Domestici, jet privati e giornali: ecco il “sistema Angelucci”

“Mettiamo le mani nella cassa”. È il 23 maggio 2018, si sta componendo il primo governo Conte sostenuto da M5S e Lega. Mario Pepe, già deputato di Forza Italia dal 2001 al 2008, ambisce alla nomina di sottosegretario alla Salute. Nomina caldeggiata in quel momento da Antonio Angelucci, deputato di Forza Italia. L’occasione è ghiotta: il ministero con ogni probabilità sarà assegnato a “quella ragazza… una senza esperienza” dice Pepe. Parlano di Giulia Grillo, deputata M5S poi divenuta ministro. “Sai che significa questo? Che il ministro lo faccio io”, aggiunge Pepe, che tuttavia resterà a bocca asciutta.

L’episodio è contenuto in un’informativa della Guardia di Finanza, finita agli atti dell’inchiesta della Procura di Roma, che vede Antonio Angelucci indagato per istigazione alla corruzione. Il “re delle cliniche”, patron del gruppo San Raffaele di Roma ed editore dei quotidiani Libero e Il Tempo, è accusato di aver offerto 250mila euro all’attuale assessore alla Sanità, Alessio D’Amato, il 19 dicembre 2017, in cambio dello sblocco per il riaccreditamento al Servizio sanitario regionale della clinica San Raffaele di Velletri. D’Amato, che ha rifiutato, ha poi denunciato tutto in Procura.

Negli atti, gli investigatori tracciano un “sistema Angelucci” che si avvale, scrivono, di “una fitta rete relazionale a carattere trasversale”. Un “sistema multi-livello” utilizzato “per esercitare pressioni su antagonisti e contendenti” tramite “campagne stampa innescate per il tramite di organizzazioni sindacali e amplificate dalle testate giornalistiche riferibili al Gruppo San Raffaele”. E in quel periodo può contare anche sull’apporto di Denis Verdini, l’ex senatore oggi ai domiciliari dopo la condanna definitiva per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino. Verdini, per i finanzieri, è il “trait d’union tra Angelucci e ambienti politici vicini al Pd”. Grazie alle sue “attività di mediazione”, ricostruiscono gli investigatori, Angelucci ottiene l’elezione di Salvatore Sica al Consiglio di presidenza di Giustizia amministrativa, di cui oggi Sica è il vicepresidente. A vuoto, invece, il tentativo di far arrivare Carlo Gaudio alla presidenza dell’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco. Gaudio, che all’epoca dei fatti – luglio 2018 – era consigliere Aifa, è medico del Policlinico Umberto I di Roma ed è fratello di Eugenio Gaudio, l’ex rettore della Sapienza che lo scorso autunno era in pole position per diventare commissario della Sanità in Calabria. La nomina di Gaudio, caldeggiata da Angelucci, alla fine sfuma – oggi è a capo del Crea, l’ente di ricerca agroalimentare – e su Libero appare un articolo dal titolo: “Che disastro le nomine all’Agenzia del farmaco”.

Ma è nel Lazio che il “mondo Angelucci” si muove con più fluidità. Nei primi mesi del 2018, dopo il presunto tentativo di corruzione, i rapporti tra Angelucci e l’assessore D’Amato si erano interrotti. Il compito di mediare con l’amministrazione finisce così in capo all’ex ministro Francesco Storace, attuale vicedirettore del Tempo ed ex consigliere regionale di centrodestra. Storace – scrivono i finanzieri – il 18 marzo 2018 telefona a D’Amato e dice: “Ti dovevo venire a trovare per alcune… che m’ha chiesto Lupi che ho parlato con Nicola, per vede’… se riusciamo a ricucire”. L’ex ministro ottiene un appuntamento il giorno seguente, ma “non ottiene riscontri positivi”. Il mese successivo, Storace torna all’attacco, stavolta con Nicola Zingaretti, appena riconfermato governatore. La mediazione ha successo e – scrivono i finanzieri – Zingaretti e Angelucci si incontrano, presso l’ufficio del presidente della Regione, il 23 aprile 2018. Sugli esiti, gli uomini di Angelucci, intercettati, commentano “soddisfatti e fiduciosi”. Nei mesi successivi, gli inquirenti documentano un dialogo serrato con l’allora dg della Sanità del Lazio, Renato Botti. Sul punto, scrivono i finanzieri, “si evidenzia l’anomalia che una questione considerata ‘chiusa’, quale quella del San Raffaele Velletri, sia tornata a essere oggetto di trattative”.

Altra circostanza emersa dagli atti, è quella degli introiti delle cliniche del gruppo San Raffaele che si basano soprattutto sui rimborsi del sistema sanitario regionale. Gli investigatori scrivono di alcuni casi di “distrazione di risorse aziendali”. Come i quattro domestici filippini di casa Angelucci, dipendenti “fittizi” del San Raffaele, che ricevono stipendio e tfr dalla Investimenti Immobiliari srl, società riconducibile alla famiglia Angelucci. Non solo. Gli investigatori fanno emergere “il frequente utilizzo, per scopi prettamente privati (trasferimento da e per i luoghi di vacanza), da parte dei componenti della famiglia Angelucci, di aeromobili privati imputando, verosimilmente, tali costi alle società del Gruppo”. Fra questi le spese dello yacht Alhena e i voli privati dalla Sardegna. Nell’inchiesta romana sono indagati Antonio Angelucci e due suoi collaboratori, Ferruccio Calvani e Antonio Vallone. Tutti gli altri citati nell’informativa sono completamente estranei all’inchiesta.

