Crac della Banca Popolare di Vicenza. Confisca da 963 milioni, 6 anni a Zonin

Una confisca monstre da 963 milioni di euro, una sanzione pecuniaria per Banca Popolare di Vicenza pari a 364 milioni di euro, quattro condanne e due assoluzioni. Questo l’esito del processo per il crac della banca veneta che ha causato un buco da 6 miliardi e la perdita dei risparmi per oltre centomila persone. Il Tribunale di Vicenza ha inflitto 6 anni e 6 mesi a Gianni Zonin (i Pm avevano chiesto 10 anni), per vent’anni presidente, 6 anni e tre mesi all’ex vicedirettore generale Emanuele Giustini, 6 anni agli altri due vicedirettori, Paolo Marin e Andrea Piazzetta. Assolti Giuseppe Zigliotto (già presidente di Confindustria Vicenza) e Massimiliano Pellegrini, responsabile dei bilanci. Le condanne per falso in prospetto, ostacolo agli organismi di vigilanza e aggiotaggio, sono destinate a finire in prescrizione, eppure confermano che il management fu responsabile dell’azzeramento di valore delle azioni e del tentativo di salvare i bilanci dai controlli, senza accantonare le poste dovute ai finanziamenti concessi dalla banca ai clienti per l’acquisto di azioni.”

Cammina velocemente, se no ti prendi il virus

L’intenzione è dare una speranza e migliorare la conoscenza di un virus ancora in larga parte ignoto. Ma l’effetto in certi casi è esilarante. Parliamo degli studi scientifici sul Covid-19 che università e centri ricerca elaborano in continuazione e a ogni latitudine. Ne escono 2 o 3 al giorno. Uno dei più recenti, per esempio, spiega che “chi cammina lentamente ha più probabilità di prendere il virus rispetto a chi va a passo spedito”. Lo studio arriva dall’Università di Leicester: “Le persone che vanno piano hanno il 2,5 di probabilità in più di sviluppare un’infezione grave e 3,7 di incorrere in un decesso”. Il motivo, però, è poco chiaro, ci si limita a dire che “l’ipotesi si basa sul fatto che chi va veloce ha un sistema cardiovascolare più sano”.

Sempre in quest’ambito, per l’Istituto Nazionale di Tumori Regina Elena di Roma, il vaccino di Pzifer in persone sovrappeso od obese genera la metà degli anticorpi. Secondo il King’s College di Londra, invece, “le persone sovrappeso e in là con gli anni hanno più facilità a diventare lungo-positivi, con una media di 28 giorni”.

Acclarato che la variante inglese ha una maggiore capacità di diffusione, c’è poi il variegato capitolo sulle modalità per combattere il virus. L’ultima sono gli ultrasuoni. Una ricerca del Massachusetts Institute of Technology sostiene che vibrazioni tra i 25 e i 100 MHz possono innescare il collasso della struttura esterna del Covid in una frazione di millisecondo. L’arma fine di mondo.

Per quanto riguarda i farmaci, i nuovi ritrovati anti-Covid sono nell’ordine: la clofazimina, medicinale anti-lebbra che, secondo l’Università di Hong Kong, ha una potente attività antivirale; il Tocilizumab, antinfiammatorio usato per l’artrite reumatoide, che, secondo il Medanta Institute in India, può diminuire il rischio di mortalità nei casi gravi; la cardioaspirina, farmaco assunto da molti cardiopatici, secondo uno studio pubblicato sul Federation of European Biochemical Journal, fa invece diminuire il rischio infezione.

Sul fronte opposto, poi, secondo gli scienziati del Brigham and Women’s Hospital, il gruppo sanguigno A può essere associato a un decorso più grave della malattia. Restando in tema cardiaco, una ricerca sul Journal of the American College of Cardiology ci spiega come il Covid possa provocare il decesso delle cellule del muscolo cardiaco e interferire con la sua capacità di contrazione.

Per quanto riguarda aria e atmosfera, l’Università Tecnica di Monaco osserva che “può esistere un collegamento tra le concentrazioni di polline nell’aria e i tassi d’infezione”. Occhio alla primavera, dunque. Mentre il Cnr conferma che il virus si diffonde più facilmente nelle aree con alto tasso di pm10, che può spiegare in parte gli alti numeri della Lombardia (0,42% d’infettati su totale popolazione contro una media dello 0,21%).

Altri titoli in ordine sparso: “Disturbi alimentari raddoppiati nei giovani a Reggio Emilia”; “Con lo smart working la forma fisica e la salute peggiorano”; “A tre mesi dalla guarigione continuano forme di ansia e depressione”; “Con le mascherine diminuisce la capacità di leggere le emozioni”; “In lockdown aumento casi di pubertà precoce”.

