Azzerate le cartelle sotto i 5mila euro tra il 2000 e il 2010

Tutta l’ampia maggioranza a richiedere per settimane discontinuità con il passato e, alla fine di tre giorni di trattative estenuanti, la prima grana del governo Draghi viene risolta alla vecchia maniera: un compromesso che dà il via libera a un condono sulla scia di quelli tanto cari a Silvio Berlusconi prima (quello tombale) e a Matteo Renzi dopo (lo scudo sui capitali rientrati dall’estero). Dopo un braccio di ferro durato ben due ore e mezzo, ieri pomeriggio è passata la richiesta di Lega e Forza Italia mediata dal premier Draghi e dal ministro dell’Economia, Daniele Franco: saranno cancellate 16 milioni di vecchie cartelle esattoriali fino a 5 mila euro (importo che comprende oltre al capitale anche gli interessi e le sanzioni) per il periodo che va dal primo gennaio 2000 al 31 dicembre 2010. Ma varrà solo per i contribuenti che rientrano in un tetto di reddito di 30 mila euro, che dovrebbe salire a 50 mila per le società. È stato, quindi, diminuito l’arco temporale del condono che avrebbe dovuto coprire il 2010-2015. Dei 5 anni che sono stati esclusi se ne occuperà una riforma del sistema della riscossione chiesta da Lega e FI. In pratica, servirà un decreto che renderà più efficiente il meccanismo di stralcio dei debiti per inesigibilità (cioè impossibili da recuperare).

“È un condono, sì ma era necessario e abbiamo contenuto l’importo”, ha detto il premier Draghi in conferenza stampa. “Si tratta di multe e altre cartelle più vecchie di 10 anni per un valore netto di 2.500 euro all’interno di uno scaglione di reddito. Un azzeramento – ha spiegato – che permetterà allo Stato di liberarsi del magazzino fiscale e di perseguire la lotta all’evasione anche in modo più efficiente”. Parliamo di una cifra enorme, oltre 987 miliardi di crediti dello Stato nei confronti dei contribuenti che si sono cumulati tra il 2000 e il 2015, di cui il 91% inesigibili. Una situazione che, secondo Draghi, è la dimostrazione di come lo Stato non abbia funzionato permettendo in un decennio l’accumulo di 60 milioni di cartelle.

Il compromesso che si è trovato sulle cartelle è stato quasi insperato, soprattutto dopo che ieri pomeriggio la Lega, durante un vertice con il premier Draghi, ha addirittura minacciato di non presentarsi in Cdm. Le posizioni era assai distanti da l’altro ieri pomeriggio. Lega e Fratelli per giorni si sono battuti per un condono totale delle cartelle sopra i 10 mila euro senza limiti di reddito. La viceministra dell’Economia Laura Castelli (M5S) è arrivata a chiedere di “mettere da parte l’ideologia” per cancellare l’intero magazzino, comprese le azioni cautelari-esecutive. Mentre Pd e Leu si sono spinti per una cifra più bassa: nessuna misura che assomigliasse a un condono, quanto piuttosto un intervento solo sul magazzino veramente inesigibile, ovvero falliti o deceduti.

Poi i momenti di tensione toccati ieri pomeriggio, prima del Cdm, quando il premier Draghi – anche su input del Tesoro – ha chiesto di abbassare a 3.000 euro il tetto per le singole cartelle e ridurre l’arco temporale della sanatoria. Proposta che avrebbe spinto la Lega a rialzare la posta in gioco, tornando sulla sua richiesta iniziale di condonare le cartelle fino a 10 mila euro. Fino alla mediazione: diminuire l’arco temporale ma introdurre la soglia di reddito che oltre a soddisfare Draghi, accontenta anche il Pd (“È una proposta di assoluto buon senso”), Matteo Salvini (“È un’accelerazione targata Lega”), FI (“È stato fatto il primo passo nella giusta direzione”) ma anche un po’ di piccoli evasori. Del resto “sì, è un condono”.

La Lega blocca il decreto per ore. Draghi ammette: “Condono sì, ma piccolo”

E alla fine arrivò l’esordio di Mario Draghi con il suo primo provvedimento economico – il decreto “Sostegni”, atteso da oltre un mese – e la sua prima conferenza stampa con domande ammesse dai giornalisti. Il risultato, va detto, è così così… Era stato preparato con cura, ma tutto finisce ostaggio di un lungo blitz leghista sul nuovo condono che fa slittare il Consiglio dei ministri di tre ore e mezza. Si arriva a sera, accavallandosi coi Tg e cancellando le velleità di mostrare, anche simbolicamente, un cambio di passo. La conferenza stampa che slitta dalle 17.30 alle 20 sa di déjà vu. I ministri Daniele Franco (Economia) e Andrea Orlando (Lavoro) parlano per pochi minuti. “Questo è solo un primo passo”, esordisce il premier. La cosa, peraltro, è paradossale visto che sul punto, lo stralcio delle cartelle esattoriali, la Lega non riesce a strappare molto più dell’effetto mediatico di tenere chiuso il premier per oltre un’ora in una stanza a Palazzo Chigi (ammessi solo Stefano Patuanelli e Mariastella Gelmini) mentre Salvini impartisce il diktat: “Senza risultati non entrate in Cdm”.

