Figliuolo, assembramenti di “chi passa” e non vaccini

“Èun po’ come quando ero ragazzo e andavo allo stadio: se c’erano posti vuoti, si poteva entrare all’intervallo, anche senza biglietto”. Maurizio, 52 anni, venerdì pomeriggio era fra le 20-30 persone che si sono presentate intorno alle 18 davanti al centro vaccinale Eur Nuvola, a Roma, sperando di ottenere una dose avanzata di AstraZeneca, magari lasciata da qualche scettico. Un altro gruppetto simile, negli stessi minuti, sostava davanti la stazione Termini, in trepidante attesa. Resteranno tutti delusi.

La frase “basta buttare dosi, vacciniamo chi passa”, pronunciata nei giorni scorsi dal commissario straordinario per l’emergenza Covid, Francesco Paolo Figliuolo, è stata presa alla lettera. Troppo alla lettera. In tutta Italia, per giunta, perché anche l’Ats Sardegna ieri mattina ha dovuto lanciare un appello ribadendo che “solo le persone chiamate possono recarsi a ricevere il vaccino”. Così, davanti molti dei circa 1.800 centri vaccinali italiani, si sono creati assembramenti fuori dalle strutture. Con tutti i rischi del caso. Ma l’ordinanza firmata il 15 marzo dal generale Figliuolo disponeva che “le dosi eventualmente residue a fine giornata qualora non conservabili, siano eccezionalmente somministrate (…) in favore di soggetti comunque disponibili al momento” ma “secondo l’ordine di priorità individuato dal piano nazionale”. Provvedimento pensato anche per evitare che le dosi in più finissero ad amici e parenti del personale sanitario, come accertato in diversi casi dai carabinieri.

La linea guida alle Regioni, dunque, era quella di creare delle “aliquote di riserva” sul modello intrapreso già da un mese dal Lazio: la cosiddetta “panchina”. A Roma, infatti, si sono accorti dai primi di febbraio, che un fisiologico 2% dei prenotati poi non si presentava. I tecnici laziali si sono così confrontati con i parigrado di Israele, dove si è registrato un avanzo anche dell’8% di dosi. È nata così la “panchina”: si invia un sms a un gruppo casuale di persone già prenotate per la settimana successiva oppure si affidano le dosi alle unità mobili che le portano a domicilio. Evitando sprechi.

Dal Lazio, hanno preso poi esempio anche Bolzano e Trento, Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Campania e Toscana. Ma per ora le Asl che si sono organizzate sono ancora troppo poche. E con evidenti problemi gestionali. Caso limite quello dell’hub della Fiera di Cremona, in Lombardia: a causa di un errore di gestione del sistema informatico Aria, infatti, sono state convocate solo 80 persone a fronte delle 600 attese; il pericolo di buttare oltre 500 dosi ha spinto le autorità sanitarie a mobilitare una sorta di passaparola fra gli anziani di Cremona e provincia, che però ha portato un affollamento con oltre mille persone davanti alla struttura, la metà delle quali è stata costretta a tornare a casa.

Così ora il tentativo del commissario Figliuolo è rendere più omogenea l’organizzazione delle varie Regioni. Al generale, ad esempio, è piaciuta molto l’iniziativa della Campania che dà la possibilità ai disabili di effettuare il vaccino insieme ai loro caregiver e ha invitato anche altri territori a prendere esempio. Non solo. L’obiettivo è anche creare una linea comunicativa unica fra i vari enti, che eviti di disorientare la cittadinanza e attenui la competizione fra governatori (e assessori).

Intanto, oggi dovrebbe essere completata la consegna di oltre 333.600 dosi di Moderna all’aeroporto di Pratica di Mare. E da aprile gli arrivi dovrebbero intensificarsi, con l’ingresso nel secondo trimestre e l’entrata in vigore dei nuovi contratti. La struttura commissariale non girerà il 100% dei vaccini alle Regioni, ma terrà da parte una piccola “quota di riserva”, ancora non determinata, per evitare che eventuali disservizi creino problemi nella somministrazione delle seconde dosi. Alcuni grandi gruppi industriali, come Tim e Stellantis e la stessa Confidustria, hanno messo a disposizione personale e spazi per l’incremento delle vaccinazioni.

