I vaccini fatti a capocchia: nuovo disastro lombardo del duo Fontana&Salvini

Sbagliare tutto ciò che si può sbagliare. Sembra ormai questo l’obiettivo della giunta di Attilio Fontana in materia di vaccini. Anche ieri, infatti, all’hub di CremonaFiere le sale di attesa sono rimaste a lungo vuote, perché si sono presentati solo 58 dei 600 over 80 attesi. Ancora una volta per colpa dell’agenzia regionale Aria. Gli altri 542 pazienti, infatti, non hanno ricevuto l’sms con l’appuntamento. E, per evitare di gettare le dosi scongelate, la Atts Cremona è stata costretta a convocare direttamente gli anziani. Alla fine sono state circa 700 le persone vaccinate. Tutte fuori lista.

Un copione che si era ripetuto identico il giorno precedente, quando pur di utilizzare tutti i vaccini, in mancanza dei 680 vaccinandi previsti, si è fatto ricorso al passaparola, alle catene whatsapp, alle telefonate ad amici e parenti. Giuseppe Papa, sindaco di San Bassano, paese di 2mila anime, sabato è arrivato a organizzare in fretta e furia due bus che sono andati a prendere gli over80 a casa e li hanno trasportati all’hub.

Tutti escamotage per tappare le voragini di un’organizzazione regionale inesistente, perché come ha tuonato Claudia Balotta, medico volontario del centro vaccinale cremonese, “è del tutto inaccettabile questo malfunzionamento dovuto ad Aria Lombardia”. Oltre agli attacchi dei medici, ci sono quelli della politica. Dice il consigliere Pd Matteo Pilloni: “È vergognoso. E il sistema che Regione Lombardia utilizza ed è gestito da Aria è costato 20 milioni di euro. Soldi di tutti”. Uno tsunami di critiche che già sabato ha investito l’assessore alla Sanità Letizia Moratti, la quale ha cercato di prendere le distanze scaricando la croce su Aria. “L’inadeguatezza di @AriaLombardia incapace di gestire le prenotazioni in modo decente rallenta lo sforzo comune per vaccinare. È indecente!”, ha scritto su Facebook. Ieri ha ribadito: “Su @ariaLombardia servono decisioni rapide e drastiche. I cittadini non devono pagare le inefficienze della burocrazia”. Il problema è che, come le ha ricordato ieri la sindaca di Crema, Stefania Bonaldi, “lei è il capo e ha non il diritto, ma il dovere di intervenire e porre rimedi”.

Ma quello di Moratti è un siluro politico alla sua stessa maggioranza. Perché attaccare Aria, significa attaccare il potentissimo assessore regionale al Bilancio, Davide Caparini, l’uomo (di Salvini) che con la ex compagna di Matteo Salvini, Giulia Martinelli, fa il bello e cattivo tempo al Pirellone. È Caparini che volle a tutti i costi Aria Spa, creatura informe nata nel 2019 dalla fusione tre società regionali, Arca (Centrale Acquisti regionale), Lispa (Lombardia Informatica) e Ilspa (Infrastrutture Lombarde). Per Caparini Arca avrebbe dovuto rappresentare il fiore all’occhiello della Lega in fatto di partecipate. Non a caso proprio Caparini e Guido Bertolaso sono arrivati alle mani la settimana scorsa, dopo il post polemico di Bertolaso per l’ennesimo disservizio di Aria (i 300 anziani convocati erroneamente all’ospedale di Niguarda). Per questo l’attacco di Moratti ad Aria è una spaccatura tra Forza Italia e Lega.

La conferma che il fallimento della campagna vaccinale rischia di essere il detonatore di una crisi profonda. Oggi è fissata una riunione alla quale dovrebbe partecipare anche Salvini. Si tenterà di anticipare la sostituzione di Aria con la piattaforma di Poste a fine marzo. Da Poste però fanno sapere che anticipare i tempi non è affatto semplice e che, comunque, il loro intervento, secondo gli accordi fino a oggi stipulati, dovrebbe riguardare solo le prenotazioni per le vaccinazioni di massa e non quelle per gli over 80.

Ma mi faccia il piacere

Fa tutto lui. “Abbiamo fatto più noi in poche settimane che Conte in un anno” (Matteo Salvini, segretario Lega, 14.3). Tipo il condono.

Testa di Chicco. “Lutto a casa del Fatto” (Chicco Testa dopo l’assoluzione dell’Eni al processo sulle tangenti alla Nigeria, Twitter, 17.3). “Congo, l’accordo Eni-pm: patteggiamento da 11 milioni per induzione indebita internazionale” (Corriere della sera, 19.3). Risate a casa del Fatto.

Spezzatino. “Renzi è euforico per l’effetto Draghi sulla politica italiana: ‘Nel 2023 il M5S non ci sarà più’” (Foglio, 19.3). Ci pensa bin Salman?

Senti chi parla/1. “Smartworking, contributo baby sitting… chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi: mah!” (Mario Draghi, presidente del Consiglio, 12.3). Li ha usati lei e lo domanda a noi?

Senti chi parla/2. “Draghi irritato per lo stop ad Astrazeneca” (Claudia Fusani, Riformista, 18.3). È incazzato nero con se stesso.

Pronti via. “Italia Viva risponde a Letta: noi ci siamo” (Gennaro Migliore, deputato ex Sel, ex Pd, ora Iv, Riformista, 16.3). Pronti a fare fuoco.

Priorità. “Letta vuole un nuovo centrosinistra: ‘Sentirò anche Renzi e poi i 5Stelle’” (Corriere della sera,15.3). Prima il piacere, poi il dovere.

Largo ai giovani. “A 87 anni entro nel Pd di Letta” (Giuseppe Guzzetti, ex presidente Dc della Lombardia, ex presidente Fondazione Cariplo, 17.3). È in corsa per la nuova Fgci.

Un apostolo, un santo/1. “Draghi lascia i giornalisti fuori dalla porta. Giusto così” (Renato Farina, Libero, 18.3). Com’è umano, lui.

