Gerli al Cts: c’è poco da ridere, la nostra salute non si lottizza

Si può sorridere per i suoi video su youtube in cui sosteneva di poter predire il futuro amoroso di una coppia sulla base di “numeri ed equazioni che ci aiuteranno a capire come far andare avanti una relazione”. Ci si può poi sbellicare di fronte ai risultati del suo modello matematico sulle infezioni da Coronavirus che il primo febbraio pronosticava il Veneto “quasi certamente” in zona bianca entro fine mese, quando poi quella regione è diventata arancione l’8 marzo e infine rossa. Ma nemmeno tutto il senso dell’ironia del mondo basta per eludere la domanda chiave sul caso di Alberto Giovanni Gerli, il sedicente Big Data Scientist, nominato due giorni fa membro del Comitato tecnico scientifico e ieri dimissionario in seguito alle polemiche: perché Mario Draghi lo ha scelto per quel ruolo?

I giornali scrivono che Gerli era portato in palmo di mano dalla Lega. Che a Salvini e ai suoi piacevano gli interventi in tv e in Internet in cui Gerli di fatto ipotizzava che dopo 40 giorni la curva dei contagi si appiattisce indipendentemente dai lockdown. Ma se pure la spiegazione fosse questa (cioè una bieca lottizzazione politica del Cts), resta l’interrogativo chiave: perché il governo dei migliori non ha impedito che in un organismo così importante per la salute degli italiani arrivasse un signore che, stando ai giornali, era soltanto il migliore dei cazzari?

Per rendersi conto di chi fosse Gerli bastava poco. Anche solo un giro sui social , dove l’ex imprenditore di luci al led, già componente di Confindustria giovani di Padova e candidato sconfitto alla presidenza della Fondazione del Bridge, vede i propri calcoli rilanciati dal movimento dei gilet arancioni e da chiunque dia una lettura minimalista della pandemia.

Eppure a Palazzo Chigi nessuno si è premurato di informarsi. E nemmeno ha valutato il cv del prescelto.

Per Mario Draghi si tratta di un infortunio grave. Perché Gerli avrebbe dovuto ricoprire nel Cts il ruolo di Stefano Merler, uno stimato epidemiologo matematico della fondazione Bruno Kessler. Sulla base degli algoritmi di Merler sono fin qui stati decisi i colori delle regioni. Un sistema a detta di tutti efficace. Che ha salvato molte vite, senza però dover ricorrere a soluzioni radicali (insostenibili per la nostra economia) come quelle adottate in Germania: chiudere tutto o quasi. Ovviamente anche questo sistema può essere migliorato. Ma con cautela. Perché se si sbaglia, i morti si moltiplicano. Serve insomma un vero esperto. E invece cosa dice di sé Gerli sul suo canale youtube (significativamente?) battezzato Data & Tonic? “5 marzo del 2020. Era una notte fredda e buia. Sono a casa. Netflix? Non va. Il wi-fi? Va lento. Dormire? Troppo presto. Che faccio?”. Qui arriva l’effetto video – un Gerli pallido prende a poco a poco colore – e quello sonoro – un “ding” sinonimo di grande idea. “Decido di studiare un po’ di numeri su questo Covid. Non sono un epidemiologo – mette le mani avanti – ma sono un esperto di numeri”, aggiunge. E per dimostrare quest’ultima qualità, ecco la prova. Una moltiplicazione in diretta: “33 per 82? 2704”. Piccolo particolare: 33 per 82 non fa 2704, ma 2706. Anche per questo, Draghi, oggi in occasione della sua prima conferenza stampa, dovrà spiegare come si è arrivati al nome di Gerli. E dovrà essere sincero e credibile. Perché i cittadini, al contrario di tanti opinionisti, sanno che tutti possono sbagliare (anche lui) e sono in grado di capire e perdonare. Se invece si tace, aumenta la sfiducia. E qualcuno, visti i migliori, finirà per chiedere a gran voce il ritorno dei peggiori.