“Il picco fra 15 giorni, ora terapie intensive piene e malati giovani: è il momento peggiore”

“Terminata l’esperienza al Comitato tecnico scientifico posso nuovamente dedicarmi per intero ai miei malati e ai miei studenti”. Per Massimo Antonelli, direttore dell’unità di Anestesia e rianimazione del Policlinico Gemelli di Roma, è quasi un sospiro di sollievo aver lasciato il gruppo scientifico di supporto al governo nella lotta al coronavirus. “In realtà non ho mai smesso di visitare, tutti i giorni, i pazienti come non ho smesso di tenere le lezioni, far ricerca, pubblicare e amministrare l’ospedale. Serve molto tempo per tutto questo. Ho svolto il compito nel Cts per l’emergenza con grande orgoglio perché ho servito il Paese, ma sono contento di poter dedicare tutte le mie energie al resto anche perché la situazione è di nuovo critica in terapia intensiva: al Gemelli ho in queste ore 92 pazienti, di cui 61 con il Covid”.

Si è dato una spiegazione per l’esclusione dal nuovo Cts?

Così per come era nato era espressione di una fase emergenziale, adesso lo è più di programmazione sulle vaccinazioni ad esempio, quindi servono analisti ed epidemiologi. Prima, invece, bisognava fornire un supporto per cui erano necessarie figure cliniche come la mia.

Diceva che la situazione nelle terapie intensive è di nuovo critica in questi giorni di terza ondata…

Perfino peggio da un certo punto di vista, perché arrivano soggetti più giovani e arrivano più gravi. Ad esempio adesso ho un ventottenne e un trentaseienne. Mediamente l’età si è abbassata alla fascia che va dai 45 ai 65. Di ultraottantenni ora ne vedo meno, ma perché sono stati più colpiti prima e perché iniziano a essere coperti dai vaccini. Però, ecco, in questa terza ondata ho più malati in Ecmo, l’ossigenazione extracorporea a membrana, una tecnica che supporta la funzione respiratoria dei malati più gravi che si fa in terapia intensiva e non tutte le rianimazioni ne sono attrezzate. Di meglio in generale in Italia c’è, certo, che siamo più preparati, abbiamo più disponibilità di posti letto, sappiamo precisamente cosa fare, come e quando.

Però il Covid continua a colpire con violenza.

Il gran problema resta quello del contagio che poi si trascina dietro tutto il resto: oggi la soglia critica del 30 per cento di posti occupati nelle terapie intensive è superata in molte regioni. E in questi giorni i pazienti nelle terapie intensive stanno ancora aumentando. Non si può fare un paragone con le altre due ondate, ma si può dire che questa variante inglese maggiormente diffusa adesso è più contagiosa quindi il rischio di venire contagiati è percentualmente aumentato. Restano i capisaldi: indossare la mascherina e il distanziamento, grazie a queste pratiche nessuno o quasi si è ammalato di influenza; contro il Covid non risolvono del tutto perché è molto più contagioso dell’influenza ma contengono. Non dimentichiamo, però, che la popolazione è molto stanca, come tutti noi.

Quindi?

Quindi l’unica strada da intraprendere con decisione è quella dei vaccini, di tutti i vaccini a disposizione, anche Astrazeneca.

Quando si aspetta il picco di questa terza ondata?

Entro i prossimi quindici, venti giorni. L’onda lunga degli ingressi in terapia intensiva e dei decessi si vedrà a distanza di settimane anche al calare della curva. Quindi è ancora lunga.

AstraZeneca, dopo la bufera si riparte (quasi) come prima

Il governo rassicura. Mario Draghi promette che “farà AstraZeneca”, oggi si vaccinano il direttore della Protezione civile Fabrizio Curcio e il commissario straordinario, generale Francesco Paolo Figliuolo: ci saranno anche le telecamere. “Abbiamo perso solo un giorno”, ha detto il presidente del Consiglio. Duecentomila iniezioni in meno in 4 giorni secondo il governo, il doppio secondo i calcoli del Fatto.

Ieri, dopo l’ok dell’Agenzia europea Ema, le vaccinazioni sono riprese. “Poche le rinunce, nell’ordine del 5-10%”, dicono da Roma Termini, come da altre città. Anzi alla Nuvola dell’Eur hanno recuperato un centinaio di persone bloccate nei quattro giorni di stop. Qualche defezione in più all’hub di Fiumicino, dove peraltro alcuni operatori sanitari chiedono lo scudo penale. A Fiumicino come alla Nuvola dell’Eur i “fuori lista” sono tornati a casa senza vaccino, con buona pace del generale Figliuolo che dice di “vaccinare chi passa”. Ma per il governo va tutto bene. “I benefici superano i rischi”, hanno ribadito ieri il direttore dell’agenzia italiana del farmaco Aifa Nicola Magrini, il direttore della Prevenzione del ministero della Salute Gianni Rezza e il presidente del Consiglio superiore di Sanità, neocordinatore del Comitato tecnico scientifico, Franco Locatelli. Perché trombosi e trombo-embolie sono poche e non c’è prova di “nesso causale” con il vaccino

Da noi nessuna limitazione, men che meno per le donne che prendono la pillola anticoncezionale. Aifa e Salute escludono esami e farmaci pre e post vaccino. Cambierà, come in Germania, il modulo di consenso informato, con riferimenti al “rischio” sia pure “remoto” di problemi al sistema circolatorio. La Francia invece farà AstraZeneca solo agli over 55 anni, l’opposto della raccomandazione inizialmente formulata dall’Aifa in Italia e poi rimossa (ma anche Parigi l’aveva consigliato solo agli under 65), perché le trombosi sospette sono concentrate sotto i 55 anni e perché i meno giovani corrono più rischi con il Covid-19. La Spagna riparte lunedì. Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia per ora no. Da noi c’è chi avrebbe evitato lo stop anche al governo, al ministero della Salute e all’Aifa.

