Il “Sound of metal” per amore, riscatto e totale resistenza

Musica, sordità e tormento. Senza scomodare il genio di Beethoven, e neppure la tenerissima Famiglia Bélier (2014), il cinema offre oggi una nuova finestra sull’apparente ossimoro con Sound of Metal, l’intensa opera prima di Darius Marder disponibile su Prime Video. Al centro è una coppia di heavy-rocker itineranti americani che sopravvive d’amore, decibel e adrenalina. Lei canta strillando, lui incanta alla batteria: petto nudo, dorso tatuato, capelli ossigenati, un vero animale da metal spinto. Lou (Olivia Cooke), rampolla affascinata dall’universo dropout, ha salvato lui, Ruben (Riz Ahmed, al suo meglio) dall’eroina, da cui è pulito da alcuni anni.

Ma l’ebbrezza on the road subisce un improvviso stop quando Ruben inizia a perdere l’udito. Il degrado è rapido e irreversibile, la magia sembra svanire, con la tossicità pronta a riapparire nella fragile vita del giovane. Inevitabile – drammaturgicamente – il repentino soccorso, che nel film ha la forma di un rehab per tossici-non udenti (un vero inedito nella cinematografia) parte integrante di in una comune organizzata da e per sordi, il cui obiettivo è sganciare la mancanza di udito dalla condizione di handicap per associarla a quella di normalità. Va da sé che nel silente consesso di queste anime resilienti la vera guarigione passi per l’accettazione di se stessi, con la presa di coscienza dei propri fantasmi e rimossi.

Romanzo di formazione che attraversa la parabola (ascendente) dell’Eroe, Sound of Metal nasce dall’esperienza diretta del regista e sceneggiatore Derek Cianfrance (noto per lo struggente Blue Valentine con Ryan Gosling, ma non solo), già musicista che si trovò un giorno a combattere con l’acufene. Da quella sofferenza nacque prima il doc Metalhead e poi il progetto di Sound of Metal affidato però in regia all’amico Marder. Opera di struttura classica sullo sfondo emotivo (che sfiora ma non si addentra nel ricattatorio…) della società provinciale USA, il film trova due livelli di originalità.

La prima è riferita al lavoro con attori non protagonisti non udenti tutti con un passato di dipendenze, la seconda si lega al modo di riflettere cinematograficamente sulla sonorità, mettendo finalmente in risalto il duro lavoro dei sound designer, questi sconosciuti nell’ambito delle cine-professionalità. Il rimpallo audio-visivo della narrazione trionfa come non mai, con il plauso del film alla sua primissima apparizione al Toronto Film Festival 2019 seguito da riconoscimenti e candidature ai massimi premi a partire ben 6 nomination ai prossimi Oscar: miglior film, attore protagonista al britannico-pachistano Riz Ahmed, attore non protagonista al notevole Paul Raci figlio di genitori sordi, miglior sceneggiatura originale firmata dal regista col fratello Abraham e Derek Cianfrance, miglior montaggio e – naturalmente – miglior sonoro.

Sono sadici i francesi. Acquisita l’opera del Marchese

Il marchese De Sade lo redasse nei suoi anni di prigionia, lasciandolo incompiuto. Ora, a oltre due secoli dalla sua concezione e dopo lunghe peripezie, il manoscritto delle 120 giornate di Sodoma, il romanzo “più impuro mai scritto” come lo definì il suo autore, sta per trovare posto nelle teche della Biblioteca Nazionale di Francia (Bnf). Un rotolo di fogli incollati lungo 12 metri che nascose nelle crepe del muro della cella della Bastiglia dove era rinchiuso. Il “divin marchese” la compose “in 37 giorni”. Poi, dieci giorni prima dell’assalto alla prigione, il 14 luglio 1789, Sade fu trasferito in manicomio senza poter portare nulla con sé. Pianse “lacrime di sangue” per aver perso la sua “enciclopedia delle perversioni”. Il testo fu ritrovato nel 1832, venduto e rivenduto, dato alle stampe in Germania nel 1904, ricomprato dai discendenti del marchese, rubato da una pronipote e rivenduto.

La Bnf lo sta acquisendo per 4,55 milioni di euro. Somma consistente, per cui fa appello alla generosità di ricchi mecenati. “Le acquisizioni di oggetti rari come questi comportano sempre somme molto rilevanti. I prezzi delle opere manoscritte variano da 2,5 a 7 milioni di euro (per l’arte pittorica le cifre sono più che doppie, ndr) e serve tempo per trovare i fondi”, spiega Kara Lennon-Casanova, responsabile alla Bnf delle operazioni di fund raising.