Un apostolo, un santo/2. “Draghi parla agli italiani perché non va in televisione” (Francesco Merlo, Repubblica, 19.3). Una specie di medium.

Un apostolo, un santo/3. “Draghi mi ha fatto un’impressione eccellente” (Urbano Cairo, editore La7 e Corriere, Rai Radio1, 17.3). In effetti il ragazzo è promettente: si farà.

I giorni del Merlo. “Letta sarebbe un pelato di prudenza con il tignone di governo, che è il pensiero che si è fatto strada” (Francesco Merlo, Repubblica, 16.3). Lo portano via.

Minzolingua. “Rischio il processo per le buche della Raggi” (Augusto Minzolini, Giornale, 17.3). No, perchè le hai dato della “demente”.

Ius Sòla. “Ius Soli un primo passo, sui migranti bisogna fare di più. Ora eliminiamo la Bossi-Fini” (Matteo Mauri, deputato Pd, Repubblica, 16.3). Potresti parlarne col nuovo alleato Salvini.

Pisachi? “Il centrodestra chiede giustizia celere, ma nei processi usa tutti gli strumenti dilatori per evitare che si giunga a sentenza o far scattare la prescrizione. Vogliono condanne veloci e pene certe solo per deboli ed emarginati” (Giuliano Pisapia, avvocato di parte civile per Carlo De Benedetti contro Berlusconi e Previti nei processi Sme e Mondadori, 1.4.2001). “Un conto sono i diritti di difesa, un altro l’uso sistematico e strumentale di impedimenti per bloccare il corso della giustizia, allungare i tempi e arrivare alla prescrizione” (Pisapia, 23.4.01). “Previti non vuole l’accertamento della verità, ma solo l’impunità con la prescrizione” (3.11.01). “Berlusconi s’è salvato dal rinvio a giudizio solo per prescrizione grazie alle attenuanti generiche… Il premier aveva la possibilità giuridica, oltre che il dovere morale, di rinunciare alla prescrizione, che è cosa ben diversa dal proscioglimento per non aver commesso il fatto” (17.11.01). “Berlusconi è fuori dal processo per effetto della prescrizione. Però… leggendo la sentenza è facilmente intuibile che, se fosse rimasto nel processo, avrebbe avuto una sorte analoga a quella degli altri imputati condannati” (7.8.03). “La sentenza Sme conferma la responsabilità di Berlusconi per il grave reato di corruzione di un magistrato e lo salva da condanna certa solo in quanto, per l’ennesima volta, gli vengono concesse le attenuanti generiche con conseguente prescrizione del reato” (10.12.04). “La cancellazione della prescrizione è uno scempio dello Stato di diritto, un’assurdità giuridica in contrasto con la Costituzione” (Giuliano Pisapia, eurodeputato Pd, Dubbio, 18.3. 2021). Come passa il tempo.

La netta differenza. “Berlusconi assicura ‘massima lealtà e il massimo spirito costruttivo’ al governo restando, però, ‘sentinelle dell’efficienza, della serietà e della credibilità dell’azione di governo. Dobbiamo dimostrare nei fatti, con la nostra azione, l’unicità di Forza Italia, la profonda differenza fra noi e gli altri’…” (Giornale, 10.3). Tranquillo, si vede a occhio nudo che siete unici.

Il titolo della settimana/1. “Giustizia, riaperture, ponte sullo Stretto. Le affinità inattese tra Iv e centrodestra” (Corriere della sera, 19.3). Inattese da chi?

Il titolo della settimana/2. “Serve il coraggio di fare del Partito democratico il ‘partito degli immigrati’” (Enrico Deaglio, Domani, 19.3). In effetti ci vuole proprio un bel coraggio.

Il titolo della settimana/3. “Spirlì confessa: a vent’anni mi hanno stuprato” (Libero, 17.3). Quindi il reato l’ha commesso lui?

Il titolo della settimana/3. “Cartabia: ‘Superare il carcere’” (Dubbio, 16.3). Ehi, si dice scavalcare. O evadere.

“Don’t Break My Balls”: il “milanese” Terence Trent D’Arby scoperchia il vaso di Pandora

Dal rock alla musica elettronica il pellegrinaggio verso il Belpaese continua a fare proseliti: l’ultimo è Mick Jagger, emerso dalle cronache in Sicilia intento a trovare ispirazione per la sua musica. Prima di lui Jim Kerr dei Simple Minds a Taormina, Sting a Figline Valdarno ed Erlend Oye dei Kings Of Convenience a Siracusa. Sananda Maitreya – una volta noto come Terence Trent D’Arby – ha scelto, invece, la metropoli milanese nella seconda parte della sua carriera, sposandosi con Francesca.

L’autore di Wishing Well, If You Let Me Stay e Sign Your Name, figlio di un pastore della chiesa evangelica pentecostale, ha avuto, nel suo percorso artistico, molte analogie con Prince. Entrambi in lotta con le loro etichette discografiche e dediti a una devota spiritualità, entrambi autori e musicisti di ogni traccia dei loro dischi e sottovalutati nella loro evoluzione artistica “non commerciale”. Proprio a Prince è dedicata una delle tracce più intense del nuovo doppio album Pandora’s Playhouse: “Avevo 15 anni quando l’ho scoperto, per me è stato una leggenda. Il mio omaggio è nulla a confronto del folle amore artistico che provo per lui”. L’album è intriso di richiami alla mitologia: “Ho invocato lo spirito di Pandora, incanalando la forte energia che veniva dall’esterno e l’ho trasformata in forza”. La pandemia è stata affrontata nella canzone Mr Skeleton, mentre i recenti scontri negli Stati Uniti sono denunciati nella traccia In America: “Vivendo a Milano ho imparato ad accettare l’America così com’è, continuamente manipolata e sempre pronta ad apparire in chiave negativa: caos, corruzione, confusione e la brutalità autoritaria nelle rivolte schiaccianti che il colonialismo ha incorporato alla radice della società”.

