giro di cinque mesi ci sono poi stati rialzi di prezzo superiori al 40% anche per il polipropilene (Pp), che oggi costa più di 1.600 euro per tonnellata, e per il Pet delle bottiglie di plastica (polietilene tereftalato), mentre per il polistirene (Pp) il rincaro sfiora il 70%. Al 19 febbraio la Polymers for Europe Alliance contava ben 27 casi di forza maggiore in giro per il mondo, che hanno ridotto soprattutto l’offerta di potiolefine e di Pvc.

In Italia a risentirne sono le Pmi: “La carenza di offerta ormai strutturale sta mettendo in crisi le filiere della manifattura italiana, compromettendo le prospettive di ripresa – spiega Maurizio Casasco, presidente di Confapi – È evidente ormai che le misure di salvaguardia pensate in un momento storico del tutto diverso da quello attuale debbano essere rimosse o allentate. Le Pmi non riescono in breve tempo a ribaltare i prezzi raddoppiati in pochi mesi: questa prospettiva porterà ad un aggravarsi delle difficoltà finanziarie in molte aziende”. C’è, però, anche chi finora non sembra aver avuto problemi: “Noi? – ci dice al telefono una importante azienda che si occupa di materiale medico – Non abbiamo problemi: ci riforniamo di materia finita direttamente dalla Cina”.

Materie prime alle stelle: il ciclo che può travolgere l’economia

“Opero sul mercato delle materie prime da 30 anni. Pensavo di averle viste tutte, ma gli ultimi mesi hanno superato ogni fantasia”. Paul (nome di fantasia) è uno dei maggiori trader londinesi di metalli, fa soldi sul mercato cavalcando i trend. Così l’11 marzo 2020, quando l’Oms dichiara l’inizio della pandemia, non ha dubbi: “Davanti a uno scenario di collasso della domanda mondiale – racconta – inizio a scommettere su un crollo dei prezzi delle materie prime, vendendo derivati allo scoperto”. L’intuizione all’inizio paga: il rame in due settimane passa da 5.600 a 4.500 dollari la tonnellata. Poi qualcosa va storto: dopo aver toccato i 4.370 dollari il 23 marzo, inizia a invertire la rotta, costringendo Paul a liquidare la posizione “ribassista” per evitare perdite devastanti. La decisione, dolorosa, si rivela alla fine saggia: il rame arriva a segnare un rialzo di quasi il 100%. Questa inversione di trend così marcata non ha riguardato solo Dr Copper, come è chiamato dagli operatori finanziari per la sua capacità di anticipare i cicli dell’economia mondiale. Il petrolio Wti, dopo essere sprofondato in territorio negativo per la prima volta nella storia (-40 dollari a barile ad aprile), veleggia oggi intorno ai 64 dollari. Negli acciai, il laminato a caldo è passato da 380 euro la tonnellata di giugno a 750 euro. “Siamo in una situazione di panico – confida il direttore acquisti di una multinazionale dell’automotive – proprio qualche giorno fa Arcelor Mittal ha annunciato un nuovo aumento di prezzo con un target di 850 euro”. Ma cosa è accaduto? Le misure anti-Covid non avrebbero dovuto causare un crollo dei consumi?

In primo luogo, a dare un immediato sostegno ai prezzi delle materie prime è stata la Cina. Il governo di Pechino ha spinto sugli investimenti pubblici per contrastare la recessione. Risultato: il Pil è salito del 2,3% lo scorso anno a fronte della flessione del 6,8% dell’Ue e del 3,5% negli Usa. Il mercato delle commodities non poteva non tenerne conto: il Dragone “brucia” oltre il 50% di rame, alluminio e acciaio prodotti nel Mondo. Il livello dei prezzi, tuttavia, non sarebbe salito così tanto se l’azione di Pechino non fosse stata accompagnata da quella, altrettanto decisa, degli Stati Uniti. Consapevole dell’impatto catastrofico che l’inazione avrebbe prodotto sull’economia reale e su Wall Street, il governo americano ad aprile vara un primo imponente stimolo fiscale, e dopo poche settimane un salto di qualità nella politica monetaria intrapreso dalla Federal Reserve. La banca centrale Usa annuncia che sarà disposta a tollerare un tasso di inflazione anche sopra il 2% prima di prendere in considerazione una restrizione monetaria, sradicando uno dei punti cardine della ricerca della stabilità dei prezzi da parte delle banche centrali e inducendo il mercato a scommettere sull’indebolimento del dollaro. L’azione super-espansiva della T-Fed (Tesoro + Federal Reserve), ribadita nel corso della riunione della scorsa settimana da FOMC, il braccio operativo della banca centrale, offre agli investitori il secondo pretesto per acquistare materie prime: sia per la correlazione inversa con il dollaro Usa, sia perché le commodities sono viste come bene rifugio contro le crescenti pressioni inflazionistiche. Il deficit federale americano (quasi interamente acquistato dalla banca centrale) è salito a 3,6mila miliardi di dollari nell’ultimo anno.