La battaglia per le 120 giornate di Sodoma è iniziata nel 2017, quando il manoscritto è arrivato sul mercato dell’arte dopo lo “scandalo Aristophil”, una maxi truffa “alla Madoff” (il broker americano che adattò lo schema Ponzi a Wall Street, ndr) orchestrata da Gérard Lhéritier, fondatore del Musée des Lettres et Manuscrits poi chiuso. Per evitare che pezzi di patrimonio nazionale storico finiscano nelle mani di collezionisti stranieri, la Francia si è dotata di un’arma legislativa: il diritto di prelazione, incluso nel codice del Patrimonio, che lo Stato può esercitare nelle aste per i beni di interesse artistico e culturale. Ma spesso le acquisizioni seguono la strada della trattativa privata. Il manoscritto di Sade è stato dichiarato “tesoro nazionale” e ritirato dalla liquidazione di Aristophil. Ora, riferisce Lennon-Casanova, l’acquisizione è in dirittura d’arrivo.

“Abbiamo l’obbligo di legge di comprare al prezzo dell’opera sul mercato internazionale – spiega –. Speriamo sempre di finanziare il 100 per cento attraverso i mecenati e spesso non ci andiamo lontani”. Se non succede, l’istituzione deve mettere fondi propri. I mecenati sono spesso grandi aziende o fondazioni, che possono contare su sgravi fiscali fino al 66 per cento per i singoli e al 60 per le imprese.

Sono entrati così alla Bnf i disegni di Paul Valéry, il manoscritto miniato della Vita di Santa Caterina e, a inizio marzo, un volume della Recherche di Proust grazie a 350 mila euro di donazioni, fatte da 1.700 donatori (quasi un crowdfunding, con una media di 200 euro a contributo). Il dipartimento Manoscritti della Bnf è uno dei più ricchi al mondo, con 370 mila documenti di ogni tipo, non solo opere complete, ma anche appunti, schizzi, quaderni di scuola come quelli di Pasteur e Marie Curie. Spesso contende le opere a una quantità di soggetti esteri. “Abbiamo diversi concorrenti”, racconta Lennon-Casanova, che cita in particolare gli Usa: “Le università di Yale, Stanford e Harvard e i grandi musei statunitensi sono molto attivi nel mercato delle acquisizioni”.

Uno dei casi più eclatanti è stato, nel 2010, quello del manoscritto originale in francese delle memorie di Giacomo Casanova: 3.700 pagine ingiallite in cui il famoso libertino racconta le sue avventure amorose, cedute dagli eredi di Casanova nel 1821 all’editore tedesco Brockhaus di Lipsia. Per l’acquisizione ci vollero tre anni di laboriose trattative con l’ambasciata tedesca e ben 7 milioni di euro donati da un mecenate anonimo. Nel 2011, invece, Parigi “salvò”, riunendo più di un milione di euro di privati, gli archivi personali del filosofo rivoluzionario Guy Debord, dichiarati “tesoro nazionale” due anni prima e che interessavano Yale. Analogamente, nel 2012 sono stati trovati 3 milioni di euro per migliaia di pagine di appunti e manoscritti in fase di elaborazione di Michel Foucault.

La maggior parte delle acquisizioni si fanno con trattative private, di solito dopo anni di rapporti preliminari. “Se un’opera ci interessa cerchiamo di convincere il venditore a scegliere la Bnf, facilitati dalla storia e dalla reputazione secolare dell’istituzione – spiega Lennon-Casanova –. A volte sono gli stessi venditori a cercarci, perché ci preferiscono a un soggetto privato che rischia di rivendere l’opera dopo 20 anni”.

Oltre a Sade, quest’anno la Bnf sta raccogliendo altri 900 mila euro per completare l’acquisizione di una serie di manoscritti di André Breton del valore totale di 2,7 milioni di euro, tra cui il Primo e il Secondo Manifesto del Surrealismo. Anche in questo caso l’arrivo è atteso entro fine anno.

Sei personaggi dentro la “rivolta” degli anni Settanta

Sei personaggi in cerca dei loro anni Settanta. E quel che furono in Italia con i fuochi in superficie e la profonda impazienza che li alimentava su strade e piazze, assediando gli incroci della storia. O dentro le famiglie, dove si celebrava con disamore il pranzo domenicale nel tinello piccolo borghese. E il disamore diventava insofferenza, poi esodo per definitiva incomprensione con i padri. E l’esodo era il primo passo del viaggio a caccia della nuova vita in gran dispetto per quella vecchia. O così sembrava ai nostri sei personaggi di quella generazione che davvero pensava di essere la prima a possedere la mappa del futuro, accorgendosi solo più tardi, passate le frontiere degli anni a venire, che anche il futuro era pronto a diventare un passato pieno di attimi perduti, di tinelli e matrimoni angusti, di scelte giuste, di scelte sbagliate. Tutte senza ritorno, proprio come la giovinezza.