 

Gli esperti giuristi de “la verità” dovrebbero tornare a scuola

Due docenti della “Libera Accademia” di Bellinzona, in un articolo pubblicato su La Verità del 18 marzo 2021 – dal titolo Il Fatto difende l’operato di Giuseppi e incappa in errori grossolani. La Consulta non può ‘salvare’ i dpcm di Conte. L’azione della Corte è limitata agli atti aventi forza di legge di Stato ed enti locali – criticano l’articolo pubblicato su Il Fatto del 16 marzo dal titolo Dpcm dovuti e legittimi: lo dice la Consulta ma il giudice non lo sa. L’asprezza dei toni e l’infondatezza giuridica e delle argomentazioni dei due docenti meritano una risposta: a) Nessuno si è mai sognato di dire che il giudice costituzionale può sindacare la legittimità di fonti secondarie di produzione del diritto e non vi era, quindi, alcuna ragione di ricordare quello che anche gli studenti universitari di Giurisprudenza sanno e, cioè, che il controllo di costituzionalità riguarda le leggi e gli atti normativi aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni. Se i due avessero letto con attenzione l’articolo, avrebbero potuto notare che, allorquando si richiama la sentenza della Corte costituzionale, si dice: “La Consulta, con sentenza dello scorso 24 febbraio, ha accolto il ricorso contro la legge anti-dpcm della Valle d’Aosta riaffermando la ‘competenza esclusiva statale in materia di profilassi con l’attivazione di tutte le misure occorrenti’” e ha, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale della legge regionale. Quindi, il primo rilievo dei docenti è improprio. b) Anche il titolo del Fatto: “Dpcm dovuti e legittimi: lo dice la Consulta” è corretto. Evidentemente i due docenti non hanno letto bene la sentenza ove si afferma: “Ben può il legislatore statale imporre criteri vincolanti di azione e modalità di conseguimento di obiettivi che la medesima legge statale e gli atti adottati sulla base di essa fissano, quando coessenziali al disegno di contrasto a una crisi epidemica”. È del tutto evidente che con “gli atti adottati sulla base di essa”, la Corte intende riferirsi proprio ai dpcm emanati sulla base dei decreti-legge in Vigore. E ancora: “È perciò ipotizzabile che il legislatore statale, se posto a confronto con una emergenza sanitaria dai tratti del tutto peculiari, scelga di introdurre nuove risposte normative e provvedimentali tarate su quest’ultima. È quanto successo, difatti, a seguito della diffusione del Covid-19 il quale a causa della rapidità e della imprevedibilità con cui il contagio si spande, ha imposto l’impiego di strumenti capaci di adattarsi alle pieghe di una situazione di crisi in costante divenire”. Risulta chiaro che la stessa Corte, chiamata a valutare una legge regionale in contrasto con le misure legislative intraprese per affrontare l’emergenza sanitaria, ha ritenuto corretti da un punto di vista giuridico e costituzionale, le modalità di gestione della emergenza basate su un “insieme di misure precauzionali e limitative” che trovavano il loro presupposto prima nei decreti-legge e poi in quelli “provvedimentali adottati sulla base della legge statale”. c) Inoltre l’articolo, al di là dell’opportuno richiamo alla decisione della Consulta, era incentrato a censurare la sentenza del giudice del Tribunale di Reggio Emilia il quale aveva ritenuto “la indiscutibile illegittimità del Dpcm dell’8 marzo 2020 come pure di tutti quelli successivi” e che i divieti contenuti nei suddetti dpcm, limitativi di diritti costituzionalmente tutelati, potevano essere imposti solo “da un atto normativo avente forza di legge”. Nell’articolo si era ampiamente spiegato che la compressione dei diritti – avvenuta a tutela del diritto alla salute (art. 32 della Carta) richiamato appunto dalla Consulta – era stata posta in essere dai dpcm “autorizzati con decreti-legge convertiti in legge dal Parlamento”, sicché tali provvedimenti governativi avevano trovato in una fonte primaria la loro legittimazione. Quindi, è improprio il titolo de La Verità: la Consulta non può “salvare i Dpcm di Conte”, giacché i dpcm vengono salvati dalle leggi che ne consentono l’emanazione. E, allora, vanno respinte ai Mittenti le improprie e gratuite affermazioni: a) “scrivere un articolo di giornale senza possedere le minime basi giuridiche, denota improvvisazione e mancanza di quella minima preparazione richiesta per il superamento dell’esame di abilitazione a una splendida professione”; b) “forse varrebbe la pena studiare prima di redigere articoli non rispondenti al vero”; a esse va aggiunta quella: varrebbe la pena leggere e capire, prima di redigere articoli non rispondenti al vero.

