La Procura: “10 anni all’ex giudice Saguto”

L’ex giudice Silvana Saguto era al “centro del rapporto corruttivo”, e avrebbe agito in modo “contrario ai doveri di ufficio”. La Procura generale di Caltanissetta ha chiesto in appello la condanna a 10 anni per l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Una pena superiore alla condanna di primo grado: 8 anni e mezzo. Nella requisitoria, le pm Lia Sava e Claudia Pasciuti hanno ricostruito “il cerchio magico della giudice Saguto”, già radiata dalla magistratura, che avrebbe gestito in “modo privatistico” i beni sequestrati e confiscati alla mafia, e che la vede imputata insieme ad altri undici persone, per diversi episodi di corruzione e abuso d’ufficio.

Castellammare di Stabia, il Cdm ha deciso: il comune di Forza Italia sciolto per Camorra

Forse consapevoli, forse no, che lo scioglimento per infiltrazioni mafiose deciso ieri dal Consiglio dei ministri era imminente, la giunta di Castellammare di Stabia (Napoli) guidata dal sindaco di Forza Italia, Gaetano Cimmino, nei giorni scorsi, aveva adottato un piano spiagge con 30 lottizzazioni per i privati e il piano urbanistico comunale. Prevederebbe una colata di cemento di quasi mille nuovi appartamenti nell’area nord. Tra i quali 226 nell’ex Cirio, già oggetto di un’inchiesta per la quale hanno rischiato l’arresto i parlamentari di Forza Italia, Antonio Pentangelo e Luigi Cesaro, accusati di corruzione in concorso con il proprietario dell’area, Adolfo Greco, l’imprenditore “amico degli amici”. Greco è l’uomo che ha attraversato 40 anni di camorra tra una condanna definitiva per favoreggiamento di Raffaele Cutolo e una, molto più recente, in primo grado a 8 anni per essere stato il mediatore delle estorsioni tra i clan stabiesi e alcuni imprenditori locali.

Castellammare di Stabia viene sciolta per camorra per la prima volta. Non era successo nemmeno una dozzina di anni fa, quando la commissione prefettizia intervenne dopo il brutale omicidio di un consigliere comunale del Pd, Gino Tommasino. Si scoprì che i suoi killer erano stati iscritti al Pd da Tommasino e che l’omicidio era maturato in una torbida storia di accordi non rispettati tra il politico e il clan D’Alessandro.

Stavolta la commissione è stata inviata dopo le improvvide dichiarazioni del maggio scorso del neo eletto presidente del consiglio comunale, Emanuele D’Apice. In aula ringraziò “per i valori che mi ha trasmesso” il padre, Luigi D’Apice, deceduto l’anno prima. Era soprannominato “Giggino ’o ministro” ed era stato condannato per essere stato lo snodo tra la politica di Pompei e il clan Cesarano.

Forse la commissione sarebbe arrivata comunque, perché nei mesi precedenti, un’altra inchiesta aveva rivelato le manovre elettorali di un boss, Sergio Mosca, in favore di alcuni candidati di Forza Italia. E già nel 2019 una maxi informativa di polizia raccontava i rapporti tra Adolfo Greco, i clan e pezzi di politica locale e nazionale. Già quell’anno i primi a sollecitare l’invio dei commissari furono i deputati Carmen Di Lauro (M5S) e Gennaro Migliore (Pd, oggi Iv). Ieri Cimmino masticava amaro: “Probabilmente qualcosa è stato sottovalutato e qualcosa è stato sbagliato. E’ necessario che mi assuma le mie responsabilità”.

Amara e Paradiso a giudizio: ‘Traffico d’influenze illecite’

Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, è stato rinviato a giudizio a Roma per traffico di influenze. Per lo stesso reato il gup della Capitale ha mandato a processo anche Filippo Paradiso, ex poliziotto in servizio presso i palazzi istituzionali: prima udienza il 3 maggio 2023. Per l’accusa, tra il 2015 e il 2018, “sfruttando e vantando relazioni con pubblici ufficiali in sevizio presso ambienti istituzionali”, Paradiso “si faceva indebitamente promettere e consegnare denaro o altre utilità indebite da Piero Amara come prezzo della propria mediazione”. Utilità che, per i pm, consistevano in somme di denaro per un valore non inferiore a 2 mila euro e nella messa a disposizione di carte di credito per viaggi aerei, nonché nella messa a disposizione di un appartamento a Trastevere di cui Amara aveva la disponibilità. Fra le persone “trafficate”, secondo la Procura, c’è anche Maria Elisabetta Alberti Casellati, con cui Paradiso collaborava. La presidente del Senato ha smentito di aver favorito, quando era al Csm, la nomina di Capristo e, sentita dai pm, aveva escluso pressioni da Paradiso. Intanto, Piero Amara e il suo collaboratore Giuseppe Calafiore, tra gli indagati per calunnia sul cosiddetto “falso complotto Eni”, saranno presto interrogati dalla Procura di Milano. L’inchiesta meneghina è stata chiusa lo scorso dicembre, dopo circa 5 anni di indagini. Infine, secondo un’indiscrezioni dell’Ansa, la posizione del procuratore aggiunto, Laura Pedio (indagata per omissione di atti d’ufficio) è indirizzata verso l’archiviazione.

Genova, slittano al 2024 i processi per furto e truffa

La protesta è scattata dopo la nuova circolare del presidente del Tribunale di Genova Enrico Ravera: per una lunga lista di reati – tra cui furti, truffe, ricettazioni, mancati versamenti contributivi – non potranno essere fissate udienze prima del 2023 o addirittura 2024. “Un’amnistia mascherata”, protestano Enrico Scopesi e Vittorio Pendini, rappresentanti della Camera penale. È l’effetto della mancanza di giudici (meno 11, cioè una scopertura del 30%) e dell’incidenza di maxi-processi come quello sul crollo del Ponte Morandi. Per questo da ieri gli avvocati liguri sono sul piede di guerra: “Quello che accade è gravissimo e siamo tenuti a informarne la cittadinanza – spiega Luigi Cocchi, presidente dell’Ordine genovese – In Parlamento è in discussione una riformetta inadeguata. Ci si illude di rivitalizzare la giustizia assumendo 17 mila precari e nemmeno un giudice in più”. Il riferimento polemico è alla riforma Cartabia. “Così si calpestano i diritti delle vittime di reati”, conclude Alessandro Vaccaro, presidente degli Ordini liguri.

“Rimborsopoli bis”, condannati nove ex consiglieri

È una storia risalente nel tempo, ma solo ieri è arrivata la sentenza di primo grado. Sono 9 le condanne nel processo su “Rimborsopoli-bis”, il caso degli ex consiglieri regionali della Regione Piemonte accusati, durante la legislatura 2006-2010, di aver utilizzato impropriamente i fondi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari. Secondo l’accusa, gli imputati avevano chiesto rimborsi spese anche per abiti, viaggi e soggiorni già coperto dall’indennità forfettaria prevista dalla Regione. La pena più elevata è scattata per Riccardo Nicotra, all’epoca nel gruppo Socialisti e Liberali. I giudici hanno dichiarato la prescrizione per gli episodi risalenti a prima del 2009. Tra gli altri condannati, ci sono Claudio Dutto della Lega (3 anni e 2 mesi), Francesco Guida del’ l’Udc e poi del gruppo Libertà verso il Pdl (3 anni), Luca Caramella di Forza Italia (2 anni e 11 mesi), Luca Robotti dei Comunisti italiani (2 anni e 6 mesi), Oreste Rossi della Lega (2 anni e 1 mese), Mariangela Cotto di Forza Italia e Giovanni Pizzale dell’Idv e poi nei Moderati per il Piemonte (2 anni).

Il contagio frena, ma un po’ meno. Domenica prime dosi di Novavax

Mercoledì il premier Mario Draghi ha annunciato che lo stato di emergenza in scadenza il 31 marzo non sarà rinnovato. Un segnale da molti interpretato, giustamente, come un primo passo decisivo per il ritorno alla normalità, ma anche (un po’ meno giustamente) come l’annuncio della fine dell’epidemia. I numeri infatti sono ancora piuttosto e – seppur in continua discesa – rallentano un po’ meno velocemente di quanto accaduto nelle settimane precedenti, almeno per quanto riguarda la circolazione del virus.