Pavia, appalti truccati sulle ambulanze

Appalti vinti con offerte inferiori anche del 55% rispetto ai costi, dipendenti obbligati a fornire “lavoro volontario”, ambulanze non sanificate, prestazioni mai eseguite. C’è di tutto nell’inchiesta della Procura di Pavia che ieri ha portato ai domiciliari tra gli altri il dg dell’Asst Pavia, Michele Brait, già tesoriere di Forza Italia in Lombardia e i fratelli Antonio e Francesco Calderone, messinesi, ritenuti dall’accusa gli amministratori occulti della First Aid One Italia, cooperativa con sede legale a Pesaro e sede operativa a Bollate (Mi). Una costola del consorzio First Aid One Italia di Messina.

Un nome noto nel mondo del soccorso, quello dei Calderone. Un universo che tra Asst, Ats e, soprattutto, il servizio di pronto soccorso del 118 Areu, in Lombardia muove appalti per centinaia di milioni. Al centro dell’indagine, una gara del 2017 per i trasporti sanitari “secondari”. Quella gara, importo base di 2.293.000 euro per tre anni, se l’era aggiudicata la cooperativa First. Una vittoria facile, visto che, stando alla ricostruzione della Procura, era stata l’unica partecipante. Croce Rossa e altre 25 associazioni si erano rifiutate di concorrere, sostenendo che l’Asst (cioè Brait) avesse fissato tariffe inferiori anche del 45% rispetto a quelle applicate nel 2006, insufficienti a coprire i costi del personale. Su quella base d’asta poi First aveva praticato un ulteriore ribasso del 10,3%. Un prezzo insostenibile per tutti. Tranne per i Calderone, che, per i pm, ammortizzavano da una parte non fornendo i servizi (48 le prestazioni contestate, tra le quali la mancata sanificazione dei mezzi), dall’altra costringendo i dipendenti a lavorare gratis. Un giochino che non ha mai insospettito l’Ats, l’agenzia del Pirellone che deve vigilare sugli appalti degli ospedali.

Che i lavoratori non fossero abbastanza sembra essere una costante della First, la quale solo pochi giorni fa lanciava un appello per la ricerca di 45 soccorritori, avendo appena vinto l’appalto dell’Asst Bergamo Est per la gestione del parco mezzi dell’azienda sanitaria di Seriate. Sulla gestione del personale – che a volte è dipendente, altre volontario (pratica vietata per legge) – di First e suoi interessi coincidenti con altre realtà del soccorso formalmente indipendenti, si mormorava da tempo: “Ero un assunto di Maria Bambina (un’Organizzazione di Volontariato, Odv), ma mi obbligavano a fare il volontario per First. Tutti dovevamo farlo per contratto”, racconta un soccorritore. “I concerti al Forum, per esempio, erano un appalto First, ma li facevamo noi di Maria Bambina. Senza essere pagati”. Due società diverse che si prestano il personale, sebbene tra First e Maria Bambina non risulti alcun rapporto societario. “Ma erano i Calderone a pagarci gli stipendi”, conferma l’ex dipendente. Per capire il perché della commistione, bisogna tenere presente che solo le Odv (Maria Bambina) possono partecipare ai bandi del soccorso, mentre non possono farlo le cooperative (First). E infatti, Maria Bambina in questi giorni è in lizza per il bando di Areu (120 milioni di euro l’anno per tre anni) per le postazioni di pronto soccorso. L’Odv ha presentato offerte per oltre 40 postazioni, il che significa avere a disposizione 4 mila persone. Non male per un’associazione che un anno fa era sull’orlo del fallimento e che si è salvata grazie a massicce iniezioni di contante proveniente da donatori esterni.

La figuraccia sul Cts: via Gerli e caso Inail. Imbarazzi per Greco

Alla fine ha dovuto mollare travolto dalle polemiche. Alberto Gerli, esperto di bridge con il vizio per le previsioni statistiche sbagliate, rinuncia all’incarico a cui era stato designato dalla Presidenza del Consiglio, nel Comitato tecnico scientifico. Su cui pesa l’accusa più infamante: essere frutto della lottizzazione dei partiti, per non dire dell’antica pratica del manuale Cencelli. Perché nel Cts sono stati confermati espertissimi di chiara fama che non potevano essere tenuti fuori neppure volendo, come Silvio Brusaferro e Franco Locatelli, rispettivamente a capo dell’Istituto superiore e del Consiglio superiore di sanità. Ma si è aggiudicato un posto pure chi, come Gerli, è sospettato di essere stato spinto dalla Lega, mentre ben altre competenze sono state tenute fuori, come nel caso dell’Inail su cui ora i sindacati pretendono una riparazione.