Alla fine vengono condonate le cartelle sotto i 5mila euro tra il 2000 e il 2011 per i redditi sotto i 30mila euro lordi. Nella versione iniziale (peraltro in accordo con FI, Iv e M5S) l’arco di tempo andava dal 2000 al 2015 e senza limiti di reddito. L’opposizione di Pd e Leu, in parte accolta dal premier (che voleva un tetto a 3mila euro), ha imposto i paletti. “Certo è un condono”, ammette Draghi, ma, si giustifica, “parliamo di multe di 10 anni fa ed è limitato a una piccola platea. Aiuterà la lotta all’evasione fiscale, perché lo Stato non è riuscito a ottenere quelle somme”.

Salvini voleva portare il tetto a 10mila (ci riproverà in Parlamento), ma ottiene una norma nel dl che avvierà la riforma della riscossione (inglobando le cartelle 2010-2015). Alla fine resta l’autogol mediatico, le cui premesse erano state poste giovedì, quando all’incontro coi capigruppo di maggioranza il ministro Franco aveva tenuto fuori un tema così rilevante. L’obiettivo era risolverla oggi prima del Cdm e senza un pre-Consiglio tra i ministeri. Un errore strategico. Dopo pranzo, Salvini fa scattare il blitz e tiene in ostaggio il governo, mentre i leghisti fanno filtrare alle agenzie di aver ottenuto più fondi su tutto, a partire dal Turismo; Forza Italia si intesta perfino la decontribuzione per gli agricoltori (300 milioni). A sera, il premier prova a fare buon viso, con tono quasi paterno. “La Lega? Tutti hanno delle ‘bandiere’. Si tratta di chiedersi quali sono quelle identitarie di buon senso e a quali si può rinunciare senza fare un danno all’Italia”.

Buona parte della conferenza scorre sul disastro Astrazeneca (lo leggete sotto) con il premier che difende le scelte fatte. Sul decreto, parla di una risposta molto consistente alla povertà, “al bisogno che hanno le imprese e ai lavoratori”, ma ammette subito che i 32 miliardi (già autorizzati ai tempi del governo Conte), dopo due mesi di ritardo oggi permettono una risposta parziale e quello varato è “solo un primo passo”; conferma poi che ad aprile il governo chiederà un nuovo extra-deficit (si parla di oltre 20 miliardi). Quanto ai tempi per attenuare le chiusure anti-Covid, non si sbilancia: promette solo che “la scuola sarà la prima a riaprire non appena il livello dei contagi lo permetterà”.

C’è spazio anche per i temi europei. L’ex Bce coglie al balzo l’auspicio di riformare il Patto di Stabilità annunciato dal ministro francese Bruno Le Maire in visita e Roma, e spiega che le regole fiscali europee non dovranno tornare così com’erano: “Questo è un anno in cui non si chiedono soldi, si danno soldi, verrà il momento di guardare al debito, ma non è questo il momento di pensare al Patto di stabilità”. E su questo piano chiude pure qualsiasi discussione sul Mes: “Durante le consultazioni mi è stato chiesto dai partiti cosa ne pensassi, ho risposto che occorre essere pragmatici: al momento il livello dei tassi di interessi è tale che prendere il Mes non è prioritario”, spiega. Peraltro, essendo fondi destinati alla sanità “quando avremo un piano Sanità condiviso dal Parlamento ci chiederemo se vale la pena”. Con buona pace di Matteo Renzi.

9 settimane e mezzo

No, dài, sarà uno scherzo, non può essere vero. La maggioranza di extralarge intese impiega due mesi a fotocopiare e ritoccare il dl Ristori scambiandolo per nuovo solo perché lo chiama Sostegni; e poi, proprio sul filo di lana, si blocca per altre 3 ore. Il Governo dei Migliori litiga su un condonetto come un qualsiasi governo dei peggiori. Il premier Migliore convoca la stampa per la prima volta in un mese alle 17.30 e poi si presenta alle 20 col favore delle tenebre e a favore di tg, come il Conte Casalino (avvertire Mieli). Intanto il suo staff s’arrampica sugli specchi delle nuove misure anti-Covid (al posto del decreto Draghi e del Dpcm Draghi in scadenza il 6 aprile) per trovare strumenti normativi diversi dal Dpcm: sennò poi dicono che è tutto come prima e Cassese s’incazza (e, tra i Cassesi che s’incazzano e i giornali che svolazzano, sono cassi). Così si pensa a un secondo decreto. Ma c’è un problema: essendo impossibile convertire in legge il primo dl Draghi entro il 6, farne un secondo che assorbe e supera il primo significa impedire al Parlamento di discutere il primo e passare al secondo, sempreché si faccia in tempo a discutere il secondo prima che sia sostituito dal terzo, ad libitum. Perciò il governo dei peggiori faceva un decreto e poi vari Dpcm attuativi, illustrandoli al Parlamento ogni 14 giorni. Cosa impossibile coi dl perché, prima che ne venga convertito uno in 60 giorni, ne arriva un altro al posto, e poi chi lo sente Cassese?