Classifica delle dosi: le Regioni lumaca sono tutte di destra

Se vuole arrivare a 500 mila vaccinazioni al giorno a fine aprile, il commissario straordinario dovrà intervenire sulle Regioni più indietro. Perché la media nazionale è elevata, le dosi somministrate sono l’80,2% di quelle consegnate (7,676 milioni su 9,577), ma le Regioni vanno in ordine sparso: dall’89,1% di Bolzano al 68,1% della Sardegna, che peraltro è la più indietro anche con le vaccinazioni degli over 80 (appena il 2,6% ha avuto la seconda dose, il 26,9% solo la prima, quando Bolzano e Trento hanno completato il ciclo per oltre il 30% degli ultraottantenni e Basilicata, Campania e Lazio per oltre il 20%). A vaccinare meno sono tutte Regioni guidate dal centrodestra: se la Basilicata ha comunque utilizzato l’81,2% delle dosi, più della media nazionale, il Friuli-Venezia Giulia è al 79,9%, l’Umbria al 79,8%, la Sicilia al 79,1%, il Veneto al 77,4%, la Lombardia al 76,5%, la Liguria al 70,2%, la Calabria al 69,4% e per ultima c’è la Sardegna. Ma per AstraZeneca la percentuale somministrata scende sotto il 50% con una punta negativa del 22,5% in Calabria, l’unica regione al momento in cui la Protezione civile ha inviato uno specifico team di supporto.

Il generale Francesco Paolo Figliuolo ha ribadito i suoi obiettivi ieri alla città militare della Cecchignola a Roma, dove è andato a farsi iniettare l’antidoto di AstraZeneca insieme al capo della Protezione civile Fabrizio Curcio. È la campagna promozionale che segue i quattro giorni di stop, toccherà anche a Mario Draghi e a testimonial vari. Ora siamo sulle 150 mila ma ci siamo già avvicinati alle 200 mila iniezioni quotidiane. Hanno completato il ciclo vaccinale 2.434.964 persone, circa il 4% degli italiani.

Ci sono però Regioni molto indietro con gli over 80, i più a rischio, che si vaccinano con Pfizer Biontech o Moderna, anche se magari hanno già provveduto (con AstraZeneca) a migliaia di operatori scolastici e di polizia (indicati nel piano nazionale) e anche ad avvocati, magistrati, giornalisti o altri ritenuti “essenziali” secondo il margine forse eccessivo lasciato alle Regioni. Nelle vaccinazioni dei più anziani, secondo la Fondazione Gimbe, le ultime in classifica sono Sicilia (due dosi al 10,6% degli over 80 e una al 29,9%), Lombardia (10,2% e 29,1), Abruzzo (8,8% e 36,2%), poi c’è la Puglia (8,4% e 36,7%), malissimo Calabria (6,9% e 33,3%), Toscana (51,1% e 22,3%) e ancora la Sardegna (2,6% e 26,9%). L’Istituto superiore di sanità rileva che almeno il 40% degli over 80 e il 49% degli over 90 ha ricevuto almeno una dose e questo ha ridotto le infezioni in quella fascia d’età (e quindi i decessi) tra il 10 e il 40% a seconda delle regioni. Tra gli operatori sanitari, vaccinati in larga maggioranza, i contagi secondo l’Iss sono passati dal 5 all’1% del totale. Sono invece molto indietro le vaccinazioni delle persone più vulnerabili sotto gli 80 anni perché affette da gravi patologie.

Il generale Figliuolo intende “vaccinare entro fine settembre l’80% della popolazione”, cioè 48 milioni di italiani. È senz’altro possibile se tra aprile e fine settembre arriveranno oltre 130 milioni di dosi (di cui 24 milioni di Johnson & Johnson che è monodose) come è scritto nei contratti, privi però come sappiamo di penali efficaci. Ma AstraZeneca, che dovrebbe darcene 40 milioni entro settembre e finora ha consegnato circa un terzo del pattuito (2,47 milioni di dosi su 8,03 al 18 marzo: i conti li ha fatti Matteo Villa dell’Ispi su dati ministero della Salute), ieri ha fatto saltare la consegna di 134 mila dosi. Secondo l’ufficio del commissario arriveranno il 24 marzo. Arrivano subito invece 330 mila dosi di Moderna, che sta recuperando i ritardi: al 18 marzo aveva consegnato 490 mila dosi su 1,33 milioni concordate. Con Pfizer Biontech va meglio: 6,6 milioni consegnati su 7,8. J&J vedremo: ha già messo le mani avanti. Fin qui è arrivata mediamente la metà delle dosi, se va avanti così entro settembre si può coprire il 60% della popolazione. Milioni di italiani dovrebbero peraltro avere anticorpi naturali: uno studio pubblicato su Lancet dice che a Wuhan, dove tutto è iniziato, nel 40% dei casi gli anticorpi ci sono ancora dopo 9 mesi.

