Con 145 milioni di abitanti e oltre 200 mila milionari, la Russia doveva diventare il nuovo paradiso dei costruttori di auto. Che invitavano i media stranieri alle aperture di stabilimenti, organizzavano eventi e dirottavano addirittura vetture destinate all’Europa occidentale. Vladimir Putin garantiva sicurezza e prospettive. E, come nel caso dell’avvio della produzione della Classe E nel nuovo sito da 215 milioni di euro nei pressi della Capitale, anche la propria presenza: allora assieme al numero uno di Mercedes, Dieter Zetsche (in foto con il ministro Peter Altmaier). Ieri mattina il nuovo Ad della casa di Stoccarda, lo svedese Ola Källenius, ha dichiarato di stare “seguendo attentamente la situazione, ma è presto per capire le conseguenze perché non sappiamo quali sanzioni scatteranno”. A proposito di sanzioni, quelle imposte da Donald Trump all’Iran avevano coinvolto produttori come PSA, adesso confluita in Stellantis, costretta a ritirarsi dal Paese per evitare di finire sulla lista di proscrizione americana a livello globale. Se dopo l’invasione russa dell’Ucraina Joe Biden dovesse varare provvedimenti analoghi le case automobilistiche potrebbero non avere scelta: il mercato statunitense è il secondo al mondo e vale 15 milioni di veicoli (1,67 in Russia). Putin si gioca parecchi posti di lavoro: mille sono in Mercedes e altri 4.000 in Volkswagen, che ha investito circa 2 miliardi di euro nel Paese. La partita più delicata è quella di Luca De Meo, l’Ad italiano del gruppo Renault che attraverso il controllo del 67% di una Holding nella quale ha come partner una società pubblica, ha la proprietà di Avtovaz (oltre 35.000 addetti), quasi un quarto del mercato russo. Il 90% della produzione Lada viene assorbito a livello nazionale: le eventuali restrizioni sulle forniture dall’estero potrebbero portare al blocco della produzione. Assieme all’Alleanza con Nissan e Mitsubishi la penetrazione è del 38% con 12 modelli nella Top 25. Mitsubishi ha a sua volta una joint-venture con Stellantis per la fabbrica di Kaluga. Il sito produce van e appena un mese fa la società italo francese aveva manifestato l’intenzione di esportare i veicoli commerciali a marchio Peugeot, Citroën e Opel verso l’Europa. Un piano che potrebbe saltare. Carlos Tavares, il numero uno del gruppo, ha reso noto che la crisi non avrà ricadute importanti perché il sito è utilizzato “come completamento”, appena 10.000 veicoli prodotti. Bmw, con 47.000 auto consegnate (oltre il 2% dei volumi globali del 2021) il primo marchio premium in Russia, aveva accantonato il progetto di costruire una fabbrica prolungando invece il contratto con la Avtotor fino al 2028.
“Mia cara Lou, miracolo: in me c’è un uragano, ora mi riconosco”
Lou, cara Lou, dunque: in questo momento, in questo sabato 11 febbraio alle sei, poso la penna dopo aver compiuta l’ultima Elegia, la decima. Quella (anche allora era già destinata a esser l’ultima) di cui l’inizio fu già steso a Duino… Quanto già n’esisteva, te l’ho letto, ma ora sono rimaste appunto le prime dodici righe, tutto il resto è nuovo e: molto, molto magnifico! – Pensa! M’è stato concesso di resistere fino al compimento. Oltre tutto. Miracolo. Grazia. – Tutto in pochissimi giorni. In un uragano come allora a Duino: tutto in me, fibre, tessuti, telaio, scricchiolava e si piegava. Al cibo non era da pensare.
E pensa, ancora una cosa ho scritto, ho fatto, in un altro giro, appunto dianzi (nei Sonetti a Orfeo, venticinque sonetti, scritti d’improvviso, nella raffica foriera della tempesta, quale monumento funebre per Wera Knoop), il cavallo, sai, il libero felice cavallo bianco dal cavicchio al piede, che una volta, verso sera, ci balzò incontro al galoppo su un prato del Volga –: l’ho fatto quale “ex voto” per Orfeo! Al di qua di tanti anni m’è balzato incontro con la sua piena felicità, nel sentimento largamente aperto.