La senatrice Sandra Lonardo in Mastella invece pretende che Mario Draghi ci metta la faccia e vada al Senato a rispondere a una sua interrogazione che sintetizza quello che pensano in molti: “È vero che alcuni componenti sono stati sostituiti da altri con minori credenziali scientifiche, ma con maggiore vicinanza ai partiti politici di governo?”. Insomma, fuori i criteri, perché il nuovo Comitato somiglia un po’ al nuovo governo: molto sotto le aspettative. E allora – chiede la Lonardo – era davvero utile ricostituire il Cts? E soprattutto: adesso qual è la sua vera mission? Interrogativi che rischiano di rimanere senza risposta anche adesso che Gerli ha fatto un passo indietro togliendo dall’imbarazzo Palazzo Chigi. “A seguito delle inattese e sorprendenti polemiche esplose all’indomani della mia nomina a componente del Cts, ho ritenuto opportuno rinunciare al mio incarico così da evitare alle istituzioni ulteriori, inutili ostacoli e distrazioni rispetto alle importanti e difficili decisioni che sono chiamati a prendere in un momento tanto delicato per il Paese. Ringrazio la Presidenza del Consiglio per la nomina, di cui mi ritengo onorato, e grazie alla quale avrei potuto dare il mio contributo al servizio del Paese”, ha fatto sapere rivendicando “la bontà dei dati che ho contribuito a sviluppare”. Che però erano sbagliati come nel caso della Lombardia per la quale l’ingegnere influencer aveva predetto un calo dei casi tra gennaio e marzo 2021 che invece sono drammaticamente aumentati. Di fronte alla sua nomina “lottizzata” dal Carroccio, Angelo Bonelli dei Verdi era già pronto a presentare un esposto alla Procura. E chissà cosa pensa il leader dei Verdi di un altro componente del Cts, ossia Donato Greco. Nel 2008 l’allora Commissario per l’emergenza rifiuti in Campania, Gianni De Gennaro, aveva voluto come suo braccio destro l’epidemiologo. Che, a rischio di farsi linciare in piazza, era stato pronto a giurare in nome della statistica che la monnezza con i tumori non c’entra niente. Quanto all’emergenza legata al Covid, Greco sostiene da mesi che “l’epidemia è finita già a maggio scorso” e che le restrizioni non servono, anzi. Sono frutto di “una politica della paura, invece bisognerebbe adottare una politica della responsabilità. Non le minacce o i ricatti che sono una modalità violenta”.

Nel nuovo Cts invece mancherà l’apporto dell’Inail. L’istituto nazionale che tutela la sicurezza sul lavoro, che finora ha svolto un ruolo rilevante nella lotta alla pandemia, e che oggi diffonderà i nuovi dati mensili: i contagi sul lavoro sono stati 170mila e circa 500 le denunce con esito mortale dall’inizio della pandemia. Per Cgil, Cisl e Uil l’esclusione dell’Inail dal Cts è un errore micidiale: “Non sono chiari i criteri con i quali è stato definito il nuovo Comitato. Ricordiamo il contributo svolto dall’Inail nella definizione dei protocolli condivisi su salute e sicurezza siglati dal governo con le parti sociali, protocolli che hanno avuto una funzione decisiva nel garantire la salute nei luoghi di lavoro”. Ora non serve più?

Sputnik vs J&J: la “cortina di ferro” Salvini-Giorgetti

Nei capannelli dei parlamentari leghisti i nomi di battesimo sono stati sostituiti, con un pizzico di amara ironia, con due nomignoli che spiegano tutto: “Ambasciatore 1” e “Ambasciatore 2”. Il primo non ha ancora dismesso del tutto la felpa, sbraita perché il vaccino russo Sputnik arrivi presto in Italia e videochiama i colleghi dei Paesi di Visegrad, quell’est Europa che sul commercio delle dosi reclama l’autonomia dall’Ue. Il secondo, invece, dal suo privilegiato osservatorio di via Veneto, si rivolge all’altro emisfero, quello atlantico, e da lì inizia a tessere la sua ragnatela sull’asse Parigi- Washington per inondare il prima possibile l’Italia di vaccini americani: Pfizer/Biontech ma soprattutto il monodose Johnson&Johnson. La divergenza tra Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti è evidente: la diplomazia del vaccino sta spaccando la Lega. E a dividere il leader e il suo vice stavolta c’è la cortina di ferro.

