Il fiore della principessa, il villano, il brigante, il lupo. E il dubbio finale

Dai racconti apocrifi di Gustave Aimard. La Francia era stata pacificata da poco quando un rigattiere protestante di Wassy trovò nel cassetto segreto di uno scrittoio un gioiello molto prezioso, e decise di donarlo al re, Enrico IV, per ringraziarlo dell’editto di Nantes. Fece il viaggio in carrozza con quattro gentiluomini che volevano proporsi a corte. Si appisolò, e quando il re aprì il cofanetto ricevuto, il gioiello era scomparso. Il rigattiere, sbigottito, raccontò dei quattro che erano con lui. La regina, che era scaltra, disse: “Voglio interrogarli io.” E a quelli disse: “In un libro antico ho letto una fiaba. Aiutatemi a risolverne l’enigma. C’era un re che aveva una figlia bellissima. Un giorno, mentre era in giardino con le sue ancelle, la ragazza vide che la prima rosa della stagione era sbocciata: il sole la faceva brillare in un cespuglio remoto, a loro inaccessibile. Allora chiese a un villano di passaggio che la cogliesse per lei: ‘Potrai domandarmi in cambio ciò che vuoi, poiché così vuole la tradizione.’ Quello gliela consegnò, e non avendola riconosciuta le disse: ‘Desidero che la tua prima notte di nozze la passi con me, in modo che io possa cogliere il tuo fiore prima di tuo marito.’ La ragazza non poté che acconsentire, per non attirarsi la maledizione della prima rosa. La notte di nozze, disse al marito: ‘Ho fatto un voto. Finché non avrò mantenuto la mia parola, non potrò concedermi a te.’ Il povero sposo non poté fare altro che sospirare e acconsentire. Mentre si dirigeva da sola al tugurio del villano, lungo il sentiero nel bosco la principessa incontrò un lupo affamato. Gli disse: ‘Ho fatto una promessa a un villico. Permettimi di mantenere la mia parola, dopodiché tornerò qui e potrai divorarmi.’ Il lupo acconsentì. Poco più avanti, un brigante fu stupito nel vedere una ragazza così bella avanzare da quelle parti in abito nuziale, scintillante di gioielli. Le si parò dinanzi con l’intenzione di derubarla. Lei gli disse: ‘Ho fatto un voto. Lascia che mantenga la mia parola: ti prometto che tornerò qui e ti darò tutti i miei gioielli.’ Il brigante acconsentì. Finalmente, arrivò al miserabile tugurio del villano. ‘Eccomi qui, pronta a ripagare il mio debito.’ Al vederla, quello la riconobbe, e intimorito dal suo splendore si inginocchiò, e le disse: ‘Quel giorno fui accecato dal mio desiderio, dal mio orgoglio e dalla mia stupidità. Mi perdoni, Altezza, se può.’ La principessa tornò dunque sui suoi passi fino a dove il brigante la stava aspettando. Gli raccontò cos’era appena successo. Il brigante allora disse: ‘Bè, se un villano si è comportato in modo così cavalleresco, come posso io, un uomo libero, essere da meno?’ E la lasciò passare. La principessa raccontò la sua storia al lupo affamato: anche lui si fece da parte. Radiosa, tornò dal marito, il quale fu molto contento di vedere che le sue preghiere erano state esaudite. Ora, amici miei, vorrei sapere da voi quale dei quattro fu il più generoso di tutti: lo sposo, il lupo, il brigante o il villano?” Il primo disse: “Il lupo, che ha rinunciato al suo pasto.” Il secondo disse: “Lo sposo, che ha rinunciato al suo diritto.” Il terzo disse: “Il brigante, che ha rinunciato a tutta quella ricchezza.” E il quarto disse: “Il villano, che ha rinunciato all’occasione di una vita.” La regina andò dal marito con la sentenza: “Quello che ha scelto il lupo è un goloso, e quello che ha scelto lo sposo non ha alcun senso dell’onore: sono entrambi indegni di servire un re. Quello che ha scelto il brigante è il ladro. Di sicuro gli troverai il gioiello addosso.” “E quello che ha scelto il villano?” domandò il re. “Quello è preda della libidine” rispose la regina. “Tienilo lontano dalle tue amanti.”

 

La torcida dei giornali: “Da lui parole di verità”

Era adorabile quando taceva, figuratevi ora che parla. La conferenza stampa di venerdì sera del premier Mario Draghi è stata convincente, per tanti giornalisti quasi un’esperienza mistica. Il giorno dopo sui quotidiani italiani è una grande torcida, un boato da stadio latino-americano. Qualcuno, con scarso senso del ridicolo, si è complimentato per il superbo standing di Draghi definendolo “molto poco italiano”, senza sapere di aver fatto il verso al leggendario Stanis La Rochelle, l’attore mitomane di Boris. La sbornia è grande: le groupies del premier hanno appena assistito al più bel concerto della loro vita.

Repubblica. Titolo sobrio: “Concretezza, emozione, zero retorica. Sugli schermi il format della verità”. Incipit adorante: “Il format Salva Italia è al tempo stesso modesto e superbo. È quello di un premier che parla ai cittadini senza enfasi e senza retorica, ma con la serena concretezza di chi è abituato a trovare soluzioni, non a conquistare consensi. E ascoltandolo capisci che quest’uomo, Mario Draghi, ti sta dicendo la verità, e quando non sa qualcosa lo dice chiaro e tondo”.

La Stampa. Titolo dell’editoriale in prima pagina: “Pragmatismo di governo”. Draghi si innalza molto al di sopra delle miserie della politica italiana: “Delle sue risposte, colpiva lo stile assolutamente freddo, pragmatico, rivendicato più volte. E lo statement di chi si può consentire di parlare spesso al telefono con Von der Leyen e Merkel, concordando in alcuni casi e in altri dissentendo, quand’è necessario”.

Huffington Post. Il titolo pare quasi polemico (“Draghi, la maledizione delle tenebre”) ma è un abbaglio, subito chiarito nel catenaccio: “I partiti ci riprovano con le sabbie mobili, ma Draghi segna un cambio di passo: conferenza stampa in stile europeo, parole di verità. Il cemento è lui”. Parole di verità! “La differenza, rispetto al noto format, è proprio Draghi che, col favor delle tenebre, tiene, semplicemente, una conferenza stampa in stile europeo, non una filippica sudamericana. Sobrio, asciutto, senza blabla e latinorum da azzeccagarbugli a favor di sondaggio, lascia parlare i ministri, risponde in tempi, appunto, europei. Con competenza tecnica, ma anche con una certa abilità tutta politica nella ricerca di una ‘connessione’ con l’opinione pubblica”. Un fenomeno: “Breve e chiaro, in fondo molto poco italiano nella scelta di un registro icastico nel paese del melodramma. Funziona perché Draghi è così, non fa così su suggerimento degli spin doctor”.