Su circa 20 milioni di persone vaccinate con AstraZeneca in Europa (Regno Unito incluso) Ema al 16 marzo ha rilevato “solo 7 casi di trombi in più vasi sanguigni (coagulazione intravascolare disseminata, Cid) e 18 casi di Cvst (trombosi cerebrale dei seni venosi)” di cui “9 fatali”, per lo più “in persone di età inferiore ai 55 anni, per la maggioranza donne”. “Un nesso causale con il vaccino non è dimostrato, ma esso è possibile e merita ulteriori analisi”. Secondo Ema “alla data del 16 marzo 2021, era atteso che si verificasse, tra le persone al di sotto dei 50 anni, meno di 1 caso di Cid entro 14 giorni dalla somministrazione, mentre sono stati segnalati 5 casi. In questa fascia di età erano attesi in media 1,35 casi di Cvst, mentre ne sono stati osservati 12. Una simile differenza non era evidenziabile nella popolazione più anziana”.

Nel decreto Sostegni approvato ieri ci sono le norme chieste dal ministro Roberto Speranza per impegnare nelle vaccinazioni i medici specializzandi, gli infermieri distaccati da aziende sanitarie pubbliche e i farmacisti. Ma il piano vaccinale è ancora incompleto, molte Regioni sono indietro con gli under 80 e gli ultrafragili, chi è più giovane non sa quando gli toccherà e con quale vaccino.

Il monitoraggio Salute/Iss conferma l’ulteriore aumento dei contagi, in 7 giorni, da 225 a 250 nuovi casi ogni 100 mila abitanti a settimana. In realtà siamo già a 264. Rt è stabile a 1,16. In Campania è a 1,5: rossa per la terza settimana. Lunedì diventa arancione (il giallo non c’è più) la Sardegna che era bianca, come il Molise che era rosso. La crescita dei contagi si attenua ma aumentano i pazienti in terapia intensiva. Purtroppo anche i morti cresceranno, ieri sono stati 386.

FdI recluta voltagabban. Due di Iv tornano nel Pd

“Presidente Conte, mi sono vergognata per il mercimonio inscenato in quest’aula. Ricordo quando diceva ‘voliamo in alto’. Con la Mastella Airlines?”. Era il 18 gennaio scorso e Giorgia Meloni iniziava così il suo intervento in aula durante il dibattito sulla fiducia al governo Conte-2 dopo le dimissioni dei ministri di Italia Viva. La leader di Fratelli d’Italia denunciava il “trasformismo” in atto in quelle ore e la ricerca dei “voltagabbana” per provare a salvare la maggioranza giallorosa. Due mesi dopo, giovedì mattina, Meloni ha annunciato l’arrivo di tre parlamentari eletti con il M5S e ora convertiti sulla via della destra sovranista: i due deputati Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri e la senatrice Tiziana Drago. Solo che oggi Meloni non denuncia più il “mercimonio” e il “trasformismo” ma esulta: “Fratelli d’Italia continua a crescere anche in Parlamento – ha detto – è la casa di chi non crede in questa maggioranza”. I tre ex M5S sono entrati nel partito di Meloni per portare avanti il valore del “patriottismo”.

Dall’iniziodella legislatura sono ben 5 i parlamentari eletti con il M5S che sono passati nelle file di FdI: oltre agli ultimi tre arrivi, Meloni ha accolto a braccia aperte anche il presidente del Potenza Calcio Salvatore Caiata, espulso dal M5S per un’inchiesta per riciclaggio e quindi premiato come segretario regionale di FdI in Basilicata (due giorni fa si è dovuto dimettere per un’altra inchiesta per autoriciclaggio a Siena), e il militare pugliese Davide Galantino.

Ma FdI non è l’unico partito che ha beneficiato dei cambi di gruppo dal 2018: dall’inizio della legislatura, secondo i dati di Openpolis, i cambi di casacca sono stati ben 216 per un totale di 189 parlamentari coinvolti (uno ogni cinque). Ogni mese ci sono stati 6 cambi di gruppo. Un record negativo: la media dei transfughi di questa legislatura è la seconda più alta della Seconda Repubblica sopra la XIV (2001-2006) che aveva avuto 1,35 cambi al mese e la XVIII (2008-2013) con 4 passaggi ogni 30 giorni. Il triste primato spetta ancora alla legislatura scorsa quando, ai tre governi (Letta, Renzi, Gentiloni), erano corrisposti ben 549 cambi di casacca per un totale di 369 parlamentari. Uno su tre con una media di 10 passaggi al mese.