Dragon Ball

Problema: il Governo dei Migliori riesce a resuscitare i No Vax dall’agonia, a infilare nel Cts un esperto un po’ meno autorevole del Divino Otelma e a impiegare un mese per fotocopiare il dl Ristori-5, chiamarlo Sostegni-1 e aggiungerci un condono che non porta un euro allo Stato, anzi ci costa 200 milioni, ma fa litigare la maggioranza e costringe Draghi a rinviare il Cdm e la prima conferenza stampa di tre ore. Che fare per evitare brutti pensieri sul Governo dei Peggiori? Soluzione: spacciare il cattivo per buono, il vecchio per nuovo, il brutto per bello; sostituire i pianti coi sorrisi, i fischi con gli applausi, le pernacchie coi peana; e, se proprio non c’è niente da ridere, attribuire la vaccata a padre ignoto, al caso, al fato, o dire che abbiamo limitato i danni. Tipo che l’attacco alle due Torri e al Pentagono poteva andare peggio perché la Casa Bianca è rimasta in piedi.

Ritardi buoni. Ricordate tutte le menate sui ritardi di Conte, le conferenze stampa durante o dopo i tg, i Cdm col favore delle tenebre? Ora con Draghi è tutto diverso: “Le tre ore di ritardo hanno rischiato di proiettare sul suo esordio le ombre del passato”, “di una coalizione litigiosa”, ma niente paura: colpa di “una lunga trattativa, soprattutto con la Lega” e altri partiti “miopi” che non hanno ancora capito “la fase nuova apertasi nel Paese” (Massimo Franco, Corriere). Litigano e ritardano pure questi, ma per un piccolo problema di diottrie. E comunque a fin di bene.

Incertezze buone. Un altro premier, uno a caso, che ripetesse “vediamo”, “vedremo”, “si vedrà”, “aspettiamo”, “non so”, “questa domanda mi trova impreparato” sarebbe accusato di non rispondere ed essere incompetente. Lui invece dà “risposte rapide, nette, volutamente ipersintetiche”, “persona molto sicura di sé e di quel che deve fare”, lontano dal “passato caotico” (Franco); “capisci che ti sta dicendo la verità, quando non sa lo dice chiaro e tondo”, “solida fede nel pragmatismo e nell’efficienza”, “ti parla da pari a pari” (non a dispari) dal “palcoscenico sobrio”, “non si crede il salvatore della patria”, ma il suo “format Salva Italia è al tempo stesso modesto e superbo” (Sebastiano Messina e la sua lingua, Repubblica).

Debito buono. Da quando Draghi svelò che “c’è un debito buono e un debito cattivo” (sai che scoperta), appena il governo Conte faceva debiti per ristorare le categorie penalizzate, tutti strillavano al “debito cattivo”: reddito di cittadinanza e di emergenza, “bonus a pioggia”, “Sussidistan”. Il debito buono erano i soldi alle imprese e quello cattivo i soldi ai poveri. Ora Draghi acciuffa i 32 miliardi lasciati lì da Conte e, come lui, li destina alle imprese e ai poveri, perché “nel 2021 i soldi si danno, non si chiedono”.

E i fischi diventano applausi. Il debito degli altri è cattivo, il suo è buono.

Condono buono. Draghi non lo vuole, ma poi cede a Salvini che minaccia l’addio della Lega. Quindi: “Draghi ha saputo imporsi su una recalcitrante Lega, aiutata da FI”, “una vittoria per l’ala sinistra”; e poi

“Draghi lo chiama per nome, viva la sincerità” (Francesco Bei, Rep). Ecco: se fa il condono per darla vinta al centrodestra (col demenziale appoggio 5S), vincono Draghi e il centrosinistra che non lo volevano; e per trasformare un condono da cattivo a buono basta chiamarlo condono. Se uno, puta caso, rapina una banca, la chiami “rapina” e viva la sincerità.

No Vax buono. Ema dice che Astrazeneca è sicuro. Ma Draghi si accoda alla Merkel e lo sospende per 3 giorni, finché Ema ribadisce ciò che diceva 72 ore prima. Risultato: disdette fino al 10%. Ghisleri (Stampa): “Scende la fiducia nelle immunizzazioni, l’effetto Astrazeneca allarga il partito No Vax: 1 italiano su 5 contrario o tentato dalla rinuncia, 60% dubbioso”. Pagnoncelli (Corriere): “Il 52% è pronto a farlo subito”, quindi il 48% no. Numeri devastanti, altro che vaccinare tutti entro l’estate. Ma basta un giochetto per farli sembrare irrisori. Rep: “Poche disdette”, “appena uno su 10 ha dato forfait”. Corriere: “Riparte la corsa, disdette sotto il 10%”. Che saranno mai 5 milioni di No Vax nuovi di zecca.