 

Per Letta è obbligatorio imbrigliare i “feudatari”

Il Pd di Enrico Letta è obbligato a confrontarsi con due problemi che hanno segnato da sempre la sua storia: controllare le lacerazioni interne provocate dal proliferare delle correnti; avanzare una proposta credibile alle varie formazioni politiche che abitano “il campo” del centro sinistra.

Il primo evidenzia una patologia genetica, che risale alla fondazione stessa del partito. Allora si confrontarono due opzioni: quella dei Ds, ancora segnate dalle ultime vestigia del centralismo democratico e dai residui di quella che era stata la disciplina di partito della tradizione comunista; e quella della Margherita, erede della struttura correntizia della Dc, sulla quale il grande partito cattolico aveva fondato il suo radicamento sociale e il suo consenso elettorale. A prevalere fu questa seconda opzione, con una duplice conseguenza, negativa: non c’era più la Dc con il suo consolidato “allenamento” nel far funzionare in modo proficuo le correnti e gli eredi del Pci si tuffarono con voluttà nelle nuove forme di organizzazione, resi euforici dalla possibilità di lasciarsi finalmente alle spalle tutte le costrizioni legate all’obbligo dell’“unità”. Risultato: il Pd si presentò fin da subito come una confederazione di feudi tenuti insieme all’esercizio del potere. Da quel momento in poi, più le dimensioni del potere si sono assottigliate, più è aumentato il tasso di litigiosità interna.

Il secondo, chiama in causa quella che nel ‘900 si chiamava la politica delle alleanze. Il vecchio Pci ne aveva fatto l’asse portante della sua linea. Unità delle sinistre, fronti popolari, arco costituzionale e via così fino al berlingueriano compromesso storico e poi ancora alla stagione post comunista dell’ulivo, erano tutte formule fondate sulle stesse granitiche certezze: la consapevolezza di non poter governare da soli e la fiducia nella propria capacità di esercitare una solida egemonia sui vari schieramenti che si riusciva di volta in volta ad aggregare. A suffragare queste certezze c’era anche l’atteggiamento degli alleati: i socialisti, anzitutto. Schiacciati da una subalternità che risaliva ai tempi della scissione di Livorno del 1921, provarono a capovolgere questa sudditanza anche psicologica con l’arroganza di Craxi, frutto però anche questa di un antico complesso di inferiorità e, con un massimo del 14% di consensi elettorali, rivelatasi incapace di scalfire la base del Pci. Ma anche altre formazioni, quelle della sinistra extraparlamentare o il partito radicale, pure immuni da ogni complesso, non potevano fare a meno di vedere nel Pci , a livello istituzionale, l’unico approdo credibile delle proprie proposte politiche, anche quelle più “estreme”.

Nella configurazione attuale del “campo” del centrosinistra non è restata traccia di simili atteggiamenti. A maggior ragione se si ritiene che i 5 Stelle facciano parte di quel “campo”. La formazione grillina è fortemente post novecentesca ed è già in questo senso estranea alle complicate alchimie della vecchia strategia delle alleanze. In più ha un peso in Parlamento tale da schiacciare con i suoi numeri quelli del Pd. Un elemento, questo, del tutto inedito, visto che in passato l’egemonia del Pci si era nutrita soprattutto di voti e di cifre. Ne è risultato un complessivo smarrimento che nel Pd si è tradotto in una sconcertante oscillazione tra la subalternità e l’arroganza, tra la farsa delle riunioni in streaming con Bersani e l’insofferenza liquidatoria che portò alla infausta frase di Piero Fassino (“Chiara Appendino? Provi a prendere il mio posto. E Grillo faccia un partito, vediamo quanti voti prende” ) del 2016.