A dare la spinta ai prezzi, infine, anche restrizioni sul lato dell’offerta. Davanti a uno scenario di forte incertezza, molti fornitori di materia prima hanno rallentato le produzioni, creando colli di bottiglia che durano tuttora, trasformando il timore di un aumento dei prezzi in un vero e proprio terrore di non avere sufficiente materiale in magazzino. Un caso limite è la condizione del mercato dei semiconduttori, la cui carenza, determinata dalla fame americana di prodotti tecnologici alimentata dallo smartworking, ha costretto le aziende automobilistiche a ridurre la produzione. Fame che è anche alla base della carenza di container che ha spinto alle stelle i costi delle spedizioni. Per dire, da novembre il costo per un container di 40 piedi dall’Asia all’Europa è passato da 2.200 a 7.900 dollari. Nel mercato italiano degli acciai al carbonio pesa l’incertezza relativa all’Ilva di Taranto, la cui produzione è calata dagli 8 milioni di tonnellate del 2012 ai 5 milioni attuali. Ancora più paradossale quanto accade nel comparto dell’acciaio inox: il rialzo forsennato dei prezzi (+50%) è alimentato anche dall’incertezza per la decisione che l’Unione Europea prenderà a maggio sulle quote all’import dai paesi extra Ue, implementate per proteggere le quote di mercato dei produttori siderurgici europei dal dumping dei paesi asiatici ma che oggi non fa che acuire la carenza di materiale. “Quello ordinato a ottobre 2020 mi verrà consegnato a settembre 2021. Come si fa a lavorare?”, spiega un imprenditore del comparto della siderurgica. La difficoltà di approvvigionamento delle materie prime inizia a preoccupare anche la politica. Negli Usa l’amministrazione Biden sta valutando l’ipotesi di varare delle misure fiscali per incentivare il reshoring industriale, il ritorno delle catene produttive in patria. In Italia la senatrice della Lega, Roberta Ferrero, ha depositato un’interrogazione al ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, chiedendogli di “attivare, nelle sedi europee e internazionali, iniziative per garantire la tenuta delle filiere produttive, con politiche economiche tese al rientro di produzioni strategiche delocalizzate negli ultimi decenni”.

Con queste premesse è lecito attendersi un superciclo rialzista delle materie prime? Probabilmente sì. Le condizioni di fondo hanno una forte somiglianza con quelle di inizio Duemila che diedero il via al secondo ciclo rialzista dei prezzi (dopo quello di fine anni 70 causato dalla crisi petrolifera) col petrolio che toccò i 147 dollari al barile nel 2008. All’inizio del nuovo millennio il mercato dovette fare i conti con l’ingresso della Cina nella Wto e l’inaugurazione da parte della Federal Reserve della politica monetaria espansiva per far uscire l’economia Usa dalle secche della recessione. Oggi il varo della Dual Circulation cinese per rafforzare i consumi interni, unito alla maggiore tolleranza sul piano inflazionistico Usa, comporteranno probabilmente un impatto rialzista sui prezzi altrettanto marcato.

Ma, di là delle previsioni, ciò che occupa il dibattito tra gli analisti finanziari in queste settimane resta capire le conseguenze che un forte rialzo dei prezzi, come quello che si è verificato negli ultimi 12 mesi, sortirà sull’economia reale. Dobbiamo insomma attendersi un innalzamento dell’inflazione? Serve una distinzione: se è vero che nelle economie sviluppate il cosiddetto pass through delle materie prime sugli indici dei prezzi al consumo è di appena il 15% (sono i salari a determinare l’inflazione), decisamente elevato è il rischio sulla stabilità sociale nei paesi emergenti soprattutto in Africa e Medio Oriente per i quali i prezzi alimentari impattano maggiormente sul potere di acquisto della popolazione. Basti pensare che il fenomeno delle primavere arabe nel 2011 è scoppiato in concomitanza al raggiungimento a livelli record dei prezzi delle principali commodites alimentari.

“Turpiloquio in scena. Ma Usa e Russia uniti contro il Drago cinese”

Lui: “Sei un killer”. L’altro: “Ti sei visto allo specchio forse. Comunque ti auguro buona salute”.

Ambasciatore Romano, quando i presidenti di due delle tre potenze mondiali si scambiano parole così oltre il limite della ragione e della normale prudenza, i diplomatici incrociano le mani in segno di resa e aggiungono un amen?

