Il liceale “La pandemia ci ha sottratto il tempo dei rapporti umani”

Gentile redazione, la pandemia ha ridimensionato tanti aspetti della vita del nostro Paese e, in generale, di quella di tutto il mondo: dall’interventismo sull’economia al modo di fare politica. Su tutti, il Covid-19 si è imposto con particolare virulenza sull’aspetto che maggiormente riguarda ogni soggetto: la socialità, elemento imprescindibile della natura umana.

Nella filosofia kantiana, gli elementi che permettono al singolo di percepirsi e definirsi in quanto essere umano (le forme a priori della sensibilità), e che quindi costituiscono la base dei rapporti con l’altro e della vita associata, sono spazio e tempo. Afferma l’antropologo Marino Niola: “L’uomo si adatta sempre… e la pandemia sta introducendo mutazioni antropologiche, cambiando il nostro rapporto con lo spazio”.

Nel suo discorso d’insediamento, il premier Mario Draghi ha parlato di un rafforzamento di atlantismo ed europeismo, e quindi di un’attenzione all’espansione della dimensione politica ed economica: di contro, penso risalti tragicomicamente il paradosso che vede i rapporti concreti delle persone forzati dal virus entro confini regionali, comunali o casalinghi. Resta però la mia ferma convinzione che, non appena le condizioni lo permetteranno, lo spazio sociale sarà prontamente riconquistato dalle persone.

Se la possibilità di riappropriarsi di questo spazio dipende dalla nostra capacità e volontà di prevaricare sul virus come comunità, vi è l’altra dimensione che prescinde maggiormente dal controllo umano: il tempo. In riferimento alla didattica a distanza, scrive Francesco Piccolo: “Manca almeno mezza vita, adesso. E molto di più, se si pensa alle conseguenze che quella mezza giornata (la tipica giornata scolastica in presenza, che ora manca e che insegna a vivere) avrà sull’altra metà, che quella mezza vita avrà sull’altra metà”. Ancora una volta dobbiamo confrontarci con ciò che la pandemia ci ha sottratto: il tempo dei rapporti e dello stare insieme in una società che, mai come prima, atomizza l’individuo e gli offre numerose vie per fuggire dal reale. La soluzione, allora, a mio parere, risiede nel tornare a confrontarsi con la realtà stessa e nell’impegnarsi a sfruttare il tempo che verrà per recuperare il rapporto con l’altro.

Tommaso Vergnani, liceale

Paura del vaccino, è colpa delle fonti o dei giornali?

“Nonostante la promessa (o la minaccia) delle profezie matematiche per il futuro, dobbiamo di frequente accontentarci dei titoli del presente. Ecco perché i giornali saranno sempre nuovi e il loro fascino non tramonterà mai”

(da Un matematico legge i giornali di John Allen Paulos – Rizzoli, 2009 – pag. 278)

Di fronte al saccheggio continuo della carta stampata, da parte di tv, radio, siti online e social network, viene da chiedersi di che cosa parlerebbero tutti questi media se non esistessero i giornali. Sono proprio i titoli, gli articoli, i commenti o le inchieste pubblicati dai quotidiani ad alimentare gran parte delle trasmissioni radiotelevisive e dell’informazione digitale. Oltre ai colossi del web – Google e Facebook in testa – che “rubano” le notizie per sfruttarle a fini commerciali, senza pagare alcun diritto né agli editori né ai giornalisti, c’è l’idrovora delle rassegne stampa diffuse da radio e tv, dei talk show e di quel genere ibrido chiamato infotainment, che risucchia e depreda la produzione editoriale.

Ne ho scritto già una dozzina di anni fa, quando il fenomeno era ancora agli albori, in un articolo intitolato “Il furto dei giornali nel secolo dei media” (Repubblica, 24 ottobre 2009). Ma ormai il saccheggio è ogni giorno sotto gli occhi (e nelle orecchie) di tutti. E ne abbiamo avuto recentemente una clamorosa manifestazione a proposito del “caso AstraZeneca”, in attesa che il siero anglo-svedese fosse riammesso.