Se per settimane il governo Conte è stato attaccato proprio per la ricerca di “responsabili” o “costruttori” in grado di sostituire i 18 senatori renziani, l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi non ha certamente fermato i voltagabbana. Anzi: se possibile li ha aumentati. È notizia di ieri che due senatori renziani, Eugenio Comincini e Leonardo Grimani, sono pronti a tornare nel Pd: il capogruppo del Pd al Senato Andrea Marcucci annuncerà il passaggio martedì nell’assemblea del gruppo con Enrico Letta per provare a mantenere la poltrona. Dall’inizio dell’anno, i cambi di gruppo in Parlamento sono stati ben 68 (quasi uno al giorno), 10 in più rispetto a tutti il 2020. A pesare è stata soprattutto la scissione nel M5S, con un gruppo di deputati e senatori ortodossi che hanno votato “no” alla fiducia al governo Draghi: tra febbraio e marzo, il M5S ha perso ben 26 deputati e 16 senatori. È proprio il partito di maggioranza relativa che ha subito la fuoriuscita più ampia pari a quasi un terzo del suo gruppo iniziale: in tre anni ha perso ben 89 parlamentari. Con un altro record negativo: in ogni gruppo dell’arco parlamentare oggi si trova un transfugo del M5S. Oltre al M5S, chi ne ha persi di più è il Pd che ha subito la diaspora renziana (-34) ma anche FI (-27). Saldo positivo invece per il Gruppo Misto che ha accolto ben 72 parlamentari, Lega (+8) e FdI (+7). I transfughi dal M5S e Pd hanno modificato l’assetto della maggioranza dall’inizio della legislatura: ad oggi il centrosinistra ha ancora più voti del centrodestra alla Camera (269 a 218) ma non al Senato dove è sostanziale parità (117 a 115 per i giallorossi).

Tra gli “Scillipoti” di questa legislatura se ne segnalano alcuni che hanno cambiato gruppo più volte: oltre ai tre passati con Meloni, c’è Enrico Costa eletto con “Noi con l’Italia”, poi passato a FI e infine ad Azione. Ma anche l’ex badante di Berlusconi, Mariarosaria Rossi, che a gennaio si è convertita sulla via di Conte passando da FI agli “Europeisti” per andare alla corte di Giovanni Toti in “Cambiamo!”. Per non parlare di Michela Rostan, passata dal Pd a LeU proprio perché critica nei confronti di Renzi e quindi emigrata in Iv. Catello Vitiello è stato eletto con il M5S, poi espulso quando si scoprì che era un “massone in sonno” e infine, dopo un anno e mezzo nel Misto, è stato folgorato sulla via di Rignano. Eppure fino a poche settimane fa, proprio Renzi attaccava il governo giallorosa dei “Ciampolillo” e dei “Mastella”. Senza accorgersi che i primi “Scilipoti” sono proprio i 50 parlamentari di Italia Viva.

 

Stop ai trasformisti togliendogli il malloppo

La richiesta è arrivata giovedì pomeriggio, l’incontro si dovrebbe tenere forse già lunedì: sarà in quella sede che il nuovo segretario del Pd Enrico Letta presenterà alla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati la sua proposta di modifica dei regolamenti parlamentari in chiave “anti-trasformismo”. Letta ne ha già parlato con il presidente della Camera Roberto Fico ma la vera moral suasion dovrà farla sulla seconda carica dello Stato perché è il Senato l’ala del Parlamento che in questi anni ha creato più problemi ai governi – basti pensare solo a quello di Giuseppe Conte caduto per 18 senatori di Italia Viva – per le maggioranze più risicate rispetto a Montecitorio. Ognuna delle due Camere ha la facoltà di approvare un proprio regolamento e l’occasione arriverà presto: il Parlamento dovrà modificare i regolamenti alla luce del taglio degli eletti che, dopo la vittoria del “Sì” al referendum, dalla prossima legislatura passeranno da 945 a 600. Ed è in quel contesto – si dovranno tarare nuove soglie per le votazioni, lo scrutinio segreto e le maggioranze – che il segretario del Pd ha intenzione di incidere: “Ora il trasformismo parlamentare deve finire” ha detto domenica nel suo discorso di insediamento.

La bozza Il modello è quello del parlamento europeo

Per redigere la proposta si stanno muovendo gli esperti in materia del Pd insieme a quelli della giunta per il Regolamento del Senato che stavano già discutendo su come cambiare i testi per dare attuazione al taglio dei parlamentari. L’obiettivo lo ha indicato Letta nella conferenza con la stampa estera: “I cambi di casacca e il gruppo Misto non sono capiti all’estero” ha detto il segretario dem. La proposta non andrà a imporre divieti o forzature che rischiano di collidere con il divieto di mandato imperativo dell’articolo 67 della Costituzione ma si baserà sul principio del “disincentivo” a cambiare gruppo: chi lo farà, nel corso della legislatura, non conterà più niente in termini politici e soprattutto economici. La proposta si ispira al regolamento del Parlamento Ue dove il gruppo Misto non esiste e gli eurodeputati che non vogliono iscriversi ad alcun gruppo o decidono di andarsene finiscono tra i “non iscritti”. Completamente ininfluenti e senza potere politico.