Insomma per Enrico Letta sarà dura confrontarsi con questi vizi la cui dimensione strutturale è sempre più evidente. E la posta in gioco è altissima; riguarda la stessa sopravvivenza del Pd. Le liti tra i vari leaders e i loro gruppi non hanno niente di fisiologico e alimentano una rissa che – come ha detto Zingaretti – non si nutre di progetti e di visioni del mondo contrapposte ma ha le sue ragioni esclusivamente negli interessi e nelle smanie di potere. Disciplinare le correnti è un obbligo se si vuole evitare che i “feudi” proseguano sulla strada della dissoluzione. Lo si può fare, ridimensionandone i tratti clientelari e allo stesso tempo riconoscendole come una risorsa a cui attingere per allargare l’insediamento elettorale del partito e per alimentare una fervida dialettica interna: sarebbe l’approdo a un pluralismo sempre sbandierato, ma poco frequentato nei suoi tratti più autenticamente virtuosi. E il “campo” del centrosinistra può effettivamente trovare una sua omogeneità, purchè si abbandoni la vecchia strada delle “alleanze”: ci si unisce su alcune proposte strategiche e ci si divide tranquillamente su altre, meno rilevanti, senza soggiacere al plumbeo dogma dell’“unità”.

 

La scalata di Del Vecchio, la galera per Corona e la saggezza del barbiere

E per la serie “Il nostro prossimo e i mille modi di rompergli i coglioni”, la posta della settimana.

Caro Daniele, perché non hai mai fatto un film? (Roberta De Rossi, Roma)

Perché non volevo essere l’ennesimo sex symbol italiano alla Mastroianni. O all’Alvaro Vitali.

La pandemia ha fatto dimenticare un grosso problema sanitario: le migliaia di persone che muoiono ogni anno per infezioni da batteri resistenti agli antibiotici. (Paolo Vaccari, Modena)

Uno dei motivi, a detta di chi se ne intende (il mio barbiere), è che mangiamo carne: gli allevatori mettono antibiotici nel cibo per le mandrie, e noi mangiando carne ingurgitiamo quegli antibiotici. Dai e dai, i batteri hanno sviluppato una resistenza ai medicinali. Quando usiamo antibiotici più potenti, purtroppo selezioniamo anche i batteri che resistono a quegli antibiotici. È una lotta continua, perché in questo consiste la vita su questo pianeta. Anche se il Pd si rifiuta di ammetterlo. (Il Pd! Nella loro storia hanno fatto così tante cappelle che mi stupisco non siano il mio consulente finanziario).

Continua ad arrivarmi spam nella casella di posta Alice. non ne posso più! (Luana Leka, Pistoia)

A chi lo dici. Alice Mail della Tim è un colabrodo: ogni giorno ricevo otto mail di spam come minimo. E anche se le segnali come spam, il giorno dopo ricicciano con altri indirizzi. Sono bot di spam! Maledetti! Certo, in calce ai messaggi spam c’è sempre la scritta “unsubscribe” se vuoi “cancellare la tua iscrizione”, ma questo mi fa incazzare ancora di più, perché non mi sono mai “iscritto” a quella mailing list del cazzo, e per colpa loro devo incaricarmi ogni volta del lavoro di disiscrivermi, che è una servitù non indifferente. E aggiungono la beffa al danno: se clicco “unsubscribe”, compare una schermata dove devo rispondere alla domanda “Come so che non sei un robot?” Cioè il loro bot, il loro robot, dà a te del robot! Se non è una presa per il culo questa! E sai qual è la prova che il loro bot ti sottopone per dimostrargli che tu non sei un bot? Devi completare la casella vuota dell’operazione 7+ __ = 17. Stronzi! Il 17, che porta sfiga. Non scrivono 3+__ = 13, che porta fortuna. No, ci mettono il 17. Così per disiscriverti ti fanno portare sfiga a te stesso. Ma non hai scelta, quindi scrivi 10 e clicchi “unsubscribe” cacciando un santissimo. Teste di cazzo! Dico a te, “Joel Martin”. IL MIO BARBIERE: “Da quando sei superstizioso?” IO: “Da quando ho scoperto che la sfiga ti colpisce anche se non ci credi”.

Hanno arrestato di nuovo Fabrizio Corona! (Francesca Sabia, Potenza)

Questo migliorerà la sua reputazione.