Per questo è tanto difficile La manutenzione dei ricordi (appena pubblicato da Chiarelettere) che si incarica di raccontarci un narratore di eccezione, Pier Luigi Celli, ex manager di grandi imprese, come Rai, Eni, Olivetti, che tante volte ci ha raccontato con il suo sguardo al presente i molti disastri pubblici italiani. Mentre stavolta, in forma di romanzo, è il riverbero del passato a intrigarlo, insieme con i suoi sei ammaccati personaggi che decidono di incontrarsi dopo mezzo secolo, tra i boschi d’entroterra umbra, per “provare a parlare della vita che avevano alle spalle”.

Sei amici d’un tempo e di un luogo speciali, Roma, anno 1968, scanditi dai primi cortei, le assemblee in università, le ragazze, i libri, le notti al bar Da Nello. E il primo viaggio della vita, quell’estate in autostop, destinazione la Francia del Maggio parigino, che ai loro occhi sembrava colorare finalmente il bianco e nero dei telegiornali.

Tornano a incontrarsi oggi, come passeggeri non più dello stesso treno, ognuno con i chilometri fatti e le città attraversate. Tutti consumati dagli anni, con “i profili color seppia, la ragnatela delle rughe che paiono fossati”. Ma pur sempre partiti dalla stessa stazione esistenziale, la Rivoluzione letta, vissuta, immaginata, con la sua scia di illusioni e lutti, quando “l’attesa superava la paura”.

Pietro, diventato ingegnere, “tre mogli illuse e deluse”, Romolo, sindacalista, che a forza di trattative ha scambiato la notte con il giorno. Lorenzo, anima leggera della compagnia, che ai tempi leggeva don Milani e salì a Trento a studiare Sociologia. Angelo con fisico da lottatore, le botte coi fascisti in piazza Istria. Francesco e Luigi, inseparabili, a quei tempi, cominciati durante gli scontri con la polizia sulle scalinate di Valle Giulia, “ti ricordi chi c’era in prima fila? Ferrara, Galli della Loggia, Brandirali, Liguori”, per dire come quella sinistra sia poi finita a destra, e i loro due destini legati dalla stessa donna, Valeria, che finirà per separarli, anche se non del tutto.

Tutti e sei “anime perse”, di nuovo a raccontarsela (“Siamo tutti vivi”, giusto?) con il fuoco del camino acceso, le passeggiate sotto la pioggia, le bottiglie a fine cena, che è poi l’ora migliore del rendiconto. E poi delle ombre. Per esempio, quelle dei compagni finiti nel labirinto della lotta armata, i ragazzi di Reggio Emilia e Mara, morta malamente, sparata dalla polizia. Ringraziando il destino di non avere fatto “scelte irrevocabili”, ma di essere diventati “esperti delle terre di mezzo tra le persone, tra le idee, tra i confini”. Magari con il dubbio che quegli “interstizi fossero il rifugio degli imboscati”. O al contrario una buona ragione per lasciarsi l’ottusità alle spalle, scoprire davvero il mondo, viaggiare in Centro America, come Romolo, o in Angola, come Luigi a costruire strade. O nella piccola provincia, come Francesco, dove ogni persona ha un nome e si può ricominciare da capo.

E adesso, nel ritrovarsi, accettare l’idea di essere diventati uomini “medi adattabili”. Senza avere fallito del tutto. E imparato verità più semplici, più trasportabili, un po’ d’amore ricevuto e reso, il caldo dell’amicizia, la scoperta che “niente spieghi il mondo meglio dei poeti”. Cioè più o meno il punto da cui cinquant’anni prima erano partiti, senza neanche capirlo.

Lo Stato ebraico e la dissoluzione delle forze di sinistra

Una regola fatale avvilisce la sinistra mondiale fin dai tempi della Grande guerra: fra classe e nazione, vince sempre la nazione. Solo rare volte la fratellanza degli oppressi è riuscita a smentirla. La mancata soluzione dei conflitti fra gli Stati finisce per averla vinta sull’internazionalismo proletario. Un caso di scuola, a tal proposito, è la dissoluzione della sinistra israeliana. Merita di venir esaminato perché – nonostante la specificità del quadro mediorientale – presenta caratteristiche che potrebbero ripetersi altrove. Anche in casa nostra.

Martedì prossimo si voterà in Israele per la quarta volta in due anni. Il sistema della rappresentanza politica si è frantumato. Sempre meglio votare che non votare, ma non è certo un bel segnale per la tenuta della democrazia. Tanto più che neppure stavolta emerge un’alternativa all’“uomo forte” Netanyahu che ha interrotto la legislatura per restare aggrappato al potere. Ebbene, quand’anche Netanyahu non ce la facesse (improbabile), l’unica cosa sicura è che la sinistra israeliana resterà tagliata fuori dai giochi. Ridotta all’irrilevanza dal perpetuarsi del conflitto con i palestinesi e con il mondo islamico circostante. Il Labour, erede del partito socialista che riuniva i fondatori dello Stato d’Israele, da anni non raggiunge il 6% dei voti. Alla sua sinistra, il Meretz oscilla intorno alla soglia minima del 3,5%. Irrilevanti, appunto. Eppure in Israele non mancano un’opinione pubblica progressista, una gioventù libertaria, autorevoli voci intellettuali laiche e pacifiste conosciute in tutto il mondo, Ong militanti dei diritti umani come B’Tselem e Breaking the Silence attive nella solidarietà con i palestinesi. Di più: nei suoi primi decenni di vita, lo Stato ebraico era permeato da esperienze comunitarie di modello socialista: forte presenza pubblica in economia, la realtà dei kibbutz, un’organizzazione sindacale potente, la sobrietà imposta come stile di vita della classe dirigente.