“Non iscritti” Non contano più e zero fondi pubblici

In Italia il gruppo Misto – ormai ingrossato così tanto da diventare la quinta componente del Parlamento (78 alla Camera e 39 al Senato) – non si potrà abolire ma la proposta del Pd prevede di permettere l’ingresso nel Misto solo all’inizio della legislatura nel caso in cui deputati e senatori eletti non riescano a raggiungere la soglia per formare un gruppo autonomo: il caso più tipico è quello di LeU che a inizio legislatura aveva 14 deputati e 3 senatori.

Nel corso della legislatura, però, chi deciderà di cambiare gruppo finirà nel limbo dei “non iscritti” senza la possibilità di formare un gruppo autonomo perdendo tutti i benefici: non potranno partecipare alla conferenza dei capigruppo ma soprattutto non avranno quella quota di finanziamento pubblico che oggi permette loro di restare in piedi o di assumere personale, per esempio i collaboratori parlamentari. In questo modo, sostengono dal Pd, i cambi di casacca sarebbero fortemente disincentivati: gruppi come Italia Viva o gli “Europeisti/Maie” senza i fondi farebbero difficoltà a stare in piedi. Se i parlamentari “ribelli” decidessero di continuare a stare nel gruppo di appartenenza pur votando in dissenso, alla fine sarebbero espulsi tra i “non iscritti”.

Norma anti-Renzi Basta gruppi senza il simbolo

Inoltre, il Pd è pronto a presentare anche una norma cosiddetta “anti Italia Viva”, per evitare che si ripeta un caso come quello di Renzi del 2019. Il regolamento del Senato del 2017, rispetto a quello della Camera, prevede già che non si possa formare un gruppo senza un simbolo che abbia concorso alle elezioni ma, per aggirare questa norma, nel Renzi e i suoi formarono Iv grazie all’apporto di Riccardo Nencini eletto con il simbolo del Psi. Ora i dem vorrebbero stringere le maglie introducendo un principio: ci si potrà spostare solo in gruppi che hanno presentato il proprio simbolo alle elezioni. Come fare? Almeno dieci senatori del gruppo devono aver corso alle elezioni con quel simbolo evitando l’apparentamento con singoli senatori come nel caso di Nencini. A ogni modo, nuovi gruppi parlamentari si potranno formare con una soglia più bassa: dai 10 attuali a 7, proporzionalmente con la riduzione dei parlamentari.

Il progetto “anti voltagabbana” convince i costituzionalisti. Il professore dell’Università Kore di Enna Salvatore Curreri spiega che “il trasformismo parlamentare è una malattia congenita del nostro sistema politico” e ritiene che disincentivare il cambio di casacca vada “nella giusta direzione”. Ma ci vuole qualcosa in più: in primo luogo, spiega Curreri, si deve “alzare le soglie minime per formare un gruppo nuovo: non più 10 al Senato e 20 alla Camera ma un numero più alto”. Curreri vorrebbe anche una soluzione politica: “Bisognerebbe fare come in Spagna: un patto anti-transfughi di tutte le forze politiche che si impegnano a non ricandidare chi cambia gruppo. Così i cambi di casacca diminuirebbero molto”. Anche il professore di Diritto Costituzionale della Luiss Nicola Lupo pensa che il meccanismo di “incentivi e disincentivi” sia migliore di “norme draconiane che potrebbero andare a intaccare l’art. 67”: “Oggi abbiamo un regolamento che premia la frammentazione per cui un unico gruppo di centro conta meno di dieci piccoli gruppi – dice – vanno alzate le soglie per formare gruppi. Il problema è che molte scissioni sono l’effetto e non la causa della possibilità di cambiare gruppo: se IV non avesse potuto formare un gruppo autonomo, la scissione ci sarebbe stata?”.

Il costituzionalista dell’Università di Pisa Andrea Pertici pensa che la proposta dem “sia in linea con l’art. 67” ma il problema rischia di essere organizzativo: “Con 20-30 non iscritti i lavori parlamentari e le maggioranze rischiano il caos – spiega – è fondamentale alzare la soglia per evitare la formazione di nuovi gruppi”.

La luna di miele è alle spalle: i sondaggi sgonfiano Draghi

Il primo tagliando del governo Draghi a un mese abbondante dal giuramento al Quirinale non è entusiasmante per il premier e i suoi ministri. I sondaggi danno un responso unanime: il consenso attorno all’ex presidente della Bce è in flessione, la luna di miele con l’opinione pubblica sembra già agli sgoccioli.

La fiducia degli elettori nel nuovo governo è in calo secondo tre diversi istituti demoscopici: per Euromedia Research di Alessandra Ghisleri è al 47% (e partiva dal 57), secondo Aqua Group di Fabrizio Masia è al 40% (una settimana fa era al 42), anche per Antonio Noto (Noto Sondaggi) è al 40, in discesa di circa 4 punti dall’ultima rilevazione.