Sovranista buono. Baciata la pantofola della Merkel, Draghi attacca l’Ue: “Se il coordinamento non funziona, andiamo per conto nostro”. A parte il fatto che non si capisce che vuol dire “andare per conto nostro” sui vaccini (li fabbrica lui? Li compra? E dove?), un altro verrebbe accusato di sovranismo da Italexit. Invece Lui è un “europeista pragmatico”, “approccio realista senza inutili condiscendenze verso l’Ue e senza bisogno di baciarle ogni volta la pantofola”. Il che non vale per “il filo-Putin Salvini o l’ala ‘cinese’ del precedente governo” (il famoso Xi JinConte). Quindi una cosa non è giusta o sbagliata in sé: dipende da chi la dice.

Mes cattivo. Sul Mes dice che è un debito, per giunta non conveniente con questi tassi: stesse parole ripetute da Conte&C. per un anno. Ma Lui è diverso: “puro pragmatismo, senza veleni ideologici”, “cambiamento di stile e di linguaggio oggettivo” (Franco).

Cazzaro buono. Dimettendosi dal Cts appena nominato per le risate sul suo “sistema previsivo” sballato, l’ingegner Gerli svela chi l’ha chiamato: “Ringrazio la Presidenza del Consiglio per la nomina”. Meglio fare i vaghi con titoli da notizia di colore. Rep: “E nel Cts arriva l’ingegnere che sbaglia tutte le previsioni”. Ecco: non è Draghi che l’ha nominato, è lui che è “arrivato” con mezzi propri. L’avrà portato la cicogna.

Ci sarà vita dopo il lockdown: servono istituzioni pronte a renderla attiva

Ci sarà vita dopo il lockdown e serviranno istituzioni in grado di comprendere quel passaggio e prepararsi a una nuova realtà. Sembra essere questa la preoccupazione racchiusa in Istituzioni di Roberto Esposito, agile volume che arricchisce le “Parole Controtempo” del Mulino (dopo Pazienza, Perseveranza, Coraggio, Progresso, etc.).

Che la pandemia abbia messo alla prova le istituzioni esistenti non c’è dubbio e che queste in fondo abbiano retto, scrive Esposito, è un’altra verità. Ma dopo la pandemia non basterà tenere in piedi le vecchie istituzioni, occorrerà costruirne di nuove, sarà la “nuova vita” nella sua potenzialità “istituente” a reclamare un nuovo inizio. Ma su quali principi? Esposito invita a uscire finalmente dalla logica mortifera che in Italia ha contrapposto istituzioni “rigide e conservatrici” ai movimenti sociali e invita a guardare a quel “ritorno delle istituzioni” propugnato dalla sociologia di Emile Durkheim e Marcel Mauss, emancipato dalla centralità dello Stato legislatore dal pensiero giuridico di Santi Romano fino al compito, assegnato alla politica da Claude Lefort, di istituzionalizzare la società. E soprattutto, guardando a quell’idea originale e potente di Machiavelli che indica il “conflitto” come motore del processo istituente sapendo che il movimento in questo inscritto si scontrerà sempre con la rigidità della institutio. Ne viene fuori una grammatica plurale, una “molteplicità di istituzionali sociali” che senza superare la necessità dello Stato poggia il nuovo inizio sulle intuizioni del “comune” avanzate da Pierre Dardot e Christian Laval e sul pensiero “istituente” di Hannah Arendt, che nell’impasse sopra descritta sceglie il primo termine, instituere. Nuove istituzioni, capaci di integrare la biopolitica, resistendo alla sua pressione, per nuovi inizi. Un libro denso di speranze.

 

Istituzione Roberto Esposito – Pagine: 164 – Prezzo: 12 – Editore: Il Mulino

 

“Fama? No, fame: per me contano solo le bollette”

“Sono nata il ventuno a primavera/ ma non sapevo che nascere folle/ aprire le zolle/ potesse scatenar tempesta”. Sono i versi più celebri di Alda Merini, che domani avrebbe compiuto 90 anni. Per un suo passato compleanno chiese ai servizi sociali del comune di Milano “un uomo caldo” anziché “un pasto caldo”. Accontentata, le fu “regalata” l’esibizione di uno spogliarellista mentre si trovava ricoverata per un intervento. A suo modo un episodio che restituisce il suo temperamento. Una donna che ha avuto due mariti e quattro figlie e a tal punto libera da calpestare sotto i piedi qualsiasi morale perbenista (rimasta vedova si risposa e come madre si contano più le assenze). Una poetessa che esordisce ventenne con la raccolta La presenza di Orfeo e a tal punto talentuosa da irretire intellettuali come Quasimodo e Pasolini. Con Manganelli intreccia persino una relazione. Dopo un lungo silenzio dagli anni 80 ricomincia a pubblicare, approda più tardi nella Bianca Einaudi ed è la consacrazione.