Com’è potuto accadere che tutto ciò non trovi più traduzione in politica? Un peso decisivo, certo, l’hanno avuto le trasformazioni economiche e sociali, uno sviluppo capitalistico impetuoso, l’immigrazione dall’est europeo e dagli Usa, l’espansione del sionismo religioso messianico che ispira il movimento dei coloni nei territori occupati. Resta il fatto che la sinistra israeliana, intimorita e perfino disgustata da questi fenomeni, s’è autoimposta un limite nel contrastarli: non potendo condividere la visione aggressiva della sicurezza nazionale della destra (basta dialogo coi palestinesi, da tenere a bada grazie alla supremazia militare, economica e tecnologica), è come se la sinistra avesse rinunciato a un suo progetto alternativo di soluzione pacifica del conflitto.

Dopo aver subito il trauma dell’assassinio di Rabin nel 1995, il fallimento degli accordi di Oslo con l’Anp, la scia di sangue del terrorismo islamista, il Labour ha preferito occuparsi d’altro, lasciando alla destra di gestire con la sua brutalità i destini del paese. Perfino il ritiro israeliano da Gaza, ultimo tentativo di distensione con i palestinesi, fu attuato nel 2005 dal “falco” Sharon. Alle elezioni successive, nel 2009, i laburisti guidati da Ehud Barak precipitarono per la prima volta sotto il 10%. E da allora a sinistra è stato tutto un succedersi di leader sempre più deboli, caratterizzati da quell’unico tratto comune: occuparsi di politica interna, di questioni economiche e sociali, lasciando alla destra le scelte strategiche. L’ultimo episodio di questa parabola discendente è stato addirittura spettacolare. Prima delle elezioni del marzo 2020 il candidato laburista Amir Peretz si fece tagliare i celebri baffoni davanti alle telecamere. Spiegò che lo faceva perché si vedessero meglio le labbra mentre pronunciava le parole: “Non andrò mai al governo con Netanyahu”. Difatti, poco dopo, ne divenne il ministro dell’Economia. Ma il Labour nel frattempo era ridotto a tre seggi alla Knesset. Adesso gli è subentrata la giornalista femminista Merav Michaeli, meno screditata di Peretz, la quale preannuncia di essere pronta perfino ad alleanze innaturali con l’estrema destra se ciò consentisse la formazione di una maggioranza contro Netanyahu. Tutto è possibile? No. Un’ipotesi la sinistra israeliana l’ha proprio esclusa: quella di formare un’alleanza elettorale con la lista araba progressista, che pure avrebbe in Ayman Odeh un leader aperto al dialogo. Fra classe e nazione, vince sempre la nazione. La barriera etnica resta insuperabile e la sinistra arretra fin quasi a dissolversi.

Certo, in Italia, come del resto in Francia e in altri Paesi europei, l’elettorato non vive il medesimo clima di guerra permanente. Ma la lezione israeliana ci ricorda che la sinistra può anche scomparire. Dalla politica, se non dalla società.

Scontro anche con Pechino Biden non è più Sleepy Joe

“Molti nemici molto onore”. Un motto che sembrava calzare per Donald Trump. Ma Joe Biden, il mite ‘Zio Joe’, gli sta ora facendo concorrenza e litiga su due fronti allo stesso tempo: “Con quello che fu l’avversario dell’America nella Guerra Fredda, la Russia, e con il possibile avversario nella Guerra Fredda prossima ventura, la Cina”. L’immagine della Cnn è condivisa dai più autorevoli media Usa, presi quasi in contropiede dall’aggressività di Biden in politica estera: verso l’Arabia Saudita e la Siria, ma pure verso Mosca e Pechino. Relegata in secondo piano, la Corea del Nord di Kim Jong-un ricorda d’esistere a modo suo: minacciando sfracelli nucleari. Tra Washington e Mosca volano pesanti affermazioni e scoperti insulti, mentre in Alaska parte male il primo confronto ad alto livello dell’era Biden tra Usa e Cina.