Dunque i cervelloni di Palazzo Chigi pensano a un’ordinanza di Speranza, che però sarebbe molto meno democratica e garantista di un Dpcm: la farebbe solo il ministro della Salute, anche su materie sociali ed economiche che competono ad altri; invece il Dpcm lo firma il premier, ma “sentiti i ministri competenti e la Conferenza Stato-Regioni”, che invece sarebbero tagliati fuori da un’ordinanza Speranza. Voi direte: ma con 400 morti al giorno, boom di ricoveri e terza ondata ti scaldi tanto per così poco? Non è per me. È per le ministre italovive, anzi per l’unica superstite: Elena Bonetti. Nove settimane e mezzo fa lasciò il governo precedente con “Teresa” e “Ivan” perché “non vogliamo renderci complici di delegittimare (sic, nda) il metodo democratico”, del “mancato rispetto delle forme parlamentari”, delle “mancate convocazioni del pre-Consiglio” dei ministri, dell’“abitudine di governare con decreti” e dell’“utilizzo ridondante del Dpcm”, per non parlare della “scelta di non accedere al Mes”. Ora, siccome i decreti e i Dpcm continuano, il pre-Consiglio non c’è stato neppure ieri e il Mes è sparito dai radar, non vorremmo che la Bonetti ci lasciasse di nuovo. O che l’Innominabile la ritirasse. O, peggio, che tutto ciò fosse già accaduto e nessuno se ne fosse accorto.

Anche a febbraio il mercato dell’automobile è andato a picco

Come su altri comparti produttivi la pandemia, e con essa l’incertezza sul futuro, continuano a picchiare duro anche sull’auto europea. Dopo il profondo rosso dei numeri di gennaio (-25,7%), anche quelli di febbraio presentano contorni ben poco rassicuranti: nell’Unione europea, più Gran Bretagna e Paesi Efta, si è perso il 20,3% di immatricolazioni rispetto allo stesso mese del 2020. Il che porta il cumulato del primo bimestre a -23,1%: in pratica, un’auto su quattro in meno. I tonfi più grandi, oltre a quello del Portogallo (-59%), vengono proprio dai major market: Spagna (-38,4%), Gran Bretagna (-35,5%), Francia (-20,9%) e Germania (-19%).

In Italia stavolta ce la siamo cavata meglio degli altri, limitando il passivo a -12,3%. Questo perché oltre che per elettriche e ibride abbiamo previsto incentivi statali anche per veicoli ad alimentazione tradizionale, purché con emissioni di anidride carbonica non superiori a 135 grammi per chilometro. In pratica, quelli che hanno avuto maggior successo. E che proprio per questo finiranno presto: sono rimasti circa 54 milioni a disposizione, che si stima termineranno a fine marzo anche se il sussidio doveva durare fino a giugno. Il paradosso è che invece gli stanziamenti per ibride ed elettriche, previsti fino a fine 2020, non verranno usati tutti, perché anche se “sostenute” il mercato non ne richiede più di tante. Visto che i numeri dei mesi a venire, causa ulteriori inasprimenti da zone rosse, saranno peggiori, sarebbe il caso di pensare a un rifinanziamento. Più che per vendere macchine, per salvare posti di lavoro.

Volkswagen, 16 miliardi sull’elettrico

Come gli altri costruttori, anche il gruppo Volkswagen ha pagato dazio alla pandemia. Nel 2020 i veicoli consegnati nel mondo sono stati 9,1 milioni, in calo di circa il 15% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, anche grazie a tagli consistenti sui costi fissi, alla fine i conti hanno tenuto e le previsioni per il 2021 parlano di ricavi in aumento. A Wolfsburg, dunque, dopo averne spesi 2,7 lo scorso anno, sono pronti a investire 16 miliardi di euro da qui al 2025 nei settori più “caldi” dell’automotive: digitalizzazione e, soprattutto, elettrificazione. Una mossa che, insieme all’aumento della produttività delle fabbriche pari al 5% annuale e una riduzione dei costi dei materiali del 7%, già alla fine di quest’anno dovrebbe garantire al marchio Volkswagen 450 mila consegne di veicoli elettrificati: 300 mila 100% elettrici costruiti sulla piattaforma MEB, più 150 mila ibridi. In pratica, il doppio rispetto al 2020. Parliamo di modelli come la ID.3 e la ID.4 (le prime consegne in Europa sono previste già da questo mese), ma anche della sua versione a quattro ruote motrici ID.4 GTX, come pure la coupé ID.5 e, in Cina, la ID6 X/Crozz, lo sport utility a sette posti che debutterà in aprile al salone dell’auto di Shanghai.