Così è venuta l’una cosa dietro l’altra. Ora io mi riconosco. Era come una mutilazione del mio cuore, che le Elegie non esistessero.
Ora sono. Sono.
Sono uscito e ho carezzato il piccolo Muzot – che me l’ha custodito, che me l’ha, finalmente, concesso – come un grande vecchio fido animale.
Perciò non ho risposto alla tua lettera, perché in queste settimane, senza sapere a che cosa, già mi preparavo tacendo a questo, con un cuore sempre più inteso all’interno. E ora, oggi, cara Lou, solo questo. Tu dovevi apprenderlo subito. E anche tuo marito. E baba –, e tutta la casa, fin dentro i vecchi buoni sandali.
Ps. Cara Lou, ho approfittato del tempo per trascriverti tre delle Elegie compiute (la sesta, l’ottava e la decima). Le altre tre le trascrivo poi nel corso dei giorni, via via, e le manderò presto. Mi fa tanto bene che tu le abbia.
Rilke esiliato nel castello sotto “la tempesta” creativa
La sceneggiatura è dozzinale: un artista solo e malaticcio si chiude in una torre – a scrocco di un mecenate ricchissimo – per portare a casa la pagnotta, ovvero terminare di scrivere una raccolta poetica iniziata dieci anni prima, quando, sempre a scrocco, si trovava nel castello di un altro facoltoso ammiratore. Lieto fine: l’artista, interpretato da un intenso Rainer Maria Rilke, riuscirà a completare il lavoro, le Elegie duinesi, e a partorirne uno nuovo, i Sonetti a Orfeo. La letteratura può tirare il fiato.
In uscita lunedì con De Piante Editore e la curatela di Franco Rella, il carteggio Noi siamo le api dell’invisibile documenta il febbricitante e prolifico “esilio” svizzero di Rilke nel maniero di Muzot, nella valle del Rodano: lì, nel 1922, in preda al delirio creativo, il poeta chiude le dieci elegie (a Duino, nel 1912, ne aveva abbozzate due appena) e sforna, in meno di tre settimane, decine di sonetti, “scritti d’improvviso, nella raffica foriera della tempesta, quale monumento funebre per Wera Knoop”, morta a neanche 20 anni di leucemia, lo stesso male che, nel 1926, si porterà via l’autore.
Sono le donne le interlocutrici preferite di Rainer: addirittura si lamenta che le “amiche” gli rubano troppo tempo, fanciulle “terribilmente abbandonate” che chiedono consigli d’amore, ma anche giovani rivoluzionari usciti dal carcere che pretendono dritte poetiche per migliorare la loro prosa “ubriaca”. La destinataria privilegiata è, ovviamente, l’ex amante Lou Andreas-Salomé, che con Rilke perse la verginità a 36 anni, lui ne aveva 22, un toy-boy adorabile. La loro relazione (carnale) dura appena quattro anni a fine 800; la donna ha altre succulente prede da conquistare, ciononostante – scorno iniziale a parte – i due restano amici. Nel 1921, dalla sua prigione dorata, Rainer le scrive, al solito lamentandosi: “Alcuni giorni fa mi fu offerto un cane: puoi immaginare quale tentazione fosse per me… Ma sentii subito che anche da questo deriverebbe un legame troppo stretto… Sei a Vienna, cara? Salutami Freud”. Niente cane, dunque, è una distrazione dal lavoro. E che lavoro: qui si sta scrivendo la storia della poesia del 900. Non c’è tempo per le bestie: “In questo momento, in questo sabato 11 febbraio, alle sei, poso la penna dopo aver compiuta l’ultima Elegia, la decima… Miracolo”.