Corriere della Sera. “Un trauma salutare”. Cin cin. “La conferenza stampa poteva finire per accreditare l’idea di continuità con un passato caotico”. Giammai. “Ma questa immagine distorta è stata corretta in un’ora di risposte su tutto, dai vaccini al Quirinale, ai rapporti con le Regioni e con la Commissione europea. Risposte rapide, nette, a domande tutt’altro che addomesticate”. Dieci e lode: “La sensazione complessiva è stata quella di una persona molto sicura di sé e di quello che deve fare; e anche per questo in grado di trasmettere fiducia a un’Italia che la miscela di crisi economica e pandemia rende spaventata e disorientata”.

Il Foglio. Condonao meravigliao: “Svolta da seguire di Draghi: usare i condoni per denunciare le inefficienze dello Stato”. Massimi sistemi: il pubblico è brutto e cattivo, il privato che evade va ricompensato, ma per educarlo. Il Draghi del Foglio è un visionario: “Occorre provare a cambiare paradigma e provare a parlare non tanto della furbizia degli italiani, quanto del fallimento dello stato (…). Lo stato si mette a nudo ma non per farsi fregare: solo per provare a migliorare”. Come no.

Dopo Wirecard, c’è Greensill: il crac tedesco fa tremare Londra

Sono bastati 9 anni a Lex Greensill per costruire una società da 7 miliardi di dollari. Mettendo a garanzia la fattoria di famiglia, con l’esperienza maturata in JPMorgan Chase e Citigroup, ha fondato nel 2011 la Greensill Capital con base in Australia. Stando ai dati diffusi dalla società, nel 2019 il gruppo aveva offerto finanziamenti a più di 10 milioni di clienti in 175 Paesi per circa 143 miliardi di dollari.

L’attività è quella del cosiddetto supply chain finance, in pratica il factoring dei crediti commerciali delle aziende. Una volta acquisiti i crediti Greensill procede poi a ricollocarli presso fondi d’investimento esterni, oppure li trattiene creando prodotti finanziari propri da offrire alla clientela. Da una parte quindi le aziende che cedono i propri crediti a breve termine a fronte di liquidità, dall’altra fondi d’investimento e depositanti che cedono liquidità per avere forme di investimento relativamente sicure, a breve scadenza e buon rendimento. Greensill nel mezzo a gestire l’incontro tra le due parti, valutare e impacchettare i crediti secondo i profili di rischio, ottenere un minimo margine che nel 2019 le ha permesso di superare i 500 milioni di dollari di fatturato.

Tutto però precipita all’inizio di questo mese, quando la principale società che si occupava di garantire i crediti acquisiti da Greensill decide di porre fine alla propria collaborazione valutando eccessivi i rischi assunti. La copertura assicurativa era infatti essenziale per poter garantire la solidità dei prodotti finanziari offerti ai clienti. Da quel momento la valanga.

Credit Suisse, che gestiva un fondo da 10 miliardi di dollari investiti in prodotti di Greensill, ha deciso di bloccare gli investimenti del fondo e porlo in liquidazione. Greensill Capital ha fatto istanza al tribunale di Londra per esser messa in amministrazione straordinaria e sospendere il pagamento di un prestito da 140 milioni di dollari ricevuto pochi mesi prima da Credit Suisse. Il 3 marzo Bafin, l’ente regolatore e di supervisione del sistema finanziario tedesco, ha tolto la licenza bancaria alla tedesca Greensill Bank e la scorsa settimana ne ha chiesto la formale insolvenza. La banca ha depositi dei tedeschi per circa 3,5 miliardi di euro. Una parte di essi, circa 500 milioni di euro, sono depositi di alcune principali amministrazioni locali della Germania, che non essendo coperti dall’assicurazione sui depositi andranno completamente persi. L’altra parte invece, essendo coperta dal fondo di garanzia dei depositi, ha contribuito ad alimentare la polemica sul ruolo che le piattaforme fintech di comparazione dei depositi bancari stanno avendo nello sfruttare la garanzia dei depositi per porre a carico di tutto il sistema i rischi assunti dalle banche più aggressive.

Dopo lo scandalo Wirecard, con i circa 2 miliardi di depositi fantasma e le centinaia di migliaia di carte prepagate bloccate dai sistemi di vigilanza di mezza Europa, un nuovo pezzo del settore fintech si trova sotto l’occhio del ciclone. Polemiche e perdite finanziarie legate al fallimento di Greensill non riguardano però solo la Germania. Nel Regno Unito l’affare è ancora più grande perché si lega a doppio filo a quello della GFG Alliance, guidata dal magnate indiano Sanjeev Gupta, che possiede tra le altre cose 13 acciaierie nel Regno Unito che impiegano 5.000 persone. In una lettera riservata degli inizi di febbraio, GFG aveva annunciato a Greensill che se non fossero state rinnovate le linee di finanziamento in essere (per circa 5 miliardi di dollari) si sarebbe trovata in una situazione di insolvenza. Con l’arrivo della tempesta all’inizio di marzo GFG ha sospeso tutti i pagamenti e non è ancora chiaro come finirà: si stima che il costo per il Tesoro britannico possa raggiungere il miliardo di dollari, a causa dei prestiti garantiti dallo Stato che GFG Alliance ha potuto ricevere.

Anche per l’Italia ci potrebbe essere un costo, perché una controllata italiana di GFG, la Liberty Magona S.r.l. di Piombino, aveva ottenuto nell’agosto scorso un finanziamento da Greensill Bank di 86 milioni di euro, garantito da SACE, nell’ambito delle garanzie Covid.

Nel Regno Unito la vicenda sta avendo anche rilevanza politica, perché è arrivata a riguardare direttamente l’ex premier David Cameron, che dal 2018 è consigliere del gruppo Greensill, e l’attuale premier Boris Johnson. Stando alle ultime rivelazioni del Financial Times, Cameron si sarebbe direttamente interessato presso il Tesoro ed il capo di governo per fare in modo che Greensill Capital potesse ricevere un ampio finanziamento garantito dal governo nell’ambito dello schema per l’emergenza Covid. Un finanziamento che avrebbe salvato la società finanziaria dal collasso, ma che non era ancora stato autorizzato. Il finanziamento poi non è arrivato perché la società non rispettava i requisiti necessari.