Il tutto, in perfetto accordo con la road map segnata dalla strategia “Accelerate”, presentata lo scorso 5 marzo dal gruppo tedesco, che oltre a prevedere la costruzione entro il 2030 di sei gigafactory europee che produrranno batterie per veicoli elettrificati (la prima in Svezia nel 2023, con 40 Gigawattora di capacità), ha fissato gli obiettivi commerciali da raggiungere a partire dalla fine di questa decade, quando il 70% (prima era il 35%) delle vendite di Vw in Europa, nonché il 50% di quelle in Cina e negli Stati Uniti, sarà rappresentato proprio da veicoli elettrici, stando alle previsioni. Un piano ambizioso, che dovrà nondimeno passare la prova del mercato.

La nuova Toyota Aygo, anche le molto piccole hanno la voce da suv

Chi l’ha detto che un’utilitaria dal prezzo abbordabile non possa essere attraente? Con la terza generazione della sua Aygo, modello presentato per la prima volta nel 2005, Toyota è intenzionata a dimostrare il contrario: nasce da questo intento la Aygo X Prologue, prototipo che anticipa le forme della nuova entry-level giapponese, in arrivo sul mercato all’inizio del prossimo anno. L’auto è stata disegnata da ED2, lo studio di design europeo di Toyota con sede nella Costa Azzurra, non lontano da Nizza. Scopo del progetto? Plasmare una city car dallo stile distintivo. “Sono convinto che con Aygo X Prologue siamo in grado di dimostrare che anche una piccola auto può avere una personalità forte e audace”, spiega in una nota ufficiale Ken Billes, Assistente Chief Designer ED2. In effetti, la Aygo X Prologue non passa affatto inosservata, per via della sua identità audace e determinata. Il carisma dell’auto e ulteriormente sottolineato dai dettagli tipici di una showcar, come i pneumatici di grandi dimensioni (ma sul modello di serie saranno più piccoli), e una discreta distanza dal suolo, che conferisce al veicolo il piglio di un piccolo suv.

La protezione posteriore sottoscocca nasconde un portabici, mentre nello specchietto retrovisore esterno è presente una action camera che può essere utilizzata per catturare e condividere le gite fuori porta. E non manca un portapacchi integrato nella linea del tetto, a tutto vantaggio della fruibilità. A riprova che Toyota è pronta a gettare un po’ di pepe nella categoria delle auto cittadine ultracompatte. La stessa che, invece, molti costruttori hanno deciso di abbandonare.

Questa Aygo (il cui nome definitivo sarà forse Aygo Cross, per affinità con la sorella maggiore Yaris Cross) non sarà fabbricata insieme alle gemelle Peugeot 108 e Citroen C1, come avviene oggi. Anzi, vanterà una piattaforma costruttiva propria, la medesima della Yaris: si tratta dell’architettura GA-B, una variante del pianale modulare TNGA, che consentirà al veicolo miglioramenti in termini di guida, maneggevolezza, sicurezza e stile appunto.

Molto probabilmente la produzione della nuova entry-level della Toyota avverrà presso l’ex stabilimento Toyota Peugeot Citroën Automobile (TPCA), ubicato in Repubblica Ceca, acquisito interamente da Toyota lo scorso gennaio.

Veniamo al prezzo: per tenerlo basso, la nuova Aygo non sarà proposta con motori ibridi troppo sofisticati. Nel cofano, infatti, dovrebbe finire un tre cilindri “mille” da 72 cavalli di potenza.