Salvini ha messo nel mirino la gestione europea sulla campagna vaccinale (“un totale fallimento”) tant’è che ieri, dopo il placet dell’Ema su AstraZeneca, ha spiegato che “non sono più ammessi altri errori dall’Ue”. E per mettere una toppa ai “ritardi” di Bruxelles, Salvini si fa diplomatico basandosi su uno slogan: “Acquistare vaccini ovunque”. Soprattutto dalla Russia di Vladimir Putin e da quei Paesi europei che lo Sputnik lo hanno già ordinato in grandi quantità, senza aspettare l’autorizzazione dell’Ema. Sicchè l’agenda del leghista negli ultimi giorni è stata ricca di incontri, videoconferenze e telefonate con i propri colleghi dei Paesi di Visegrad. Il primo Paese agganciato è stato San Marino che, primo in Europa, ha ordinato le dosi del farmaco russo: Salvini prima ha telefonato al ministro della Sanità Roberto Ciavatta e poi ha incontrato a Roma il ministro del Lavoro Teodoforo Lonfernini che si è detto pronto ad “aiutare l’Italia”. Poi il leader della Lega ha visto in videoconferenza il premier ungherese Viktor Orbán, che si è vaccinato con il siero cinese “Sinopharm” e ha ordinato migliaia di dosi russe e cinesi, e negli ultimi giorni ha parlato di vaccini con i colleghi dell’est: prima ha sentito il leader della destra polacca Jaroslaw Kaczynski e il premier Mateusz Morawiecki e poi, mercoledì, il primo ministro sloveno Janez Jansa con cui ha parlato di “trovare vaccini altrove”. Sono questi i Paesi di Visegrad, guidati dall’Austria di Sebastian Kurz, che vogliono aprire le porte europee allo Sputnik.

Mentre Salvini incontra ambasciatori e vede primi ministri dell’Est, al Mise il suo numero due fa tutto l’opposto: sui vaccini ha spinto per mettere in piedi una filiera “Made in Italy” che partirà nei prossimi mesi, ma nel frattempo l’approvvigionamento deve arrivare dal- l’Occidente, dall’Ue o dagli Usa. Il Commissario Ue al Mercato Interno, Thierry Breton, che si aspettava di incontrare un pericoloso sovranista, è rimasto sorpreso dall’approccio “pragmatico” di Giorgetti e con lui ha stretto un rapporto consolidato per produrre i vaccini in Italia. “Giorgetti conosce bene i dossier e non è Marine Le Pen” ha detto Breton. Avere un canale privilegiato con la Francia di Emmanuel Macron, che nei giorni scorsi ha sentito anche Mario Draghi, è fondamentale per la Lega per accreditarsi in Ue. Oggi, al Mise, Giorgetti incontrerà proprio il ministro dell’Economia di Parigi, Bruno Le Maire. Oltreoceano invece Giorgetti sta facendo fruttare la sua rete di relazioni con Washington da dove arriveranno presto le dosi di Johnson&Johnson. Il ministro leghista ha incontrato più volte Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria e Ad di Janssen Italia controllata dal gruppo Johnson&Johnson, e con lui si sente quasi ogni giorno. Con questa strategia, Giorgetti vuole accreditare la Lega all’Eliseo e alla Casa Bianca, ma il primo ostacolo rischia di essere proprio Salvini.

Palù: “L’Italia ha già tutto per produrre da sé ogni siero”

“Questa non sarà l’unica pandemia. Dopo Covid-19 altre ne vedremo. E poi avremo anche batteri resistenti a tutti gli antibiotici”. Il presidente dell’Agenzia italiana del Farmaco, Giorgio Palù, ascoltato ieri insieme al direttore generale Aifa, Nicola Magrini, alla Commissione Affari sociali della Camera, invita a pensare al futuro: “L’Italia – ha detto – è circondata da Paesi in grado di realizzare prodotti ad alto valore tecnologico. Dobbiamo fare qualcosa che ci renda autonomi nella produzione di questi farmaci e di vaccini”.

“Da un lato – ha proseguito Palù – occorre programmare ciò che sarà, mentre, dall’altro, di vaccini abbiamo bisogno subito”. In questo momento, dunque, la priorità è “la produzione di vaccini per trasferimento tecnologico da Big Pharma, grazie a un accordo europeo che individui i siti produttivi in grado di partire dalla materia prima su licenza, e poi pensare per il futuro a fare qualcosa che ci renda autonomi”. Nell’immediato, “sarà l’Europa a trattare con le aziende farmaceutiche le licenze per i Paesi europei. In Italia abbiamo le potenzialità e gli stabilimenti che possono farlo. Siamo il primo Paese in Europa come produzione di farmaci, con oltre 34 miliardi di fatturato – ha puntualizzato Palù –. Dal punto di vista dell’innovazione di processo siamo molto avanzati, siamo i migliori infialatori del mondo”.

Una parte del processo produttivo ha già luogo in Italia, il primo Paese per produzione ed esportazione di farmaci, ma si tratta per lo più di prodotti generici o attività per conto terzi. “Vorremmo far sì che il Paese producesse non solo intervenendo in una parte del processo produttivo – ha concluso Palù – ma parta dal ‘bulk’, dalla materia prima. Noi abbiamo innovazione di processo, ma di prodotti altamente tecnologici ne facciamo molto pochi, quindi è bene che l’Italia si munisca anche di una struttura che sia in grado di produrre questo genere di farmaci e vaccini”.

L’Ue e i vaccini: Scommesse perse e soldi spesi male

La temporanea sospensione del vaccino AstraZeneca ha rallentato ulteriormente la campagna europea di immunizzazione, il cui travagliato destino era già scritto mesi fa. Basta analizzare i numeri: date e cifre degli investimenti nei vaccini Covid. Le altre due principali economie occidentali, altrettanto colpite dalla pandemia, Usa e Regno Unito, hanno finora somministrato rispettivamente oltre 34 e 40 dosi per 100 abitanti, contro una media di appena 12 negli Stati membri dell’Ue. Questi, guidati dalla Commissione europea, hanno puntato troppo poco, troppo tardi e, purtroppo, non sui migliori concorrenti in gara.