Non è chiaro ancora quanto questo nuovo scandalo finanziario possa estendersi e se rimarrà confinato in Germania e Regno Unito, dove Greensill ha i principali interessi. Le società che facevano affidamento sulla compagnia australiana per finanziare il proprio capitale circolante dovranno trovare presto delle soluzioni alternative. Quelle che non ci riusciranno potranno presto far compagnia a GFG Alliance nell’annunciare l’impossibilità a ripagare i debiti e contagiare altre parti del sistema finanziario. Rimane da scoprire quanto è grande ancora il buco.

In tutto questo c’è una grande società finanziaria giapponese, la SoftBank Group, il cui nome negli ultimi anni è passato da un fallimento ad un altro. Prima la mancata Ipo di WeWork nel 2019 e il rischio di default che ancora incombe sulla società, poi lo scandalo Wirecard e adesso Greensill. Tutte società che fanno parte del colosso finanziario giapponese che, indenne, continua tramite i propri fondi Vision a raccogliere miliardi e fiducia sui mercati internazionali.

Cibi adulterati, riecco le sanzioni: “Sventato il blitz”

Marcia indietro del governo talmente veloce da far sbandare ben tre ministeri (Giustizia, Salute e Politiche agricole) e la Conferenza Stato-Regioni pur di bloccare una delle più sconcertanti depenalizzazioni attuate negli ultimi anni: quella sui reati alimentari, dalla sofisticazione alla truffa vera e propria, fino all’adulterazione di cibi e bevande utilizzati nella loro preparazione. Così, per mettere una toppa, nel Consiglio dei ministri dell’altro ieri, oltre al dl Sostegni, è stato approvato – su proposta del premier Mario Draghi e della Guardasigilli Marta Cartabia – un decreto legge per stoppare l’entrata in vigore del decreto legislativo che – come ha denunciato il Fatto – dal prossimo 26 marzo avrebbe abrogato tutte le disposizioni della legge Alimenti del 1962 che fino a oggi hanno tutelato, con sanzioni penali (arresto o ammenda), la salute degli italiani attraverso gli organismi di controllo (dai Nas fino all’Ispettorato antifrodi). “Insomma, si è rimediato a un grave errore, è stato sventato un duro colpo alla sicurezza alimentare”, commenta la senatrice di Leu Loredana De Petris, la quale fa suo l’interrogativo posto dall’ex ministro dell’Agricoltura Alfonso Pecoraro Scanio: “Ma di chi è l’ennesima manina che ha tentato il blitz a favore degli adulteratori?”.

Riavvolgiamo il nastro. L’11 marzo viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo dove compare una strana disposizione che non c’era nel testo trasmesso dal governo Conte al Parlamento, ma che “spunta” poi sul tavolo della Conferenza Stato-Regioni. Un meccanismo assai diabolico, si potrebbe pensare, che ha consentito di non far passare più il testo modificato neanche per le Commissioni competenti, ma di farlo andare direttamente in Gazzetta. “È necessario verificare eventuali irregolarità nella gestione dei documenti e aprire un’indagine nei confronti degli eventuali responsabili”, chiede Dario Dongo, esperto in diritto agro-alimentare e fondatore di greatitalianfoodtrade.it. Intanto a defilarsi sono i ministeri della Salute, che aveva la competenza del provvedimento, e quello delle Politiche agricole cui spetta “la tutela della qualità e della salubrità degli alimenti e il contrasto alle pratiche sleali”, nonché l’aumento dei controlli antifrode.

Ad aver denunciato la vicenda sono stati numerosi magistrati (in primis Raffaele Guariniello) e, addirittura, il 17 marzo, l’ufficio del Massimario della Cassazione che ha messo in risalto l’assurdità e la pericolosità dell’abrogazione evidenziando, comunque, la totale illegittimità costituzionale dell’abrogazione per eccesso di delega da parte del governo con il rischio di un suo annullamento da parte della Corte costituzionale. Iter a cui non si è poi arrivati per l’intervento tempestivo del Cdm dell’altro ieri che ha di fatto abrogato queste disposizioni prima ancora della loro entrata in vigore grazie a un decreto legge del ministero della Giustizia, senza nessuna opposizione degli altri ministeri coinvolti, rafforzando così l’incertezza sull’autore di questa bella trovata. “Questa storia ora dovrebbe spingere il governo ad approvare le nuove norme in materia di reati agroalimentari presentate dalla commissione presieduta dal magistrato Gian Carlo Caselli, che aggiornerebbero tra l’altro il quadro sanzionatorio per i reati alimentari fermo al ‘62 e quello sulle nuove sofisticazioni che hanno assaltato il Made in Italy”, auspica la De Petris.

Guerra di nervi all’Ilva: i Mittal vogliono i soldi, Draghi aspetta

Fermiamo gli impianti, anzi no. ArcelorMittal Italia ieri è stata protagonista di uno strano balletto che è parte della guerra di nervi in corso tra il colosso dell’acciaio e lo Stato sul futuro del gruppo siderurgico che fu dei Riva: in sostanza la multinazionale prova, spaventando i lavoratori, a trascinare i sindacati e almeno un pezzo della politica locale dalla sua parte, trasformandoli in strumenti di pressione sul governo e su Invitalia.

I fatti sono questi. Una comunicazione dell’azienda agli operai e ai sindacati era arrivata venerdì sera: Acciaieria 1 e Treno Nastri 2 dell’ex Ilva di Taranto non ripartiranno, come era invece previsto ieri, e di conseguenza verranno messi in cassa integrazione altri 250 lavoratori delle aree magazzini e officine. Nella mattinata di ieri era arrivata anche una nota ufficiale: “Aminvestco è costretta ad annunciare una riduzione dei suoi livelli di produzione e un rallentamento temporaneo dei suoi piani di investimento. Queste misure saranno in vigore fintanto che Invitalia non adempierà agli impegni presi (…) Nonostante la natura vincolante dell’accordo, ad oggi Invitalia non ha ancora sottoscritto e versato la sua quota di capitale e quindi non ha adempiuto agli obblighi previsti. Questo sta seriamente compromettendo la sostenibilità e le prospettive dell’azienda e dei suoi dipendenti”.

A metà pomeriggio, il contrordine: il Treno Nastri 2 ripartirà subito e verrà anche richiamato in servizio il personale dell’Acciaieria 1, mentre i reparti Pla/2 (Produzione Lamiere) e Tubificio Erw “sono attualmente fermi – hanno spiegato i sindacati – e sarà valutata dall’azienda, nei prossimi giorni, la possibile ripartenza”. La mossa ha dato i suoi frutti. Dice la segretaria della Fiom, Francesca Re David: “A Taranto c’è una situazione di caos senza precedenti, resta urgentissimo un intervento del presidente Mario Draghi”. “Non sappiamo precisamente cosa sia accaduto, ma il passo indietro di ArcelorMittal nel totale e assordante silenzio del governo ci lascia basiti”, le fa eco Rocco Palombella della Uilm. “Il ministro Giorgetti risponda”, intima la deputata di FI Vincenza Labriola.