La reclusione ha dato buoni frutti, “queste condizioni un po’ dure di fortezza si adattano come un’armatura!”. Tra una lamentela e l’altra, Rilke si ricorda anche di avere un corpo – “Ogni impulso del mio spirito comincia nel mio sangue” –, non è il pallido poeta con la pressione bassa che tutti coccolano e molti ospitano in un castello. Da buon mitteleuropeo, sfoggia pure ironia, soprattutto con i medici, a cui non sa spiegare “le ragioni di questa condizione specificamente austriache… Non ricordo come nascesse la poesia ‘Io non vorrei morire in primavera’, ma non fate deduzioni da questa affermazione piuttosto vaga”. Depresso o no, la sua salute si aggrava, tanto da essere ricoverato nel sanatorio di Valmont, una clinica prestigiosa a Montreux, che vanta “une clientèle internationale d’artistes et d’hommes politiques dont Giacometti, Coco Chanel…”.
Il corpo sta abbandonando Rilke, ma il suo pensiero corre ancora, verso l’amata Lou: “Non riesco a contare gli inferni”. A un’altra ordina: “Niente fiori, ve ne prego, la loro presenza eccita i demoni di cui è piena la camera”. È la fine del 1926 e di Rainer stesso; muore il 29 dicembre: “O vita, vita. Esser-fuori./ E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto”.
Dal Gatto alle Volpi: migliaia di vittime della truffa di Catge
“Tre settimane di Catge: 19 milioni di dollari di capitalizzazione, oltre un milione di volume nelle ultime 24 ore, 9 mila detentori, più di 20 mila supporter… e dicevano che non sarebbe durato 48 ore. Don’t stop believin”. Questo il tweet con cui il 2 giugno scorso Francesco Facchinetti “pompava” la nuova criptovaluta “Catge”. Facchinetti ha recitato con convinzione il ruolo di “ambasciatore” del meme token, con molti post sui social network, immagini e video diffusi per esaltare le magnifiche sorti e progressive della criptovaluta simboleggiata da un gatto. Nelle ultime settimane però pure Facchinetti pare aver “perso la fede”: ha cancellato dal suo profilo Twitter i “cinguettii” su Catge, evita di rispondere allo tsunami di attacchi che arrivano da centinaia di risparmiatori inferociti. Nemmeno il Fatto è riuscito a contattarlo. Perché Catge è sì durato più di 48 ore, ma solo per invogliare un numero crescente di sprovveduti sottoscrittori a entrare nella trappola: la criptovaluta è crollata. Il team degli (anonimi) realizzatori di Catge si è dileguato e con loro sono spariti i soldi razzolati da migliaia di sottoscrittori, per la maggior parte italiani.
Giovani, entusiasti (e sprovveduti) erano i fan della cripto. Una community che si è formata in Rete ed è stata sostenuta sui social network, ma anche da numerosi siti, per “credere” nella possibilità di fare soldi in fretta. La miccia è stata innescata nella tarda primavera dell’anno scorso con la diffusione del progetto di una criptovaluta che avrebbe dovuto imitare il Dogecoin, il token sostenuto dal miliardario Elon Musk. I tecnici le chiamano memecoin, monete virtuali ispirate ai meme del web, emesse con progetti di valore intrinseco nullo, su piani di sviluppo nebulosi e quasi mai realizzabili, che non hanno una propria blockchain ma si appoggiano a quelle di Ethereum o Binance. Dogecoin, lanciato nel 2013 come una parodia, è ispirato al meme di Kabosu, una femmina di cane (doge, in slang giapponese) di razza Shiba Inu. Dopo anni di valore quasi a zero, grazie al supporto di Elon Musk tra aprile e giugno scorsi decollò per toccare il record di prezzo il 7 maggio a 57 centesimi su scambi giornalieri di decine di miliardi di euro. Nelle ultime ore il suo prezzo è ripiombato a 10 centesimi. In poche settimane l’hype – la montatura pubblicitaria –, la “fomo” (fear of missing out, paura di perdere l’affare) e l’avidità fecero fare grandissimi guadagni speculativi a pochi, mentre moltissimi “polli” finirono spennati.