Ma no, i diplomatici si affrettano, come hanno fatto quelli statunitensi, a spiegare che il loro Paese non ha nessuna intenzione di rovinare i rapporti con la Russia e che quelle di Biden sono state spinte da un moto d’ira. Nulla più.

Resta però inquietante la facilità con la quale si scagliano queste parole.

Dunque: Biden è un noto gaffeur. In America si sa da tempo, noi lo stiamo conoscendo adesso. Bravissimo, generoso, però con un’esposizione alla parola in libertà fuori dal comune. C’è da dire anche che stava rispondendo a una domanda, quindi un po’ è stato aiutato a scivolare nella contumelia e poi c’è da aggiungere che evidentemente qualche sassolino nella scarpa voleva toglierselo davvero. Detto ciò, è assolutamente certo che gli Stati Uniti hanno bisogno in questo momento della Russia per tenere alto e vincente il confronto con la Cina, il cui tratto egemonico impensierisce e tanto.

Sembrava che con Trump fosse terminata l’età della parola disinibita, del colpo al di sotto della cintura.

In generale il turpiloquio è figlio di un momento rivoluzionario in cui ci si sente liberi di esprimersi in qualunque modo, anche il più triviale. E non c’è dubbio che oggi siamo davanti al declino delle democrazie parlamentari in tutto il mondo.

A gennaio siamo stati spettatori dell’invasione di fanatici nel congresso di Washington. Un’invasione a mano armata, un fatto inaudito. E pareva che Biden fosse colui che dovesse raffreddare la temperatura. Il nonno pompiere, pragmatico, ricostruttore di una identità comune.

Quell’assalto è stato il punto di non ritorno ma anche la prova che il fatto più clamoroso, e più lontano dall’idea del possibile, poi si realizza per davvero. La democrazia americana è in grave crisi, il principio della supremazia assoluta del voto popolare è messa in dubbio. Chi perde non accetta il verdetto. Che resta la pietra angolare della salute democratica di ogni Stato. E in Europa fioriscono i sovranismi e prendono forma le democrazie illiberali, come quella di Orban.

O quelle autoritarie come la Russia di Putin.

Esatto.

Dentro questo sommovimento il turpiloquio diventa un ulteriore segno della destabilizzazione identitaria.

È la liberazione da ogni limite, la sovversione del principio della prudenza. Naturalmente dobbiamo dire che è anche la rappresentazione di una grande prova dell’ipocrisia. Gli Usa come la Russia non hanno alcuna intenzione di bruciare i ponti.

Il gesto clamoroso e fuori dal comune l’abbiamo già visto con la scarpa che Nikita Kruscev sbattè sui banchi dell’Onu il 12 ottobre 1960. Ma quel gesto aveva una carica simbolica, una forza imparagonabile con la volgarità a cui stiamo assistendo.

Quando un Paese è determinato a rompere una relazione ha altri strumenti per farlo. Qui, e di nuovo mi ripeto, siamo di fronte da un lato a una fragilità individuale, all’incapacità di Biden a tenere a freno la lingua, e dall’altro a un’enorme dose di ipocrisia di cui anche Putin dà prova. L’interesse russo in questo momento, coincide con quello americano.

Resta la formalizzazione del turpiloquio.

La liberazione del linguaggio è figlia di questo impeto che, tra virgolette, definisco rivoluzionario. Declina ovunque l’istituto della democrazia rappresentativa. Ricordi che anche in Italia siamo ricorsi a una figura di emergenza.

La chiamata in campo di Mario Draghi.

Penso il meglio di quest’uomo. Ma farne un messìa è la prova manifesta di questa crisi. La santificazione di Draghi è assai preoccupante perché indica questa affannosa ricerca che una democrazia in buona salute non avrebbe necessità di avanzare.

E invece siamo al santo che ci libera dalle tenebre.

Ecco.

“Lascio Iv, Matteo lo sa da tempo”

Senatore Comincini, perché ha lasciato Renzi per tornare nel Pd?

Rispetto alle ragioni che avevano portato alla nascita di Italia Viva, dare più forza al centrosinistra, sono mutate le condizioni e il quadro politico è cambiato. Il problema è la collocazione…

Renzi non è più di centrosinistra?

Non so che scelta farà, ma si sta lasciando aperte molte ipotesi, tra cui quella di fare un centro che sia stampella a volte del centrosinistra, altre volte del centrodestra: a me non interessa. Va fatta una scelta di campo: stare nel centrosinistra e non sto in un partito che ondeggia tra i due schieramenti.

Ma perché non è tornato nel Pd due mesi fa? Avrebbe salvato il governo Conte.