I Mittal evidentemente sono nervosi: bloccati in Italia, Paese che volevano lasciare già nel 2019, sono preoccupati che il governo non voglia dare corso all’accordo firmato il 10 dicembre scorso. In base a quell’intesa tra la multinazionale dell’acciaio e Invitalia – che chiudeva un paio d’anni di guerra legale – la società pubblica guidata dall’ex commissario all’emergenza Covid Domenico Arcuri avrebbe dovuto versare 400 milioni ad Arcelor entro il 5 febbraio ottenendo in cambio il 50% dei diritti di voto (per poi salire ancora nel 2022 con altri 600 milioni e dispari): quei soldi non sono mai stati bonificati e da 40 giorni va avanti invece un fitto scambio di lettere sempre più minacciose in cui la multinazionale minaccia di ricorrere a un arbitrato internazionale contro quella che giudicano una inadempienza contrattuale.

Perché quei soldi non sono stati versati? In queste settimane si è parlato sui media della possibilità che il governo Draghi non fosse dell’idea di procedere col piano elaborato dal precedente esecutivo, nonostante all’operazione sia arrivato anche il semaforo verde della Commissione europea. In realtà, a quanto risulta al Fatto, non c’è alcun ripensamento di merito: il decreto per sbloccare i soldi da girare ad ArcelorMittal è stato firmato e il via libera potrebbe comunque arrivare a breve. Governo e Invitalia, però, stanno facendo tutte le valutazioni del caso sulla situazione legale dell’ex Ilva: ci si riferisce al ricorso presentato dal sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, a seguito del quale il Tar aveva disposto lo spegnimento dell’area a caldo dell’acciaieria – quella inquinante e su cui non erano stati fatti gli interventi ambientali promessi – entro 60 giorni; il Consiglio di Stato, com’è noto, ha sospeso l’efficacia di quella sentenza fino alla sua decisione di merito sul ricorso di ArcelorMittal, che dovrebbe arrivare a maggio.

Il problema di governo e Invitalia è duplice: se lo spegnimento fosse confermato anche a Palazzo Spada, l’acciaieria Ilva sarebbe semplicemente finita e dunque versare quei 400 milioni potrebbe significare buttarli dalla finestra; d’altra parte arrivare fino a maggio in questa situazione è impossibile e c’è il forte rischio di un nuovo contenzioso coi Mittal, che potrebbe finire comunque col buttare soldi dalla finestra. Per ora Draghi aspetta, ma non potrà farlo a lungo.

Flop, gaffe e rinvii: i peggiori del governo

I cantori del governo Draghi hanno parlato di “Dream team”, di “All star”, delle “migliori risorse” messe a disposizione del Paese per uscire dal momento più difficile. Qualcuno però dev’essersi imbucato, non foss’altro per i curricula di certi ministri e sottosegretari o per le prime decisioni prese.

Il risultato, figlio anche delle necessità di accontentare una maggioranza estesa quasi quanto l’intero Parlamento, è un esecutivo pieno di “peggiori”: dalla leghista Lucia Borgonzoni alla Cultura fino allo smarrito Patrizio Bianchi alla Scuola, subito alle prese con la chiusura di quasi tutti gli istituti. Per non dire del ritorno della renziana Teresa Bellanova – quella che per amore della Patria aveva “rinunciato alle poltrone” – e della nomina di Francesco Paolo Sisto come sottosegretario alla Giustizia, lui che nei tribunali ci andava come avvocato di Silvio Berlusconi (la cui idea sulla giustizia italiana è nota).

Ma tant’è: questa è la squadra e ci dobbiamo accontentare. Anche solo per non rassegnarci alla narrazione del “governo dei migliori”, però, è utile un piccolo bignami sui primi passi nell’esecutivo di questi nostri illustri rappresentanti e sulle loro mirabili imprese.

Tra gaffe e flop precoci, c’è già materiale per un inglorioso resoconto da cui dovranno riscattarsi.

 

Il nuovo cts

Numeri sballati e addio all’Inail

Il nuovo Comitato tecnico scientifico dell’era Draghi parte tra polemiche e persino minacce di esposti in Procura. Per il sospetto che Palazzo Chigi sia stato sensibile alle pressioni della Lega, che da tempo reclamava la mordacchia per gli scienziati accusati di voler tenere “reclusi in casa gli italiani”.
Nella nuova composizione è stato ridotto il peso specifico degli esperti sanitari e addirittura cancellata la presenza dell’Inail, che aveva svolto un ruolo fondamentale per l’elaborazione dei protocolli anti-Covid per i luoghi di lavoro. Mentre un posto nell’organismo era stato assicurato ad Alberto Gerli, esperto informatico col vizio di fare cilecca con previsioni tranquillizzanti sull’andamento della pandemia, poi costretto al passo indietro (“A fine febbraio il Veneto sarà zona bianca” , assicurava a inizio anno).
Nel collegio c’è anche Donato Greco, epidemiologo convinto che l’emergenza sia cessata già da tempo e che le restrizioni siano “frutto di una politica della paura”. In passato aveva negato ogni relazione tra tumori e discariche al tempo in cui era sub commissario per l’emergenza rifiuti in Campania.

 

Roberto Cingolani

Transizione tra le stelle

Il suo esordio davanti alle commissioni di Camera e Senato non ha impressionato in positivo, soprattutto gli ambientalisti. L’ex direttore dell’Iit di Genova oggi ministro per la Transizione ecologica ha messo sul tavolo una eterogeneità di prospettive al confine tra l’incognita e il preoccupante: idrogeno verde, fusione nucleare, le “stelle come fonte di energia del futuro”. Ammesso che l’idrogeno sia la risposta in un futuro lontano (sulla fusione nucleare, per dire, c‘è ancora molta strada da fare), non è ben chiara la transizione immediata e la sua progettualità in seno al Pnrr. Su trivelle, petrolio e gas ha preso tempo con una nuova scadenza per la realizzazione del piano delle aree, ma ha dato un rapido indirizzo su come snellire la “burocrazia” richiamando il “modello Genova”. Intanto, si è dimenticato di parlare delle rinnovabili “tradizionali”.