Con la loro strategia sui vaccini, finanziata dal bilancio comunitario, gli eurocrati di Bruxelles e i governi si sono concentrati sull’acquisto delle dosi, trascurando lo sviluppo dell’infrastruttura per produrne in quantità sufficienti nel territorio dell’Unione. Hanno ingenuamente firmato diversi contratti (con caparre contrattuali da 2,7 miliardi di euro) senza essersi prima assicurati che le case farmaceutiche avessero i mezzi per consegnare nei tempi pattuiti.

Esattamente il contrario di quanto hanno fatto Washington e Londra. La presidente della Commissione europea ha ammesso di aver sottovalutato il problema solo dopo che AstraZeneca ha annunciato, era il 22 gennaio, il taglio del 60% dei quantitativi per il primo trimestre 2021. È proprio sulla multinazionale anglo- svedese che l’Ue ha fatto la sua scommessa iniziale. A fine agosto 2020 l’azienda ha firmato contratti sia con la Commissione che col Regno Unito, che però in primavera aveva sganciato circa 100 mila euro di fondi pubblici per aumentare la capacità di produzione degli impianti della Oxford Biomedica (società partecipata dall’omonimo centro che ha sviluppato il vaccino AstraZeneca). Londra, in cambio, ha ottenuto una prelazione sulle prime 30 milioni di dosi. AstraZeneca, vincolata all’uso di quegli impianti, si è trovata obbligata a riservare ai contribuenti inglesi la quota prenotata da Boris Johnson (non ancora esaurita).

Era quindi escluso a priori che il sito britannico potesse essere utilizzabile per produrre parte delle dosi promesse all’Ue (contrariamente a quanto previsto dall’accordo). La Commissione si è invece limitata a versare ad AstraZeneca un acconto sulle dosi concordate, come contributo alle spese di sviluppo (stessa cosa con tutte le altre case farmaceutiche). Sperava che l’azienda impiegasse i soldi per accelerare la produzione nei siti in Belgio e Olanda, peraltro non riservati esclusivamente alle forniture per l’Ue. Solo dopo aver incassato la seconda rata della caparra di 336 milioni di euro, l’ad Pascal Soriot ha confessato di aver subito imprevisti tecnici.

Peggio ancora è andata con Sanofi/GSM, con cui la Commissione ha firmato il secondo contratto (metà settembre), anticipandole 324 milioni di euro. Lo scorso dicembre, la compagnia francese ha rivelato le sue difficoltà coi test clinici, rinviando la distribuzione delle dosi pattuite al prossimo autunno. Il terzo accordo è quello con Johnson & Johnson (inizio ottobre) che già a marzo aveva incassato 834 milioni di euro dall’amministrazione di Donald Trump per espandere la sua produzione globale, partendo dalle sue fabbriche statunitensi. A esse ora si sono aggiunte anche quelle della consociata Merck (foraggiata con 226 milioni di euro ulteriormente sborsati da Joe Biden). Johnson & Johnson, che nell’Ue conta per ora solo il suo impianto nella città olandese di Leiden, oltre che quello della Catalent ad Anagni per l’infialamento, ha recentemente tagliato parte delle 55 mln di dosi che avrebbe dovuto consegnare all’Ue nel secondo trimestre.

Investimenti a fondo perduto nell’aumento delle capacità produttive nel Vecchio continente sono stati fatti solamente da Berlino: 300 e 375 milioni di euro versati rispettivamente a luglio a Curevac (il cui vaccino deve ancora essere approvato dall’Agenzia europea del farmaco, Ema) e a settembre a Biontech (che produce il vaccino commercializzato da Pfizer). Entrambe le connazionali tedesche hanno anche ottenuto prestiti della Banca europea degli investimenti. E, attualmente, hanno in mano il 40% di tutti gli impianti che producono vaccini Covid nell’Ue. Eppure anche sull’unico vaccino sviluppato nell’Ue, appunto quello di Biontech, la Casa Bianca è stata più veloce. Ha stanziato a fine luglio (due mesi in anticipo sulla cancelliera Angela Merkel) oltre 1,6 miliardi di euro per sostenere la rete di produzione di Pfizer oltre Atlantico, riservandosi un totale di 600 milioni di dosi. Inoltre, nonostante il vaccino tedesco si sia dimostrato efficace più rapidamente degli altri, la Commissione ha aspettato fino a novembre per firmare il contratto con Pfizer (e poi con l’altra americana Moderna). Ha inoltre pattuito con essa solo 300 milioni di dosi, comprese quelle opzionali (rispetto alle 400 di AstraZeneca che però ha un costo per dose quasi sette volte inferiore).

La negoziatrice della Commissione, Sandra Gallina, ha concluso a fine febbraio l’acquisto di dosi aggiuntive da Pfizer e Moderna, appena incassato il taglio da parte di AstraZeneca. Anche l’Italia si è mossa al rallentatore, erogando solo a gennaio 80 miliardi per il vaccino della Reithera di Castel Romano e poi a marzo altri 400-500 miliardi per sviluppare i vaccini entro i confini nazionali.