Questa attività in gergo cripto si chiama shilling: lo “shiller” è un personaggio di solito pubblico, sportivo, showman o dell’economia, che genera un interesse artificiale su un certo token perché viene pagato o per pura convinzione errata. Ma i “pompaggi” delle cripto finiscono in tribunale. Negli Usa una class action per danni ha come obiettivi Kim Kardashian e l’ex pugile Floyd Mayweather Jr. A giugno la polizia olandese ha arrestato tre uomini per aver tentato di frodare gli investitori vendendo una criptovaluta autoprodotta abbassandone poi il prezzo, una truffa chiamata pump and dump, “pompa e scarica”. Anche il server che ospita il sito di Catge è, curiosa coincidenza, situato nella città olandese di Rotterdam.
Sull’onda del cane Doge, nella primavera dell’anno scorso fu lanciato il fantomatico “progetto” della memecoin Catge. Il token fu realizzato sulla blockchain Bnb a bassissimo costo. Il programma della criptovaluta era inconsistente, gli obiettivi di finanza decentralizzata (DeFi) ambigui, la tempistica lasca, mancavano i nomi della società promotrice, di eventuali partner finanziari e del team di sviluppo. Tutti segnali di allarme che molti non hanno colto, per ingordigia o inesperienza. Dopo il lancio a metà maggio 2021, il token decollò per capitalizzazione e transazioni, poi si è via via spento sino al crollo dell’80% nei giorni scorsi. Gli scambi, che il 6 giugno 2021 avevano sfiorato i 6 milioni di dollari, si sono azzerati come il valore della cripto. Intanto gli anonimi promotori di Catge hanno cancellato il profilo Twitter della memecoin e svuotato le chat di Telegram sulle quali avevano manovrato una community di ventimila fan. Nel mondo delle criptovalute questo genere di truffa è chiamata rugpull: gli sviluppatori mollano il progetto di colpo e scappano con i fondi dei sottoscrittori, dopo aver venduto più token possibile in breve tempo. La società di ricerca Chainanalysis ha stimato che i rugpull sono cresciuti dell’81% nel 2021.
L’immagine di Facchinetti non ne esce bene: molti ricordano il suo precedente con Stonex One, il “telefonino italiano” lanciato dal dj tra il 2014 e il 2015 con 150mila pre-ordini. Peccato che, dopo poche settimane di produzione e 7mila cellulari realizzati, la società costruttrice andò in crac, lasciando i clienti con un device senza futuro. Alle migliaia di vittime di Catge, soprattutto italiane, non resta per ora che sfogarsi sui social network, in attesa di un eventuale intervento della magistratura. Nel moderno “campo dei miracoli” delle criptovalute, troppi Pinocchio credevano di poter far soldi facili con il Gatto, ma sono finiti nelle grinfie della Volpe.
“Procure, la legge Cartabia introduce le veline di regime”
Dal Palazzo di Giustizia di Milano arriva una stroncatura tonda tonda della legge sulla presunzione di innocenza, entrata in vigore in dicembre, firmata dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Si tratta del decreto legislativo che imbriglia i magistrati e imbavaglia i giornalisti.
È Riccardo Targetti, il procuratore facente funzioni, in attesa che arrivi il successore di Francesco Greco, ad aprile, a parlare: “Come magistrato la giudico una legge piuttosto difficile da applicare. Come cittadino la giudico male. Mi sembra che questa legge introduca il concetto della velina di regime”. L’occasione è un dibattito organizzato dall’Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai su questa legge che prevede possano essere solo i procuratori a interagire coni cronisti “con comunicati ufficiali” e solo quando “la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”. Inoltre, le conferenze stampa sono limitate a “casi di particolare rilevanza pubblica”. Ed è sulla pretesa che siano i procuratori a stabilire quando c’è un interesse pubblico che Targetti dissente ancora: “Non penso debbano essere i magistrati a dover valutare, quello è un compito dei giornalisti”. Il procuratore reggente evidenzia pure l’aumentato potere dei suoi omologhi: “Mi sono chiesto, nel momento in cui ho redatto la circolare applicativa, se non stavo addossando al procuratore, in questo caso a me stesso e a chi mi succederà, un grande potere, molto maggiore di prima e se questo potere non è concentrato in maniera eccessiva per uno Stato democratico”. Il riferimento è anche a una novità assoluta: “Il potere di vaglio del procuratore anche per le notizie delle forze di polizia”. Infine, riconosce la difficoltà “della verifica della notizia, fondamentale, da parte dei giornalisti” tanto che pensa di creare un ufficio stampa in Procura.