Non penso che se fossi tornato tra i dem allora, il governo Conte sarebbe durato. L’operazione dei responsabili era fallimentare: si raccattavano senatori senza guardare da dove venissero. E poi, se fossi uscito allora, mi avrebbero etichettato come un voltagabbana accusandomi di essere stato comprato. Oggi invece non sono più determinante e dal punto di vista della dignità e del rispetto delle istituzioni nessuno può più accusarmi di nulla.

Ma ha condiviso la scelta di Renzi di far cadere il Conte II?

Io avevo spiegato a Matteo che non avrei mai votato contro il Pd, ma alla fine ho condiviso quella decisione. Però poi mi sono battuto con forza per il Conte 3 ripartendo dalla stessa maggioranza e con un nuovo patto di legislatura: ma le forze politiche hanno fallito l’obiettivo – anche per responsabilità degli altri partiti – e oggi è acqua passata. Oggi abbiamo Draghi al governo e il suo programma dev’essere quello del Pd.

È vero che voi renziani volevate rientrare due mesi fa ma Marcucci vi ha fermato?

No, perché non l’avevo chiesto. Non so dire per altri casi…

Che giudizio dà del Conte 2?

Non faccio un bilancio, ma ha fatto cose importanti come il Family Act e il Bonus 110%.

È tornato nel Pd per l’elezione di Letta?

La mia decisione non è maturata nell’ultima settimana ma da tempo. Sarei rientrato lo stesso, anche con Zingaretti. L’ho comunicato a Letta e Marcucci e sono rientrato.

Avete fatto cadere il governo di centrosinistra per stare al governo con Lega e FI.

Non sono sicuro che quello di prima fosse un governo di centrosinistra, ma questo non ha bandiere: questo è il tempo dei costruttori e per governare bisogna fare anche un po’ di fatica.

Cosa rimprovera a Renzi?

Matteo sa da tempo che volevo lasciare ma non voglio fare il processo ex post, ognuno in politica fa errori.

Nuovi emendamenti contro i magistrati

Mentre a via Arenula gli esperti stanno aiutando il ministro della Giustizia Marta Cartabia a scrivere la nuova riforma del processo penale, martedì il governo rischia la prima imboscata parlamentare sulla Giustizia. Il deputato di Azione, ex Forza Italia, Enrico Costa ha presentato quattro emendamenti alla Legge di Delegazione Europea che arriverà alla Camera e che potrebbero spaccare la maggioranza sul tema della presunzione di innocenza iniziando a colpire l’eredità dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Il primo emendamento equipara i tabulati telefonici alle intercettazioni – per ottenerli non basterà più la richiesta del pm ma servirà l’autorizzazione del gip – mentre gli altri sono in funzione anti pm: limitazione delle dichiarazioni dei pm durante l’inchiesta (una sorta di bavaglio che ricorda i tempi di Berlusconi), il divieto di diffondere intercettazioni, audio e video, il divieto di dare nomi alle inchieste ma anche lo stop alla pubblicazione “integrale” dell’ordinanza di custodia cautelare. Secondo fonti di maggioranza, Cartabia è irritata dalla presentazione di questi emendamenti ma Costa non molla: “Vediamo chi li vota”.

“Con il M5S per vincere”: il Pd di Letta scarica Renzi

La prima settimana da nuovo segretario del Pd Enrico Letta la conclude con due punti fermi sul partito che verrà: via i due capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci e soprattutto il progetto di un’alleanza “per vincere le elezioni” con il M5S di Giuseppe Conte. Dopo la nomina due vicesegretari – Beppe Provenzano e Irene Tinagli – e della segreteria, Letta ieri ha concesso due interviste, una al Tirreno e una al quotidiano spagnolo La Vanguardia, per chiarire la direzione che prenderà il suo Pd. In primis, l’alleanza con il M5S in linea con la strategia del suo predecessore Nicola Zingaretti: “Per vincere le elezioni contro il centrodestra – ha detto Letta al quotidiano spagnolo – dobbiamo comporre una grande alleanza in cui stia il M5S, che ha vissuto un’evoluzione europeista importante e positiva”. Poi l’endorsement a Conte che dovrebbe incontrare nelle prossime ore: “La disponibilità di Giuseppe Conte di guidare il M5S è una buona notizia e sono sicuro che ci capiremo” ha concluso il segretario Pd. Un messaggio diretto a Matteo Renzi che sabato, durante l’assemblea di Italia Viva, aveva proprio sfidato i dem sul fronte delle alleanze: “Il Pd decida se stare con noi o con il M5S: noi con Conte non andiamo”. Eppure Letta, che oggi dovrebbe vedersi con il leader di IV dopo aver incontrato Carlo Calenda nei giorni scorsi, non ha chiuso del tutto le porte a Renzi: “È mio dovere aprire quest’alleanza anche con chi ha lasciato il Pd – ha detto a La Vanguardia riferendosi agli ex della Ditta – sul dialogo con Renzi, dipende da lui: io sono disposto a dialogare con tutti”. Ma partendo da un punto fermo: l’alleanza progressista dovrà ripartire da quella con il M5S che aveva sostenuto il governo Conte. Una condizione che complica non poco la possibilità di riportare dentro anche Renzi e i suoi.