 

Carlo Cottarelli

Dopo tanta attesa, ecco la chiamata per la pa

Carlo Cottarelli è l’uomo dei mille incarichi promessi, colui che teneva il telefono “sempre acceso”, hai visto mai arrivasse una chiamata dal Colle più alto. La chiamata è arrivata, ma non dal Quirinale, semplicemente dal ministero della Pubblica amministrazione di Renato Brunetta che lo ha voluto nel gruppo di lavoro sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, insieme a un po’ di noti burocrati e professori di economia, rigidamente bocconiani. Lui, ospite fisso di Fabio Fazio, si mostra sempre cuor contento: presenzia, consiglia, si agita, guarda il telefono e poi, come un Renato Altissimo qualunque, si ritrova nel centro liberaldemocratico costituito da Azione, Più Europa, Partito repubblicano italiano, Alleanza liberaldemocratica per l’Italia e Liberali (ma oggi si passerà alla “maratona virtuale dei riformisti”). Lui presiede la scrittura del “Programma per l’Italia”. E magari mentre scrive, ci ripensa, come ha fatto sul Mes: prima a favore, poi contrario. Ma sempre cuor contento.

 

Lucia Borgonzoni

La sua Cultura: “Riaprire i bingo”

La sottosegretaria alla Cultura che non legge libri è tornata sul luogo del delitto, quel Mibact che ha frequentato nel Conte I senza lasciare ricordi indelebili, ma consolidando la fiducia di capitan Salvini (e quindi la candidatura disastrosa alle regionali emiliane). Non è realistico valutare l’impatto del suo lavoro in queste poche settimane, ma dalle sue uscite pubbliche possiamo capire che si occupa – come il suo leader – di quasi tutto tranne che di Beni culturali (interviene su vaccini, economia, fisco, legittima difesa, etc). Il suo cavallo di battaglia in questi giorni è aver promosso il decreto che regola i crediti d’imposta per i produttori di videogiochi (“È una delle principali novità della legge sul Cinema – scrive Borgonzoni – che riconosce finalmente ruolo e importanza a un settore giovane, vitale, innovativo e creativo che anche in Italia può dare tanto”). Che c’azzecchino cinema e videogiochi è un mistero, ma la sottosegretaria leghista sembra proiettata sulla dimensione ludica: subito prima del suo nuovo incarico al Mibact si era distinta per aver chiesto di far riaprire subito non musei e teatri ma “sale slot, scommesse e bingo”, definiti “presidi della legalità contro la mafia”.

 

Patrizio Bianchi

Chiudere, aspettando che la tempesta passi

Non ce l’ha fatta a tenerle aperte, anzi, è riuscito nell’impresa di fare in modo che le scuole fossero le prime (e praticamente uniche) a chiudere. Era in parte successo anche alla ministra Lucia Azzolina, che l’ha preceduto, di dover subire la decisione autonoma delle Regioni o di dover mediare le pressioni degli alleati di governo LeU e Pd, ma almeno in quel caso si era percepita della resistenza, una lotta, un tentativo di trovare una soluzione. Nel caso del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, invece, si è vista solo la resa di fronte a una variante inglese che pareva auto-generarsi nei corridoi delle scuole. Esito: istituti chiusi in tutte le zone rosse, anche per i più piccoli (che hanno protocolli molto più stringenti) e Dad a tempo indefinito per tutti gli altri. Ha rassicurato il presidente del Consiglio Draghi, sulle scuole: “Sarà la prima attività a riaprire”. Peccato che di attività aperte ce ne siano moltissime, prive di obblighi sullo smart working e con paletti molto facili da aggirare. Ma le scuole, con i loro protocolli di sicurezza e su cui si è investito per un anno, restano indietro, sempre aspettando che la tempesta passi. E se non passa?

 

Brunetta-Gelmini

Renato dà il bonus, Mariastella apre

Per Renato Brunetta è un ritorno, ma questa volta sembra orientato a una linea soft. Se al suo primo giro da ministro della Pa era andato alla guerra coi dipendenti pubblici, considerati una manica di fannulloni tanto da meritarsi i famigerati tornelli, ora il suo approccio è più morbido. In attesa della riforma, il suo biglietto da visita è stato l’assunzione di 2800 precari, un aumento di 107 euro in busta paga e l’introduzione di una serie di bonus per eccellenze e innovazione. E sembra morbido anche sullo smart working. Maturazione o furbizia?
Della Mariastella Gelmini ministra dell’Istruzione si ricordano i tagli draconiani al personale scolastico e la gaffe sul “tunnel dei neutrini tra il Cern di Ginevra e il Gran Sasso”. Ora alle Politiche Regionali ha preso il testimone di Francesco Boccia ma sta sul fronte opposto: se Boccia era per chiudere il più possibile, Gelmini è “aperturista”, più propensa ad ascoltare le ragioni di imprenditori e commercianti che quelle dei medici. Per lei, però, la vera sfida sarà tenere botta sull’organizzazione delle vaccinazioni, dove le Regioni vanno in ordine sparso.

 

Teresa Bellanova

Altro che rinuncia alla poltrona

Per un paio di settimane, a cavallo tra gennaio e febbraio, Matteo Renzi ha ricordato ogni giorno il “gesto di coraggio” di Teresa Bellanova, Elena Bonetti e Ivan Scalfarotto, eroi che “hanno rinunciato alle poltrone mentre gli altri li giudicavano folli”. Oggi sono tornati tutti e tre al governo, anche se l’ex ministra dell’Agricoltura ha dovuto accontentarsi di un posto da “vice” alle Infrastrutture, dove il responsabile è Enrico Giovannini. Poco male, anche a giudicare dai toni con cui i renziani parlano della loro operazione politica per far fuori Conte: “Un drappello di visionari riformisti ha avuto ragione”, dice la stessa Bellanova.
E ora? La linea sponsorizzata dalla viceministra ricalca il Piano Shock di Italia Viva, un miliardario insieme di opere pubbliche da gestire attraverso commissari (nulla di molto diverso dalle tanto criticate task force tecniche) in grado finalmente di “sbloccare i cantieri”. Un modello Genova amplificato che vuole rendere consuetudine l’eccezionalità di quella ricostruzione, naturalmente derogando a molti dei vincoli oggi previsti dal Codice degli appalti.

 

Carlo Sibilia

Quello che Draghi “andava arrestato”

L’eternauta del M5S. In tre anni il Movimento ha cambiato tre volte alleati di governo e messo in soffitta molti totem ma Carlo Sibilia, 35 anni, di Avellino, è sempre rimasto dov’era, sottosegretario di Stato all’Interno. Apparentemente intoccabile, di certo bravissimo a galleggiare nelle acque agitate dei 5Stelle. Ce l’ha fatta anche stavolta, grazie innanzitutto al legame con Luigi Di Maio. E non era semplice, anche perché Sibilia è lo stesso 5Stelle d’assalto che l’11 febbraio 2017 scriveva: “Draghi è quello che ha dato il via al crack Mps che noi oggi paghiamo 20 miliardi. Andrebbe arrestato”. Un post che il grillino poche settimane fa ha precipitosamente cancellato, come un altro di pochi giorni dopo, in cui ribadiva:
“È stato Draghi nel 2008 a mettere Mps su un piano inclinato”. D’altronde anche Beppe Grillo urlava contro l’ex presidente della Bce, e ora lo descrive come “un po’ grillino”. Quindi, liberi tutti.