A salire sul banco degli imputati, piuttosto che i governi, le aziende farmaceutiche o le autorità di controllo, sono stati chiamati i giornali e i giornalisti, anche da parte dei propri colleghi: a cominciare da quelli che volevano “aprire tutto” o protestavano contro la “dittatura sanitaria”. Le accuse di allarmismo e “scoopismo” si sono incrociate così con quelle di istigazione a rifiutare il vaccino o di attentato alla salute collettiva.

Ora è vero che qualche giornale può aver sbagliato, ipotizzando o insinuando un collegamento tra le cosiddette “reazioni avverse” e la somministrazione di AstraZeneca. Spesso senza mettere in risalto le percentuali statistiche minime di questi casi sospetti. E soprattutto, senza evidenziare che – per la stragrande maggioranza degli scienziati e dei medici – non c’è un rapporto causa-effetto tra il vaccino e le “rare trombosi” che hanno provocato la morte di alcune persone, peraltro in numero inferiore a quello registrato abitualmente.

Ma i giornali si fanno ogni giorno, generalmente in condizioni di fretta: da una parte, con l’ansia di dare le notizie utili o interessanti per i lettori e, dall’altra, di verificarle doverosamente prima di pubblicarle. E qui risaliamo alla responsabilità delle fonti, più o meno ufficiali: sono loro, semmai, che devono imparare a comunicare. Se AstraZeneca viene prima consigliato agli “under 55”, poi viene esteso fino a 65 anni e infine anche oltre quella fascia d’età; se prima si annuncia che la seconda dose va fatta dopo tre settimane e poi si arriva addirittura a tre mesi; se l’Ema (l’agenzia europea del farmaco) e l’Aifa (quella italiana) prima affermano che è sicuro e poi i governi di mezza Europa ne sospendono improvvisamente la somministrazione, che cosa devono scrivere i giornali? Scrivono quello che risulta in quel momento, salvo poi correggere, modificare o integrare il giorno dopo, come in realtà è accaduto.

Il vero interrogativo, però, è un altro. Che cosa devono pensare i cittadini, come devono comportarsi quando vengono informati in modo così incerto e contraddittorio dalle fonti autorizzate tramite i giornali o gli altri media? Allora può accadere che la paura del vaccino superi la paura dell’informazione.

 

L’Ue e l’Italia devono investire sui giovani, a partire dai dati

A cosa servono i dati, le statistiche ufficiali? L’argomento riguarda tutti noi e la nostra qualità della vita. I dati servono a orientare le scelte per il futuro del nostro Paese a qualsiasi livello istituzionale al fine di assumere, in maniera strutturata e lungimirante, le decisioni migliori per la collettività. Anche per la pandemia in corso avere numeri attendibili e più rigorosi, come già detto in passato sulle pagine del Fatto Quotidiano, sarebbe indispensabile per attuare misure di contenimento efficaci e tempestive. E finalmente il governo ha incluso esperti in materie statistico-matematiche nel nuovo Cts: a tal proposito confidiamo che la Protezione Civile coinvolga professionisti dei dati provenienti dal mondo accademico e della statistica ufficiale.

I dati sono necessari a qualsiasi livello di governo, ma certamente l’individuazione e l’utilizzo di dati relativi ai giovani permetterebbe una seria pianificazione delle politiche soprattutto in relazione al fondo Next Generation Eu (Ngeu) e quindi del futuro del nostro Paese. Gli interventi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) saranno delineati in modo da massimizzare il loro impatto positivo in particolare sulla parità di genere, sulla questione giovanile e quella meridionale. Nel 2018 sono stati inseriti 11 obiettivi nella strategia dell’Ue per la gioventù: nel 2021 possiamo dire di aver fatto concreti progressi? L’Italia si colloca in fondo alla graduatoria dei Paesi europei per la situazione giovanile, come è confermato dall’elevato numero dei Neet (Neither in Employment or in Education or Training), la fascia di età che va dai 15 ai 29 anni che non studia, né lavora, né si forma.

Secondo gli ultimi dati Istat, in Italia sono presenti, includendo soggetti fino ai 35 anni, oltre 3 milioni di Neet. Anche a livello territoriale non manca la disomogeneità: dal 2006 le Regioni hanno assunto il ruolo di policy maker per le politiche giovanili e anche in questo campo – oltre che nella Sanità – vi sono state Regioni virtuose e altre meno, con opportunità per i giovani quindi molto differenti. Non vi è convergenza nemmeno sulla definizione del termine “giovane” (under 24, 29 o 35?), e ciò rende evidente la necessità di dotarsi di politiche data driven a favore dei giovani, e dunque di rilevazioni statistiche aggiornate e affidabili su di essi.