Sesso, cinema e morte. Era mio padre, Bergman

“Figlia illegittima. Bastarda. Mocciosa”. Linn Ullmann nasce dalla superba Liv nel 1966. Il cognome del padre è ancora più celebre, ma non l’avrà: “Una figlia in più. Ne aveva già otto e lo chiamavano il regista diabolico (qualsiasi cosa significasse) e dongiovanni (piuttosto chiara, questa definizione). Io ero la nona”. Papà era Ingmar Bergman, sinonimo stesso, o forse superlativo assoluto, di Settima Arte: da Il settimo sigillo (1957) a Il posto delle fragole (1957), da Persona (1966) e Fanny e Alexander (1982), capolavori come se piovesse o, nel suo caso, come se figliasse. Con un titolo, Scene da un matrimonio (1973), fu reticente: si sposò cinque volte e, scrive Linn nel memoir Gli inquieti, a mamma non “piaceva trovarsi fra la numero quattro e la numero cinque”, ovvero l’ultima moglie Ingrid. Morì nel 1995, gettando Ingmar nella depressione: “Ingrid era una donna pratica e per questo lui l’aveva amata più delle altre. La pianse così profondamente da voler morire”. Ci furono altre attrici, quali Harriett Andersson e Bibi Andersson, con cui Bergman intrecciò una relazione, ma Liv fu la sua unica musa. Almeno, fummo noi a definirla tale, non Ingmar: “Non credo che abbia mai usato la parola ‘musa’. Le chiamava Stradivari – violini, strumenti – mai muse. In norvegese, ‘musa’ è una parola alquanto divertente che può significare, anche se con una pronuncia diversa, ‘topo’ e ‘fica’”.

Aneddoti, pensieri e sentimenti che Ingmar, alias “Pappa”, avrebbe confidato a Linn nella sua casa di pietra in mezzo ai boschi su un’isola del mar Baltico, Hammars: “Aveva ottantasette anni quando ci venne l’idea del libro. Mio padre ha avuto nove figli da sei donne diverse… dovrei riuscire a farlo parlare di questo argomento, ricordo di aver pensato”. Non se ne sarebbe fatto nulla, eccetto qualche registrazione, perché l’invecchiare da tema letterario sarebbe diventato ostacolo psicofisico: ogni mattina Ingmar stilava un elenco dei suoi acciacchi, dalla sciatica all’ansia al pensiero della giornata, se la lista ammontava a più di otto voci rimaneva a letto, “perché ho superato gli ottanta. Mi concedo un malanno per decennio”. Ne è quindi venuto Gli inquieti (Guanda), reinvenzione della storia di un padre, una madre e una figlia tra ricordi e suggestioni, ma il libro originariamente inteso sarebbe stato migliore, di sicuro nell’intestazione: “Scopata & ammazzata a Eldorado Valley, giacché ho sempre desiderato intitolare così uno dei miei film, ma non ne ho mai girato uno che c’entrasse”. Ingmar credeva “in Dio sotto ogni aspetto, però non pretendo di capire il suo volere. Dio è nella musica”. Bergman riconosceva i meriti dei colleghi, “Woody Allen è decisamente un regista di prim’ordine. Crimini e misfatti è un capolavoro, però (a Linn, ndr) vedo che hai scelto Manhattan. Un buon film”. A Linn disconoscevano i meriti del genitore: “Godard, Chabrol, sono diecimila volte più interessanti della roba di tuo padre”, pretendeva un fotografo di moda; “Antonioni è meglio di tuo padre, sai. Si preoccupa più del mondo”, voleva un ragazzo newyorchese fumando uno spinello. Anche Pappa si dichiarava “convinto e assuefatto consumatore”, di sonniferi però: “Rohypnol, fantastico, due al giorno più un paio di Valium la sera e un paio al mattino”. Ma la dipendenza più duratura, forte e creativa fu per l’universo femminile: “Credo che buona parte della mia vita professionale abbia ruotato intorno al mio grande amore per le donne”, capaci di influenzarlo “in tutti i modi immaginabili”. E il sesso, certo, prima che fosse vecchiaia: “La sessu… (emette una specie di barrito) sessualità, per esempio. Scompare. Completamente, cioè. E questo… non ti fa neanche star male. Si dissolve e basta”. Analogamente si archiviano luoghi comuni e false certezze, per esempio di un Bergman, complice l’iconica partita a scacchi del cavaliere del Settimo sigillo, concentrato sulla morte: “Me ne sono preoccupato in modo molto modesto. La morte come tradizione, come fantasia, sì, però non l’ho mai presa sul serio. Cosa che, naturalmente, adesso devo fare”. Ingmar morì il 30 luglio 2007.

Nascosti dietro la porta dello studio, Linn Ulmann trovò due post-it gialli scritti a mano dal padre. Erano lì da molto tempo. Su quello a sinistra c’era scritto: “È una cosa terribile finire nelle mani di Iddio vivente. Ma soltanto allora l’uomo può fare ammenda”. Su quello a destra: “Forse è questo che cerchiamo per tutta la vita, il peggior dolore possibile, per essere veramente noi stessi prima di morire – CÉLINE”. Non sappiamo se e con quale dolore Bergman riuscì a essere appieno sé stesso. Sappiamo però che non si ridusse mai alle nostre aspettative, fino alla fine. Ve lo immaginate l’anziano regista che nel 2005 segue in tv i funerali di Giovanni Paolo II, “conoscendo a memoria i passi della Bibbia”, apostrofare la povera, goffa Linn che gli rovescia addosso dell’acqua: “Brutta stronza. Fredda, cazzo… brutta stronza”. Era suo padre, era Ingmar Bergman. E non ha smesso di stupirci.