Tra le collaborazioni spicca un duetto con Irene Grandi sulla cover dei Rolling Stones Time On My Side, con la band australiana Avalanches (Reflecting Light) e Pandora’s Plight con Antonio Faraò. L’irriverente Don’t Break My Balls è liberatoria e scanzonata, mentre Mama’s Boy Blues è – all’opposto – la canzone più struggente, dedicata al figlio di una madre che si rifiuta di amarlo.

Sananda è un vulcano di citazioni filosofiche e mistiche, tra queste spicca Santa Teresa D’Avila e Robert Frost, dal quale prende in prestito la massima “L’unica via d’uscita (di un problema) è attraversarlo”: “La spiritualità non è qualcosa di costruito ma l’essenza stessa di quel che sono. Ho scelto di credere in Dio liberamente; come artista sento questa forza”. The Queens Of Babylon celebra le donne, “regine di Babilonia superiori al genere maschile”. Oltre a Prince e agli Stones un altro omaggio – riuscito – è dedicato a un maestro del soul, Smokey Robinson. La title-track costruita su un ispiratissimo riff di pianoforte ci regala il lato più profondo dell’artista. Altra maiuscola canzone è Reflecting Light, “sporcata” da un loop e da un bizzarro sintetizzatore; Her Kiss e Glasshouse evocano le vecchie composizioni di Terence, piccole delizie rassicuranti.

“Rifare l’arena del Colosseo oscurerebbe i sotterranei”

Sull’opportunità di ricostruire l’arena del Colosseo, operazione programmata dal ministero della Cultura, non mancano perplessità. L’arena nasconderebbe la visione diretta dall’alto dei sotterranei, un complesso impressionante. Ne parliamo con Rossella Rea, ultima direttrice del Colosseo prima dell’istituzione nel 2017 del Parco archeologico.

Quali sono le caratteristiche più importanti del complesso?

I sotterranei sono visibili a tutti, basta affacciarsi ai vari livelli della cavea, e più si sale, più lo spettacolo affascina. Un tale tipo di approccio resterebbe possibile (ma con accorgimenti tutti da studiare, ndr) anche se si realizzasse un esteso piano dell’arena: questo però, pur previsto reversibile e in parte apribile, nasconderebbe la visuale di insieme, unica al mondo. Il Colosseo non è un qualunque anfiteatro, è l’anfiteatro degli imperatori, come chiamato in antico. E i sotterranei sono un monumento nel monumento, l’unica parte del Colosseo conservatasi nell’assetto antico, mentre la cavea, come noto, è un campionario di restauri soprattutto moderni.

C’è anche il problema della circolazione di acque sotterranee, che certo non incoraggia interventi spericolati…

Il problema dello smaltimento delle acque piovane e di falda si pose nel XIX secolo e non è stato ancora del tutto risolto. La falda, che affiora a pochi centimetri sotto il pavimento dei sotterranei, è soggetta a oscillazioni in relazione a piogge abbondanti o prolungate: in varie occasioni l’acqua ha invaso i sotterranei.

Il bando per la realizzazione della “nuova” arena scadeva il 1° febbraio: sono stati presentati progetti?

Al bando, pubblicato da Invitalia sul suo sito, hanno aderito 11 società che avevano a disposizione i risultati di una vasta e capillare campagna di indagini condotta dall’amministrazione: scavi archeologici, carotaggi, analisi di laboratorio, rilievi, studi pregressi.

Sotto la sua gestione era stata realizzata una ricostruzione dell’arena molto parziale e “discreta”: potrebbe bastare quella.

Nel 2000 fu inaugurato un terzo del piano dell’arena, ricostruito alla sua quota originaria nell’area in cui non esistono più strutture antiche conservate in altezza. Fu ripristinata, dopo lunghi e attenti studi, la continuità architettonica tra la cavea, la galleria di servizio e l’arena stessa. Molti i soggetti coinvolti nella progettazione, tra cui la facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma, l’Istituto archeologico germanico, la Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma. Sul piano ricostruito sono stati, negli anni, allestiti spettacoli di alto profilo culturale, i cui introiti sono sempre stati devoluti per scopi benefici. Dunque, se si desidera proseguire lungo la linea già segnata, il piano dell’arena attuale lo consente. Analogo discorso vale per i visitatori, che già da vent’anni possono godere dal piano dell’arena della visuale dell’intero monumento nella sua altezza, e viceversa, dal piano attico verso l’arena. I presupposti per una ricostruzione totale sono deboli.

Si può fare ancora qualcosa, a bando partito e domande presentate, per fermare l’operazione?

In qualunque momento la direzione del Parco può annullare il procedimento e il ministero assegnare i fondi ad altri progetti: nel Colosseo sono in attesa di finanziamento molti interventi che consentirebbero restauri, ampliamento dei percorsi del pubblico e miglioramenti del decoro e della funzionalità dell’esterno.

Sarebbe un modo scientificamente più sensato di spendere quei 18 milioni, ma direzione del Parco e ministero torneranno sui loro passi? La risposta soffia nel vento, per dirla con Bob Dylan.

“A 50 anni suonati mi sento una vera scappata di casa con un carciofo in testa”

A volte è più chiara la lettura del corpo delle parole stesse; o la lettura del corpo anticipa di qualche secondo i concetti, che diventano solo una conferma.

Lucrezia Lante della Rovere prima di rispondere arriva a contorcersi sulla sedia, accavalla le gambe, gioca con il maglione, intreccia le braccia, guarda altrove in uno show di mimica rara, di chi soffre a rispondere alle domande (“Non sono in grado, ho sempre dei dubbi”); e così, subito, dopo il garbato benvenuto (“Un caffè? Dell’acqua? Ho preparato il guacamole”), vuoi per prendere tempo, vuoi per un riflesso condizionato forse nato insieme al suo primo vagito, indica un vaso poggiato in cucina, immerso nei fiori, nel punto più luminoso. Sopra il vaso c’è un cappello bordeaux, piccolo, grazioso, con una piuma di lato: “Lì c’è mamma”. In cucina? “Si sieda davanti a lei”.