Un interessante punto di partenza è comunque costituito dalle statistiche ufficiali delle Regioni e dello specifico sito Istat dati-giovani.istat.it. È dunque il momento, per una parte consistente del nostro Paese (quasi 21 milioni gli under 35 all’1.1.2021, il 35% della popolazione italiana) di voltare pagina e iniziare una nuova stagione di concretezza.

Oggi abbiamo un nuovo ministero dedicato ai giovani, i fondi del Ngeu e il Pnrr che potrà prevedere anche l’utilizzo di strumenti finanziari con l’ingresso di capitali privati o di altri fondi pubblici a supporto degli investimenti. Si tratta di mettere a sistema tali strumenti e creare una specifica produzione di dati da assumere alla base delle decisioni da prendere e per il monitoraggio delle iniziative intraprese. La consapevolezza di una carenza di dati analitici sui quali fondare delle serie politiche per le nuove generazioni, deve portare i decision maker a colmare al più presto questo gap informativo. Anche a livello globale si potrebbe fare molto. Così come esistono i Sustainable Development Goal indicators, si dovrebbero istituire i Next Generation Goal indicators: dati che devono essere concepiti nella forma di un insieme di indicatori riconosciuti dalla collettività, confrontabili fra Paesi e monitorabili nel tempo, evitando così una parzialità e distorsione di interpretazioni.

 

Eni, Nigeria, Congo: sette domande ancora aperte

Dopo la sentenza Eni-Nigeria, si può semplicisticamente gioire, come hanno fatto in molti, perché “anni di fango” gettati addosso alla più strategica delle aziende italiane sono stati lavati in 57 secondi, quelli in cui il presidente del Tribunale ha letto il dispositivo d’assoluzione. Oppure ci si può porre, più seriamente, alcune domande di fondo lasciate aperte da un’assoluzione che riguarda il solo piano giudiziario. Domande che riguardano il processo in cui i giudici hanno ritenuto che non ci sono prove della corruzione internazionale (“il fatto non sussiste”); e domande che più in generale riguardano i grandi business che le aziende italiane concludono in giro per il mondo.

1. Quello che è certo è che neppure un cent, del miliardo di dollari pagati da Eni per la licenza petrolifera Opl 245, è rimasto nelle casse dello Stato nigeriano. Eni ha cambiato in corsa lo schema dell’affare, nel 2011, versando 1,092 miliardi di dollari su un conto del governo nigeriano e non direttamente (come era previsto dal primo schema) a un ex ministro del petrolio, già condannato in Francia per riciclaggio, che si era autoassegnato la concessione. “Safe sex”, scrisse The Economist, un affare fatto con uno schermo di protezione, dopo il quale i soldi sarebbero stati comunque tutti distribuiti a pubblici ufficiali, politici, faccendieri. Non è provato, dice ora la sentenza, che Eni abbia partecipato a questo schema corruttivo. Ma non è comunque un problema che la più rilevante delle aziende pubbliche italiane abbia partecipato a un affare in cui ha buttato oltre un miliardo di dollari, senza ottenere nulla in cambio (non una goccia di petrolio è stata ancora estratta)? Soldi che hanno alimentato la corruzione nel Paese da cui proviene la maggioranza dei migranti africani che arrivano in Italia (80 mila negli ultimi cinque anni, di cui 22 mila minori).

2. L’assoluzione nel processo di Milano confligge con la condanna a 4 anni per corruzione internazionale (in rito abbreviato) di due mediatori dell’affare, Emeka Obi e Gianluca Di Nardo. I due avrebbero dunque partecipato a uno schema corruttivo che non esiste? L’appello che si celebrerà fra qualche tempo confermerà o smentirà il giudice di primo grado che poteva, tuttavia, contare su prove importanti, non ammesse nel giudizio davanti al Tribunale.