Leonardo Del Vecchio, 85 anni, il padrone di Luxottica, sta scalando Mediobanca. In tre mesi ha investito 195 milioni e ne ha guadagnati 40. Impressionante. (Pino Fonda, Trieste)

Del Vecchio vuole diventare il padrone di Mediobanca-Generali, l’asse della finanza italiana. Il suo patrimonio personale, a detta di chi se ne intende (il mio barbiere), è di 20 miliardi di euro. Ecco perché, quando Del Vecchio infila la sua tessera nel bancomat, il bancomat geme sessualmente: “Ooooooooooooh!”.

Ho un’ossessione per le belle donne. (Fabio Giuffrida, Catania)

E le mascherine le rendono ancora più sexy! I gesuiti, per evitare la tentazione di una bella donna, si sforzavano di vederne lo scheletro sottostante. L’altro modo è quello di H.P. Lovecraft: “Ogni volta che vedo una bella donna penso: ‘Vorrei scoparmela!’ E allora subito dopo penso: ‘Direi così se fossi un vampiro?’”.

Cerchi anche tu una guida spirituale? Scrivimi (lettere@ilfattoquotidiano.it).

 

Vaccino in Calabria “Abbandonati in preda a incertezza e confusione”

 

 

 

Buonasera, scrivo da questa landa desolata che è la Calabria. In questa regione, nelle procedure di vaccinazione la confusione regna sovrana. La pianificazione, probabilmente, esiste sulla carta, ma sul territorio ognuno procede in ordine sparso e, anche al vertice, coloro che dovrebbero dare direttive certe e sicure riescono pure a contraddirsi reciprocamente. Il risultato è il caos: sistema di prenotazione inesistente, novantenni in coda per ore e assembramenti assurdi. Notizia di ieri, infatti, è che mia madre non dovrà recarsi per completare la procedura di somministrazione del vaccino (seconda dose), perché la tipologia che le dovrebbe essere destinata (Moderna) è esaurita. Non è dato sapere se e quando il problema sarà risolto e sono anche convinta che nessuno si è attivato a questo scopo. Dobbiamo accettare l’evidenza: la programmazione non è cosa della sanità calabrese.

Concettina Marino

 

 

Gentile Concettina Marino, lei ha assolutamente ragione nel definire la Calabria una ‘landa desolata’. Dopo il clamore dei mesi scorsi, che ha portato alle dimissioni del commissario alla Sanità, Saverio Cotticelli, ci saremmo aspettati maggiore attenzione sia dalla Regione sia dal governo. È stato nominato il prefetto Guido Longo e questa è stata una buona notizia. Ma non passa inosservato l’appello del nuovo commissario, che ha denunciato il suo isolamento: “Da tre mesi aspetto due subcommissari e tutto il personale di supporto”. Ci domandiamo perché mandare in Calabria un uomo integerrimo, che da investigatore e da questore ha fatto della lotta alla mafia la sua ragione di vita, per poi lasciarlo solo e senza strumenti. Il risultato è il caos nelle procedure di vaccinazione, che per ora riguardano soprattutto gli anziani come sua madre. La settimana scorsa, in Calabria, i vaccini Moderna sono finiti, ma martedì scorso Poste Italiane ha comunicato l’arrivo a Cosenza, per quella sera stessa, di un’altra fornitura che poi sarebbe stata distribuita su tutto il territorio regionale. Ci consola? No, perché da cittadini vorremmo che ci fosse una programmazione degna di un Paese civile senza vivere con l’incubo di uno stop alle procedure di vaccinazione. Certo non c’è mai limite al peggio: lo sa una signora di 82 anni che ieri a Reggio Calabria ha chiamato i carabinieri, perché gli è stata inoculata la seconda dose di Pfizer dopo la somministrazione della prima di Moderna. La donna, al momento, sta bene. La sanità calabrese no.