 

Garofoli e Sileoni

Giurista e super liberista

Del sottosegretario alla presidenza del Consiglio è stato detto: nel Conte 1, da capo di gabinetto al Tesoro (arrivato con Padoan, rimase con Tria), fu messo nel mirino di Palazzo Chigi per una norma comparsa in un decreto a favore della disastrata Croce Rossa, poi cassata da Tria. Chiarì che era una richiesta del ministero della Salute. In quel periodo, peraltro, Garofoli stava risolvendo un contenzioso con Cri su una casa in cui aveva aperto un B&B. A inizio 2019 lo scontro porta alle dimissioni. Oggi è tra coloro che dovrebbero studiare come introdurre le nuove misure anti-Covid senza ricorrere a quei Dpcm tanto invisi a Sabino Cassese. Si pensa a un decreto, che però rischia di non lasciare tempo al Parlamento di discutere neanche il precedente. O a un’ordinanza del ministro della Salute che però dovrebbe intervenire anche su temi di altri ministeri e far saltare il confronto con loro e le Regioni. Nello staff di Draghi è arrivata anche la super liberista Serena Sileoni (ricercatrice in diritto pubblico) dell’Istituto Bruno Leoni. Il suo ultimo intervento sul Foglio è dedicato ai successi delle case farmaceutiche contro il Covid. In altri auspicava una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro e che “si tolgano le briglie al mercato”.

 

Valentina Vezzali

Tutto deciso prima che arrivasse

L’ultima arrivata ha già fatto storcere il naso a molti: ai suoi colleghi che magari avrebbero preferito altri ex atleti, ai partiti che si sono sentiti esclusi dalla scelta, a chi ancora ricorda la gaffe con Berlusconi e l’esperienza con Monti. Eppure Valentina Vezzali, la campionessa di scherma voluta da Mario Draghi (ma si dice soprattutto dall’ex capo della Polizia Gabrielli e dal leghista Giorgetti) come sottosegretaria allo Sport, non ha fatto ancora nulla.
Il decreto salva-Coni è stato approvato subito prima della sua nomina (e forse non a caso: sarà dura contenere Malagò). Il decreto Sostegni per lo sport prevede quasi solo il bonus per i collaboratori sportivi, che era stato il cavallo di battaglia di Spadafora (però con la novità della progressività, per non dare più soldi a pioggia, su input del nuovo governo condiviso dalla sottosegretaria). Il suo primo, vero passo sarà la scelta dello staff. Come si dice nelle pagelle sportive, è ancora s.v.: senza voto.

 

F. Paolo Sisto

Giustizia, riforma baciata da silvio

Fosse per lui, le intercettazioni quasi non dovrebbero esistere perché “le esigenze del processo non sono sempre prevalenti. Esiste un diritto alla vita privata, alla riservatezza, alla libertà di espressione che conta quanto e talvolta più delle esigenze investigative”.
L’avvocato Francesco Paolo Sisto, neo sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia, non sta nella pelle ora che a Via Arenula c’è Marta Cartabia e quell’intruso di Alfonso Bonafede, che solo a vederlo gli provocava l’orticaria, è ormai un lontano ricordo (per quanto spiacevolissimo).
Adesso però l’occasione è finalmente propizia per una riforma della giustizia, a partire dalla prescrizione – modificata proprio da Bonafede – così cara a Silvio Berlusconi e (il copyright è proprio del neo sottosegretario) ai “partigiani della Costituzione di Forza Italia”, che per i critici sono da sempre gli scudi umani del Cav, da loro sempre difeso a suon di leggi ad personam e di sit-in di fronte al Palazzo di giustizia di Milano. Sisto, per la verità, il suo lo ha fatto anche in tribunale, dove ha assistito il Capo nel processo per le escort portate in via del Plebiscito, vecchia residenza romana di Silvio, da Giampi Tarantini.

 

A cura di Patrizia De Rubertis, Virginia Della Sala, Lorenzo Giarelli, Lorenzo Vendemiale, ilaria Proietti, Tommaso Rodano, Gianluca Roselli

Caduto Conte, Marcucci apre a 4 renziani le porte del Pd

Il capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci non ha alcuna intenzione di lasciare la sua poltrona e rimettere il mandato nelle mani del neo-segretario Enrico Letta, come si sarebbero aspettati dal Nazareno. Non una mossa obbligatoria ma sarebbe stato un beau geste, come quello di Brando Benifei al Parlamento Ue, dopo l’elezione del nuovo segretario. E così, in vista di martedì, quando Letta riunirà i senatori dem, Marcucci non solo non si dimette ma prova a convincere il segretario che a capo dei senatori deve restarci lui. Entro martedì, infatti, Marcucci dovrebbe ufficializzare l’arrivo di tre senatori renziani che tornano a casa: Eugenio Comincini, Leonardo Grimani e Mauro Marino. Si parla anche della fuoriuscita dal gruppo di Iv per tornare nel Pd del deputato Camillo D’Alessandro che nelle ultime settimane aveva chiesto il congresso nel piccolo partito di Renzi. A metà gennaio, quando i giallorosa cercavano “responsabili” per salvare il governo Conte tra i senatori di Iv, era stato proprio Marcucci (spesso considerato una colonna renziana tra i dem) a frenare i nuovi arrivi ,mentre oggi apre loro le porte.

La mossa di Marcucci non serve solo a mostrare a Letta il suo controllo sul gruppo ma anche ad aumentare i voti per farsi rieleggere capogruppo: al momento su 35 senatori Pd, quelli di Base Riformista sono 22 e altri due voti potrebbero far comodo. Un attivismo, quello di Marcucci, che ha irritato il Nazareno proprio ora che Letta propone una norma contro il “trasformismo parlamentare”. Ieri intanto Renzi ha riunito l’assemblea nazionale di Iv e lanciato la “primavera delle idee”: tre mesi di dibattiti web per “entrare in sintonia col Paese” in vista della Leopolda autunnale. Poi l’ex premier ha sfidato Letta e il Pd: “Su giustizia, sud, cantieri e lavoro decida se stare con noi o con il M5S” ha detto. Infine ha fatto capire che qualcuno potrebbe andarsene: “Chi non vuole stare con noi lo salutiamo”. Nei prossimi giorni, a inizio settimana, Letta e Renzi si incontreranno.