Bel cappello…

Ne aveva una collezione pazzesca, circa 300, ma li ho venduti quasi tutti, e il ricavato dato in beneficenza alla Fondazione Veronesi, dove si è curata per sedici anni. Umberto è stato un suo grande amico. Poi ci sono le scarpe, peccato che non avevamo lo stesso numero. Che sfiga; (ci pensa) alcune le ho tenute e le ho piazzate in bagno, perché sembrano delle sculture.

Vestiti?

Certo, e li ho divisi con le mie figlie; (sorride) non indosso tutto, aveva un suo stile, ed evito gli abiti troppo eccentrici altrimenti mi sembra di essere lei, e mi fa impressione. Non sto a mio agio: più cresco e più le assomiglio.

Un classico.

Ho passato la vita a dire “mai come lei”, e ora…

Esempio?

In questo periodo vive da me un’amica, che è stata anche amica e vicina di mamma; in continuazione mi segnala: “Sospiri come lei”; oppure “Commentate allo stesso modo”.

Almeno ora ne parla.

Forse perché sto meglio, sono passati anni dalla sua morte e ho imparato che il tempo non leviga, non cancella, aiuta solo a capire come affrontare la quotidianità e a mettere ordine senza il clamore del “tutto e subito”. Poi sono tornata in teatro con un monologo nuovo. (È tra le protagoniste della rassegna Tutta scena in onda su Loft: un lavoro inedito tratto da L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello); un monologo nato e creato dentro questa casa.

“L’uomo dal fiore in bocca” è un uomo…

Il mio personaggio nasce da una didascalia di quel lavoro, è la moglie che sopravvive e deve affrontare il lutto del marito; un coniuge che per tutta l’esistenza ha pure ascoltato filosofeggiare; (cambia tono) la morte è un tema caro a me e Francesco (Zecca, autore e regista teatrale, ndr), anche perché intorno a me sono deceduti tutti, e a chi sopravvive restano dubbi e interrogativi. (Istintivamente riguarda l’urna).

A cosa pensa?

Mamma sosteneva: “Vivere è un atto creativo”; e me lo ha inculcato, in maniera brutale, da subito, sin da quando ero piccolissima, attraverso una metafora: “Inventati la vita, piazzati anche un carciofo in testa, ma fai qualcosa”.

La sua reazione?

Di spavento; comunque alla fine quel concetto l’ho sviluppato attraverso il teatro; se vuole per pranzo ho cucinato proprio i carciofi.

La sua prima volta sul palco.

Alla Ville Vesuviane dopo aver girato Speriamo che sia femmina: entravo in scena e la mia parte si concentrava in una sola frase: “Il pranzo è servito”.

Come ci è arrivata?

Dopo il film di Monicelli girava l’idea che fosse nata un’attrice; in realtà era nata solo un’occasione per me ventenne e siccome mi ritengo una persona seria, ho deciso di imparare, di costruirmi le basi e soprattutto ho iniziato a frequentare il mondo dello spettacolo.

Non lo conosceva già?

No, prima ero una modella, ed ero reduce da qualche dissidio con mia madre.

Cioè?

A 18 anni mi beccò a letto con il mio fidanzato di allora nella casa di campagna dove mi aveva spedito; la sua reazione fu clamorosa, della serie: “Queste sconcezze in casa mia!”. (Sorride) Per fortuna già da tre anni lavoravo come modella, così mi affrancai economicamente.

Sta scherzando?

No, è successo.

Insomma, il mondo dello spettacolo.

Dopo l’esordio sono andata in scena con Pino Quartullo, ma il mio maestro è stato Luca (Barbareschi, ndr): i suoi spettacoli mi hanno formata, anche perché eravamo solo noi due e in tournée molto lunghe. Lui mi ha forgiata. Mi ha rotto le scatole. Obbligata a studiare. L’amore tra di noi è venuto dopo.

Non l’aveva messo in conto?

No, lo giudicavo un uomo pericoloso, poi aveva figli e io mi ero appena separata e con le gemelle.

Perché l’ha scelta?

Sosteneva che avessi un talento naturale, un’emotività lontana dalla preparazione accademica; ricordo le giornate passate con la matita in bocca per ottenere una giusta dizione, gli esercizi per la voce, per la memoria. Io terrorizzata.

Quanto terrorizzata?

Il giorno della prima speravo in un incidente in motorino, o che il mio cane si sentisse poco bene e fossi costretta a portarlo dal veterinario; cercavo una giustificazione inattaccabile per evitare il palco.

E Barbareschi?

Da lui arrivava uno “zitta e cammina”; ma Luca è stato il mio maestro di tutto (ci pensa, sorride e con il sorriso chiede clemenza)… sì, di tutto, in tutto, ma non mi chieda altro. E guai a chi me lo tocca.

La qualità artistica di Barbareschi è stata un po’ sminuita dal personaggio?

Ogni tanto è autolesionista.

Preferisce il palco o la vita?

Il palco; questo lavoro ti insegna a indossare i panni del prossimo, ad avere sguardi diversi, e per questo sarebbe utile insegnarlo nelle scuole.

E il cinema?

Non mi chiamano.

Come mai?

Non lo so, forse non sono facile fisicamente, poi sono sofisticata, impegnativa; (chiude le braccia, posizione a “riccio”) sono tanta; (cambia tono) non me lo sono chiesto più di tanto, poi per anni c’è stato lo snobismo rispetto a chi fa televisione: mi giudicavano impura; infine il cinema è di sei o sette persone, sembra di vedere sempre lo stesso film.

Se ripensa a lei ventenne?

(Apre il cellulare: ha un video di pochi secondi con una sua intervista dell’epoca) Ho mostrato questo filmato alle mie figlie: “Mamma, parlavi pure diversamente”.

Come si giudica?

A me una così starebbe sulle palle, penserei “chi è ’sta stronzetta con la faccia da schiaffi, con il viso un po’ perbenino e l’atteggiamento di chi giudica?”. Ero timida.