Lucio Musolino

La concordia nazionale nel salotto di Vespa

Concordia e velocità di intenti in scena ieri al salotto di Vespa. Carlo Bonomi di Confindustria, per dire, ci ha dato la “buona notizia”: 6000 aziende pronte a vaccinare! Pare però che seguiranno i tempi del piano: quindi, per ora, niente. Vespa, a modo suo, ha provato a infondere fiducia: “Grazie a Dio hanno militarizzato la vaccinazione, quindi siamo sulla buona strada (…) c’è stato un grande rilancio della Protezione civile con Draghi!”. Il problema, però, pare sia “il numero delle dosi”, si osserva. No! E vabbè, ad ogni modo, “ok i vaccini, ma io ci tengo molto a vedere le persone nei cantieri” dice il conduttore. Via lacci e lacciuoli. Bonomi annuisce soddisfatto e cerca la sponda del ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini a difesa dei poveri imprenditori vessati: “Da noi si pensa sempre che i privati vogliano fregare lo Stato”. “Ma oggi è arrivata una bella notizia – si illumina Vespa – assolti i vertici di Eni dopo una via crucis giudiziaria”. Da lì alle riaperture il passo è breve. Come? Lo spiega sempre Vespa al Prof. Cauda, il consulente della Gelmini in studio: dei 21 parametri per le chiusure, 5 sono facoltativi? “Leviamo i 5”. Via. “Ha visto come si fa con il Cts? Da 26 a 12”. Rapidi. Così potranno tornare tutti insieme al ristorante.

Adesso San Mario ha pure gli apostoli

 

• Draghi mi piace molto, è una persona di grandissima qualità, le cose che ha fatto parlano per lui. Parla ma non è un affabulatore, ha le idee chiare ma non ha bisogno di dire troppe parole per spiegarsi. Mi ricorda un regista, potrebbe essere uno alla Gianni Rivera, per stile e classe.

 

• Titolo: “Il super Cts di Draghi: ogni tecnico al posto giusto”. Svolgimento: “Tutti riconoscono il passo in avanti. (…). Ventiquattro persone fa pensare inevitabilmente a un carrozzone, il 12 suggerisce formazioni meno prosaiche e più ispirate, come gli apostoli”.

 

• Il presidente del Consiglio Mario Draghi è romano e romanista eppure, per postura, e a parte il capo dello Stato Sergio Mattarella, è il personaggio pubblico più vicino all’indole bergamasca.

Mise, restaurazione alla Giorgetti: il Pd vuole i tavoli di crisi

Il ministro leghista Giancarlo Giorgetti si è presentato come l’uomo del fare, in grado di rappresentare artigiani e piccoli imprenditori. Ma a un mese dal suo insediamento al ministero dello Sviluppo economico, almeno per quanto riguarda la spinosa questione dei tavoli di crisi, ha fatto capire che i suoi unici interlocutori sono i politici. A sparire dai radar di via Veneto sono i sindacati. La Piaggio Aerospace, Officine Meccaniche Cerutti, Jsw Piombino, Ast Terni e l’ex Ilva sono solo alcune delle circa mille crisi aziendali che da 4 mesi sono rimaste imbrigliate prima nella crisi di governo voluta da Matteo Renzi e ora dall’immobilismo di Giorgetti che non ha mai risposto ai rappresentati sindacali che da giorni chiedono con urgenza un incontro per fare il punto sulle emergenze industriali. Decine di richieste di riunioni inviate al ministro dal giorno del suo insediamento a tutt’oggi sono senza riscontro. Tanto che ieri pomeriggio Fim Fiom e Uilm sono arrivati a minacciare l’autoconvocazione. Anche perché dopo l’incontro di Giorgetti con i lavoratori della Whirlpool che hanno manifestato sotto il Mise nel giorno della fiducia a Mario Draghi e una riunione sul caso Ilva, a essere ascoltati dal ministro sono stati solo tre governatori – Nello Musumeci (Sicilia), Eugenio Giani (Toscana) e Vincenzo De Luca (Campania) – che hanno chiesto rassicurazioni al ministro sui casi Blutec di Termini Imerese, la cui cassa integrazione scadrà a giugno, di Bekaert (la Cig durerà fino all’8 maggio) e di Whirlpool chiusa dalla multinazionale lo scorso novembre. Mentre ieri è iniziato al Mise il primo tavolo sulla produzione siderurgica con due ministri (Roberto Cingolani e Mara Carfagna), il dg del Tesoro Alessandro Rivera e gli ad di Cdp, Fabrizio Palermo, e Invitalia, Domenico Arcuri. Assenti però i sindacati. “In questi anni le abbiamo tenute aperte noi le aziende con gli scioperi e con le mobilitazioni dei lavoratori”, ha spiegato Francesca Re David, segretaria Fiom-Cgil. Ma ora il timore dei sindacati è anche legato alla territorialità delle crisi, con la paura che il ministro leghista lasci indietro quelle meridionali.