Alda Merini non è mai stata un’impiegata della poesia, una di quelle che si mettono alla scrivania a cesellare righe che vanno a capo per poi contendersi il favore delle conventicole. È stata eccessiva e dispersiva fino all’autolesionismo. Dettava versi al telefono, li annotava su foglietti volanti. La poesia per lei non era una carriera da amministrare. Ecco perché anni fa, soggiogato dalla sua parabola, mi adoperai per conoscerla. Non fu difficile varcare la soglia del suo piccolo appartamento sui Navigli (ricostruito e visitabile virtualmente sulle pagine social di Spazio Alda Merini). La cucina un campo di battaglia, stoviglie stipate nel lavello, frammenti di cibo sparsi ovunque. La sala il ripostiglio di un rigattiere, tanto vi erano ammassate cianfrusaglie. Le pareti coperte dai suoi graffiti: appunti e numeri di telefono segnati a pennarello. Era una giornata estiva torrida. La Merini mi ricevette con una vestaglia leggera. Mi accomodai sulla poltroncina del pianoforte da cui sapevo che ogni tanto amava strimpellare Chopin e Schubert. Fumava senza sosta e poi spegneva i mozziconi sul pavimento. Le domandai del dono della poesia, della fama che ora riscattava tante amarezze. “Ma quale poesia? Quale fama?” mormorò con disincanto, “semmai la fame. Ho le bollette da pagare. Quelle sono le cose che contano”. Quand’ero già sulla porta mi richiamò indietro e maliarda mi intimò: “Si ricordi sempre del coito. Il coito è importante” e divaricò le gambe. Non indossava le mutande. La sua risata sgraziata mi inseguì come una scia lungo le scale.

La Merini se ne infischiava del decoro mondano. Quando nel 1993 le fu conferito il Librex-Montale, pur pressata dai debiti, si sputtanò i soldi del premio soggiornando in un hotel di lusso. Nel 2001 non esitò a posare nuda, con il suo corpo pingue e l’immancabile sigaretta tra le dita. Poteva permettersi il privilegio di una santità laica, la sublime noncuranza di una che guarda gli altri da un suo dolore inaccessibile. Prigioniera del manicomio per diversi anni, aveva conosciuto l’umanità più derelitta: matti che orinavano e defecavano sul pavimento, che si laceravano i vestiti, che gridavano oscenità. Da quell’orrore sono maturati i suoi versi più intensi, raccolti nel 1984 in La terra santa: “… E dopo, quando amavamo/ ci facevano gli elettrochoc/ perché, dicevano, un pazzo/ non può amare nessuno./ Ma un giorno… anch’io come Gesù/ ho avuto la mia resurrezione,/ ma non sono salita ai cieli/ sono discesa all’inferno…”.

La tv e i giornali hanno vampirizzato La pazza della porta accanto fino a trasformarla in un personaggio. Ma è comunque sopravvissuta, dal giorno dei santi del 2009 quando mancò per un tumore, a quella effimera polvere di stelle. Nelle librerie i suoi svariati volumi hanno tirature di tutto rispetto. Nel web è assurta a icona pop dalla quale spillare aforismi. La critica anche in virtù di questa mancata sobrietà fatica a farle posto nel canone. Lei sorniona risponderebbe: “Perciò tu che mi leggi/ fermo a un tavolino di caffè,/ tu che passi le giornate sui libri/ a cincischiare la noia/ e ti senti maestro di critica,/ tendi il tuo arco/ al cuore di una donna perduta./ Lì mi raggiungerai in pieno”.

“Caro pasticcino, mi sento un assassino”

Due brevi missive aprono e chiudono È durata poco la bellezza, monumentale epistolario di Truman Capote, autore culto di Colazione da Tiffany e A sangue freddo che forse non avrebbe voluto dare in pasto la sua parte più intima al resto del mondo, ma tant’è. La prima, datata ’36, quando dodicenne scrisse al padre biologico scomparso dal suo radar quando aveva sette anni, chiedendogli di chiamarlo, da quel momento in poi, col cognome di quello adottivo, Capote appunto, per rivendicare se stesso agli occhi del genitore fantasma; l’ultima, in forma di telegramma da New York verso Verbier, dove Jack Dunphy era solito svernare.