Anche il carisma personale del presidente del Consiglio sembra meno luminoso di come era stato percepito all’esordio a Palazzo Chigi: la fiducia in Draghi scende dal 57 al 52% secondo i numeri di Noto, dal 64 al 57% per quelli della Ghisleri.

Le ragioni? “Più il tempo passa, più le persone aspettano qualcosa di concreto”, riflette la direttrice di Euromedia Research. Per Ghisleri, “Draghi fa bene a comunicare poco, è la sua cifra e il suo stile, credo si sia imposto di parlare solo nel momento in cui c’è qualche risultato effettivo da presentare all’opinione pubblica. Al tempo stesso però la gente sente il bisogno di essere tranquillizzata, sia sui ristori che sull’evoluzione della pandemia. La gestione del caso AstraZeneca, ad esempio, poteva essere affrontata in modo più limpido e rassicurante”.

L’impressione complessiva che si ricava dai sondaggi di Draghi è che il sostegno praticamente unanime del sistema mediatico non sia stato sufficiente a mascherare le lacune del suo basso profilo comunicativo. “Mettendo insieme destra e sinistra – sottolinea Noto – il premier partiva da un bacino potenziale di consenso vicino al 70%, se si sommano le percentuali dei partiti di maggioranza. Un potenziale altissimo. È difficile mantenere un consenso di questo livello. La grande attesa iniziale e l’aspettativa alimentata dal racconto dei media possono diventare un boomerang”.

Per i bilanci è ancora presto, i numeri di maggio o giugno racconteranno una tendenza più solida e significativa. Intanto però si è accesa una prima spia d’allarme attorno alla reputazione quasi sacrale di un uomo presentato come il salvatore della Patria: “Credo Draghi stia scaldando ancora i motori – aggiunge Noto –, di certo finora ha parlato davvero troppo poco. Visti i numeri di partenza molto alti, un calo può essere anche considerato fisiologico. Resta il fatto che gli italiani per adesso non hanno percepito nessun cambiamento concreto rispetto alla situazione precedente”.

Tim soffre il cambio di linea di Giorgetti

Il nuovo ministro dello Sviluppo economico, il leghista Giancarlo Giorgetti, al momento sulla rete unica sembra più grillino dei grillini: per due giorni di fila, e ieri simbolicamente accanto al ministro francese Bruno Le Maire, ha detto che al governo non piace l’idea di avere un monopolio privato a capo della società unica dell’infrastruttura digitale, ancora meno se è sostanzialmente a guida straniera.

Un riferimento nient’affatto velato a Tim – e al suo principale azionista, la francese Vivendi – che nel progetto portato avanti sotto il precedente governo avrebbe conservato la maggioranza delle quote della futura società della rete unica (AccessCo) cedendo però a una governance plurale, in particolare grazie al ruolo di Cassa depositi e prestiti, che avrebbe dovuto tranquillizzare gli altri operatori del settore, invitati a entrare nella società e a partecipare all’impresa. Una soluzione “sub-ottimale”, la definì l’ex ministro Roberto Gualtieri, resa necessaria dalla particolare situazione finanziaria dell’ex monopolista telefonico: l’infrastruttura a bilancio garantisce i molti debiti di Tim e le consente, proteggendola da una ristrutturazione profonda (certo non indolore in termini sociali), di credersi il gigante che non è più da tempo. Il progetto AccessCo andava avanti pianissimo, però, anche viste le pretese di Enel su Open Fiber, senza la quale non esiste società della rete unica: l’azienda (pubblica) di Starace sta per vendere la sua metà di OF agli avvoltoi australiani di Macquarie a un prezzo molto alto; Cdp – che detiene l’altro 50% e ha un diritto di prelazione sulle azioni – dovrebbe acquistare un 5-10% della società ma non ha intenzione di pagare le cifre folli strappate da Enel al fondo australiano, convinto che alla fine quest’affare, in un modo o nell’altro, garantirà bei soldi a tutti i convenuti.

È su questo casino, riassunto molto in breve e sfrondato dei moltissimi addentellati, che plana il nuovo governo. Sulla questione, insieme al Tesoro (azionista di Cdp), ha le deleghe Giorgetti: “Io sono contro i monopoli, non portano mai né efficienza né convenienza per i consumatori. Non vanno bene se sono privati, potrebbero andare bene se sono pubblici e c’è parità di accesso per tutti i soggetti”. Siamo all’interpretazione dei fondi di caffè, ma non sembrano parole favorevoli a un’opzione in cui Tim conserva il 50% più un’azione della futura società: evidentemente lo stesso pensiero fatto dagli investitori, visto che Tim ieri pomeriggio ha lasciato sul pavimento, alla chiusura Piazza Affari, il 7,37% del valore con cui si era presentata di mattina (0,43 euro per azione).