I nuovi casi di Covid-19 registrati in Italia – rileva il monitoraggio settimanale della Fondazione Gimbe – registrano una diminuzione per la quarta settimana consecutiva, ma la discesa vede una frenata nel corso degli ultimi sette giorni: dal 16 al 22 febbraio sono stati infatti 349.122 con un -20,6%, a fronte del -32% della settimana precedente. Il calo è andato di pari passo a un’ulteriore riduzione dei tamponi totali effettuati (-19,6%). Continua però a calare in modo costante la pressione dell’epidemia di Covid-19 sugli ospedali: stabile sia il trend di riduzione dei posti letto occupati da pazienti Covid nei reparti di area medica (-16,2%), che quello della terapia intensiva (-19,9%). E anche i decessi continuano a calare con un trend stabile: sono stati 1.828, pari a -15,8% rispetto alla settimana precedente. Dal 9 al 15 febbraio si era registrato -14,9% ricoverati in area medica, -18,7% in intensiva e -16% decessi.

Sul fronte campagna vaccinale (in netto e continuo calo ormai le dosi somministrate), rimangono circa 4,9 milioni di adulti vaccinabili (al lordo degli esentati) ancora totalmente sprovvisti di protezione. Da domenica gli scettici avranno a disposizione il vaccino “tradizionale” Novavax, di cui sono attese tre milioni di dosi entro marzo a partire da domenica.

Il trend stabile dei contagi è confermato dal bollettino di ieri: 46.169 nuovi contagi (tasso di positività al 9,5%) e 249 morti: “50 mila nuovi casi al giorno – commenta il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta – tasso di positività dei tamponi al 10% e quasi 1,3 milioni di casi attualmente positivi dimostrano che la circolazione del virus è ancora piuttosto elevata”.

Liste d’attesa, dodici regioni non hanno un piano valido

Le Regioni avevano accumulato ritardi già con il primo stanziamento di mezzo milione di euro decretato nel 2020 dal ministro Roberto Speranza per abbattere le liste d’attesa lievitate a causa della pandemia. Ora la storia si ripete. Con la legge di Bilancio, Speranza ha messo sul piatto altri 500 milioni per recuperare tutte le prestazioni sanitarie non erogate causa Covid. Ma le rimodulazioni dei piani di recupero che le Regioni avevano presentato nel 2020 o non sono ancora arrivate o sono arrivate incomplete, nonostante la proroga che il ministero aveva concesso, spostando la scadenza dal 31 gennaio a ieri.

I nuovi piani non sono ancora arrivati dall’Abruzzo, dalla Calabria, dalla Provincia autonoma di Bolzano e dalla Puglia. Sono arrivati incompleti dalla Basilicata, dalla Provincia di Trento, dalla Toscana, dalla Valle d’Aosta, dal Lazio, dalla Campania, dalla Lombardia, dalle Marche.

Solo nove Regioni hanno rispettato i tempi, inviando anche tutta la documentazione richiesta. Eppure la bomba è già esplosa. Riguarda tutte le prestazioni specialistiche ambulatoriali e gli interventi chirurgici che sono saltati. Prima nel 2020, poi nel 2021 e nel primo mese del 2022, in concomitanza con la quarta ondata pandemica.

Ben 17 Regioni, come fa notare Tonino Aceti, presidente di Salutequità, a cavallo delle ultime festività “avevano sospeso le cure procrastinabili”. Difficile sapere con esattezza quante prestazioni sono saltate, anche perché ci sono Regioni, come il Piemonte, che considerano riservati i dati sulle liste d’attesa, con buona pace del controllo sulla Pa che dovrebbero esercitare i cittadini. I numeri a disposizione di Agenas sono aggiornati al primo semestre del 2021. Prendendo in considerazione solo gli interventi per le neoplasie (tumori) le prestazioni sono crollate in quasi tutte le regioni con percentuali a due cifre (si arriva anche al meno 65,59% della Basilicata).

Se poi si esaminano i dati dell’Osservatorio nazionale screening, si vede come dall’inizio della pandemia fino al maggio 2021 le prestazioni relative alla prevenzione antitumorale si sono ridotte rispetto al 2019 del 35,6% per la cervice, del 28,5% per la mammella, del 34,3% per il colon retto. Mentre la stima delle lesioni tumorali che potrebbero subire un ritardo diagnostico è pari a 3.558 carcinomi mammari, 1.376 carcinomi colorettali e oltre 7.763 adenomi avanzati del colon retto.