Conosciuto nel ’48, a casa dell’amico Leo Lerman, caporedattore di Mademoiselle e Vogue, Dunphy fu l’amore di una vita, stella polare che mai lo abbandonò, neanche negli ultimi anni di dissoluzione e depressione dopo lo stratosferico successo nel ’66 di A sangue freddo, romanzo-reportage sul quadruplice omicidio di una famiglia del Kansas che lo impegnò per un lustro, succhiandogli via il midollo e tenendolo sulle spine fino all’esecuzione dei colpevoli, e che fu contemporaneamente apice e inizio di una parabola discendente. Per celebrarlo organizzò un party esclusivo con 500 invitati al Plaza Hotel di New York, ma quando le luci si spensero qualcosa cominciò a oscurarsi dentro di lui. Trascorse gli ultimi anni in solitudine, infatti la corrispondenza si dirada e si fa scarna, svuotata, alcolizzato e tossicomane, ripudiato dal jet-set che lo aveva accolto e si era visto tradito dal più ambizioso dei suoi progetti, Preghiere esaudite, in cui racconta vizi e debolezze dei diamanti di Manhattan. Avrebbe voluto fosse la sua Recherche ma restò incompiuta e fu la sua rovina.

Curato da Gerald Clarke, che ne scrisse la biografia nell’88, l’epistolario restituisce un Capote autentico, sensibile, capace di ironia, acuto, brillante, goloso di pettegolezzi. Prima del periodo nero è palese quanto scrivere lettere e riceverne in ritorno fosse gioia assoluta. Agli amati amici – scrittori, editor, fotografi – riservava nomignoli come “pasticcino, angelo, fanciullo mio diletto, dolce magnolia” e commiati zuccherosi come quando a Lerman mandò tanti baci quanti potevano essere i ritagli di una coperta patchwork.

Sfila la giovinezza, dalla prima esperienza come tuttofare al New Yorker sino al debutto su Harper’s Bazaar e Mademoiselle e all’esordio in narrativa con Altre voci, altre stanze, quelle in Europa con Dunphy tra Francia, Italia, Marocco e Spagna e con l’amica d’infanzia Harper Lee, per raccogliere i dettagli per A sangue freddo. A Perry Smith, uno dei due assassini, scrisse sovente confidandogli dettagli sulla sua infanzia infelice, definendosi un uomo da sempre artisticamente precoce ma emotivamente immaturo, provato dal suicidio della madre e dall’omosessualità che definisce “quella questione”. In qualche modo sentiva Perry affine. Le ultime cento pagine sono stanche. Quando nel ’79 manda una foto di lui a Miami che si lancia da un trampolino per rassicurare Dunphy di essere in forma, mentre probabilmente non lo era, vien da pensare che genialità e successo non siano stati per lui passaporto per la felicità.

 

È durata poco la bellezza Tutte le lettere Truman Capote Pagine: 608 – Prezzo: 28 – Editore: Garzanti

Venezia 1940: la prof. ebrea di latino e greco viene ammazzata con un busto del Duce

Un’indagine vecchio stile. Sospetti, indizi, ricerche a tutto campo. E poi il mistero che si risolve solo nelle pagine finali spiazzando il lettore, che resta tramortito dall’identità del colpevole. Il sesto Comandamento è il primo giallo di Anna Vera Sullam, studiosa e scrittrice di Venezia tra le cui opere vanno ricordate I nomi dello sterminio e Undici stelle risplendenti. Siamo, dunque, nell’Italia fascista appena entrata in guerra. È l’ottobre del 1940 e nella scuola ebraica di Venezia – istituita dopo le infami leggi razziali del 1938 – viene ammazzata Ida Forti, professoressa di greco e latino. L’assassino le ha sfondato la testa, tragica ironia della sorte, con un busto del Duce. Tutto è avvenuto tra l’una e le due e mezza del pomeriggio. A scoprire il cadavere è il segretario della scuola, Rodolfo Donati, commercialista che in precedenza ha perso il suo posto di lavoro per le norme antisemite del regime.

A indagare è il vicequestore Italo Gigli, rampante fascista cui interessa solo la carriera. La sua esigenza è di trovare al più presto un colpevole, possibilmente all’interno della comunità degli odiati “giudei”. E così il capro espiatorio perfetto viene individuato in un povero pittore polacco, rimasto senza soldi e che periodicamente va alla scuola per chiedere un aiuto. La dinamica è agghiacciante: pur di non essere espulso e tornare in Polonia, dove andrebbe direttamente in un lager, l’uomo confessa quello che non fatto. Una volta in carcere si suicida. L’esito dell’inchiesta però non convince il maresciallo Giuseppe Russo, collaboratore di Gigli, che continua a indagare per conto suo. Passo dopo passo, con l’aiuto del segretario Rodolfo e di Stella, altra dipendente della scuola, i possibili indiziati sono almeno tre. Sullo sfondo c’è una Venezia cupa e affamata, dove gli ebrei si dividono tra quelli del ghetto, poveri, e quelli che vivono altrove, benestanti.