Non hanno aiutato neanche le parole di giovedì del ministro alla Transizione digitale Vittorio Colao, il quale – pur tenendosi molto sul vago – ha sostenuto che quel che conta è avere “una strategia unica” sulla rete anche più di una rete unica: bisogna portare la fibra agli italiani, chi e come lo fa è secondario insomma. Questa è la vera strategia della Lega (Giorgetti), peraltro non da sola: molti credono, specie dalle parti di Open Fiber, che alla fine la società unica della rete non si farà e al governo toccherà coordinare gli sforzi privati risolvendo il suo conflitto di interessi (Cdp è azionista sia di Tim sia di OF). Diciamo che finora non è andata benissimo: la società di Enel su 3 anni di lavori per la fibra nelle aree a fallimento di mercato (soldi pubblici) è in ritardo di 3 anni…

I Sostegni paiono Ristori: perso 1 mese, novità poche

Il nome del decreto è cambiato – non più “Ristori”, ma “Sostegni” – il resto è quasi uguale e non poteva essere altrimenti visto che la cifra per ora è quella approvata dal governo Conte (32 miliardi di maggior deficit) e non potrà che deludere chi aspetta quei soldi da mesi. In attesa del prossimo scostamento di bilancio, il governo Draghi ieri sera – casino compreso – ha fatto insomma più o meno quel che si faceva prima, ma sconta la perdita di tempo e le attese messianiche di cui è stato caricato dai media.

A stare alla bozza entrata ieri in Consiglio dei ministri (e che dovrebbe essere stata approvata senza enormi modifiche per quel che qui ci riguarda), nel decreto Sostegni ci sono fondi per molti settori, divisi più o meno com’erano nelle bozze del “Ristori 5” predisposte ai tempi di Roberto Gualtieri: dalla Cassa integrazione Covid (3,3 miliardi) alla campagna vaccinale (2,1 miliardi), dall’acquisto di farmaci anti-Covid (700 milioni) al trasporto locale (800 milioni), dal reddito di cittadinanza (1 miliardo) alle tasse non incassate dagli enti locali (1,4 miliardi) dall’assistenza psicologica nelle scuole (150 milioni) all’esonero contributivo degli autonomi (1,5 miliardi) fino ai soldi per le spese sanitarie delle Regioni (1 miliardo) e molto altro. Anche altre norme sono identiche: il blocco dei licenziamenti è prorogato a fine giugno e a fine anno la possibilità di rinnovare i contratti a termine senza indicare la causale.

Gli aiuti ad aziende e partite Iva in senso stretto costano invece 11 miliardi sui 32 totali, più altri 600 milioni che saranno gestiti dalle Regioni per aiutare il turismo invernale e categorie ad hoc. Intanto i tempi: questo decreto, annunciato per inizio gennaio e bloccato dalla crisi del governo giallorosa, arriva al traguardo dopo un mese dall’insediamento di Draghi, nonostante sia in larga parte simile a quello che Daniele Franco ha trovato entrando al Tesoro. Le imprese avranno due mesi di tempo per fare le domande, ma la piattaforma sarà quella già usata dell’Agenzia delle Entrate e i bonifici dovrebbero partire relativamente presto (dall’8 a fine aprile).

I criteri per avere i soldi, com’era già stato annunciato a dicembre, sono cambiati: addio ai codici Ateco, la platea si amplia anche a chi finora non ha visto un euro (partite Iva, aziende fondate nel corso del 2020, etc). In tutto dovrebbero avere diritto ai fondi oltre tre milioni di operatori economici, a patto che abbiano subito un calo del fatturato del 30% nel 2020 rispetto all’anno precedente e che abbiano ricavi inferiori ai 10 milioni. Prima di passare ai dettagli, va ricordata una cosa: se quella è la cifra e quella è la platea, il sostegno non potrà che essere limitato, 3.700 euro circa in media, qualunque sia la base di calcolo.

Tecnicamente funzionerà così: lo Stato rimborserà dal 20 al 60% del calo mensile medio di fatturato senza distinzione tra chi ha già avuto altri aiuti e chi no e con un tetto massimo di 150mila euro (come prima). Si tratta in sostanza di un dodicesimo della perdita annua da pagare sulla base di cinque soglie di fatturato: 60% fino a 100mila euro; 50% fino a 400mila; 40% fino a un milione; 30% fra 1 e 5 milioni; 20% fino a 10 milioni (le start up invece, che non possono provare cali di fatturato, avranno da mille a duemila euro). Detto in altro modo, il rimborso sarà del 5% del calo annuo per le imprese con ricavi fino a 100mila euro, per poi scendere nelle varie soglie al 4,2%, al 3,3%, al 2,5% e all’1,7% annuo. Per capirci facciamo un solo esempio: un’azienda con fatturato 2019 da 250mila euro e 2020 da 125mila (10.400 euro di calo medio mensile) avrà diritto a circa 5.200 euro.