Intanto lo stallo sui tavoli di crisi è sempre più evidente. Giorgetti non ha ancora assegnato la deleghe, che nel governo Conte era dell’attuale viceministro Alessandra Todde. La 5Stelle, che in un anno e mezzo è riuscita a sfoltire i tavoli oggi perlopiù composti da crisi endemiche che si protraggono da oltre 3 e 7 anni, sembrerebbe in svantaggio rispetto alla sottosegretaria Anna Ascani. La dem, se riuscisse nella nomina, otterrebbe così per il suo partito una continuità politica con il ministro del Lavoro Andrea Orlando a svantaggio del M5S. Che si trova sotto attacco anche per un’altra decisione presa da Giorgetti: d’intesa con Orlando, ha firmato il decreto per la restaurazione della struttura per le crisi di impresa presso il gabinetto del ministero. È la storica task force, guidata per oltre 10 anni dal dirigente del Mise, Giampiero Castano, che i due precedenti ministri M5S (Di Maio e Patuanelli) avevano smantellato. Di fatto, politicamente, Giorgetti terrà quindi per sé la gestione dei tavoli con buona pace dei sindacati.

Il parto del dl Sostegni: stallo sulle cartelle e i licenziamenti

Oggi pomeriggio, dopo quattro mesi di attesa, dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri l’attesissimo decreto Sostegni, l’ex Ristori 5, rimasto impantanato prima nella crisi di governo e poi negli scontri in seno alla larga maggioranza tra il blocco dei licenziamenti, l’ammontare dei nuovi indennizzi alle categorie più colpite dall’emergenza e l’azzeramento delle cartelle fiscali richiesto da Forza Italia, Lega e M5s, ma indigesto a Pd e Leu. Un estenuante braccio di ferro sul decreto da 32 miliardi di nuovo extra-deficit che si è finito di consumare ieri pomeriggio durante la doppia riunione prima tra il ministro dell’Economia Daniele Franco e quello degli Affari Regionali Mariastella Gelmini e poi tra i capigruppo della maggioranza e i ministri Franco e quello dei Rapporti con il Parlamento, Federico D’incà. Incontri che, comunque, non sono riusciti a sciogliere i nodi sullo stralcio delle vecchie cartelle esattoriali e sulla proroga dei licenziamenti. Misure su cui si punta così a trovare una sintesi politica direttamente oggi in Cdm, anche se mentre andiamo in stampa non è stato ancora convocato. Così come non c’è conferma che al termine del Consiglio il premier Mario Draghi terrà la sua prima conferenza stampa, rispondendo alle domande dei cronisti. Intanto, dalle bozze che circolano, si possono ricostruire le misure inserite che valgono 32 miliardi di extra deficit, di cui 500 milioni ad appannaggio dei partiti. Non c’è, invece, l’estensione del bonus baby sitter a chi lavora in smart working.

Cartelle esattoriali. È previsto lo stralcio di 61 milioni di atti fino a 5mila euro risalenti agli anni tra il 2000 e il 2015. Misura che per Pd e Leu equivale a un condono. Intanto la Lega da giorni spinge per portare il tetto a 10mila euro, sostenuta da M5S che chiede di più: la pulizia del magazzino dell’Agenzia delle Entrate dei crediti inesigibili che – spiega la viceministra dell’Economia Laura Castelli – rappresentano “il 91% di tutto il magazzino. Soldi di cui lo Stato non rivedrà quasi nulla”.

Divieto licenziamenti. Si dovrebbe convergere su una proroga per tutto il 2021 della cassa Covid, che vale 3,3 miliardi, e che consentirà alle aziende di accedervi gratuitamente fino alla fine del 2021 uscendo dunque dalla logica delle settimane utilizzata finora. I sindacati, invece, chiedono una distinzione per settori.