Nel solo Lazio, complessivamente, nel 2021 la sanità pubblica ha fatto 21 mila interventi chirurgici in meno rispetto al 2019. la Regione promette il recupero ma non è ancora chiaro come. E le prime azioni delle Regioni non sembrano aver sortito tutti gli effetti sperati, visto che del primo stanziamento disposto dal ministero sono stati utilizzati – come certificato dalla Corte dei Conti – solo 300 milioni. Con il risultato che molti hanno rinunciato a ricevere la prestazione saltata, altri si sono rivolti sanità privata accreditata, a cui le stesse Regioni hanno destinato parte delle risorse per abbattere le liste d’attesa. Basti pensare alla Sardegna che ha girato alle cliniche private due dei 13,6 milioni. O al Veneto, che ne ha messi a disposizione 9,9 su un totale di 41 milioni. “L’attività chirurgica adesso è di fatto ferma, limitata agli interventi d’urgenza o a salvaguardare quelli oncologici non rimandabili – dice Marco Scatizzi, presidente di Acoi, l’associazione dei chirurghi ospedalieri toscani –. Ma in queste condizioni si sommano ritardi a ritardi, e la situazione delle liste d’attesa è terrificante”.

Va anche ricordato, secondo Scatizzi, che “se una operazione programmata alla colecisti, che di norma si supera con una operazione in laparoscopia e una notte di degenza, viene rimandata per un anno il paziente si ritroverà con una pancreatite. Una condizione che può diventare invalidante. Quindi abbiamo oggi malattie benigne che si trasformano in patologie letali”. Servirebbero più medici e infermieri. Solo così, dice Scatizzi, in un anno si potrebbero recuperare il 70% degli interventi rimandati. Ora le Regioni che hanno presentato i piani, anche se incompleti, dicono che entro l’anno le liste d’attesa saranno abbattute. Lo assicura la Regione Sicilia mentre la Campania anticipa: recupereremo entro l’autunno. A sua volta la Toscana pronostica che l’operazione sarà completata entro la fine dell’estate. Quanto alla Lombardia elenca quanto fatto finora. Negli ultimi sei mesi dell’anno scorso, ha annunciato la vicepresidente Letizia Moratti, “abbiamo recuperato 529.438 prestazioni ambulatoriali e 17 mila ricoveri per interventi chirurgici”.

Mail box

 

Scudo parlamentare: la Corte faccia qualcosa

Sul caso Renzi: la Consulta non può pronunciarsi sull’uso distorto di un privilegio medievale?

Angelo Testa

Caro Angelo, la Consulta ha emesso decine di sentenze che condannano le due Camere per aver abusato dell’articolo 68 della Costituzione sulle immunità. Ma le Camere perseverano.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

In nome e per conto del dottor Patrizio di Marco siamo a significare quanto segue. Lo scorso 17 febbraio, il Fatto pubblicava l’articolo “House of Gucci: così la Maison ha sottratto 1,5 mld al Fisco”. L’articolo reca le seguenti affermazioni relative al nostro assistito: “Ha patteggiato e ottenuto la messa alla prova” e “nel 2021 ha ottenuto dal Tribunale di Milano la messa alla prova come pena alternativa”. Si tratta di affermazioni palesemente errate, che danneggiano gravemente l’immagine del nostro assistito. Il dottor di Marco non ha “patteggiato” alcuna pena, avendo intrapreso un percorso processuale ben differente – la cosiddetta “messa alla prova” – che, da un lato, non comporta l’applicazione di alcuna pena e, dall’altro, si concluderà con una pronuncia di estinzione del reato. Un ulteriore grave errore commesso nell’articolo è equiparare l’istituto della messa alla prova a una pena alternativa, nell’evidente intento di tratteggiare in termini negativi la posizione del nostro assistito, alla stregua di un soggetto condannato. Come noto, la messa alla prova rappresenta un rito alternativo che consente di ottenere la estinzione del reato senza subire alcun giudizio e, quindi, alcuna pena. Un’ultima notazione: il dottor di Marco ha percepito stipendi dal gruppo Kering fino al 2014. Nell’anno successivo sono state percepite somme a definizione dei complessivi rapporti. Non corrisponde a verità la circostanza che il dottor di Marco abbia percepito soltanto una minima parte della retribuzione in Italia, essendo invece assai cospicuo l’ammontare dei compensi pagati, percepiti e tassati in Italia.