 

 

Il sesto Comandamento Anna Vera Sullam Pagine: 279 – Prezzo: 16 – Editore: Sem

Il teatro si reinventa fiction con “L’anno dei sette inverni”. E si affida ai social

Un moto centripeto ed eremitico, di isolamento e silenzio, nel rapporto con tane e cortecce, nevi alte e ricordi in super8.

Sette brevi movimenti, centellinati dal Teatro Stabile del Veneto in appuntamenti quotidiani sui suoi canali Fb, Instagram e YouTube alle ore 18: vi si declina l’utopia di una nuova humanitas fondata sulla mutua appartenenza tra uomini, fuochi, mele, caprioli, agognate illusioni di calore e i prati di un’infanzia perduta.

In perfetta antitesi a Salvatores e al suo ragionato e rapsodico avvicendarsi dei video amatoriali più eterogenei (Fuori era primavera), il regista Marco Zuin ha scelto di raccontare la pandemia, l’inverno perenne iniziato nel marzo 2020 e tuttora in corso, seguendo lo scrittore padovano Matteo Righetto in una camminata di breve spazio, nell’esplorazione dei boschi di un paesino delle Dolomiti bellunesi, Colle Santa Lucia, per L’anno dei sette inverni.

Non però, fino agli ultimi fotogrammi, la vista splendida che, dal cimitero della chiesetta, si apre sulla val Fiorentina e sul monte Pelmo, non l’usitato fremere e vociare di Alleghe e del Col dei Baldi con l’hockey e gli impianti da sci: piuttosto le croci nel ghiaccio, la legna che arde, un po’ di retorica (redenta da una sapiente fotografia), e – nel quarto episodio – lo straordinario canto muto di Giorgio Gobbo (il chitarrista e cantautore di Andrea Pennacchi e Andrea Segre) che anima le danze dei fantasmi nel castello scoperchiato di Andraz, a un passo dal Falzarego. Implicite, sullo sfondo, le miniere del Fursil, dove per secoli i nostri antenati violarono la terra alla ricerca di metalli ora esauriti; implicito, proprio lì dinanzi, a Selva di Cadore, lo scheletro dell’uomo di Mondeval, ambizioso cacciatore sepolto sotto queste stesse nevi 7500 anni fa. Esplicita, invece, la domanda più temuta: “Quando si scioglierà la neve, a valle scenderà ancora l’acqua buona?”.

 

“Leonardo”, il kolossal è vestito di “giallo”

La vita di Leonardo da Vinci si trasforma in un giallo. Il genio è in carcere a Milano con l’accusa di aver avvelenato e ucciso una donna. L’investigatore incaricato di risolvere il caso si chiama Stefano Giraldi e le indagini diventano l’occasione per ripercorrere la sua vita, dai primi dipinti agli eventi che l’hanno condotto alla corte degli Sforza e poi in prigione. Comincia così Leonardo, la serie prodotta da Lux Vide con Rai Fiction e diversi partner internazionali che andrà in onda su Rai Uno dal 23 marzo.

Il Leonardo che vediamo sullo schermo nelle prime scene è un ragazzo alla ricerca di se stesso. Ha un indubbio talento per la pittura ma non è in grado di esprimerlo. Si sente diverso: non dipinge secondo i canoni e le convenzioni dell’epoca ma vuole rappresentare la realtà per come la vede, coglierne fino in fondo l’essenza. Nessun disegno, nessun dipinto è all’altezza. Leonardo li fa e poi li distrugge in un’infinita ricerca di perfezione. Sarà un aspetto che caratterizzerà tutta la sua vita: persino la Gioconda, uno dei suoi capolavori più famosi, verrà più volte rimaneggiata nel corso degli anni e mai completata.

Due incontri gli permettono di liberare il suo genio. Nella bottega di Andrea del Verrocchio, artista molto attivo nella Firenze del Quattrocento, il giovane Leonardo impara i segreti del mestiere. Diventa il suo primo assistente e con il maestro dipinge il Battesimo di Cristo acquisendo una certa notorità (“L’allievo ha superato il maestro” ammette lo stesso Verrocchio). L’incontro fondamentale però è il secondo. Sempre nella bottega Leonardo incontra la sua musa: Caterina da Cremona. È lei la donna morta per avvelenamento che anni dopo lo porterà in prigione con l’accusa di omicidio.