È senza pietà.

Un po’ è vero, lo so; ma queste cose le pensavo di me già al tempo. Non mi sono mai detta “poverina”.

Mai?

Sono severa, sono una stronza; (cambia voce e si alza) rivedersi fa impressione, è traumatico.

Se passano un film con lei, cambia canale?

No, ma devo stare da sola (qui si gratta la spalla). Oggi Francesco va a vedere la registrazione dello spettacolo: per me sarà un altro trauma, e di sicuro mi accuserò di aver recitato uno schifo.

Un’occasione in cui si è detta “brava”?

(Scoppia a ridere) Quasi mai.

Su Internet c’è scritto che ha due papi nel suo albero genealogico.

È vero (resta zitta).

Non le interessa.

(Ripete due volte la domanda) Eh, che devo fare, sono morti pure loro.

Se non si chiamano Ratzinger e Bergoglio, non ci sono dubbi.

Sono cresciuta con un padre che ha rifiutato le sue origini aristocratiche e di conseguenza anche io, mentre di solito le famiglie nobili vivono con un forte senso di appartenenza; invece papà, all’anagrafe, si è tolto i suoi cognomi (e inizia a enunciarli, sono veramente tanti). Lui detestava quel mondo, anzi detestava il mondo.

E quindi?

Era mia madre quella affascinata da quel tipo di storia; i miei sostenevano ed esprimevano l’opposto.

Difficile mettere ordine.

Beh, sì; quella si faceva chiamare la duchessa, quell’altro tirava schiaffoni a chiunque provasse ad appellarlo con un titolo.

Dei papi, cosa le è rimasto?

Una sveglia ora piazzata sul camino di campagna; poi un piccolo scrittoio dell’800, ma è stato pignorato per colpa di mamma. Mio padre era squattrinato.

Quanto detesta parlare della sua vita?

È una fatica improba (sorseggia in continuazione acqua, direttamente dalla bottiglia). Vuole mangiare?

Una fatica.

È la mia vita, e per fortuna il lavoro mi consente di mettere tutto dentro.

È ordinata?

No, un grande caos, ma a me serve, amo immaginare.

A 15 anni come “immaginava” il futuro?

L’adolescenza è un periodo pesantissimo.

Si sente una sopravvissuta?

Forse lo siamo tutti, certo sono partita abbastanza incasinata; forse sono sopravvissuta alla mia famiglia, ai miei errori…

Tipo?

Premesso: sono felice così, ma concepire due gemelle a ventun anni, separarmi quasi subito e iniziare la carriera da attrice, non è il massimo; quindi sono sopravvissuta pure alle mie cazzate.

A scuola studiava?

No, avevo la testa in tilt.

È più bella adesso o allora?

Ora mi rode invecchiare; (adesso ripensa a prima) nella mia vita credo di aver mascherato l’ansia con un atteggiamento di strana supponenza, ho lasciato che gli altri derubricassero certe mie manifestazioni dentro a un semplice “a lei non gliene frega niente”.

Distaccata.

Me l’hanno detto tante volte, ed era, ed è, il contrario.

Si vende male.

Per questo soffro nelle interviste.

Perché molti suoi colleghi parlano sempre di depressione?

(Ride) Perché so’ scemi.

Però è così.

La sofferenza fa parte di ognuno, ma la si può vivere anche ridendo, senza salire sul piedistallo.

Curriculum: ha recitato in uno 007.

(Sospira e resta zitta).

Non era un porno.

Ero una comparsa.

Ha ragione, lei si vende male.

Forse avrei dovuto rispondere: è stata un’esperienza pazzesca?

Almeno una parola l’ha pronunciata?

Due, con Giancarlo Giannini che mi massaggiava e Daniel Craig che mi guardava; io buttata lì come una donna oggetto.

Il gossip l’ha subito?

Mi dava fastidio quando ero molto bambina, perché mamma era perennemente fotografata e a lei piaceva. Io stavo a disagio, per questo ho protetto le mie figlie.

E da grande?

Fa parte del gioco.

Tenta la lotteria?

Mai.

Vizio.

Mangio tanta cioccolata.

Scaramanzia.

Appena mi viene la caccio, così chiedo di passarmi il sale, se vedo un gatto nero attraverso, e l’intero repertorio.

Religiosa?

Attraverso il teatro.

Chi è lei?

Un’albicocca; (pausa) sono cocciuta?

Secondo lei?

Un po’, è che temo le domande: me le pongo in continuazione e non ho mai una risposta.

(Canta Francesco Guccini nella “Canzone delle domande consuete”: “Non parlare non dire più niente se puoi, lascia farlo ai tuoi occhi alle mani”)

 

 

Erdogan, nuovi attacchi ai diritti: dalle donne a Gezi Park

Sono scese in piazza in migliaia le donne turche ieri per protestare contro la decisione di Recep Tayyip Erdogan di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne sottoscritta da 31 Paesi nel 2011. Quelle più numerose sono state le manifestazioni di Kadikoy, roccaforte laica sulla sponda asiatica di Istanbul, dove si sono date appuntamento diverse associazioni femministe, Lgbt+ e altri gruppi di opposizione. “Non potrete cancellare in una notte anni di nostre lotte. Ritira la decisione, applica la Convenzione”, hanno intonato le dimostranti al sit-in organizzato dalla piattaforma Fermiamo i femminicidi, che da anni monitora i casi di violenza contro le donne in Turchia. La decisione, che la ministra della Famiglia di Erdogan ha giustificato sostenendo che la Costituzione turca già tutela a sufficienza le donne, secondo il quotidiano filo-governativo Daily Sabah, sarebbe dettata, in realtà, dalla considerazione del presidente turco che “il Trattato mini l’unità della famiglia, incoraggi il divorzio e che sia utilizzato dalla comunità Lgbt per ottenere più ampia accettazione nella società”. Anche la figlia di Erdogan a capo della Ong di donne islamiche ha cambiato linea: “La Convenzione, importante iniziativa per combattere la violenza di genere ora è causa di tensioni”, ha dichiarato in una nota Sumeyye Erdogan, che l’anno scorso invece durante le polemiche sull’ipotesi di un ritiro di Ankara, aveva sostenuto il Trattato internazionale. A proposito di manifestazioni, invece, è sempre di ieri la notizia che l’autorità di gestione di Gezi Park a Istanbul, luogo simbolo delle proteste antigovernative del 2013 e adiacente alla centrale piazza Taksim, è stata tolta al Comune, amministrato dall’opposizione al presidente, e trasferita a una fondazione filo-governativa intitolata al sultano ottomano Beyazit. “L’obiettivo è fermare il progetto di trasformare di nuovo la piazza in un’area verde. Non abbandoneremo la nostra lotta”, ha fatto sapere il Comune che promette ricorsi.