L’analisi della Cnn è drastica: “Un giornata senza pari di alterchi intercontinentali ha confermato che i rapporti con la Cina sono scesi al punto più basso dai tempi della ‘diplomazia del ping-pong’ di Richard Nixon, che consentì a Pechino di uscire dall’isolamento negli anni Settanta. E quanto alle relazioni Usa-Russia, sono al momento più difficili dal dissolvimento dell’Unione Sovietica”.

Certo non può avere fatto tutto Biden in due mesi alla Casa Bianca: il suo predecessore gli aveva ben arato il terreno, seminandovi zizzania. Però, per non mostrarsi debole rispetto a Trump il bullo, il nuovo ‘comandante-in-capo’ va sopra le righe e dà l’impressione di ‘cercare briga’.

Con la Russia, il match è a distanza: Biden apre le ostilità, dando dell’assassino a Vladimir Putin, che replica facendo dell’ironia sull’età e la senilità del suo interlocutore. Con la Cina, invece, quello che doveva essere uno scambio di battute protocollari, a uso e consumo della stampa, è divenuto uno scambio di battute abrasive.

Le azioni della Cina “minacciano” la stabilità globale, dice il Segretario di Stato Antony Blinken, aprendo ad Anchorage il primo incontro ad alto livello dell’era Biden fra funzionari di Washington e Pechino; e avverte che gli Usa intendono sollevare i temi dello Xinjiang e di Hong Kong. Sui fronti economico e commerciale, gli Stati Uniti – nota Blinken – non vogliono un “conflitto”, ma sono favorevoli a una “concorrenza dura”. La replica di Yan Jiechi, membro del Politburo, capo della diplomazia del Partito comunista cinese, non è affatto conciliante: minaccia “azioni decise” contro “l’interferenza americana“; e invita gli Usa ad abbandonare la mentalità da “guerra fredda.” Quanto ai diritti umani, rileva, gli Stati Uniti hanno una lunga storia di problemi su quel fronte: basta vedere gli afro-americani uccisi dalla polizia. “Riteniamo che Washington debba cambiare la propria immagine e smetterla di cercare di esportare la propria democrazia nel resto del mondo. La Cina non accetterà dagli Usa accuse ingiustificate.” Le due parti si accusano a vicenda di avere violato il protocollo concordato e di “demagogia”; e rivendicano ciascuna d’essere arrivata in Alaska “con la mente concentrata sul dialogo strategico” e senza avere premeditato provocazioni. Ma le dichiarazioni preliminari che dovevano durare 15’ si sono trasformate in un litigio pubblico trascinatosi per oltre un’ora. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi denuncia “difficoltà senza precedenti” fra i due Paesi, “che non dovrebbero continuare.” La delegazione Usa parla di “demagogia” da parte dei cinesi. E Biden si dichiara “orgoglioso” dell’atteggiamento di Blinken. Per una volta, i cinesi usano i social più degli americani. Il siparietto in Alaska diventa così virale con oltre un miliardo di commenti e visualizzazioni fino a essere “il tema più seguito”. Negli Usa se lo sono filati molto meno.

King Bibi ha un sogno: essere premier a vita

Gli israeliani voteranno martedì per la quarta volta in due anni e stando ai sondaggi potrebbero tornare ai seggi un’altra volta prima della fine dell’anno. Questo ciclo è il sintomo più evidente della polarizzazione che paralizza la politica israeliana. Il sistema multipartitico praticamente garantisce che nessun singolo partito otterrà la maggioranza assoluta in Parlamento, costringendo alla costruzione di coalizioni traballanti. E adesso anche la coalizione di destra che ha tenuto a galla Benjamin Netanyahu per 12 anni si è fratturata, principalmente sul fatto se accettare un primo ministro sotto processo.

Nelle ultime tre elezioni Netanyahu – che vorrebbe essere premier a vita – non ha ottenuto un sostegno sufficiente per formare un governo stabile. Ma nemmeno i suoi oppositori, e questo gli ha permesso di rimanere premier di una fragile coalizione. I sondaggi suggeriscono che è improbabile che il voto di martedì riesca a sbloccare la situazione, portando molti israeliani a prepararsi per una quinta elezione entro la fine dell’anno. La Knesset non ha approvato un bilancio statale né per il 2020 né per il 2021, nonostante i costi straordinari della pandemia, costringendo ministeri e le agenzie governative ad andare di mese in mese. Le riunioni di gabinetto sono state rinviate o annullate per le controversie all’interno della coalizione – fra Netanyahu e il leader di Kahol Lavan, Benny Gantz – e anche l’approvazione da parte del governo di decisioni critiche di politica estera è stata ignorata. Le posizioni chiave del governo rimangono aperte: il ramo esecutivo è in guerra con il ramo giudiziario. Il segno di come sia cambiata la mappa politica in Israele lo dimostra il fatto che martedì due dei principali sfidanti di Netanyahu sono di destra e sono ex stretti collaboratori del Bibi nazionale. L’ex numero 2 del Likud è Gideon Sa’ar; lo scorso dicembre ha fondato il suo partito New Hope (10-11 seggi accreditati) proprio per sfidare Netanyahu e Naftali Bennett – leader di Yamina, partito di riferimento dei coloni (11 seggi) – è stato in passato capo dello staff di Bibi.