 

Putin schiaffeggia Biden: “Ti auguro buona salute”

“Chi lo dice sa di esserlo”. Con una battuta del repertorio di Forrest Gump, il presidente russo Vladimir Putin, dalla Crimea, risponde al presidente Usa, Joe Biden, che pensa che lui sia “un assassino”. “Quando eravamo piccoli e bisticciavamo – ricorda Putin – all’insulto rispondevamo: ‘Chi lo dice sa di esserlo’”. E conclude augurando “buona salute” all’interlocutore. Da quando Biden è alla Casa Bianca, i rapporti tra Washington e Mosca si sono degradati: la frase alla Abc e l’impegno a “far pagare” alla Russia le interferenze in Usa 2020 sono la punta di un iceberg di freddezza e diffidenza. Le consultazioni con l’ambasciatore russo negli Usa Antonov, richiamato a Mosca (partirà domani), dureranno “il tempo necessario” – fa sapere il ministero degli Esteri russo – e si svolgeranno anche al Cremlino.

L’obiettivo ufficiale è “correggere i rapporti in crisi tra Russia e Usa”: “dichiarazioni sconsiderate di alti funzionari statunitensi mettono le relazioni già fin troppo conflittuali a rischio di collasso”. Mosca non esaspera i toni – lo fanno i deputati del partito di Putin alla Duma –, Washington non fa passi indietro. L’intervista di Biden non era improvvisata: Russia, Afghanistan, Arabia Saudita, migranti, sono solo alcuni dei temi caldi toccati dalle domande di George Stephanopoulos. Eccone alcuni passaggi.

Sfida al Cremlino

“Ho avvertito” Putin, “pagherà un prezzo” per le interferenze nelle elezioni. “Abbiamo avuto una lunga conversazione, lo conosco relativamente bene… Gli ho detto: ‘Ci conosciamo: se accerto che sono accadute (le interferenze, ndr) sii preparato”. Il giornalista chiede: “Pensa che Putin sia un assassino?”. Biden risponde: “Lo penso”. E aggiunge: “Ritengo, però, che sia possibile camminare e masticare una gomma nello stesso tempo, là dove ci sono interessi reciproci su cui lavorare”, facendo riferimento alla decisione di estendere in gennaio l’accordo New Start sugli armamenti nucleari. L’espressione ‘camminare e masticare una gomma nello stesso tempo’ è nella politica americana dai tempi del presidente Gerald Ford, che i media accusavano di non saperlo fare.

Afghanistan e ritiro

“Potrebbe accadere” che tutte le truppe lascino il Paese entro il 1º maggio, “ma è difficile”. “Sto prendendo una decisione ora su quando ce ne andremo. Il fatto è che l’accordo negoziato non è molto solido. Ci stiamo consultando coi nostri alleati e col governo afghano…”.

Mbs e il giornalista

Stephanopoulos gli chiede perché non abbia colpito con sanzioni il principe saudita Mohammed bin Salman, dopo che un rapporto dell’Intelligence l’ha indicato come responsabile dell’omicidio del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi. Biden risponde: “Io sono quello che ha reso pubblico il rapporto” e “che ha chiarito al re saudita che le cose sarebbero cambiate. Abbiamo colpito tutti i responsabili, ma non il principe ereditario perché, a mia conoscenza, noi non abbiamo mai punito o messo al bando il capo di Stato di fatto d’un Paese alleato”. Con re Salman, “ho fatto la lista delle cose che ci aspettiamo che i sauditi facciano”, fra cui “la fine della guerra in Yemen e della fame in quel Paese”.

Migranti dal Messico

“Lo dico chiaro e forte: non venite, non lasciate la vostra città o la vostra comunità”. Stephanopoulos ricorda che il numero dei migranti, e soprattutto dei minori non accompagnati, presi in custodia alla confine tra Messico e Usa s’è impennato nelle ultime settimane: “C’è stata un’impennata anche negli ultimi due anni, ma questa potrebbe essere peggio. Ho ereditato una situazione disastrosa. La gente non viene perché pensa che adesso ci sia un tizio molle alla Casa Bianca. Vengono perché cercano migliori opportunità. Ma ora dobbiamo in via prioritaria dare assistenza ai minori non accompagnati”.

Il governatore Cuomo

Domanda: “Se le indagini confermano le accuse delle donne” al governatore Andrew Cuomo, “dovrebbe dimettersi?”. Risposta: “Sì”.