Avv. Prof. Giulio Garuti,
Avv. Fabio Cagnola

Prendo atto delle precisazioni. Avrei certamente dato conto di quanto sopra esposto già nell’articolo, se il dottor Di Marco avesse risposto alle domande inviategli il 10 febbraio attraverso l’ufficio stampa di End Clothing, la società che attualmente presiede.

Ste. Verg.

 

Caro direttore, alcune doverose precisazioni al commento di Daniela Ranieri “Narciso Amato e la Consulta da talk: andrà dalla D’Urso?”. Non è la prima volta che la Corte costituzionale organizza una conferenza stampa del presidente per spiegare decisioni non ancora depositate. È accaduto negli anni 80 per la decisione sulla “tassa sulla salute” e negli anni 90 per quella sulla buonuscita degli statali. Anche stavolta la conferenza stampa è stata decisa dalla Corte, non dal presidente. Che, a nome della Corte e con tutti i giudici presenti, ha spiegato, e risposto a domande dei giornalisti. Inoltre, non è la prima volta che un presidente della Corte accetta un’intervista televisiva, anche per spiegare sentenze non ancora depositate. Due casi l’anno scorso, con il presidente Giancarlo Coraggio: prima a diMartedì e poi a Titolo V, per parlare della decisione appena presa sulla gestione della pandemia in capo allo Stato (e non alle Regioni). Domande e risposte. Peraltro, l’intervista al presidente Amato di Giovanni Floris non è tornata sui contenuti delle decisioni sui referendum. Tutto è documentato sul sito della Corte. Che, fin dalla nascita, ma soprattutto negli ultimi anni, considerata l’incidenza delle sue decisioni nelle nostre vite, sente il “dovere di comunicare” e lo declina in modo coerente con le esigenze di trasparenza, di conoscenza, di controllo sociale e di promozione della cultura costituzionale. E, per farlo, utilizza gli strumenti di comunicazione della contemporaneità, come peraltro fanno altre alte Corti europee (salvo i podcast, ancora non diffusi in altre istituzioni). Dispiace che questi fatti siano totalmente ignorati.

Donatella Stasio, responsabile comunicazione
Corte costituzionale

Ringraziamo la responsabile della comunicazione della Corte costituzionale, ma avevamo poco spazio a disposizione e lo abbiamo voluto dedicare tutto al neo-presidente Amato. Poiché è stata così gentile da ricordare qui le interviste concesse dal predecessore, ci riserviamo di parlare esclusivamente del presidente Amato anche in occasione della sua prossima conferenza/ospitata attraverso gli strumenti di comunicazione della contemporaneità.

Da. Ran.

Dal carcere: “Ho sbagliato, ma ho bisogno di aiuto: dov’è lo Stato?”