Critico anche il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo: “Siamo per primi noi avvocati a contrastare quella cattivissima tendenza che a volte la giustizia e il giornalismo hanno condiviso, i ‘processi mediatici’, tuttavia sull’altare della sacrosanta tutela della presunzione di innocenza non può finire una apparente forma di censura che passa sottilmente dalle nuove regole del gioco”. Al dibattito è intervenuto anche Beppe Giulietti, presidente della Fnsi. Ha annunciato che il sindacato dei giornalisti ha presentato un esposto a Bruxelles dove si chiede al Commissario europeo della Giustizia di valutare “o una procedura di infrazione o una difformità” della norma rispetto al recepimento da parte dell’Italia della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Giulietti denuncia anche che il diritto di cronaca è minacciato quotidianamente dallo stallo della “legge sulle querele bavaglio” presentate contro i giornalisti a scopo intimidatorio. Poi, la richiesta della Fnsi alla ministra Cartabia: aprire “un tavolo congiunto coinvolgendo tutti i soggetti che crede, per arrivare all’approvazione delle norme necessarie”, altrimenti “siamo pronti a una manifestazione sotto al Senato dove saranno schierati i 27 cronisti sotto scorta, insieme ai colleghi minacciati dalle querele bavaglio”.
Immunità, quando la Consulta ha sconfessato il Parlamento
Matteo Renzi giura che si difenderà nel processo e che il conflitto di attribuzione che Palazzo Madama ha sollevato contro i giudici di Firenze che ne chiedono il rinvio a giudizio per finanziamento illecito è un atto a tutela della democrazia, altro che scudo per se stesso. Ma cosa chiederà la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati alla Consulta? Nell’atto di trasmissione potrà chiedere di dichiarare che non spettava all’autorità giudiziaria far eseguire l’acquisizione di sms e chat whatsapp, senza il via libera del Senato, “con il conseguente annullamento dei decreti della Procura”. Cosa risponderà la Consulta è prematuro dirlo. Quel che è certo è che in tantissime occasioni ha sconfessato il Parlamento e accordato scudi agli eletti a suon di acrobazie giuridiche e forzature.
A partire dal caso di Silvio Berlusconi e il tentativo della Camera, nel 2011, di adire al prezzo di mille torsioni di tempi e regolamenti la Corte costituzionale, pur di consentire alla difesa dell’ex premier di chiedere la sospensione del processo Ruby-Rubacuori-nipote-di-Mubarak fino alla decisione del conflitto di attribuzione. Andò male su tutta la linea: niente sospensione del processo e sentenza della Consulta lì a certificare che nessuna prerogativa della Camera era stata lesa giacché spettava, eccome, alla Procura di Milano fare le indagini e procedere alla richiesta di giudizio immediato nei confronti dell’allora premier per un’ipotesi di reato, la concussione, ritenuto non commesso nell’esercizio delle funzioni.
Stessa sorte per l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella: la Consulta nel 2012 aveva sbugiardato il Senato che aveva sollevato il conflitto di attribuzione contro le Procure di Santa Maria Capua Vetere e di Napoli che avevano osato procedere contro di lui che da segretario di partito veniva accusato di abuso di ufficio e concussione (poi è stato assolto).