Leonardo mette insieme eventi e personaggi reali ad altri d’invenzione. Nei primi due episodi, quelli che vedremo martedì su Rai Uno, il protagonista intrattiene una relazione con un uomo e viene poi processato per sodomia: questo è un fatto storico. Si collocano invece nell’ambito della fiction il personaggio di Caterina e l’incarcerazione a Milano. Nulla però è stato inventato di sana pianta: “Sappiamo dai documenti storici che Leonardo aveva un’amicizia speciale con una donna di Cremona, sappiamo anche dell’esistenza di un ritratto della donna poi scomparso. Partendo da qui abbiamo lavorato di fantasia” ha spiegato Steve Thompson, creatore della serie insieme a Frank Spotnitz (I Medici, L’Uomo nell’Alto Castello).

Se il presunto omicidio di Caterina è lo spunto da cui si parte, il filo teso che conduce dal primo all’ottavo episodio, la spina dorsale di Leonardo è costituita dalle sue opere d’arte. Ogni puntata si concentra su una o più opere che hanno rivestito un ruolo importante nella vita e nella carriera del genio. Nelle prime due vediamo, oltre al ritratto della donna di Cremona poi andato perduto, il Battesimo di Cristo, l’incompiuta Adorazione dei magi e il Ritratto di Ginevra de’ Benci. Nelle successive ci sarà spazio per invenzioni, macchine da guerra, sculture e dipinti famosi come la Gioconda o avvolti dal mistero come Leda e il Cigno.

Il Leonardo da Vinci della nuova serie Rai ha il volto di Aidan Turner, attore irlandese famoso per il ruolo del capitano Ross nelle cinque stagioni di Poldark e ormai specializzato nei period drama. Matilda De Angelis, doppiata nella versione italiana, mostra ancora una volta la sua versatilità: negli ultimi mesi l’abbiamo vista trasformarsi in una fidanzata bacchettona nel film L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, in una femme fatale in The Undoing e ora in Caterina da Cremona. Nel cast anche Freddie Highmore (Bates Motel, The Good Doctor) nella parte dell’investigatore Stefano Giraldi e Giancarlo Giannini che veste i panni di Andrea del Verrocchio.

Leonardo è diretta da Dan Percival e Alexis Sweet. I numeri sono da kolossal: cinque mesi di riprese, 1.900 ore di lavorazione, 3.000 comparse e 2.500 costumi utilizzati. Andrà in onda in prima mondiale su Rai Uno per quattro serate a partire dal 23 marzo.

 

Leonardo Dal 23 marzo in onda su Rai1 per quattro serate

Favino sul set con Jean Reno, Kelly Reilly e Clémence Poésy

Il romanzo di Sandro Veronesi Il colibrì, vincitore del Premio Strega 2020 sta per diventare un film diretto da Francesca Archibugi (da lei anche sceneggiato con Laura Paolucci e Francesco Piccolo) con Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista Marco Carrera e Nanni Moretti e Kasia Smutniak nei ruoli principali. Le riprese della trasposizione prodotta da Fandango con Rai Cinema inizieranno a giugno tra Roma, Parigi, Firenze e la costa toscana

Pierfrancesco Favino intanto inizierà lunedì prossimo a recitare in Promises, un film che la regista francese Amanda Sthers dirigerà tra Roma e il Lazio dopo aver adattato per lo schermo il suo romanzo omonimo. La coproduzione internazionale curata da Fabio Conversi vedrà nel cast tra gli altri Jean Reno nel ruolo del nonno del protagonista, l’inglese Kelly Reilly e Clémence Poésy.

Luca Zingaretti è il protagonista de Il Re, una serie tv Sky di Giuseppe Gagliardi in otto episodi lanciata come il primo “prison drama” italiano, in cui è Bruno Testori, il controverso direttore del San Michele, un carcere di frontiera in cui le leggi dello Stato non hanno valore perché nel rapporto con i suoi detenuti, dietro i quali si nascondono spesso storie drammatiche, vale solo quello che lui sostiene come un capo assoluto. Testori si rivela spietato con chi se lo merita e anche misericordioso con altri, ma quando il suo Regno inizierà a crollare a causa di un imminente pericolo non gli resterà che affrontare la guerra più difficile. La fiction prodotta da Lorenzo Mieli e The Apartment con Wildside, entrambe società del gruppo Fremantle, è interpretata anche da Isabella Ragonese (un’agente della Polizia carceraria), Barbara Bobulova (l’ex moglie di Bruno) e Anna Bonaiuto (un pubblico ministero) e viene girata tra Roma, Civitavecchia, Torino e Trieste.