Ai ritardi nei finanziamenti alla produzione e nella firma dei contratti di fornitura, si sono sommati quelli con cui l’Ema ha approvato (con dovuta cautela) i vari vaccini rispetto ai due Paesi anglosassoni. Il risultato è che, stando a recenti stime, l’Ue si ritrova con una capacità di 500 milioni di dosi (essenzialmente in produzione in Germania), quasi la metà del Regno Unito e quattro volte meno degli Usa. E tenta ora di recuperare in extremis. La speciale task force della Commissione guidata dall’euro commissario all’industria Thierry Breton, si è appena incaricata di promuovere le collaborazioni tra i produttori dei vaccini e aziende subappaltanti. Meglio tardi che mai.

 

Draghi a Bergamo, omaggi e polemiche: “Basta passerelle”

“Siamo qui per un impegno solenne: non accadrà più che le persone fragili non siano assistite e protette”. Nel giorno della “tristezza e della speranza”, come lo definisce Mario Draghi, la promessa che il presidente del Consiglio scandisce dal palco è insieme un monito per il futuro e una amara lettura del passato, un anno dopo quel 18 marzo 2020 che mostrò all’Italia le file di camion dell’esercito in strada per portare fuori da Bergamo i corpi delle persone morte per il coronavirus.

Il Parco della Trucca è a pochi chilometri da quella strada ed è qui che si è scelto di celebrare la prima Giornata nazionale del ricordo delle vittime del Covid, piantando più di 800 alberi a eterna memoria della tragedia. In prima fila ci sono il governatore Attilio Fontana e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, loro che più volte sono stati incolpati di aver sottovalutato il Covid durante le prime settimane dei contagi. Ben più lontani, fuori dai cordoni di sicurezza del Parco e fuori dal Cimitero Monumentale – dove il presidente del Consiglio ha depositato una corona di fiori – ci sono invece alcuni parenti delle vittime: “Siamo stufi delle passerelle – ci dice Consuelo Locati, che per colpa della pandemia ha perso il padre –, ci aspettavamo di ricevere tutt’altra considerazione”. Per la verità tra gli invitati alla cerimonia c’è Luca Fusco, presidente del Comitato Noi Denunceremo, l’associazione da cui poco più di un mese fa la Locati se ne è andata insieme ad altre famiglie per forti divergenze sulla gestione del gruppo. Fusco ha voluto esserci “per ricordare e sentire vicino” chi non c’è più, Locati, che coordina il team di avvocati con cui ha presentato più di 500 denunce per conto dei familiari delle vittime, lamenta invece di essere stata più volte ignorata, lei come gli altri fuoriusciti dal Comitato: “Oltre al dolore viviamo un senso di abbandono, siamo disillusi e demotivati. Non ci hanno permesso di parlare con nessuno, anche se la segreteria di Draghi ci ha promesso un incontro per le prossime settimane”.

La protesta è l’unico imprevisto di una cerimonia essenziale in cui a parlare, oltre al presidente Draghi, è il sindaco Gori: “Avevamo sognato che questa giornata segnasse la fine della pandemia. Non ci siamo ancora, però. Abbiamo deciso di onorare la memoria delle vittime con un’opera viva, con un monumento che respira dove prevediamo si svolgano incontri dedicati a bambini e famiglie, laboratori, lezioni di educazione ambientale per le scuole”. La chiusa è per farsi forza: “Mola mìa, teniamo duro e lavoriamo insieme per un futuro migliore”. Che però passa necessariamente dalla campagna vaccinale, su cui Draghi è netto: “L’incremento delle forniture di alcuni vaccini aiuterà a compensare i ritardi da parte di altre case farmaceutiche. Abbiamo già preso decisioni incisive nei confronti delle aziende che non mantengono i patti”. Il senso è che “lo Stato c’è e ci sarà”, perché “solo così il luogo della memoria sarà il simbolo del nostro riscatto”.

Una speranza condivisa da Ave Vezzoli e Elena Carletti, rispettivamente coordinatrice infermieristica di Pneumologia all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e presidente dell’Associazione Comuni Virtuosi (che ha ideato l’iniziativa del Bosco), entrambe presenti alla cerimonia per portare la propria testimonianza. Verso le 11:30 viene piantato il tiglio fatto simbolo della memoria, parte di quel bosco che verrà. Passa un altro quarto d’ora e Draghi sale in macchina preferendo ancora evitare domande. Resta allora nell’aria il suono della tromba di Paolo Fresu, che apre e chiude l’evento con due brani toccanti: “Mi sono lasciato trascinare dall’emozione e dal momento – ci dice mentre riordina gli strumenti –, entrambi i brani li ho completamente improvvisati. Scegliete pure voi come intitolarli”.