Tigray, lo stupro come rappresaglia

La violenza sessuale come strumento di genocidio. È quello che denunciano medici e testimoni in Etiopia, nella regione settentrionale del Tigray, dove infuria da mesi il conflitto armato tra Fronte popolare di liberazione (Tplf) e governo. Le donne – secondo fonti della Cnn e le cartelle cliniche delle sopravvissute – subiscono stupri di gruppo, vengono drogate e tenute in ostaggio. In un caso, la vagina di una donna era piena di pietre, chiodi e plastica, secondo la testimonianza del medico che l’ha curata. In tutto sono 22 al giorno le vittime della furia delle truppe etiopi, ma anche delle eritree che partecipano alla campagna militare dalla parte governativa, e sono nove i medici del campo profughi sudanese che hanno lanciato l’allarme sull’aumento dei casi di violenza sessuale da quando il primo ministro Abiy Ahmed ha lanciato l’operazione militare contro i leader del Tigray. “Mi ha spinto e ha detto: ‘Voi tigrini non avete storia, non avete cultura. Posso farti ciò che voglio e a nessuno importa’”, è il racconto di una delle sopravvissute, ora incinta, che come decine di sue concittadine ha dichiarato che quella dei militari è una missione punitiva. Secondo le donne violentate, l’obiettivo degli stupratori è “cambiare la loro identità”, “purificarle” dal loro status di tigrine. Questo orrore si aggiunge alla morte di migliaia di civili nel conflitto, esecuzioni sommarie, aggressioni e violazioni dei diritti umani. Dopo le denunce di Amnesty International, le nuove rivelazioni arrivano nel momento in cui Joe Biden ha inviato il senatore Chris Coons a incontrare il presidente Abiy per trasmettergli le sue “preoccupazioni sulla crisi umanitaria e le violazioni dei diritti nella regione”, e il Dipartimento di Stato ha chiesto un’indagine sulle atrocità commesse durante gli scontri. Ma capire cosa stia realmente accadendo non è facile: il governo etiope ha limitato l’ingresso ai giornalisti fino a qualche settimana fa. Solo ora stanno venendo fuori testimonianze atroci, come quella di una donna catturata e stuprata insieme ad altre cinque da un gruppo di 30 soldati eritrei che ridevano e scattavano foto. Quando ha cercato di scappare è stata catturata, drogata, legata a una roccia, spogliata, accoltellata e violentata per 10 giorni. Le donne vengono ricoverate all’Ayder Referral Hospital, principale struttura medica del capoluogo, Mekelle. Ma l’accesso alle cure è difficile, dato che i combattimenti non risparmiano le strutture sanitarie. Poi c’è lo stigma della violenza che frena molte donne dal denunciare. Eppure sono già 136 i casi di stupro segnalati negli ospedali: l’età delle vittime va dagli 8 ai 60 anni.

“Dbeibah mira alla stabilità più che alla democrazia: e ai libici va bene”

Hala Bugaighis è la fondatrice nel 2015 del Jusoor Center for Studies and Development specializzato in sviluppo economico con un focus sulla prospettiva femminile. È rappresentante del Women’s Empower Women Global Program dell’Onu e mentore di imprenditrici libiche. Ci risponde da Tripoli.

Qual è il clima, quali le aspettative per il governo di transizione?

C’è un grande sollievo per avere finalmente un governo unitario, dopo tanti anni di guerra. Ma le sfide sono enormi e il tempo prima delle elezioni poco, solo 9 mesi. È presto per giudicare.

Cosa si può dedurre intanto dalla composizione di questo esecutivo?

Che non aveva scelta: per ottenere l’approvazione del Parlamento, e quindi la legittimità politica, è stato strutturato per rappresentare e compiacere un po’ tutte le fazioni: le tribù principali, le potenze straniere, le milizie e gli uomini forti dell’est. Di conseguenza è tenuto insieme da equilibri e compromessi delicati. Al momento c’è una sorta di mercato delle vacche, in cui tutti cercano di mettere le mani su contratti pubblici o poltrone.

Che impatto avrebbe una condanna delle Nazioni Unite che indagano sulle accuse di corruzione che avrebbe portato al governo il premier Dbeibah?

Le accuse lo riguardano indirettamente tramite il presunto coinvolgimento di un suo cugino e collaboratore e, lo dico da avvocato, sono molto difficili da provare. Con lui cadrebbero decine di membri del Libyan Political Dialogue Forum che lo hanno sostenuto, in una valanga che travolgerebbe la legittimità dell’intero processo di pace. Infatti durante le fasi del voto di fiducia nemmeno un parlamentare ha fatto domande sulle presunte mazzette.

Chi è Dbeibah?