Eutanasia, in Spagna vittoria laica

“Èuna legge umana, molto umana e chi già sta pensando di cambiarla dovrà essere in grado di raccogliere l’ampia maggioranza che abbiamo ottenuto noi sia alla Camera che al Senato e non si aspetti che nel frattempo ce ne staremo con le braccia conserte”. Maria Luisa Carcedo è stata la relatrice della legge per l’eutanasia che ieri ha ricevuto l’ultimo sì con l’appoggio di tutti i gruppi parlamentari a eccezione dei Popolari, di Vox e Unión del Pueblo Navarro a Las Cortes di Madrid. Una legge frutto del lavoro della deputata socialista – già ex ministra della Salute nel governo Sanchez I – con le associazioni spagnole della Morte Degna (Dmd).

Un lavoro la cui gestazione risale al 2017, quando a Ferraz, sede del quartier generale del Partito socialista obrero espanol (Psoe), Carcedo iniziò le pratiche per la presentazione della legge in Parlamento, dove approdò nei primi mesi del 2018. “Una legge che raccoglie il testimone di tutte quei cittadini che, avendo perso i propri cari dopo lunghe e atroci sofferenze, hanno deciso di continuare a lottare perché quella della morte degna diventasse un diritto di tutti”, sottolinea Carcedo, che ci tiene a ricordare i nomi di coloro che hanno messo a disposizione la propria intimità per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla “necessità di arrivare a questa legge”. È il caso di Angel Hernandez, ad esempio, il più recente caso Welby spagnolo. L’uomo, che aiutò sua moglie María José Carrasco, malata terminale di sclerosi a morire rivendicandolo in una video testimonianza assieme a lei il 2 aprile 2019. “María José, registreremo questa testimonianza, perché è molto importante per noi lasciare traccia del desiderio che tu vuoi che si realizzi, il suicidio”, si vede Angel che parla alla moglie paralizzata in un letto davanti alla telecamera. María annuisce. “Sei ancora dell’idea di volerti suicidare?”, chiede il marito. “Sì”. “Vuoi che si faccia adesso?”. “Sì”. “Sai che devo aiutarti? Che non c’è nessuno che possa aiutarti…”. “Sì, lo so”. Nonostante il video, la testimonianza e la sensibilizzazione, però, Angel è stato accusato di cooperazione al suicidio con l’attenuante per aver confessato e in quanto parente prossimo. Il Tribunale ha chiesto per lui 6 mesi di prigione. Con la nuova legge che entrerà in vigore a giugno – “ora manca solo l’ultimo passo per renderla attiva”, assicura emozionata la deputata Carcedo – tutti gli Angel di Spagna non dovranno più andare in contro al carcere per aver voluto alleviare le sofferenze di un proprio caro.

“Abbiamo legalizzato la frase: spero che non soffra troppo, quella che ognuno di noi dice quando si ammala qualcuno a cui si tiene”, spiega ancora la relatrice che ha permesso alla Spagna di diventare il quinto Paese al mondo dopo Olanda, Belgio, Lussemburgo e Portogallo in cui decidere di morire è legale. “A differenza del Portogallo” (che ha approvato una legge per l’eutanasia a gennaio per vederla bloccata dal Tribunale Costituzionale l’altroieri, spettro agitato già in Spagna dall’ultradestra di Vox, ndr), il nostro testo raccoglie tutti i casi in cui è possibile sottoporsi al fine vita”, conclude Carcedo. “È una legge molto complessa anche per questo motivo: con l’aiuto di chi ci è passato, di molti esperti, ma anche con qualche disaccordo iniziale, abbiamo ritenuto basilare fornire al medico di base che deve prendere la decisione di favorire l’eutanasia tutti i possibili conflitti che possano nascere a posteriori”, conclude la relatrice del Psoe.

La legge, infatti, che sarà parte delle prestazioni del Sistema sanitario, prevede che la richiesta di eutanasia sia “informata, espressa e reiterata” nel tempo. La persona che la richiede “deve essere maggiorenne, avere una patologia grave, invalidante e che gli causi sofferenze fisiche e psichiche intollerabili”. I medici potranno esercitare l’obiezione di coscienza.

Ma non basta: il cittadino, di passaporto spagnolo o almeno iscritto all’Inps del Paese da 12 mesi, “dovrà essere in grado di operare, di decidere e di farlo autonomamente, coscientemente e senza pressioni esterne”, prevede la legge. A giudicare l’idoneità del richiedente sarà una commissione di garanzia multidisciplinare che valuterà la storia clinica del paziente. Solo una volta accolta la domanda, il presidente della commissione passerà a informare i sanitari che prenderanno in carico il caso. I vescovi spagnoli ieri hanno già chiamato i sanitari all’obiezione di coscienza. Ma il testo è chiaro e laico: “Non esiste un dovere costituzionale di imporre o tutelare la vita a ogni costo, contro la volontà della persona”. Forse anche per questo, la portavoce del Psoe al Congresso, Adriana Lastra, nonché numero due del partito di Pedro Sanchez – che ha commentato su Twitter: “Oggi siamo un Paese più umano, più giusto e più libero” –, ha voluto che questa fosse la prima legge sociale approvata da questo governo per introdurre un nuovo diritto in Spagna.