Il terzo sfidante è Yair Lapid, un ex giornalista tv su posizioni centriste il cui partito Yesh Atid (19 seggi) sta lanciando la sfida più forte a Netanyahu. Gantz e il suo partito Kahol Lavan – il “separato in casa” dell’attuale governo – non è considerato una minaccia da Netanyahu. I sondaggi suggeriscono che il suo partito potrebbe anche non riuscire a vincere un seggio; sostenitori delusi per la sua decisione di formare un governo con Netanyahu, un accordo a cui aveva promesso di non aderire. Sullo sfondo restano i tre partiti di riferimento dei religiosi ortodossi, tradizionali alleati di Bibi (16-18 seggi), l’ex amico e ora arcinemico del premier, Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beitenu – il partito di riferimento degli immigrati dall’Est (7 seggi). La neo leader del Labour Party, Merav Micheli promette agli israeliani un paradiso femminista ma prima deve far rivivere un partito morente (4 seggi), così come il Meretz – altro partito a sinistra – che potrebbe non entrare nemmeno alla Knesset. In calo anche la Lista Araba Unita (8 seggi). Potrebbero volerci settimane o mesi per la formazione di un nuovo governo – se ne può essere formato uno – e in qualsiasi momento la maggioranza del Parlamento potrebbe votare un nuovo scioglimento e andare verso l’ennesima elezione. Nei giorni successivi al voto il presidente Reuven Rivlin darà l’incarico di governo. Di solito dà quel mandato al leader del partito di maggioranza relativa, che sarà probabilmente Netanyahu. Ma potrebbe concederlo a un altro legislatore, come Lapid, se ritiene abbia maggiori possibilità di mettere insieme una coalizione vitale. Nessuno lo esclude. Il Likud di Netanyahu dovrebbe emergere come il più grande partito, con circa 30 seggi. Ma i suoi alleati potrebbero non avere abbastanza seggi per dargli una maggioranza di 61 deputati sui 120 della Knesset. Sebbene i sondaggi suggeriscano che i partiti di opposizione vinceranno collettivamente più di 61 seggi, non è chiaro se le profonde differenze ideologiche consentiranno loro di unirsi. L’uomo chiave potrebbe essere Bennett. Anche se vorrebbe sostituire Netanyahu, non ha nemmeno escluso di poter entrare a far parte del suo governo.

Povero Mes, l’hanno rimasto solo…

Sì, è vero, colpevolmente lo avevamo dimenticato e invece lui sta ancora lì, coi suoi prezzi stracciati e il cuore in mano. No, non si parla di un negoziante in crisi per la pandemia, ma del Meccanismo europeo di stabilità, il famoso Mes. Visto che ce lo siamo ricordato – e visto che il rendimento dei Btp decennali ieri era uguale o superiore al livello di fine 2020 – Il Fatto riprende qui brevemente la sua campagna di moral suasion nei confronti delle ex vedove della linea di credito pandemica del Mes, da Renzi e famigli giù giù fino a giornalisti e commentatori: non fate i timidi, Draghi ieri ha detto che “non è una priorità” e che prenderlo così è quasi “buttare i soldi”, ditegli come facevate un tempo che senza quei fondi la gente muore… Dirà il lettore: ma ancora col Mes? Purtroppo, oltre al premier, ce lo ha riportato alla mente l’ex membro della Vigilanza Bce, Ignazio Angeloni, il quale – dalle colonne del Sole 24 Ore – s’è posto la fatidica domanda: e mo’ che ce famo co sto Mes? Dice: “Già prima della pandemia si sospettava che il fondo rischiasse di non avere un gran futuro. Nell’ultimo anno, quell’impressione si è rafforzata”. Dice: se ne parla un gran male, eppure “i responsabili europei, e il Mes stesso, sostengono che i programmi sono stati un successo” e “c’è del vero” visto che “tutti e 5 i Paesi (di cui s’è occupato, ndr) sono usciti dalla crisi e sono tornati a crescere”. Infatti Spagna, Grecia & C. sono stati così contenti di quell’esperienza che non chiedono nuovi fondi ai simpatici lussemburghesi per non apparire maleducati: poi sembra che si vogliono divertire solo loro… Dice: sarà colpa dello “stigma”, però certo “la riforma del Mes in fase di ratifica non migliora le cose” (ma davvero?). Dice: “Già oggi sottoutilizzato, il Mes rischia di esserlo ancor più in futuro”, tanto è vero che con un plafond di 500 miliardi di prestiti attivabili, quelli “effettivi” sono solo 90. Insomma, il Mes l’hanno rimasto solo come Peppe il Pantera de I soliti ignoti. Si domanda dunque Angeloni: e mo’? Si risponde: potremmo farne una sorta di piccolo Fmi, un’agenzia europea del debito che valuti pure le riforme del settore finanziario. Giusto, certo, bella idea. La buttiamo lì: e se invece ci riprendiamo i soldi e amici come prima?