3. I pm della Procura di Milano, in un altro procedimento, sostengono che i vertici Eni abbiano influito, o tentato di influire, sul processo milanese con manovre, ricatti, tentativi di comprare un testimone, operazioni d’intelligence, che hanno di certo ottenuto il risultato di infamare due consiglieri di amministrazione che cercavano di fare chiarezza sull’affare nigeriano (Karina Litvack e Luigi Zingales), uno dei quali spinto alle dimissioni.

4. I protagonisti Eni dell’affare nigeriano sono gli stessi di un’operazione in Congo per cui stanno per patteggiare (sebbene tale scelta non equivalga per legge a un’ammissione di responsabilità). L’accusa di corruzione internazionale è stata derubricata a induzione indebita, ma resta il fatto che i vertici Eni hanno ottenuto il rinnovo delle concessioni petrolifere in Congo accettando le pressioni dei pubblici ufficiali congolesi e cedendo loro (attraverso la società Aogc) quote delle società che controllano i pozzi. È un comportamento eticamente accettabile?

5. Alcune quote dei pozzi sono state poi girate da Aogc, dunque dai pubblici ufficiali congolesi, alla società Wnr, riferibile a “soggetti collegati a Eni spa”, tra cui Roberto Casula, il numero due operativo dell’amministratore delegato Claudio Descalzi. È una situazione tollerabile?

6. In casa del numero uno di Eni si è consumato un irrisolto conflitto d’interessi. La compagnia ha per anni affidato a società riconducibili alla moglie lavori in Africa per almeno 300 milioni di dollari. Descalzi ripete di non averne mai saputo nulla. Ma che cosa è peggio, per un manager internazionale: avere un conflitto d’interessi in casa, o non accorgersi di quello che gli capita sotto il naso?

7. C’è un non detto, in queste vicende. O detto sotto voce: così fan tutti, nei grandi affari internazionali, le mazzette sono il solo metodo per fare business in molti Paesi del mondo; e solo in Italia la magistratura poi ci mette il naso, indebolendo i campioni nazionali. Non è vero, gli Stati Uniti e i Paesi europei hanno organismi e sistemi di controllo severi ed efficaci. In Italia, solo la magistratura (a volte) interviene, con strumenti insufficienti, alti rischi di fallimento e conseguente tentazione, per il futuro, di avviare solo i processi “sicuri” (cioè nessuno). È una situazione accettabile in un Paese civile e in un contesto internazionale in cui la lotta alla corruzione è proclamata come necessaria per lo stesso buon funzionamento dell’economia e per accelerare la crescita dei Paesi in via di sviluppo?

 

Il Calvario di Gesù: fiction poi Linus, Nicola e la p2 di Gelli. Meglio Diana Ross