“La discarica sforava le cubature, la Regione e Roma lo sapevano”

Un piccolo impianto destinato a diventare il più grande (e impattante) d’Europa. Con la consapevolezza politica del Pd in Regione Lazio e del M5S in Campidoglio.

L’inchiesta della Procura di Roma per corruzione sull’iter per la nuova discarica della Capitale diventa un caso, oltre l’inchiesta penale.

Dall’ordinanza che ha portato ai domiciliari la dirigente regionale Flaminia Tosini e l’imprenditore dei rifiuti Valter Lozza, emerge che le amministrazioni di Regione Lazio e Comune di Roma erano a conoscenza che l’area individuata a ovest della Capitale, destinata a ospitare l’impianto, era molto più ampia rispetto alle autorizzazioni chieste dall’imprenditore arrestato. E che la procedura “smart” invocata dalla dirigente, di cui l’assessorato regionale era stato informato, non poteva essere adeguata. Tanto che gli stessi pm la definiscono, nelle carte, “prassi gravemente illegittima”.

Facciamo un passo indietro. Novembre 2019. Roma è reduce da un’estate in piena emergenza rifiuti. La Regione Lazio sta per approvare il nuovo piano regionale – firmato Tosini – con cui impone al Comune di individuare una o più aree dove costruire la nuova discarica. Il governatore Nicola Zingaretti anticipa l’approvazione dell’atto con un’ordinanza che mette la sindaca Virginia Raggi con le spalle al muro: o esegui, o ti commissario. Il 22 dicembre Regione e Comune trovano l’accordo politico. Il Comune sembra puntare su Tragliatella, frazione sperduta nelle campagne braccianesi. Ma lì ci sono troppe case, secondo un parere degli urbanisti capitolini del 30 dicembre. In quegli otto giorni accade di tutto. Il 23 dicembre, Lozza acquista quote della Ngr srl e il 27 la stessa società si vede approvare, in Regione, la richiesta di realizzazione di una piccola discarica di inerti (scarti di cantiere) in zona Monte Carnevale, a due passi dalla ex mega-discarica di Malagrotta, da 75.000 metri cubi.

Il 30, come detto, gli urbanisti bocciano Tragliatella. Il 31 dicembre in Campidoglio si riunisce urgentemente la giunta. Il racconto, a verbale dei pm, è di Giuliano Pacetti, capogruppo M5S in Comune: “Dovendo scegliere un sito ci siamo posti come primario criterio di scelta quello della capienza (…) La volumetria disponibile della Ngr era di 1.578.442 metri cubi”. Di lì a qualche ora, arriverà la delibera firmata da Virginia Raggi, che individua in Monte Carnevale il sito della nuova discarica.

Ma per una volumetria così ampia sarebbe servita una valutazione d’impatto ambientale con tutti i crismi, troppo lunga per i tempi dell’emergenza. Come fare? Qui nasce lo stratagemma trovato da Tosini, che consiglia a Lozza di presentare domanda per convertire solo la destinazione del sito, da inerti a “rifiuti solidi urbani”, ma non oltre 75.000 metri cubi già assegnati. Tanto, gli ampliamenti futuri sarebbero andati in discesa.

Una linea “smart” di cui Tosini informa, per tempo, Massimiliano Valeriani, assessore regionale ai rifiuti e “zingarettiano di ferro” nel Pd Lazio. Il 3 febbraio, Tosini, intercettata espone l’idea a Valeriani: “La mia soluzione sarebbe questa… loro presentano una vasca, subito da 75.000 metri cubi, 75.000 sta sotto 100.000, il limite che manda in assoggettabilità la discarica (…) tutto il resto del milione di metri cubi… fanno una VIA (…) intanto sdoganiamo la situazione”.

Tosini “persuade” Valeriani a intraprendere la procedura “smart”, pur sapendo l’assessore che l’impianto doveva essere molto più grande e impattante sull’ambiente. Nessun reato penale, secondo gli inquirenti, è imputabile a Valeriani, che era all’oscuro della liaison corruttiva fra Tosini e Lozza.

Ieri mattina, la Regione Lazio ha annunciato che la procedura per la nuova discarica di Monte Carnevale è “bloccata in attesa di verifica di tutta la documentazione”. “Perché Valeriani, nel febbraio 2020, non è intervenuto togliendo a Tosini ogni competenza? E perché non ha subito informato Nicola Zingaretti?”, si chiede Roberta Angelilli, dell’esecutivo nazionale di Fratelli d’Italia.