Il paradosso della norma sui bambini disabili

Sulle chat di classe e i gruppi di genitori in Rete la scoperta si accompagna a un misto di ansia ed eccitazione: ai bambini e ragazzi disabili, e a quelli con ‘bisogni educativi speciali’, la didattica va garantita in presenza. Ma siccome il disabile non può restare da solo in classe, ecco che gli altri, fissi o a rotazione, possono andare anche loro. La misura – sacrosanta in sé – ai tempi della dad forsennata genera il paradosso che i ragazzini che hanno in classe bambini ‘speciali’ vanno a scuola mentre gli altri no. Un paradosso simile a quello della norma che consente l’agonismo a scuole chiuse, con conseguente impennata di iscrizioni a gare e competizioni. C’è poco da biasimare chi ormai ha poco da perdere – tale è un genitore coi bambini a casa, gli uffici aperti e zero sostegni – e dunque cerca tra le righe la norma che gli consenta la sopravvivenza, un po’ come si cercava un cane nel primo lockdown. Il fatto è che con l’arrivo del governo Draghi, le fessure attraverso cui far valere il diritto alla scuola si sono serrate con decisioni dal sapore vagamente persecutorio: a parte nidi e materne sbarrate, via la norma che consentiva ai figli di chi fa lavori essenziali di avere la scuola e mano libera ai governatori che possono chiudere le scuole persino in zona gialla. E allora, oltre al mail bombing, alle proteste – commovente a Perugia la marea di scarpe di bambini in piazza – oltre a cortei e ricorsi al Tar non resta che aggrapparsi alla norma sui disabili. Ma niente paura per chi ha la classe ‘sana’: l’anno prossimo la didattica in presenza sarà per tutti. Perché dopo due anni scolastici martoriati, tutti i nostri figli saranno bimbi con “bisogni educativi speciali”. Sperando che non siano diventati – a furia di dad – anche incurabili disabili mentali.

Covid, il panico ci ha accecati

Come previsto, il fenomeno Covid è condizionato da un’emotività crescente. Tutti i nostri sentimenti sono diventati esasperati. Basta una scintilla per far divampare incendi, una voce singola per alimentare il panico generale. E tutto ciò ci sta creando un danno enorme. Mi viene in mente un film del 1976, Panico allo stadio, diretto da Larry Peerce. Viene individuato un potenziale cecchino appostato su una torre dello stadio. Non colpirà nessuno, ma il terrore generato dall’evacuazione provoca molte più vittime. È quello che stiamo rischiando in questi giorni. La farmacovigilanza raccoglie quotidianamente segnalazioni di eventi avversi dopo l’assunzione di farmaci. La gente non reagisce, la notizia non è nemmeno diffusa. Pensate a quanta gente muoia dopo (non a causa) aver assunto una semplice aspirina. Non ho mai sentito nessuno dichiarare che l’aspirina provochi la morte! In tempo di Covid, un numero di morti cronologicamente avvenuti dopo la somministrazione del vaccino AstraZeneca, è stato sufficiente a seminare il panico. Si sa, il panico acceca. Infatti non è stato preso in considerazione che le vittime di eventi avversi sono state pari a quelli che non avevano ricevuto il vaccino. Peraltro, la cecità è stata tale da far puntare il dito solo sul vaccino AstraZeneca, tralasciando dati che evidenziano un numero di casi indesiderati maggiore nella somministrazione del vaccino Pfizer. Ema e, di conseguenza Aifa si sono trovati, come Robert Lee Frost ne La strada non presa a un bivio: lasciare in uso il vaccino, dando il giusto valore delle segnalazioni, non danneggiando, forse indelebilmente, la campagna vaccinale; o, come hanno fatto, dare un segno forte di salvaguardia della salute per catturare la fiducia già messa a dura prova. Adesso che il problema è risolto, archiviamolo. Parlarne ancora potrebbe non essere positivo. Per una volta il silenzio sia d’oro.

 

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Speranza, le dimissioni farebbero chiarezza

Non sarebbe meglio che il ministro della Salute si dimettesse visto che il premier Draghi gli sta facendo terra bruciata intorno? Ormai è evidente che egli è lontano anni luce dalla sua politica.

Mauro Matteucci

Caro Mauro, sarebbe un atto di chiarezza su questo governo di centro-destra.

M. Trav.

 

Sulle spese delle Regioni bisogna dare battaglia

Ho letto sul Fatto i veri motivi per cui Domenico Arcuri è stato sostituito. Sarà interessante seguire i conti presentati dalle Regioni e quelli saldati dal nuovo commissario. I 5Stelle dove sono? Queste sono battaglie che vanno combattute a voce alta.