Giorgini & Salvetti. Nuova faida leghista sul condono in Cdm

Venerdì, a metà pomeriggio, il premier Mario Draghi capisce per la prima volta cosa significa avere a che fare con una maggioranza così litigiosa. Il Consiglio dei ministri convocato alle 15 per approvare il decreto Sostegni è slittato di due ore e il premier – insieme al ministro dell’Economia Daniele Franco e al suo capo di gabinetto Roberto Garofoli – riunisce i capi delegazione: non c’è accordo sullo stralcio di 60 milioni di cartelle esattoriali dal 2000 al 2015. La sinistra, Pd e LeU, parla apertamente di “condono”, Lega, Forza Italia e M5S difendono la misura. Si tenta una mediazione, ma Matteo Salvini non vuole cedere su niente. Di fronte alle proteste dell’ala sinistra della maggioranza, il leghista pone un paletto invalicabile: “Lo stralcio deve valere dal 2000 al 2015 delle cartelle fino a 10 mila euro e senza limiti di reddito” fa sapere a Giorgetti e al viceministro dell’Economia Claudio Durigon, che fanno asse con la viceministra grillina Laura Castelli.

Ma per i ministri del centrosinistra – Roberto Speranza e Andrea Orlando (e anche per Draghi) – è ancora troppo: “limite a 3 mila euro, di reddito e per un tempo inferiore” fanno muro. Franco è d’accordo. Quando il leader della Lega capisce l’antifona, inizia a bombardare da fuori con Giorgetti: “Se è così, ce ne andiamo e non ci presentiamo al Consiglio dei ministri – comunica al suo vice – anzi, votiamo proprio contro”. Quest’ultimo, che da ministro dello Sviluppo Economico vuole mostrare l’anima governista della Lega a costo di scontrarsi con il leader sull’approvvigionamento dei vaccini, è combattuto. All’ora di pranzo era stato avvisato da Salvini che, con una mossa per far capire chi comanda, era andato ad avvertire il suo numero due “assediando” il Mise con una truppa di fedelissimi, tra cui il responsabile economico della Lega Alberto Bagnai. “Non dovrete cedere” era stato il diktat del leader di fronte alle posizioni più soft dei ministri Giorgetti e Garavaglia secondo cui si sarebbe potuta trovare una “mediazione” per evitare “tensioni” in cdm. Ma no, Salvini non avrebbe accettato, anche a costo di rinviare il Consiglio dei ministri e con esso gli aiuti agli imprenditori.

Così, quando a Palazzo Chigi Giorgetti si è ritrovato nella morsa di Salvini e dell’asse Draghi-Pd, ha fatto balenare la rottura: “Se le cose stanno così, sono obbligato ad andarmene”. Mariastella Gelmini, capo delegazione di Forza Italia, e lo stesso Draghi però hanno provato a trattenerlo finché il numero due è sbottato minacciando la rottura con Salvini: “Non c’è problema ad uscire di qui – ha detto ai colleghi sbigottiti – così poi inizia il chiarimento nel partito”. Come dire: Salvini non potrà continuare ancora a lungo a bombardare la maggioranza dall’interno, altrimenti una parte della Lega chiederà la sua testa.

Alla fine, per sbrogliare la situazione, sono serviti i bilaterali di Draghi, Garofoli e Franco con i singoli partiti e la mediazione è stata trovata: un condono delle carrtelle relativo al periodo 2000-2010, con un tetto di 5 mila euro complessivi e per quei soggetti che hanno un reddito annuo non superiore ai 30 mila. Soglie che la Lega proverà a cambiare in Parlamento (“C’è tempo” dicono dal Carroccio) ma Salvini esulta lo stesso: “Un’accelerazione targata Lega – dice a decreto approvato – non è la soluzione di tutti i problemi ma è un inizio concreto ed efficace”. Draghi invece ammette che il condono c’è ma “è piccolo” e Giorgetti, come sempre, tace. In attesa del prossimo scontro.

Il governo dei “vedremo”: Draghi deve ancora “fare”

Sono più i “vedremo” che i “farò” quelli pronunciati da Mario Draghi nella prima conferenza stampa. E se non fossimo “l’unico paese al mondo in cui diventa una notizia il fatto che il premier risponda alle domande dei giornalisti” (Jena, su la Stampa), si farebbe più attenzione a tanta incertezza.

La vera priorità del governo, infatti, è quella dei vaccini, per il resto c’è tempo. Peccato che su AstraZeneca Draghi abbia aggirato le domande rifugiandosi in un poco accettabile “mettetevi nei miei panni”. Ma vediamo i passaggi più importanti della conferenza.

“La risposta che stiamo dando con questo decreto è molto significativa, ma è parziale. Servirà un secondo stanziamento che decideremo in occasione dell’approvazione del Def”.

Lo scostamento di bilancio da 32 miliardi è stato deliberato dal Parlamento il 20 gennaio, in pieno governo Conte. Ma quello scostamento era tarato su Natale mentre ormai siamo a Pasqua. Oggi il problema è quanto altro deficit l’Italia può permettersi e Draghi non si è sbilanciato: “Dipende da come va l’economia” ha detto. Ieri, a chi ha parlato di ulteriori 20 miliardi, Matteo Salvini ha rilanciato dicendo che “ne serve almeno il triplo”.

“I tre quarti dello stanziamento sono per le imprese, abbiamo eliminato i codici Ateco e ora garantiremo la velocità dei pagamenti”.

A giudicare dalle reazioni delle categorie lo stanziamento non basterà e il “superamento dei codici Ateco” è comunque un’indicazione della risoluzione parlamentare del 20 gennaio. Quanto alla velocità dei pagamenti se ne dovrebbe occupare la piattaforma Sogei e forse è proprio questo ad aver fatto ritardare così tanto il varo del decreto.

“Sui licenziamenti ci basiamo sulla tenuta degli ammortizzatori ordinari e quindi arriviamo fino a giugno. Poi vedremo”.

Anche qui l’attesa è per i dati dell’economia che, per riprendersi, ha bisogno dei vaccini. E torniamo al punto di partenza. Dall’inizio della crisi, invece di dare un messaggio chiaro al mondo del lavoro, si è preferito prorogare di decreto in decreto il blocco dei licenziamenti senza mai una parola di serenità per i tre quarti di chi lavora.

“In effetti è un condono, ma riguarda una platea piccola di contribuenti e multe di dieci anni fa. Lo Stato non ha funzionato nella capacità di reperire queste risorse”.