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Canale 69, 10.00: Deejay chiama Italia, varietà. La bravura di Linus, Nicola, Matteo e Alex è acclarata da tempo, e i lunghi mesi di pandemia e lockdown intermittenti hanno come rimotivato la compagnia: gli ascoltatori stanno usando il programma come sessione collettiva di sostegno psicologico, perché il cazzeggio del programma, sempre frizzante, sa permettersi serietà inusitate, grazie a una credibilità conquistata sul campo. Il programma, insomma, sta svolgendo in modo perfetto una funzione importante, premiata dagli ascolti, pur nel silenzio delle fanfare mediatiche, ingiusto rispetto ai risultati. Quando i temi affrontati si fanno più politici, però, la prudente e vantaggiosa tendenza ecumenica (dichiarata dai conduttori con frasi ricorrenti che segnalano la loro equidistanza da appartenenze partitiche nell’emettere questo o quel giudizio) rischia il sorvolo distratto su questioni importanti. Per esempio, il 17 marzo scorso erano 40 anni dalla scoperta della lista di 962 affiliati alla loggia massonica P2 di Licio Gelli (ne mancano molti all’appello, se il capo dell’ufficio Affari riservati del Viminale, Federico Umberto D’Amato, regista di molte trame occulte italiane, aveva la tessera n. 1643). Linus ha riassunto il caso a beneficio degli ascoltatori più giovani e/o meno informati, facendo anche del colore. A un certo punto, però, ha detto: “Non si è mai saputo, comunque, cioè non si è mai arrivati a una certezza vera su cosa facevano, su chi erano e su quante cose insomma in qualche modo loro hanno ordito”. Questo è inesatto, e sminuisce l’accaduto. Atti processuali, commissioni parlamentari d’inchiesta e indagini storiche hanno portato alla luce molto, delle nefandezze piduiste e dei suoi protagonisti. Come ha ricordato Benedetta Tobagi a Radio3, tutti i vertici dei servizi segreti erano affiliati alla P2, insieme con 3 ministri del governo Forlani, il segretario del Psdi, il capogruppo socialista alla Camera, molti parlamentari, 63 alti funzionari ministeriali, 24 generali e ammiragli delle tre armi, 9 generali dei carabinieri, 5 generali della Gdf, un centinaio di ufficiali superiori, 5 prefetti, vari diplomatici, magistrati, giornalisti, editori, imprenditori (fra cui Berlusconi, ma mi rendo conto che nominarlo a Deejay chiama Italia sarebbe stato come parlare di corda in casa dell’impiccato, dato che Nicola lavora alle Iene), dirigenti di società pubbliche e banchieri (fra cui Sindona e Calvi). La Commissione Anselmi documentò che la P2 c’entra (politicamente, economicamente e moralmente) con la strage sul treno Italicus. La notizia recente, clamorosa perché riunisce due misteri finora disgiunti, è che, secondo la Procura generale di Bologna, Gelli, già condannato per depistaggio, ebbe il ruolo di mandante della strage alla stazione di Bologna: pagò con soldi dell’Ambrosiano i Nar che misero le bombe. “Strada facendo” disse Gelli a proposito del suo famigerato Piano di rinascita democratica “se ne è realizzato tanto. Manca solo un tassello: la Repubblica presidenziale”. Ci stiamo arrivando: il maggioritario, e l’ammuina nei partiti, servono esattamente a questo. Nel frattempo, cari amici, ascoltiamoci un successo di quegli anni. Questa è Diana Ross, Upside Down.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. Su ordine di Pilato, Gesù viene inchiodato alla croce, e poi costretto a portarla fino in cima al monte Calvario.

 

Il Santo Draghi e i suoi cantori, ed è subito satira

Il nuovo governo è una manna per la satira, quella autentica, come ben sanno i lettori del Fatto che ogni giorno possono deliziarsi con Mannelli, Natangelo, Vauro (declinati in rigoroso ordine alfabetico per evitarmi dolorose ritorsioni). A fornire loro inesauribile materia viva non è tanto il premier quanto l’incensamento del premier da parte della stampa patriottica, così focoso e impetuoso da rappresentare un inedito genere letterario. A cui appartiene di diritto anche la striscia che pubblica Internazionale, firmata dottor Pira, con un Mario Draghi che attraversa i muri come Superman, entra in un bar, sorbisce il caffè, poi ringraziando esce dalla parete opposta mentre la barista esclama: com’è determinato! Questa settimana il Mario Draghi in punta di matita, rivolto alla commensale indecisa sul menu, le consiglia: prendi la pastasciutta è buona. E mentre il supereroe infrange l’ennesimo muro, lei estasiata e con le forchetta in mano ringrazia: è vero Mario Draghi, è buonissima!

Alla satira involontaria della realtà appartiene l’Alberto Giovanni Gerli, ingegnere padovano, arruolato nel nuovo Comitato tecnico scientifico e poi dimesso nello spazio di un mattino. Giusto il tempo di verificarne la caratura tecnico scientifica: una serie di modelli statistici davvero incredibili visto che sul Covid di previsioni non sembra ne abbia azzeccata una. Purtroppo, di tale prodigio nell’avvenuta lottizzazione politica del Cts nessuno si assume la paternità (forse anche per un suo video pazzerello divenuto assai virale, per restare in tema). Neppure Matteo Salvini che ora sostiene di non averlo “mai visto né conosciuto”, ed è un vero peccato perché sulla comune radice scientifica leghista avremmo giurato. Se alla vignettistica il Gerli partorito dal cosiddetto governo dei Migliori forse non si presta essendo egli stesso una vignetta vivente, c’è dell’umorismo nel travolgente entusiasmo di illustri commentatori per le recenti nomine governative, a prescindere, come direbbe Totò.