Ancora prima era stata la Cassazione a sollevare conflitto di attribuzione contro il Senato che aveva preteso di proteggere Roberto Castelli a processo (poi finito nel 2018 con la prescrizione) per certe intemerate in tv contro Oliviero Diliberto: per la Consulta reati, altro che opinioni espresse “per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Tutti scudi frutto del genio creativo del Parlamento. Che la Corte non apprezza. Come successo ad esempio nel 2015 sul conflitto di attribuzione sollevato dal Tribunale di Roma dopo che in giudizio Maurizio Gasparri aveva opposto l’immunità che gli aveva fornito il Senato stabilendo che insulti a mezzo stampa e maldicenze infamanti sul conto di Marco Travaglio dovessero rientrare nel perimetro allargato a dismisura dell’insindacabilità parlamentare: una furbata ritenuta dalla Consulta “non compatibile con il disegno costituzionale”.
E che dire di Francesco Storace? Aveva strapazzato in un’intervista Henry John Woodcock offendendone la reputazione, ma quando era stato denunciato dal magistrato, Palazzo Madama gli aveva riconosciuto lo scudo anche se per interposta persona: pretendeva di farla franca col pretesto che se non direttamente lui, altri suoi colleghi di An avevano presentato interrogazioni sull’indagine del pm. Questo pur di provare il nesso funzionale di quelle dichiarazioni con la sua attività di parlamentare. Il Senato gli accordò l’immunità, poi annullata dalla Corte. Storace è stato dichiarato prescritto in Appello.
La Consulta, più di recente, ha tirato le orecchie ai parlamentari anche in un altro caso: lo stratagemma dell’immunità retroattiva per salvare dal processo Gabriele Albertini. E sì, come ha poi certificato la Consulta, che non era ancora senatore quando aveva coperto di accuse ritenute infamanti dal pm Alfredo Robledo. Da ultimo hanno sollevato conflitto di attribuzione i magistrati di Modena contro il salvataggio del Senato di Carlo Giovanardi. Accusato di reati gravi contro funzionari dello Stato pur di ottenere che una ditta sua amica in odore di ’ndrangheta fosse riammessa ai lavori della ricostruzione post terremoto. Per Palazzo Madama le opinioni di Giovanardi meritano l’immunità. Con tanti saluti al processo.
Morta Liliana Ferraro: collaborò con Falcone
È deceduta ieri Liliana Ferraro, magistrato di lungo corso che poi prestò servizio presso il ministero della Giustizia nel periodo delle stragi mafiose. È stata una delle più strette collaboratrici di Giovanni Falcone, che conobbe nel 1982 durante un convegno, e fu lì che nacque l’amicizia scaturita nella collaborazione tra i due in via Arenula. Contribuì alla ristrutturazione del carcere dell’Asinara per farvi rinchiudere i brigatisti rossi. E fece riaprire le carceri speciali per recludervi i mafiosi dopo le stragi. Fu sentita a lungo come testimone al processo sulla trattativa Stato-mafia, perché era stata lei a informare Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, dei negoziati avviati dal Ros dei Carabinieri con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
Creazzo, procuratore di Open, lascia Firenze. E Renzi insinua ancora: “Qualcosa lì non va”
Puntuale arriva, in serata, l’attacco ormai quasi quotidiano di Matteo Renzi a un magistrato che lo ha indagato. Ieri, il senatore di Italia Viva è tornato a prendersela con Giuseppe Creazzo che ha ottenuto dal Csm il trasferimento come pm alla Procura per i minorenni di Reggio Calabria. La richiesta è dovuta al fatto che il suo mandato di 8 anni come procuratore di Firenze scade a giugno, ma per Renzi, Creazzo è una toga in fuga: “Lascia la Procura dopo tutto quello che è successo e prima del processo, dopo che è stato sanzionato per molestie e da me denunciato. Segno che qualcosa in Procura non va”. In realtà, i termini per presentare la nuova domanda scadevano a metà gennaio, quindi Creazzo l’ha presenta ben prima che, insieme ai suoi pm, chiedesse il rinvio a giudizio del leader di Iv per l’indagine su Open. L’ex presidente del Consiglio è tornato anche a muovere nuove insinuazioni: “Resta il mio giudizio di disvalore etico per ciò che Creazzo ha fatto, per le molestie sessuali”. Il procuratore, che non si è mai fatto intimidire dagli attacchi di Renzi, ha pure ritirato la domanda di pensione anticipata, avanzata a maggio scorso e ha scelto di restare a Firenze al finaco dei suoi pm, per concludere l’inchiesta su Open. In pensione ci andrà nel 2025 e ha scelto di concludere la professione nella sua Reggio Calabria, occupandosi di minori, dopo aver avuto la fine della carriera segnata da una brutta vicenda: è stato condannato dal Csm a due mesi di perdita di anzianità per le accuse di molestie mosse dalla pm di Palermo Alessia Sinatra che, nel 2015, quando sarebbero avvenute, non denunciò. Creazzo ha presentato ricorso in Cassazione.