Diverso il discorso per gli ex Pd in Italia Viva che stanno iniziando a rispondere alle sirene del segretario: ieri il senatore lombardo Eugenio Comincini ha ufficializzato il suo ritorno tra i dem dopo aver informato Renzi e con un messaggio nella chat dei parlamentari e nelle prossime ore dovrebbero aggiungersi anche i senatori Leonardo Grimani e Mauro Marino e, si dice, anche il deputato Camillo D’Alessandro. Nel post di addio su Facebook Comincini ha spiegato di aver vissuto con “disagio” e “travaglio” la scelta di Renzi di aprire la crisi di governo e di essere uscito perché Italia Viva è “sospesa” tra centrodestra e centrosinistra mentre bisogna stare “nel centrosinistra”. Il primo ad aver salutato l’arrivo di Comincini è stato proprio il capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci che nei giorni scorsi aveva parlato a lungo con il senatore lombardo per convincerlo a rientrare: “Bentornato a casa” ha scritto su Twitter. Marcucci sta provando a far rientrare alcuni renziani proprio per mantenere la sua poltrona di capogruppo, ma ieri Letta ha silurato lui e Graziano Delrio in un’intervista al Tirreno apparsa anche sulla Gazzetta di Reggio Emilia. Un messaggio diretto ai due capigruppo: non è un caso che siano i due giornali più letti a Lucca e Reggio Emilia, casa di Marcucci e Delrio. “Quando sono arrivato ho detto che c’è un problema enorme di presenza femminile nel nostro partito – ha detto il segretario Pd – penso che per forza di cose le due capogruppo devono essere donne”. Non una bocciatura ma quasi nei confronti di Delrio e Marcucci: “Hanno lavorato benissimo e potranno tornare utilissimi in altri ruoli” ha concluso Letta. Martedì il segretario incontrerà i gruppi di Camera e Senato, che devono eleggere a scrutinio segreto i nuovi capi, e ripeterà il diktat. Ma la sua uscita ha scatenato le proteste delle correnti interne, soprattutto quella di Base Riformista di Luca Lotti e Lorenzo Guerini di cui Marcucci è espressione diretta, che per ora fanno resistenza.

Se Delrio in serata ha spiegato di aver sempre “agito per la parità di genere”, ha anche avvertito il segretario: “Sul ruolo di capogruppo decideranno in autonomia i deputati”. Le chat dem esplodono: “Fino a oggi probabilmente la parità di genere non era una priorità” sottolineano alcuni, mentre i senatori vicini a Marcucci sostengono che la votazione di martedì potrebbe avere “esiti imprevedibili” perché il capogruppo ha la maggioranza nel gruppo (20 su 35) e non ha intenzione di lasciare. Il senatore vicino a Marcucci, Salvatore Margiotta, lo dice chiaro: “Mi sfugge il nome della donna scelta capogruppo al posto di Benifei al Parlamento Ue”. I due vicesgeretari Provenzano e Tinagli invece condividono con Letta la scelta di nominare due donne: “Siamo d’accordo, il partito deve somigliare a ciò che dice”.

La sai l’ultima?

 

Battaglia del Cellina I carri armati dell’Esercito bombardano un pollaio
È senza dubbio la storia della settimana: un carro armato dell’Esercito, impegnato in un’esercitazione di tiro, ha sbagliato mira e ha centrato un allevamento di galline di Vivaro (Pordenone), a due passi dal torrente Cellina. “Numerose galline – riporta l’Ansa – sono morte nello scoppio e nel crollo di una parte del manufatto che le ospitava. La Procura di Pordenone ha aperto un’inchiesta. Indagini in corso da parte dei Carabinieri: i carri armati impegnati nell’esercitazione – sarebbero almeno 4 – sono stati posti sotto sequestro”. Al di là del cordoglio per i poveri pennuti, la notizia è girata molto e ha già prodotto meme di un certo livello. Come la finta pagina Wikipedia dedicata alla storica “Battaglia del Cellina”. Schieramenti: “Italia” contro “Pollame”. Comandanti: “Col. Alessio Bacco” (il responsabile del reggimento che ha bombardato il pollaio) contro “Rosita” (una delle coraggiose galline perite nell’operazione). Effettivi: “Reggimento Genova Cavalleria (4 carri armati”) contro “24 galline”.