Ovviamente a queste percentuali di recupero del fatturato perso vanno aggiunte, per chi ha avuto la fortuna di riceverli, quelle coperte dai ristori precedenti. Altrettanto ovviamente di fronte a una crisi di questa profondità non c’è ristoro che tenga: le categorie interessate, specie quelle più o meno chiuse da un anno, restano scontente – eufemizzando – con la non trascurabile novità che il loro scontento adesso si estende anche a chi finora aveva cavalcato la loro protesta (Lega in testa).

La partita ora si sposta sull’ulteriore scostamento di bilancio che il governo intende chiedere al Parlamento in aprile: si è parlato di 20 miliardi – evidentemente “debito buono” se è targato Mario Draghi – che serviranno a coprire le chiusure decise tra gennaio e marzo 2021, cioè il fatturato che si sta perdendo anche mentre leggete queste righe.

Vaccini, il Migliore critica le Regioni (e anche l’Ue)

Si trova a dover fronteggiare la bufera, prima di tutto emotiva, rappresentata dal caso Astrazeneca, Mario Draghi, nella sua prima conferenza stampa a Palazzo Chigi. E non a caso, la prima domanda è sul suo vaccino. “Non ho ancora fatto la prenotazione, la mia fascia d’età prevede la vaccinazione con Astrazeneca quindi si, lo farò, lo ha fatto anche mio figlio l’altro giorno in Inghilterra”. La risposta è asciutta, non senza un richiamo, di questi tempi d’obbligo, agli affetti più cari. Dopo l’annuncio di aver optato per il siero anglo svedese fatto da Boris Johnson, dal primo ministro francese Castex, dalla Cancelliera, Angela Merkel, la scelta è politica. La valutazione è stata quella di fare come i comuni cittadini: Draghi avrebbe potuto prenotarsi nel Lazio per la sua classe d’età (1946-1947) già a partire dalla mezzanotte di venerdì 12 marzo e fino allo stop di lunedì. L’unico vaccino disponibile immediatamente era Astrazeneca. Evidentemente, ha preferito aspettare. Per poi decidere che la scelta di quel siero è l’unica possibile di fronte all’opinione pubblica, dopo lo stop e poi la ripresa delle vaccinazioni con il siero anglo-svedese.

Il format della prima conferenza stampa era stato preparato accuratamente per settimane. Doveva essere un’uscita in linea con il profilo del premier, ma nello stesso tempo un’occasione per trovare una cifra comunicativa. Alla fine, l’ostacolo, come sempre, è la realtà. La discussione sul condono con i ministri leghisti allunga i tempi: Draghi voleva marcare la differenza rispetto allo stile “notturno” di Giuseppe Conte e si trova in diretta esattamente all’ora di cena. Risponde preciso, sul punto, senza edulcorare. Poche parole, quelle essenziali: un metodo sperimentato per anni che gli permette di dire solo quel che vuole dire, senza evadere palesemente la richiesta dell’interlocutore.

Buona parte delle domande sono proprio sui vaccini. Draghi respinge con forza l’idea che il blocco di Astrazeneca sia stato dovuto a “interessi tedeschi”: “Chiunque al mio posto avrebbe fatto lo stesso”, dice, riferendosi alla valutazione supplementare fatta dall’Ema, che ha gettato tutti nell’incertezza. Resta il fatto che l’Italia ha deciso subito dopo la Germania. Un asse ribadito in qualche modo anche ieri. La Merkel ha annunciato che se l’Europa non dovesse autorizzare lo Sputnik, la Germania farà da sola. L’Italia di Draghi era già indirizzata verso questa opzione, ma ieri il premier si è potuto appoggiare anche alla Cancelliera: “La Merkel me lo aveva annunciato prima”, dice. E poi: “Se l’Ue prosegue su Sputnik bene, sennò si procederà in un altro modo”. Perché “se la strategia europea non funziona, siamo pronti a fare da soli”. Non risparmia le critiche alla gestione del dossier vaccini da parte della Commissione “per come sono stati fatti i contratti”, per le “scelte delle aziende”, ma non affonda: “Con il senno di poi…”. Ancora. Ribadisce che l’export delle ditte che non rispettano gli accordi deve essere bloccato. Attacca anche le Regioni che sulle immunizzazioni “vanno in ordine sparso e questo non va bene”.

“Pragmatismo” è la parola chiave che tira fuori anche rispetto a chi gli chiede la sua visione di paese, ricordando che siamo in emergenza.. Da notare anche la prudenza nel commentare la crisi tra Biden e Putin, che fa capire come per l’Italia si tratti di una grana: “Crisi è una grossa parola, per ora c’è uno scambio – come dire – di complimenti: non so se porterà a una crisi ma non so se avrà impatto su di noi”. Alla domanda più personale, sul peso delle aspettative nei suoi confronti, risponde, senza nascondersi, con il piglio di uno che sa il fatto suo: “Le aspettative non mi pesano. Mi auguro che le future delusioni non siano uguali all’entusiasmo che c’è oggi. È il minimo che mi aspetto”. E alla fine, partendo dalla Lega, invita i partiti ad ammainare le bandiere identitarie che non sono di buon senso e non servono al Paese. A proposito di aspettative. Le sue.