Antonella Jacoboni

 

L’unica discontinuità è quella dei Ristori

L’altra sera, da Gruber, Franco e Cuzzocrea attaccavano Conte e osannavano Draghi per la totale discontinuità. In effetti mio figlio, un B&B inattivo da un anno, mi dice che la continuità dei ristori data da Conte è stata bloccata: sarà questa la discontinuità?

Roberto Giagnorio

 

I dem osannano Letta, ma i problemi restano

Ieri il Pd era un partito di cui vergognarsi (Zingaretti dixit). Oggi, senza un minimo di discussione, sono tutti “tripudianti” (sempre gli stessi). Reputo Letta un politico preparato, ma forse avrebbe dovuto pretendere chiarimenti.

Attilio Luccioli

I capibastone del Pd, responsabili delle dimissioni di Zingaretti, si sono ben guardati dallo scusarsi per gli accadimenti e di trarne le conclusioni. Sono rimasti ai loro posti con faccia di bronzo e, passato tutto, saranno pronti a perpetrare l’ennesimo colpo di mano.

Mario A. Querques

 

L’ingresso di Dell’Arti riceve apprezzamenti

Grande ingresso quello di Giorgio Dell’Arti, magnifico maestro di giornalismo. Non ne condivido tutte le idee, ma ammiro la sua profonda competenza e la multiforme intelligenza. Certo, far convivere Tomaso Montanari con Pietrangelo Buttafuoco, Daniele Luttazzi con Giorgio Dell’Arti non deve essere semplicissimo, ma è noto che le belle intelligenze trovano sempre un terreno comune sul quale incontrarsi. Se continuiamo così, diverrà impossibile disdire l’abbonamento al Fatto.

Carlo Federici

 

Ricordiamo Marco Biagi a 19 anni dalla sua morte

Il 19 marzo ricorre l’anniversario della morte del Prof. Marco Biagi, assassinato per aver segnalato quanto accade nei Paesi più avanzati in tema di diritto del lavoro. Strada facendo, si sono persi molti elementi che dovevano completare la riforma che porta il suo nome, pensata in realtà per non far pagare ai lavoratori il prezzo. Ricordarlo oggi è un dovere e un segno di attenzione umana e civile.

Andrea Zirilli

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo di giovedì dal titolo “L’Ue si immunizza prima: subito dosi a deputati e staff” a firma di Lorenzo Giarelli, si precisa, rispetto al titolo stesso, che il Parlamento europeo è pronto per iniziare le vaccinazioni non appena il piano a Bruxelles entrerà nella fase 1b e il Parlamento riceverà i vaccini necessari dalle autorità locali. Ciò è attualmente previsto a partire dalla seconda metà della prossima settimana e riguarda il gruppo prioritario 65+, in pieno allineamento con le autorità locali. Le vaccinazioni continueranno seguendo calendario e priorità decise dalle stesse autorità belghe. Ancora non è prevista una data d’inizio per maggiorenni sotto i 65 anni e non a rischio. Gli eurodeputati che vorranno vaccinarsi a Bruxelles potranno farlo seguendo calendario e categorie stabilite dalle autorità belghe. Come si spiega anche nell’articolo, il Parlamento europeo ha inoltre messo a disposizione i spazi nei propri edifici per vaccinare i cittadini e decongestionare gli spazi di competenza locale. Lo staff che risiede e lavora negli Stati Membri non sta ricevendo una vaccinazione con tempi diversi rispetto a quelli stabiliti delle relative autorità nazionali.

Uff. St. Parlamento europeo

 

Ringrazio per la precisazione. Sappiamo (e ribadiamo) che le istituzioni europee non godranno di una corsia preferenziale rispetto al resto della popolazione belga, l’anomalia (da cui il “prima” del titolo) è rispetto ai tempi della vaccinazione italiana, perché di questa situazione potranno approfittare anche i nostri eletti che non risiedono stabilmente a Bruxelles. E infatti molti hanno detto di non volerne approfittare.

L. Giar.

 

I NOSTRI ERRORI

Nel pezzo pubblicato ieri dal titolo “Vaccini e Ue, scommesse perse e soldi spesi male” a firma di Stefano Valentino scriviamo che “anche l’Italia si è mossa al rallentatore, erogando 80 miliardi per il vaccino della Reithera… e poi a marzo altri 400-500 miliardi per sviluppare i vaccini entro i confini nazionali”. Si tratta ovviamente di milioni e non di miliardi. Ce ne scusiamo con i lettori.

FQ

Nella rubrica della Prof. Maria Rita Gismondo di giovedì, i decessi per Covid in Gran Bretagna risultavano essere 8.739 il 18.01 e 1.000 l’8.03. Erano invece rispettivamente 599 e 65. Ce ne scusiamo con i lettori.

FQ