 

Olanda De Jonge, ministro distratto: rischia di beccarsi il Covid e va a votare due volte perché si scorda i documenti
In Olanda forse non hanno il governo dei migliori ma hanno almeno un ministro di altissimo livello. L’eroico Hugo de Jonge, titolare della Sanità (che di questi tempi è posizione abbastanza strategica) si è segnalato negli ultimi giorni per una serie di disavventure notevoli. Prima ha scoperto che dovrà trascorrere un periodo di quarantena, dopo che la app per il tracciamento (anche in Olanda hanno Immuni!) gli ha segnalato che si è trovato vicino a una persona positiva al Covid. Nello stesso giorno, pur essendo potenzialmente contagioso, è stato costretto a tornare una seconda volta al seggio per votare alle legislative. La prima volta gli scrutatori l’avevano respinto con perdite: si era presentato con un passaporto scaduto come documento identificativo e si era pure dimenticato la patente a casa. Non lo vorreste un ministro così a prendersi cura del paese durante una pandemia?

 

Bruxelles L’eurodeputato irlandese Wallace in aula con la maglia del Torino: “Abbiamo battuto il Sassuolo”
I politici irlandesi sono di tutt’altro spessore. L’eurodeputato Mick Wallace, un pittoresco signore che somiglia a Tom Hanks in Cast Away, con i lunghissimi capelli ingialliti che gli calano sulle spalle e la barba che non deve aver visto rasoio dai tempi in cui Berlusconi cantava sulle crociere, si è presentato a una seduta del Parlamento di Bruxelles indossando la maglia da calcio del Torino. Mick è un tifoso sfegatato del Toro, frequentatore stabile (quando ancora ci si poteva andare) della curva Maratona. Ma vederlo in un’aula parlamentare con la maglia di Belotti (e lo sponsor dei salumi Beretta) fa sempre una discreta sensazione. Era il giorno di San Patrizio, il Torino aveva appena vinto in rimonta una partita decisiva col Sassuolo e Wallace voleva festeggiare: “Come ho già detto al presidente prima che iniziassimo, gli irlandesi amano sempre chi parte sfavorito – ha detto l’onorevole – e il Torino ha appena vinto. Una vittoria per gli sfavoriti”. Urrà.

 

Scienza Le nuove pale eoliche per produrre energia ”green” hanno l’aspetto di un gigantesco vibratore
Un gigantesco vibratore ecologico. L’ultima speranza dell’umanità è una pala eolica che non è una pala, ma ha la forma e le caratteristiche di un immenso sex toy. Si chiama “Vortex Bladeless” (vortice senza lame) e produce energia pulita con un design meno invasivo dei classici “aerogeneratori”, gli enormi mulini a vento che punteggiano anche le colline italiane. Queste turbine – scrive il Guardian – sono alte tre metri, hanno una punta curva dalla forma cilindrica “fissata verticalmente con un’asta elastica”. Viene fatta oscillare dalle folate di vento e la vibrazione produce energia elettrica “green”. Agli occhi meno allenati può sembrare solo un enorme vibratore, ma l’unica a trarne giovamento – si perdoni la metafora terribile; da cavarsi gli occhi, edipicamente parlando – è la salute di nostra madre Terra. Su Reddit lo chiamano “Skybrator” (vibratore del cielo); il Norvegia la compagnia elettrica statale l’ha nominato tra le 10 start-up più eccitanti nel settore energetico.

 

Catania Una poiana prende di mira i bambini dell’asilo, ma viene catturata da un carabiniere esperto di rapaci
Scene di terrore hitchcockiano nei cieli di Aci Castello, in Sicilia. Un rapace aggressivo è planato a poche spanne dalle teste dei bambini di un asilo nido, riuscendo pure a ferirne uno, prima della cattura ad opera di un carabiniere locale (per fortuna esperto di falconeria). Trattasi di un esemplare di Poiana di Harris (Parabuteo Unicinctus). Leggiamo da Wikipedia: “È un uccello rapace della famiglia degli Accipitridi diffuso nel continente americano”. Che ci fa un grosso e incazzoso uccello americano ad Aci Castello? La poiana era dotata di anello di riconoscimento, se ne deduce che dovesse appartenere a un privato da cui dev’essere riuscita a fuggire (oppure che ha deciso di abbandonarla). “L’animale, una femmina di circa 8-10 anni, gode di ottima salute – scrive Catania Today -. Già da tempo si era ambientata nella zona riuscendo a cacciare e perdendo quasi tutte le abitudini alla cattività, ma purtroppo conservando comportamenti legati all’imprinting umano”.