È bastata infatti la semplice imposizione delle mani del premier sulle persone del generale Figliuolo, del nuovo capo della polizia Gabrielli, e del nuovo responsabile della Protezione civile Curcio, perché le cheerleader del draghismo andassero in un brodo di giuggiole. Così, a capocchia, anzi ad linguam, non avendo i prescelti avuto il tempo di produrre alcun risultato verificabile nella realtà. Un puro miracolo della fede, che un autorevole direttore laico, impressionato da cotante stellette, ha definito in televisione “un importante cambio di passo”. Dopodiché con andatura marziale, uno-due-uno-due, ha invaso la Polonia.

Se parla Mario, l’ora è sempre legale

Passano lunghissimi minuti, diventano ore, l’attesa si prende tutto il pomeriggio. La conferenza stampa di Draghi – la prima che prevede persino le domande dei giornalisti – doveva iniziare alle 17.30. Finalmente un orario civile! Non come ai tempi dell’orrida propaganda casaliniana, con quelle adunate paracule e ineleganti che partivano a ora di cena. Un po’ di senso delle istituzioni! Solo che Draghi non arriva. Le agenzie di stampa battono un primo rinvio, poi un altro ritardo, poi un altro ancora. Alla fine si arriva alle 20 e passa, in piena zona Conte. Proprio come ai vecchi tempi. Dopo i
Dpcm, le regioni colorate, le scuole chiuse, i vaccini lenti, cade un altro argomento prediletto di quelli che non vedevano l’ora arrivasse il Governo dei Migliori per rivoltare questa pandemia come un calzino. Quelli come Paolo Mieli, che “le conferenze di Conte di notte non le guardo”, sono indecenti. Ecco, sono sempre le 20 passate.
Forse, direbbe Sabino Cassese, quando parla Draghi l’ora è legale.

Intercettazioni, Costa tenta il blitz

La data è stata già cerchiata in rosso: martedì prossimo quando in aula alla Camera arriverà la “legge di delegazione europea 2019-2020”. Un disegno di legge che deve recepire le direttive dell’Ue e che, per questo, solitamente non crea intoppi parlamentari. Ma non stavolta perché, con le larghe intese, il rischio è sempre dietro l’angolo. Almeno su un tema divisivo come la Giustizia. E allora Enrico Costa, avvocato eletto con Forza Italia e poi passato in Azione, è pronto a tendere un’imboscata sul tema delle intercettazioni. Costa, sulla base di una sentenza della Corte di Giustizia Ue su un caso estone che ha chiesto di disciplinare l’uso dei tabulati, presenterà un emendamento di una sola riga: “I tabulati telefonici sono equiparati alle intercettazioni”. Ergo: possono essere acquisiti solo specificando i reati e non basterà più la richiesta dei pm, ma servirà il vaglio del giudice per le indagini preliminari. Per capire di cosa stiamo parlando, i tabulati telefonici sono dei dati statici che riportano i dati delle conversazioni di un soggetto, mentre le intercettazioni servono per captare le conversazioni. I primi, durante le indagini, spesso permettono di ricostruire i fatti e i legami tra le persone coinvolte in maniera velocissima (individuando anche spazio e tempo). E se passasse l’emendamento di Costa le indagini avrebbero un rallentamento evidente.

Ma il deputato di “Azione” va avanti spiegando che “i tabulati spesso sono più invasivi delle intercettazioni” e quindi il vaglio deve passare da un giudice o addirittura da un’autorità indipendente. Sulla proposta sono d’accordo Lega e FI, il M5S fa muro e il Pd non si è ancora espresso: la maggioranza rischia seriamente di spaccarsi. Ma il blitz di Costa continuerà anche mercoledì, quando la commissione Giustizia della Camera dovrà dare il parere allo schema di decreto del piano sulle intercettazioni lasciato dall’ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che prevede un risparmio di circa 10 milioni l’anno sui prossimi ascolti. L’ex forzista darà battaglia sull’utilizzo del Trojan, la microspia che si inocula nei cellulari per intercettare messaggi, chat, conversazioni, il cui utilizzo è stato esteso con la legge “Spazzacorrotti”.