Un uomo abile, potente sotto il regime di Gheddafi ma anche attivo dietro le quinte nella politica libica fin dal 2014. Credo che voglia davvero essere visto come il riunificatore e pacificatore della Libia. Ma penso che con lui lo scenario più probabile sia di stabilità senza democrazia. Del resto oggi nessun libico ti dirà più che vuole la democrazia o la libertà di parola. La gente vuole stabilità, soldi in banca, prezzi equi, anche a costo di sacrificare certi diritti. Il riferimento è sempre Gheddafi, più progressista, ma che come lui sappia tenere insieme le tribù e garantire l’unità del Paese. Un dittatore illuminato, lo chiamiamo qui. Abbiamo enormi ricchezze e potenzialità, l’occasione di ricostruire da zero, ma ci servono tre cose: determinazione, visione e la fine della corruzione. E la corruzione è assolutamente endemica. Dbeibah ha piani fin troppo ambiziosi, sviluppo, riforma dell’istruzione, lavoro per i giovani, per realizzarli. Solo per avviare quelle riforme ci vogliono 5 anni. Penso che per non fallire l’obiettivo delle elezioni si metterà d’accordo con i principali gruppi armati.

Presidente e primo ministro di questo governo però sono tenuti a cedere il potere dopo le elezioni…

Infatti già si parla di rimandarle di uno o due anni, con la giustificazione legale che il Parlamento, secondo la Costituzione, non è legato alla roadmap uscita dal processo di pace, che formalmente ha legittimità internazionale ma non interna.

Com’è cambiato il ruolo dei molti attori esterni?

Il presidente Biden ha mandato un messaggio forte di sostegno alla transizione e questo ha modificato l’approccio di Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, che sono tornati a dialogare. Dal governo l’Italia è vista come buon alleato, che non ha mai abbandonato il Paese. Tutti gli attori esterni, inclusa la Russia, sono al tavolo delle spoglie, in cerca di affari.

Quale può essere il ruolo delle donne?

Mentre gli uomini erano in guerra le donne hanno avuto accesso a settori prima preclusi. La società libica è patriarcale e ci vorrà molto tempo per modernizzarla, ma sono fiduciosa.

Usa, sul clima troppe chiacchiere

Greta Thunberg e gli studenti dei ‘Fridays for Future’ in giro per il mondo mettono sulla graticola Joe Biden: il presidente degli Stati Uniti non fa abbastanza per contrastare il riscaldamento globale; il suo folto – forse troppo – team verde non produce ancora i risultati sperati. Critiche impazienti? Biden ha riportato gli Usa negli Accordi di Parigi, come aveva promesso; e ha già varato una serie di decreti per abbassare la temperatura globale di almeno 1,5/2 gradi centigradi. Inoltre, deve riparare i danni fatti in quattro anni dal suo predecessore, trovando, talora, chi gli mette bastoni tra le ruote: la magistratura, per l’oleodotto Keystone: o gli Stati repubblicani, 12 dei quali gli contestano l’autorità di fissare nuove regole sulle emissioni.

Due giorni fa, Fridays for Future è tornato a manifestare, i giovani si sono ritrovati in 802 città di 62 paesi, per la Giornata mondiale di azione per il Clima. Lo slogan è stato esplicito: “No more empty promises”, basta promesse a vuoto. “Fissano obiettivi di riduzione delle emissioni da raggiungere tra 20 o 30 anni – scrive Fridays for Future in un comunicato – e promettono che, in un lontano futuro, faranno qualcosa per contrastare la crisi climatica. Ma queste promesse vuote non servono a nulla, perché non si può scendere a patti con le leggi della fisica. Abbiamo bisogno di azioni immediate e concrete”. Qualche giorno prima, in una intervista alla MsNbc, Greta Thunberg aveva lanciato un monito e un appello a Biden, in vista del vertice sul clima che lui ospiterà il 22 aprile, nella Giornata della Terra, per rilanciare gli Accordi di Parigi: “La crisi del cambiamento climatico va trattata come una crisi, non come se fosse una questione fra le tante”.

Non vi è dubbio che i temi sull’agenda di Biden siano parecchi: la pandemia da debellare e l’economia da rilanciare (due punti su cui s’è portato avanti, con 100 milioni di vaccini fatti e 1.900 miliardi – noi diremmo – di ristori alias sostegni); e ancora i migranti, i diritti dei lavoratori, le diseguaglianze di genere e razziali, l’accesso al voto, la riforma della polizia, il processo in corso per l’uccisione di George Floyd. Come se non bastasse, Biden s’è pure messo di buzzo buono a litigare con Russia e Cina. E, esausto, ha finito per inciampare sulla scaletta dell’Air Force One.

Certo, non deve fare tutto lui. Ha una squadra forte e super-politicamente corretta: il volto più noto è quello di John Kerry, inviato speciale per il clima: 77 anni, ex candidato democratico a Usa 2004, ex senatore, ex segretario di Stato dal 2013 al 2017, l’establishment, ma anche l’autorevolezza, fatti persona. Kerry deve però coordinarsi con la ‘zarina’ del clima alla Casa Bianca: Gina McCarthy, 66 anni, già architetto delle politiche sull’ambiente di Obama all’Epa, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente. La priorità della McCarthy è rendere realizzabili le promesse elettorali di Biden, la carbon neutrality entro il 2050 e un settore elettrico senza emissioni inquinanti entro il 2035. E tutti e due devono confrontarsi con l’amministratore dell’Epa, Michael S. Reagan, 45 anni, tecnico del settore, e coi ministri dell’Energia, Jennifer Granholm, 61 anni, ex governatore del Michigan, e dell’Interno, Deb Haaland, 60 anni, la prima nativa americana – è dei Laguna Pueblo – a diventare ministro, dopo essere stata nel 2018 la prima eletta deputata. Due uomini e tre donne, due politici e tre tecnico-attivisti, tre bianchi, un nero e una nativa: il ‘mix’ è quasi perfetto, resta da vedere se sarà efficace.

Le critiche s’appuntano su Kerry, che sarebbe il ‘chi l’ha visto’ di questi primi due mesi dell’Amministrazione Biden. Kerry a modo suo s’è dato da fare: il 21 gennaio, primo giorno di lavoro del nuovo team, diceva, intervenendo virtualmente a una conferenza di Confindustria, che “non c’è tempo da perdere nell’affrontare il cambiamento climatico”. L’ex segretario di Stato ha avuto decine di incontri e contatti, con l’Ue e con la Nato e i singoli Paesi alleati, con l’Onu e la Gran Bretagna, con la Russia e la Cina, con il Brasile e l’Argentina, ma – certo – di concreto ha finora fatto poco. Guardando alla conferenza di Glasgow, la Cop 26, a inizio del prossimo novembre, per cui – dice – “il fallimento non è un’opzione”, ha fatto sapere che gli Stati Uniti sveleranno i loro obiettivi entro il 22 aprile.