Sempre ieri, la Quinta commissione del Csm si è divisa in tre sulla nomina del procuratore di Milano. In vantaggio il Pg di Firenze Marcello Viola, grande escluso dalla corsa a procuratore di Roma perché fu, a sua insaputa, il prescelto durante il dopo cena all’hotel Champagne organizzato da Palamara. È stato votato oltre che dal presidente della Quinta, D’Amato, anche da Ardita. Un voto, di Dal Moro, è andato al procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli e un voto, di Ciambellini, al procuratore di Bologna Giuseppe Amato, I laici, Gigliotti, M5s e Lanzi, FI, si sono astenuti. A bocce ferme si profila in plenum un ballottaggio perché Viola non ha i 13 voti necessari per essere eletto al primo turno.
Al Bano si redime sullo zar e Vasco dice no
“Putin non è pazzo, se ha attaccato una ragione l’avrà. Ma io, che l’ho sempre apprezzato per quello che ha fatto per la Russia, non vado oltre nel giudizio vedendo ciò che accade oggi. Evidentemente ha una faccia nascosta che non conosco”, ammette Al Bano, storico ammiratore dell’uomo forte del Cremlino. “Perché questo conflitto”, riflette il cantante, “non doveva scoppiare. È una tragedia che va interrotta subito, prima che le conseguenze divengano inimmaginabili per tutti, anche per noi italiani. Si tratta – dice al Fatto – di una guerra fratricida, e chi ha il potere per farlo intervenga immediatamente, come Kennedy con Krusciov nella crisi di Cuba. La battaglia di Chernobyl è lo scenario peggiore”. Per il feeling con Putin, Al Bano era finito sulla black list degli ucraini. “Dopo ci siamo chiariti, io sono un portatore di pace con le mie canzoni, non un nemico. Stasera canto per l’ambasciata dell’Azerbaigian a Roma, anche lì c’erano stati equivoci, poi risolti. Il potere della parola può far tacere le armi, deve accadere adesso”. Al Bano si è esposto, pur pattinando, visti i suoi interessi in quel quadrante del pianeta. Altre star della musica italiana hanno marcato posizioni indubitabili: Vasco Rossi ha postato un “no alla guerra” con citazione di Neruda e colonna sonora del suo “Mondo che vorrei”, Ligabue ha rispolverato l’hit del 2000 “Il mio nome è mai più”, scritto e proposto con Pelù e Jovanotti quando gli aerei che bombardavano (la Serbia) erano italiani per conto della Nato. Il leader dei Litfiba aveva anticipato il collega al mattino su Instagram, primo di una sequenza non nutritissima di nomi del pop e del rock nazionale, dalla Pausini a Cremonini, passando per Noemi e Giorgia. In attesa degli americani, che complice il fuso orario sono gli ultimi a prendersi la scena social. Tra chance promozionale, attendismo e banalità del post.
Ergastolo al marito femminicida: “Cultura maschilista e selvaggia”
Nessuna attenuante per Massimo Bianco, la guardia giurata di 49 anni che uccise a colpi di pistola la moglie. Ieri è arrivata la condanna è l’ergastolo. La Corte di Assise di Torino non accoglie la linea della procura, che aveva chiesto 30 anni di carcere, e accetta quella dell’avvocato Stefano La Notte, parte civile per conto dei due figli della coppia: punire con il massimo della pena un imputato che aveva agito per effetto “di una cultura maschilista e selvaggia” incapace di accettare l’idea che una donna si possa separare dal marito.