Costa sta provando a convincere i colleghi della maggioranza a dare parere negativo perché a suo avviso il Trojan contiene un eccesso: oltre alle conversazioni si può entrare in possesso anche di rubrica, foto e video della persona intercettata e a suo avviso si tratta di “una perquisizione permanente”.

Diritti tv, sulla sentenza di B. “non ci fu alcuna anomalia”

Non solo l’evidenza dei fatti, carte alla mano, riportate nei mesi scorsi dal Fatto, ma adesso c’è la Procura di Roma a sostenere che il processo Mediaset in Cassazione, che confermò la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale, si svolse regolarmente, che non ci fu alcuna “anomalia” nell’assegnazione alla sezione feriale.

Si legge in una richiesta di archiviazione a firma del procuratore aggiunto Paolo Ielo e delle pm Luigia Spinelli ed Elena Neri, che hanno indagato a seguito di un esposto di Antonio Esposito, l’ex presidente del collegio della sezione feriale di Cassazione, in cui si ipotizzava, fra l’altro, il vilipendio della magistratura per le accuse mediatiche ai giudici di aver emesso una sentenza politica. Niente vilipendio, ma una diffamazione a opera di giornalisti e politici, che ora rischiano un processo dopo che l’indagine è stata chiusa.

Gli interrogatori sentiti i giudici del verdetto

I pm romani l’estate scorsa hanno sentito i protagonisti della vicenda legata a degli audio del giudice Amedeo Franco, morto nel maggio 2019, relatore di quella sentenza dell’agosto 2013. Sono gli audio di Franco che, nel 2014, registrato a sua insaputa, parla con Berlusconi e gli dice che lui non lo avrebbe condannato, che c’era stato “un plotone di esecuzione”. Ma i suoi ex colleghi hanno raccontato ai pm che fu proprio Franco a provare a registrare la Camera di consiglio. Ad agosto hanno testimoniato i giudici Ercole Aprile, Giuseppe De Marzo e Claudio D’Isa e a settembre l’ex presidente Esposito. La scena che raccontano ai pm è questa: comincia la Camera di consiglio che deve decidere se confermare o meno la condanna per Berlusconi. A un certo punto i giudici sentono un fruscio, si chiedono cosa fosse, Franco, seduto accanto a De Marzo, mette la mano in tasca, balza dalla sedia, dice di sentirsi male e di dover correre in bagno. La Camera di consiglio si ferma, gli altri giudici sono basiti, si chiedono cosa stia succedendo. Quando Franco ritorna dal bagno gli viene chiesto: “Scusa Amedeo, ma tu stavi registrando?”. Franco nega, sostiene che in tasca aveva un cellulare, che tira fuori offeso, “quasi con aria di sfida”. De Marzo, però, non si beve la versione di Franco, va in bagno e dietro un mobiletto trova un registratore. Perché, chiedono i pm, non lo avete denunciato? Perché, hanno detto, il registratore era vuoto, perché Franco aveva negato che fosse suo e in astratto, osserva uno di loro, poteva essere di chiunque dato che il bagno era in un corridoio pubblico. Inoltre, specifica un altro di loro, non era reato una eventuale registrazione tra presenti. Dunque, Franco firma come gli altri la sentenza di condanna, sei mesi dopo, però, va a battersi il petto davanti a Berlusconi.

Ma come si arriva all’esposto alla Procura di Roma? Ad aprile 2020, a quasi un anno dalla morte di Franco, la difesa Berlusconi ha inviato alla Cedu di Strasburgo l’audio carpito al giudice ben 6 anni prima.

La stampa di destra smentita anche dai magistrati

A luglio 2020 l’audio viene diffuso a “casa” Berlusconi, Mediaset, a Quarta Repubblica, di Nicola Porro (Rete 4). Da lì parte una campagna mediatica su Il Giornale; Il Riformista di Piero Sansonetti, ancora su Mediaset. Si sostiene che il complotto cominciò con la fissazione della data della prescrizione al primo agosto in modo da assegnare quel processo al collegio Esposito. Ma non è vero. L’abbiamo scritto sul Fatto: la data del primo agosto 2013 non è inventata, bensì è quella riportata sul frontespizio del fascicolo della III sezione penale della Cassazione, quella del giudice Franco, che il 9 luglio 2013 invia il fascicolo alla sezione feriale con la scritta tutta “URGENTISSIMO”. Una circostanza che, ci risulta, è stata confermata ai pm romani dal consigliere della terza sezione penale della Cassazione Luca Ramacci che era addetto proprio allo “spoglio” dei fascicoli.