E quindi le perdiamo. Si tratta di poca roba, ormai, il costo è sceso da 615 milioni a circa 200. Ma è la prima volta che con un condono lo Stato invece di incassare qualcosa, ci rimette.

“Su AstraZeneca l’Ema si è presa una settimana e questo ci ha lasciato un po’ sospesi. Mettiamoci nei panni di chi doveva decidere… Penso di aver fatto bene, non abbiamo preso la decisione sulla base degli interessi tedeschi”.

Se Draghi ha dovuto spiegare è grazie alla seconda domanda di Alessandra Sardoni de La7. Ma non ha convinto. Non è vero che l’Ema ha sospeso il giudizio, anzi il 15 marzo, in audizione all’Europarlamento, ha detto che “il rapporto tra benefici e rischi” per il vaccino anti-Covid di AstraZeneca “è considerato positivo e non vediamo alcun problema nel proseguire le vaccinazioni”. A sospendere i vaccini, “in linea con gli altri paesi” è stato palazzo Chigi.

“Sulla campagna di vaccinazione c’è stato un effetto temporaneo, riprenderemo subito e contiamo di arrivare a 500mila vaccini al giorno”.

L’effetto del blocco di AstraZeneca non è stato temporaneo, la stima è di 400 mila vaccinazioni perse e ora si registra un 10% di disdette che, ai fini dell’immunità di gregge, potrebbero essere decisive.

“Verrà il momento del debito, ora è il momento in cui i soldi si danno, non è il momento di pensare al Patto di stabilità”.

Ecco un altro “vedremo”. Draghi qui ha spazzato via tutta la letteratura sul debito “buono” e “cattivo” ma anche le fumoserie sul Sussidistan. Gli aiuti a pioggia vengono di fatto rivendicati ma “con quella bocca” Draghi può dire quel che vuole.

“Bisogna essere pratici sul coordinamento europeo, se funziona bene altrimenti si fa per conto proprio. Questo è il pragmatismo”.

Il neo-sovranismo à la Draghi piace a tutti. Ma non spiega come si fa, “da soli” a reperire i vaccini. Alla prima prova, il blocco di AstraZeneca, l’Italia non ha certo mostrato di fare da sola, allineandosi prontamente alla Germania. Forse sarà per un’altra volta.

Ecco chi rinuncia: dal 30% del Friuli allo zero del Lazio

Dopo la sospensione di tre giorni della somministrazione del vaccino AstraZeneca, in tutta Italia c’è ancora un po’ di diffidenza ma il numero delle rinunce di cittadini che non si fidano più del siero anglo-svedese resta sotto il livello di guardia. Dagli hub vaccinali di tutta la Penisola – dalla Sicilia alla Toscana all’Emilia Romagna – arrivano segnalazioni di cittadini che si sono presentati lo stesso nonostante la loro prenotazione fosse stata cancellata nei giorni precedenti a causa della sospensione del governo durata fino a giovedì. Le Regioni stanno riprogrammando tutti quegli appuntamenti. Il commissario per l’emergenza, il generale Francesco Figliuolo, ieri mattina ha deciso di dare un segnale di fiducia ai cittadini vaccinandosi con AstraZeneca al centro militare della Cecchignola (Roma) insieme al capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio: “Non abbiamo ancora una valutazione precisa dei dati visto che siamo ripartiti venerdì – ha spiegato il commissario Figliuolo – ma le rinunce sono state poche: avevamo una stima del 20% in alcune regioni, del 10% in altre e in molte regioni, come il Lazio, zero, ovvero nessuna rinuncia quindi questo ci conforta”.

In Toscana, per esempio, il governatore Eugenio Giani ieri ha spiegato che il numero di rinunce per AstraZeneca ha superato il 10%, una percentuale “limitata” ma che dimostra che “la diffidenza c’è ancora”. Giani sta valutando, insieme ad altri governatori, di vaccinarsi il prima possibile con Astrazeneca per dare un segnale. La regione dove le rinunce sono state di più è il Friuli (venerdì erano circa il 30%), in Sardegna il 20% del personale scolastico, in Piemonte pari al 10% e in Liguria poco meno del 3%: la media dovrebbe essere tra il 5 e il 10%. Nel frattempo però, mentre piano piano torna la fiducia nei confronti del vaccino anglo-svedese, i giorni di sospensione hanno ingrossato il ventre dei no vax che dall’inizio della pandemia negano l’esistenza stessa del Covid-19 o ritengono che il vaccino non sia la cura adatta. Nei giorni di sospensione molti gruppi no vax sui social hanno visto crescere il numero di iscritti e di contatti anche con punte del 20%: è il caso per esempio del gruppo Telegram “Eventi avversi vaccino covid” che nell’ultima settimana è passato da poco più di 10mila iscritti a 12.782 (+25%).

“Vaccinazioni devastanti – si legge in uno dei tanti messaggi copiato da Vk, il nuovo social russo – 3.900 morti tra gli Stati Uniti e l’Unione europea. La vaccinazione contro il coronavirus aumenta le reazioni avverse contro coloro che la ricevono” e giù una lunga lista a terrorizzare gli iscritti: “Emorragie gastrointestinali, disturbi del sistema nervoso, respiratorio e cardiovascolare”.

Anche su Facebook, la sospensione di AstraZeneca ha provocato un aumento delle interazioni e dei commenti di cittadini che fino a pochi giorni fa avevano fiducia nel siero: sul gruppo “Libertà di Scelta Vaccinale” (cresciuto di circa mille seguaci nell’ultima settimana, oggi a 27.500 fan) c’è chi non solo mette in dubbio la sicurezza di AstraZeneca ma spiega che “il vaccino Pfizer è ancora più pericoloso perché modifica il nostro Dna” e c’è addirittura chi parla di “cavie” per descrivere coloro che sono stati già vaccinati con AstraZeneca. Sul gruppo “Il danno nascosto” (8.900 fan e un engagement cresciuto fino all’8%) si esulta per la scelta di Norvegia e Danimarca di mantenere lo stop al vaccino (“Libertà”) mentre in molti attaccano la decisione dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, di far ripartire le vaccinazioni: “Delinquenti”, “sono criminali”, “non credo a questo veleno che iniettano”. Lo sport preferito è quello di pubblicare le storie di cittadini morti dopo essersi vaccinati anche se, come dimostrano i dati scientifici, non c’è alcuna correlazione con il siero. Ma chi lo fa notare viene sommerso dagli insulti: “Come i mafiosi secondo cui la mafia non esiste” scrive qualcuno, anche se in realtà il paragone che regge è quello con chi non crede alla Terra piatta piuttosto.