Ciascuna a suo modo. Le Regioni alla ricerca del tempo perduto

Dopo il via libera dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, e l’autorizzazione dell’Aifa, annunciata per oggi, scatta la corsa delle Regioni per recuperare il tempo perduto e quelle quasi 400 mila vaccinazioni saltate a causa della sospensione del siero AstraZeneca. Corsa contro il tempo nella quale le Regioni, ancora una volta, si cimentano in modo diverso: c’è chi ha scelto di riprendere le somministrazioni da chi era già prenotato nei giorni di blocco – da lunedì pomeriggio a ieri, per un totale di 95 ore – e chi ha deciso una riprogrammazione delle prenotazioni. Missione in ogni caso tutt’altro che semplice, visti i numeri. La Regione Lazio, per esempio, ha dovuto “congelare” con sms 25mila prenotazioni. Adesso dovrà ricontattare tutti, sempre con un sms, indicando il nuovo appuntamento, che sarà comunque nello stesso luogo (vale a dire uno dei 35 punti vaccinali AstraZeneca della regione), convinta di poter recuperare tutti coloro che avevano ricevuto la disdetta nell’arco di una settimana.

Sulla carta ha una potenzialità di 60 mila vaccinazioni al giorno, ingabbiata dalla disponibilità delle dosi. Prima della sospensione viaggiava a un ritmo di circa 20 mila al giorno, ridotte a 5 mila nei giorni scorsi con i soli Pfizer e Moderna. “Ora non si perda altro tempo”, dice l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato.

Diversa la formula scelta dalla Campania, dove fino a ieri erano “bloccate” 20 mila dosi del vaccino anglo-svedese. In questo caso il governatore Vincenzo De Luca ha deciso di recuperare subito tutti gli appuntamenti saltati. Partirà, quindi, da chi era già in fila da lunedì. La revoca del divieto d’uso da parte di Aifa è prevista per le 15. A quell’ora anche in Piemonte, così come è previsto nel Lazio, cominceranno a essere vaccinati i primi che erano già in agenda per oggi. Poi arriveranno gli altri, oltre 20 mila, che sono stati bloccati. “Intendiamo arrivare ad almeno 20 mila vaccinazioni al giorno”, dice il governatore del Piemonte Alberto Cirio.

Obiettivo che dovrebbe essere raggiunto anche con il contributo delle strutture sanitarie private. Scalda i motori anche Christian Solinas, il presidente della Sardegna, che pure è tra le ultime nella campagna di vaccinazione: tanto da dirsi pronto a “investire i fondi della Regione per acquistare vaccini e immunizzare tutti i sardi”.

Anche la Toscana partirà dagli appuntamenti ancora in vigore. Ma darà priorità di ri-prenotazione, entro 24 ore dalla riapertura delle agende, a coloro a cui è stato annullato l’appuntamento, partendo dalla fascia d’età tra i 76 e 79 anni fino ad esaurimento del personale scolastico e delle forze dell’ordine. Di fatto lo stesso modello scelto anche dall’Emilia-Romagna, dove sono rimaste in frigo 60 mila dosi. Per il presidente emiliano Stefano Bonaccini “quanto avvenuto in questi ultimi giorni ha determinato un rallentamento inevitabile, ma necessario per dissipare ogni dubbio. Ora è fondamentale riuscire a riconquistare la fiducia di tutti i cittadini che l’hanno persa a causa di quanto è accaduto”. Intanto il governatore della Liguria, Giovanni Toti, annuncia: “Mi vaccinerò con AstraZeneca”.

“25 trombosi su 20 mln di vaccinati: Astrazeneca può ripartire da subito”

Con il via libera dell’Ema ad Astrazeneca, il cui vaccino è definito di nuovo “sicuro ed efficace”, anche l’Italia riprende a vaccinare a pieno ritmo con tutti i sieri fin qui a disposizione (Pfizer, Moderna e quello dell’azienda anglosvedese appunto) e lo farà a partire da oggi alle 15. “La priorità del governo rimane quella di realizzare il maggior numero di vaccinazioni nel più breve tempo possibile”, ha affermato il premier Mario Draghi. Fuori dal coro, Novervegia e Svezia che ritengono prematuro riprendere la campagna prima di due settimane: “Ci serve un quadro completo”.

L’Agenzia europea del farmaco però ha posto fine a tre giorni di insicurezze e anche di paure, fornendo all’Unione “una chiara conclusione scientifica”. Astrazeneca “è un vaccino sicuro ed efficace – ha scandito la direttrice esecutiva Emer Cooke – e i suoi benefici e la protezione delle persone dal Covid-19 e dai rischi associati e ospedalizzazioni superano i possibili rischi”.

Sabine Straus, capo del Comitato per la sicurezza Prac dell’Ema, è scesa nel dettaglio: “Non abbiamo trovato evidenze di un problema di qualità o con un lotto e facciamo notare che il numero di eventi tromboembolici sono più bassi di quanto atteso nella popolazione generale e non c’è un aumento nel rischio complessivo di coaguli di sangue con questo vaccino. Ma ci sono anche alcune incertezze: abbiamo visto alcune segnalazioni molto rare di casi che descrivono una specifica e inusuale combinazione di trombosi e trombocitopenia (abbassamento dei livelli di piastrine) e sanguinamenti. In pochi casi – ha illustrato Straus – dopo 7-14 giorni dalla vaccinazione si è verificata una condizione nota come coagulazione intravascolare disseminata e in alcuni altri pochi casi una trombosi cerebrale dei seni venosi. Queste condizioni sono legate a bassi livelli di piastrine e le evidenze che abbiamo al momento non sono sufficienti a concludere con certezza se questi eventi sono correlati al vaccino oppure no”. Anche se poche ore dopo la stessa Ema si è sentita in dovere di rassicurare ulteriormente: “Astrazeneca non può essere associato a casi di trombosi”.