Luca palamara e cosimo ferri Entrambi convocati dai pm

I pm romani hanno sentito pure chi ha portato Franco davanti a Berlusconi, cioè il deputato renziano Cosimo Ferri, toga in aspettativa sotto processo disciplinare per lo scandalo nomine del Csm. Dopo di lui è stato ascoltato Luca Palamara, che pubblicamente aveva detto di “essere a conoscenza” di fatti legati alla sentenza Mediaset, ma che, invece, davanti ai pm non specifica. Ma da un anno il circo mediatico filo berlusconiano vuol far credere, ancora una volta, che i giudici erano in malafede. Sono stati chiamati in causa con nome e cognome in Tv l’ex presidente Esposito, che ha presentato l’esposto e ora ha querelato Palamara e pure il giudice Aprile, ex togato del Csm. Perché nessuno li interroga? È stato detto con il tono del sospetto. Invece, gli ex giudici di quel collegio sono stati sentiti: finalmente hanno potuto parlare dopo che i pm li hanno liberati dal segreto della Camera di consiglio.

Agostino, l’agente ammazzato nel 1989. Condannato all’ergastolo il boss Madonia

Ergastolo per Nino Madonia, boss di una famiglia mafiosa con agganci storici nell’intelligence deviata, rinvio a giudizio per omicidio per Gaetano Scotto e per Francesco Paolo Rizzuto, quest’ultimo accusato di favoreggiamento: dopo 31 anni di indagini segnate da depistaggi, segreti di Stato e silenzi istituzionali nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo, il gup Alfredo Montalto (già presidente della Corte che giudicò gli imputati della Trattativa Stato-mafia) restituisce una prima verità all’omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino, ucciso il 5 agosto 1989 con la moglie Ida Castelluccio davanti agli occhi del padre, Vincenzo. Un omicidio anomalo, avvenuto in un periodo in cui a Palermo la lotta alla mafia veniva condotta anche con metodi poco ortodossi attraverso i “cacciatori di latitanti”, che seguì di appena un mese e mezzo il fallito attentato dell’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone, con cui l’agente Agostino aveva collaborato accompagnando il preside neo fascista Alberto Volo agli interrogatori con il giudice che all’epoca indagava sul delitto Mattarella. Per i due pubblici ministeri Nico Gozzo e Umberto De Giglio, Nino Agostino era un agente “dalla parte dello Stato”, e a ucciderlo furono insieme Cosa Nostra e pezzi di servizi deviati, per chiudere la bocca a un poliziotto che dava la caccia a Totò Riina ed era venuto a conoscenza di “inconfessabili e segreti legami tra mafia, polizia, servizi, coinvolgendo anche soggetti appartenenti alle alte sfere”.

Dopo avere espresso il primo pensiero per il figlio (“grazie alla magistratura onesta, è chiaro che mio figlio non si è mai fatto corrompere da nessuno, e ne vado fiero’’) è stato Vincenzo Agostino all’uscita dall’aula bunker a citare la collaborazione con Falcone: “Questa sentenza è solo un inizio di verità, perché le stragi di Palermo sono partite dall’omicidio di mio figlio, Falcone venne alla camera ardente a dire: ‘Io devo la mia vita a questi ragazzi’”. Ora Agostino si augura che “chi sa la verità parli”, in particolare “tre persone che ricoprono tuttora ruoli istituzionali e che conoscono il contenuto della lettera di mio figlio fatta sparire dall’armadio”, una missiva lasciata come una traccia dall’agente ucciso (se ne trovò un riferimento nel suo portafoglio) ma mai ritrovata nel corso di tre perquisizioni, l’ultima delle quali mai verbalizzata. Se ne riparlerà al processo ordinario, il cui inizio è previsto per il 26 maggio prossimo: l’avvocato di parte civile, Fabio Repici, ha annunciato ieri la citazione di rappresentanti di diverse istituzioni, tra cui “della Polizia di Stato, dell’Alto Commissariato antimafia e del Sisde”.