 

Imola Sveglia tutto il palazzo urlando “c’è una bomba in frigo” ma era un brutto sogno. Denunciata per procurato allarme
Doveva aver mangiato parecchio pesante la signora di Imola che ha chiamato il 118 martedì mattina all’alba, terrorizzata, denunciando di avere una bomba inesplosa dentro il frigorifero di casa. E per bomba non intendeva qualche schifezza ipercalorica o andata a male, ma un vero ordigno che rischiava di far saltare in aria il palazzo. “I carabinieri si sono precipitati sul posto – scrive Bologna Today – e quando sono arrivati hanno trovato la donna per strada in preda all’ansia e i suoi vicini di casa che chiedevano spiegazioni perché la stessa, forse a causa di un brutto sogno, li aveva svegliati dal citofono gridando: ‘Scoppia! Scoppia!’”. Come è stato facile accertare – e tutto sommato prevedibile – in frigorifero non c’era nessuna bomba. A quel punto gli agenti hanno tranquillizzato i vicini e chiamato un’ambulanza per la povera signora, che però si è rifiutata di farsi portare al pronto soccorso. La sognatrice è stata denunciata per procurato allarme.

“Sistema degli amici di Fi, FdI, Lega: vanno cacciati. Che schifo!”

“È il secondo giorno di caos nel servizio di vaccinazioni e Matteo Salvini continua a fare il fenomeno ricordando che quello lombardo è il miglior modello di Sanità italiana. Ma è uno schifo quello che sta succedendo, colpa della totale inadeguatezza dei suoi dirigenti, che sono gli amici degli amici della Lega, di Fratelli d’Italia e di Forza Italia. Mi vergogno di questo scempio! È inaccettabile. Vanno cacciati”. Sbotta così il deputato lombardo del M5S Stefano Buffagni a metà pomeriggio di una domenica molto complicata per il governatore Attilio Fontana e per la sua assessora al Welfare Letizia Moratti. Si ritrovano ancora una volta a non sapere più come giustificare il drammatico operato di Aria, la società posseduta per intero dalla Regione Lombardia, incaricata di gestire il sistema delle prenotazioni per le somministrazioni dei vaccini. “Moratti e Fontana sono fermi a difendere un sistema evidentemente inadeguato, serve un cambio radicale. Si sono dimostrati totalmente incapaci facendo un disastro dopo l’altro. Devono andare a casa”, dice ancora Buffagni.

Il Cinque Stelle la partita sulla gestione della vaccinazione la conosce bene: da viceministro al ministero dello Sviluppo Economico ha gestito i rapporti con Poste che ha sviluppato la piattaforma gratuita nazionale per l’adesione e la prenotazione dei vaccini anti-Covid. “Quando siamo andati a proporre il sistema al governatore Fontana, ci è stato risposto che non ne avevano bisogno, che ci avrebbero pensato loro. Hanno voluto fare i fenomeni e ora le inefficienze della Lombardia sono sotto gli occhi di tutti”, spiega Buffagni. La ricostruzione della disastrata gestione regionale è tutta in un numero: 20 milioni di euro, cioè quanto è costato ai lombardi questo sistema fallimentare che ha azzoppato la campagna vaccinale. “Il meccanismo informatico regionale – racconta Buffagni – è gestito da Aria Lombardia che nel 2019 ha assorbito Lombardia Informatica, un classico esempio eclatante di azienda pubblica lottizzata ed inefficiente. È la dimostrazione che vincono sempre gli amici degli amici che in questo caso sono quelli dell’ex governatore leghista Roberto Maroni e dell’ex Pdl ora Fratelli d’Italia, Ignazio La Russa”. Un sistema fallimentare certificato tanto più che pochi giorni fa il presidente Fontana ha di fatto sfiduciato pubblicamente, con colpevole ritardo, la partecipata annunciando il passaggio a Poste per il software di prenotazione dei vaccini.

A rischiare è il direttore generale di Aria Lorenzo Gubian, coinvolto nello scandalo camici che ha riguardato anche i famigliari del governatore Fontana. “Gli stessi leghisti in privato mi dicono che si vergognano della situazione”, confida Buffagni che ha sempre contestato questo modello, da quando c’era Maroni e prima ancora Formigoni. La giunta Fontana non ha fatto altro che sommare disastri a disastri. “Serve un cambio radicale, perché non stiamo parlando solo di politica ma di vite umane messe in pericolo. È una situazione gravissima. La prima cosa da fare per cambiarla è cacciare gli incapaci e lavorare per i cittadini”, ripete l’ex viceministro.