Buongiorno, vorrei parlarvi del mio pensiero e del mio vissuto nelle carceri: vi posso assicurare che è molto brutto. La metà della mia vita l’ho vissuta in carcere. Mi domandate se c’è sofferenza? Certo che sì. La prigione è un luogo fuori dal mondo, sei come chiuso in una bolla d’aria e la cosa più brutta è che soprattutto in Italia non vogliono far vedere realmente come si vive all’interno degli istituti di pena. Tutti i giorni le stesse abitudini: chi ha una condanna lunga osserva tutto, ma è totalmente inerme dinanzi alle grosse ingiustizie che un detenuto vive quotidianamente. La mattina si fa la conta poi la battitura, praticamente come un film che hai visto e rivisto mille volte. Ci sono detenuti che non vedono la famiglia per anni. Capita di non poter vedere i propri figli perché scegli di non aumentare in te stesso la grande angoscia che hai, già solo la metà basterebbe per farti fare un gesto inconsulto, cioè quello di farla finita per sempre. In Italia, ripeto, è peggio che altrove, perché se chiami un educatore o uno psicologo puoi anche attendere mesi, se stai male non interessa nulla a nessuno… e poi si domandano (le istituzioni) del perché di tanti accoltellamenti o suicidi o omicidi o del tagliarsi, procurandosi autolesioni che saranno per sempre lì sul nostro corpo a vita? È ovvio, non c’è assistenza, non c’è cura e soprattutto non c’è riabilitazione dopo la punizione e si esce, nella maggior parte delle volte, più cattivi di come si è entrati. Nelle carceri italiane in gran parte non ci sono termosifoni; molti giorni ci si lava con acqua fredda… Ma in tutto questo marasma soffro in silenzio! Sì, è vero, ho fatto i miei sbagli: rapine, furti, spaccio, armi; ho fatto soffrire chiunque fosse intorno a me: moglie, figli, parenti, ma sto pagando con dignità la mia lunga condanna, cercando di uscire come un uomo migliore. E soprattutto lo sto facendo da solo, senza l’aiuto delle istituzioni! Io vorrei vedere un magistrato qui dentro in carcere per un periodo di tempo in modo da rendersi conto da solo della schifezza in cui viviamo. Noi siamo solo un numero, siamo solo pecore, siamo solo lo scarto della società. Ma non è così: provate a darmi un lavoro, provate ad assistermi durante la detenzione e io vi garantisco che mi sveglierò col sorriso sapendo di andare a lavorare e rientrerò la sera stanco ma con le lacrime di gioia perché vedere i miei figli contenti, sapendo che hanno un “vero padre” accanto tutte le sere, vi garantisco che per un ex detenuto non avrebbe prezzo! Chiudo questo monologo ripartendo da un nuovo libro da leggere, prendendo un foglio e buttando giù i miei pensieri, oppure appartandomi con un mio compagno detenuto per tirarci su l’un l’altro, in attesa che qualcuno si accorga che io esisto, che sono una persona con problemi da aiutare e non da buttare nel secchio dell’immondizia; solo così potrete fare di un mondo un mondo migliore, solo così potete fare di un uomo un uomo migliore, solo così potete dire che esiste la “vera” umanità.

Un detenuto a Regina Coeli, Roma

Razzi su Kiev e in Italia riparte il pollaio

Dispiace davvero occuparsi, mentre le bombe scoppiano e la gente muore, del tragicomico cortiletto italiano. Urlano le sirene a Kiev e noi ci svegliamo con la voce di Enrico Letta che irrompe a Radio Rai (nell’eccellente filo diretto che aggiorna minuto per minuto la situazione). Cosa vuole dirci di così urgente il segretario del Pd? Un’iniziativa italiana per il cessate il fuoco? Che vuole paracadutarsi nelle trincee del Donbass? No, vuole semplicemente tirare un petardo tra le scarpe di Matteo Salvini perché è a lui che si rivolge quando denuncia “troppi distinguo, troppe ambiguità, troppi posizionamenti filorussi”, per intimare: “o di qua o di là”. Infatti, subito, Salvini con una coda di paglia lunga fino a Mosca chiede che l’Italia “condanni senza ambiguità l’attacco all’Ucraina”, pur senza mai approfondire il tema delle sanzioni contro l’amico Vlad. Poi aggiunge che se “qualcuno usa per beghe interne questa tragedia dimostra di essere un piccolo uomo” (e anche Letta è sistemato). Si continua così per tutta la giornata, tra distinguo e frecciatine su chi è più servo di Putin o di Biden, finché giunge notizia che Matteo Renzi si è dimesso dal board di Delimobil – la più grande compagnia di car sharing russa – in seguito all’invasione dell’Ucraina. Se non ci fosse da piangere sarebbe la comica finale, perché immaginiamo lo sgomento che la notizia avrà suscitato al Cremlino dove non si aspettavano una sanzione così feroce. A parere di tutti gli analisti l’aggressione militare russa avrebbe improvvisamente compattato il fronte occidentale che fino a ieri notte si era presentato in ordine sparso, da New York a Parigi a Londra a Berlino, con ciascun leader convinto di avere in tasca la chiave giusta per indurre a più miti consigli lo zar. Che tuttavia da ieri ha una chance di vittoria in più stante lo scarsissimo spirito bellico della politica romana, che è sempre quella dell’armatevi e partite. Non a caso Churchill diceva che gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.