Che cosa s’aspetta Greta dallo ‘zio Joe’, per cui fece campagna, invitando i suoi followers a farla finita con Trump che l’aveva più volte derisa e aveva sempre ignorato le indicazioni della scienza? La diciottenne chiede un cambio di marcia: “Non basta dire ‘ci impegniamo’”. Greta non usa i toni dell’atto di accusa ai leader mondiali del settembre 2019 dal palco delle Nazioni Unite. Ma il senso del messaggio è chiaro: bisogna fare di più. Kerry sottoscrive: il 2020-2030 deve essere “il decennio dell’azione” sul clima, coordinando l’operato di Usa e Ue e coinvolgendo la Cina.

“Quel giorno che salvai gli elenchi P2 dall’oblio”

La notte prima non dormì affatto bene, era molto agitato Francesco Carluccio: l’indomani, il 17 marzo 1981, avrebbe dovuto dirigere una perquisizione a Castiglion Fibocchi, negli uffici di Licio Gelli, un nome che continuava a saltar fuori nell’inchiesta milanese per la bancarotta di Michele Sindona. Forse l’allora maresciallo maggiore Carluccio, oggi energico e gentile ottantaquattrenne, sentiva nell’aria che non sarebbe stata una giornata come le altre: sarà perché tutto era partito in grande segreto.

Gli ordini gli erano stati dati in una busta chiusa con la raccomandazione di aprirla solo poco prima che tutto avesse inizio e poi quelle parole del suo superiore: “Vai e telefona solo se necessario”, dice oggi Carluccio che dopo tanto tempo ha deciso di ricordare per la prima volta con Il Fatto quella storica giornata. Discreto, riservato, anche un po’ timido, Francesco Carluccio non ha mai voluto fare interviste prima d’ora: “Sono amico di molti giornalisti, ho passato tantissimi anni alla Procura di Milano come ufficiale di polizia giudiziaria, ma il mio lavoro richiede riservatezza”, e già così dice tutto di sé.

Fieramente salentino, nato a Otranto, Carluccio capì da quel consiglio del suo superiore che il telefono degli uffici da perquisire era tutto un via vai. “Il fatto è che non c’erano mica i telefonini. Fui costretto ad alzare la cornetta durante la perquisizione perché c’era una cassaforte senza chiavi. Che fare? Mi dissero di sigillarla, e così avrei fatto se non mi fossi accorto che la signora Carla Venturi, la segretaria del ‘commendatore’, borsetta in mano, trafficava con un signore, proprio sotto i nostri occhi. Le avevo chiesto la chiave di quella benedetta cassaforte ma lei aveva detto per due volte di non averla: forse non avrei insistito se non avessi visto quella scena. Mi avvicinai e la chiave passò dalla sua mano alla mia, invece che in quella del suo collega”. Mentre parla Carluccio ripensa al quel momento con ansia: “Si rende conto? se avessi sigillato tutto avrebbero fatto sparire gli elenchi della P2!”. Ah sì, non ho dubbi maggiore, non li avrebbero lasciati lì!

Come capì che aveva a che fare con roba grossa?

“Prima di arrivare alla cassaforte, su alcune buste che avevo trovato dentro una valigia accanto alla scrivania di Gelli lessi riferimenti al gruppo Rizzoli, a Tassan Din (direttore della Rizzoli) a Rizzoli/Calvi a Rizzoli/Caracciolo/Scalfari e cominciai ad agitarmi, pensando agli sfoghi del nostro amico Romano Cantore che seguiva per Panorama lo scandalo Sindona e con il quale ci ritrovavamo spesso a commentare le notizie del giorno: Tassan Din, la massoneria, Gelli, Calvi stanno dando l’assalto al Corriere! È gravissimo che l’informazione sia attaccata così: ecco, cominciavo a capire meglio… Poi quando aprii lo sportello della cassaforte non ci volle molto a mettere a fuoco, tanti fogli con i nomi di tutta la gente che contava, a partire dall’intero vertice della Guardia di Finanza, il mio corpo di appartenenza, numero di iscrizione. E poi una cosa che ancora oggi mi inquieta. Il testo del giuramento massonico”.

Perché la inquieta?

“Non so ripeterle ora le parole, ma erano lapidarie, stabilivano un rapporto di assoluta riservatezza e fiducia tra gli affiliati alla loggia. Pensai ad una sorta di vincolo indissolubile, incancellabile”. Naturalmente quella mattina non immaginava che si sarebbe imbattuto in una storia di massoni, nella P2 … “Avevo sentito spesso il nome di Gelli ma non sapevo cosa fosse la P2. Visto il calibro di quei nomi mi decisi a usare di nuovo quel telefono: ‘Colonnello, per favore venga qui, è meglio se c’è anche lei’ e Bianchi mi rispose in un modo che ancora oggi mi colpisce: ‘Carluccio, non si preoccupi, tra poco arrivo, intanto lei agisca secondo la sua coscienza’. Cioè non mi disse ‘fai il tuo dovere’, si appellò ad una sfera superiore, è una cosa alla quale penso spesso”. E non esito a crederlo.

Sconosciuto al grande pubblico, dobbiamo a Francesco Carluccio, “ma non solo a me, eravamo una squadra”, tiene a dire, il ritrovamento degli elenchi della P2 che svelarono un sistema di potere occulto che un pezzo dello Stato aveva accolto, e forse mai espulso. Carluccio è un uomo dello Stato. Perché c’erano quelli della P2, furbi, reazionari, avidi, fascisti o solo in cerca di fortuna. Ma c’erano quelli come lui, quelli che sceglievano di stare dall’altra parte.