Ristori. È la parte più corposa del decreto. Alle imprese che hanno subito perdite di almeno il 30% di fatturato e giro di affari fino a 10 milioni a causa delle chiusure imposte, andranno da un minimo di 1.000 euro a un massimo di 150.000 euro (in media circa 3.700 euro per attività) senza più l’indicazione dei codici Ateco. Il calcolo dell’indennizzo sarà basato sulla media mensile delle perdite tra tutto il 2020 e tutto il 2019, non su due mensilità. Sono cinque le fasce di percentuali per il contributo: al 60% per le imprese fino a 100mila euro, al 50% tra 100mila e 400mila, 40% tra 400mila e 1 milione, al 30% tra uno e milioni e 20% tra 5 e 10 milione. I pagamenti dovrebbero scattare a metà aprile con una procedura accelerata garantita da una piattaforma che sarà messa in piedi da Sogei e Agenzia delle Entrate. Dovrebbe essere pronta entro fine mese. Ristori anche per il sistema fieristico e quello del wedding (a entrambi 100 milioni), turismo, sport, cultura e spettacolo (un altro miliardo) e la scuola (300 milioni).

Autonomi. Arriva un rifinanziamento da 1,5 miliardi del fondo istituito con la manovra per la riduzione o la cancellazione dei contributi. Altrettanto vale il rinnovo delle indennità per stagionali, lavoratori delle terme e dello spettacolo. Previste indennità anche per i 200mila dello sport.

Rem e Rdc. Sarà rinnovato il reddito di emergenza per tre mesi e rifinanziato con 1 miliardo il reddito di cittadinanza.

Bonus e fondi Per 800mila autonomi e professionisti iscritti agli ordini dovrebbe arrivare un bonus da 3 mila euro, mentre per i lavoratori stagionali è prevista un’indennità una tantum di 2.400 euro. Al settore sciistico dovrebbe andare un fondo da 600 milioni.

Caso Palamara, il Csm convoca il procuratore Raffaele Cantone

Lunedì il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone sarà sentito dal Csm sull’inchiesta che dal maggio 2019 vede coinvolto l’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, accusato di corruzione. E non sarà una passeggiata. È stato proprio Cantone, nei giorni scorsi, a dichiarare pubblicamente di essere disponibile a rispondere nelle opportune sedi istituzionali – e quindi al Csm – sulle modalità con cui è stata condotta l’inchiesta perugina che, va precisato, è iniziata quando non era ancora approdato alla guida della Procura umbra. Le zone d’ombra che necessitano di essere chiarite sono più d’una e il Fatto nel corso di questi anni ne ha indicata più d’una. Le modalità di funzionamento del trojan che, per esempio, mentre la notte tra l’8 e il 9 maggio registra il famoso dopocena all’hotel Champagne di Roma – quello in cui Palamara discute con Luca Lotti e Cosimo Ferri della futura nomina di Marcello Viola, assolutamente ignaro di queste manovre, a capo della Procura di Roma – poche ore dopo non registra la cena tra lo stesso Palamara e il procuratore uscente di Roma, Giuseppe Pignatone. O ancora – come ha rilevato il consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ne ha chiesto conto a un ufficiale del Gico della Guardia di Finanza, durante un’udienza al Consiglio – la scelta di intercettare Palamara e non il suo presunto corruttore, Fabrizio Centofanti, peraltro conoscente sia di Pignatone, al quale l’aveva presentato lo stesso Palamara, sia del procuratore di Perugia dell’epoca, Luigi De Ficchy. E se la conoscenza con entrambi nulla c’entra con la scelta di non intercettare Centofanti (anche Palamara conosceva infatti Pignatone e De Ficchy), di certo tenere sotto controllo il telefono del presunto corrotto, e non del presunto corruttore, è una circostanza piuttosto inusuale. Su questi e altri punti, se il Csm riterrà di porgli delle domande, Cantone potrà quindi chiarire in modo definitivo. Ed è proprio per questo che ha pubblicamente chiesto di essere sentito. Ora la palla passa al Csm che ha l’occasione di fare chiarezza e sgombrare il campo da qualsiasi dubbio sull’inchiesta che, grazie al trojan che ha infettato il telefono di Palamara, ha disvelato il “sistema” delle manovre correntizie producendo l’effetto di far saltare la nomina di Marcello Viola – che con il collega Francesco Lo Voi ha però vinto il ricorso al Tar – alla guida della Procura capitolina.