Zone rosse e camici, Rsa e gaffe di Gallera. Un anno di fallimenti

Ciò che sta accadendo in queste ore sui vaccini in Lombardia è l’ennesimo capitolo di una storia assurda, in una Regione martoriata dall’emergenza del Covid ma anche da decine di inchieste sulla responsabilità dei suoi amministratori, a tutti i livelli. Un anno dopo torna utile ripercorrere con una cronistoria (seppure limitata) tutte le decisioni sciagurate prese finora, incluse quelle su cui magistratura e tempo daranno il giudizio definitivo.

Le mancate chiusure. Inizio febbraio del 2020: il coronavirus gira nella zona di Codogno da almeno dieci giorni e si susseguono incontri a Roma e in Regione. Si vaglia soprattutto l’opzione “rischio dalla Cina” ma nonostante i casi, si fa ben poco. Dopo pochi giorni arriva il picco nella zona di Alzano e Nembro ma la Regione (nè comuni o prefettura) non istituisce alcuna zona rossa. Agli atti non risulta nessuna richiesta formale.

Alzano. È un altro punto cardine: la mancata chiusura dell’ospedale- focolaio di Alzano Lombardo, considerato il punto di partenza per la diffusione dell’epidemia in Val Seriana. La struttura, dopo la conferma di alcuni contagi, il 23 febbraio viene chiusa per qualche ora. Poi, dopo poco, riaperta senza sanificazione.

Le Rsa. Il Pio Albergo Trivulzio è l’emblema delle morti nelle strutture per anziani lombarde tra gennaio e aprile 2020. Qui, secondo le recenti consulenze, sarebbero morti di Covid circa 300 anziani ma ce ne sono decine con la stessa storia. Oggi si indaga per capire se l’errata gestione dell’emergenza sia stata causata dalla decisione dei singoli o dalle indicazioni date dalla regione Lombardia che l’8 marzo 2020 consente il trasferimento dei convalescenti da Covid nelle Rsa per alleggerire la pressione sugli ospedali. A questo, si aggiunge la mancanza a quel tempo di un piano pandemico aggiornato, la scarsità di dispositivi di protezione e di apparecchi di ventilazione. Vengono indagati in cinque tra responsabili delle aziende sanitarie bergamasche e l’ex direttore generale della sanità della Lombardia, Luigi Cajazzo (poi rimosso).

L’ospedale. A fine maggio, la Procura apre un’indagine sulla realizzazione dell’ospedale anti-Covid nei padiglioni inutilizzati della Fiera di Milano per verificare come siano stati spesi i 22 milioni di euro delle donazioni private. Alla guida viene messo Guido Bertolaso, tra le polemiche degli esperti: nella prima fase, “l’Astronave” è praticamente vuota, le terapie intensive sono lontane, i medici spostati. C’è chi chiede di riavere indietro i soldi. Ancora oggi, l’Astronave è “piena” ma con un numero di posti letto esiguo (circa 80)rispetto agli annunci (600).

I camici di Fontana. A luglio 2020, il governatore Attilio Fontana, viene indagato per turbativa d’asta: camici e protezioni sanitarie per 513mila euro vengono chieste con affidamento diretto alla società Dama spa, controllata dal cognato e (al 10% per cento) dalla moglie di Fontana. Il presidente sostiene sia una donazione gratuita ma i pm hanno appurato che la fornitura era stata avviata il 16 aprile 2020 e consolidata con regolari fatture, poi sbianchettate dopo dalla nota di storno.

Via Gallera. Oltre alla mala gestione, la regione deve fare i conti con le gaffe dell’assessore al Welfare: confonde l’indice Rt, ringrazia gli ospedali privati, viola le restrizioni. A gennaio 2021, quando giustifica i ritardi nelle vaccinazioni con le ferie dei medici, Fontana mette al suo posto Letizia Moratti. Salta anche il dg Trivelli, che pochi mesi prima aveva sostituito Cajazzo.

I dati sbaglati. Intanto, la Lombardia finisce in zona Rossa ma per errore. I dati arrivati a Roma sono sbagliati, ristoranti e negozi chiudono. Gonfiati, anche quelli del “cruscotto regionale” che aggiorna i sindaci sul numero dei contagi nei comuni.

Vaccini antinfluenzali. Sempre gennaio. La Regione sbaglia i primi bandi sui vaccini antinfluenzali: basi d’asta fuori scala ed errori nelle quantità da ordinare. Li cambia, ma ormai i vaccini sono pochi e quelli che ci sono costano molto. I bandi sono 13, uno viene aggiudicato, prima che salti, da un dentista. E ancora, problemi nelle prenotazioni. Le dosi arrivano a metà gennaio, ma ormai è tardi. Avanzano 900mila vaccini, 10 milioni di euro sprecati.