Il via libera rimette in moto le Regioni con l’ok repentino anche dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), certificando la totale esclusione di “una associazione tra i casi di trombosi e il vaccino Covid 19”. Eventi “avversi” – ricorda – che ne avevano vietato l’uso il 15 marzo scorso “in via precauzionale”. Il commissario per l’emergenza Figliuolo aveva stimato che la sospensione avrebbe avuto un impatto di 200 mila vaccinazioni in meno, con una prospettiva di riassorbimento dello stop in circa due settimane, anche grazie all’incremento di 707.850 dosi del vaccino Pfizer.

Reithera Passa alla “fase 3”

Intanto ReiThera, società italiana con sede a Castel Romano, entra nella fase avanzata della sperimentazione del proprio vaccino anti-Covid. La Fase 2/3 prende il via grazie ai risultati della Fase 1 che hanno dimostrato che una singola somministrazione di Grad- Cov2 è stata ben tollerata e ha generato anticorpi neutralizzanti e linfociti T contro la proteina spike in maniera paragonabile nelle due coorti di adulti e anziani.

I colori Solo il molise spera il ritorno all’arancione

L’Italia rimarrà anche la prossima settimana quasi tutta in zona rossa e solo il Molise spera di ritornare in arancione. Anzi altre regioni potrebbero aggiungersi al rosso della cartina delle restrizioni. A rischiare più di tutte è la Toscana, che potrebbe unirsi alle dieci che già si trovano nella fascia delle misure più dure. Altre regioni in bilico sono Calabria e Valle d’Aosta. In quest’ultima la situazione è peggiorata solo nell’ultima settimana (dati che non saranno ancora riportati nel dossier settimanale dell’Istituto superiore di sanità): non sarebbero stati rilevati 250 casi ogni 100mila abitanti – elemento discriminante per l’assegnazione della zona rossa – e l’impatto sugli ospedali resta relativamente basso, ma nelle ultime ore l’Rt è decisamente sopra 1,5. In Calabria e Liguria, invece, i dati non sembrano cresciuti in modo allarmante. In generale, però, le cifre non sono confortanti. In attesa del picco, previsto entro fine mese, dall’inizio di questa settimana sono state registrate 1.710 vittime e i dati dell’ultimo bollettino parlano di 24.935 contagiati in 24 ore col tasso di positività in aumento di 0,8 punti. E sono 3.333 i pazienti ricoverati in terapia intensiva. Con altri 423 morti.

Amici loro

Spunti per la commedia all’italiana. Titolo: Amici loro.

Episodio 1. Mentre i giornali festeggiano l’assoluzione dell’Eni a Milano nel processo per le presunte tangenti in Nigeria perché “il fatto non sussiste”, dopo aver nascosto la condanna dell’Eni a Potenza per traffico illecito di rifiuti perché il fatto sussiste, l’Eni vuole patteggiare a Milano 11 milioni di risarcimento e 800mila euro di multa per tangenti in Congo (induzione indebita). Quindi il fatto che non sussisteva in Nigeria sussiste in Congo. Il sito di Rep parla pudico di “attività Eni in Congo”: le mazzette sono un’“attività” come un’altra. La storia ricorda quella di Fabio Riva (ex Ilva), assolto dalla bancarotta perché “il fatto non sussiste” tra gli alti lai dei “garantisti” che gridano al martirio: peccato che avesse tentato di patteggiare 5 anni e il gup li avesse rifiutati perché erano pochi. Cioè: era innocente, ma non lo sapeva, causa un grave difetto di autostima. Fortuna che poi gliel’ha spiegato il giudice.

Episodio 2. Non contento delle nomine di Brunetta, Gelmini, Garofoli, Funiciello, Vezzali, Borgonzoni e altri migliori, il Governo dei Migliori si migliora vieppiù inserendo nel Cts in quota Lega l’ingegnere padovano Alberto Giovanni Gerli, “Big Data Scientist” e inventore di un “sistema predittivo” sui contagi (ma anche sui “numeri per avere successo in amore”) che non azzecca una previsione manco per sbaglio. “Veneto in zona bianca” (è rosso). “350 casi in Lombardia salvo varianti” a marzo” (4mila al giorno). E così via. Ieri s’è dimesso come un Gallera qualsiasi (“a seguito delle inattese e sorprendenti polemiche”), non prima di aver chiarito chi l’ha nominato. Siccome lo staff Draghi, in comprensibile imbarazzo, non rispondeva, ci ha pensato lui: “Ringrazio la Presidenza del Consiglio per la nomina”. Se questi non fossero i Migliori, sarebbero financo sospettabili di essere i Peggiori.

Episodio 3. Rep ordina un sondaggio sulle Comunali a Roma, dove stando ai media la Raggi non la rivotano neppure i gatti e i ratti. Purtroppo la sindaca è prima col 26%, contro il 19% di Bertolaso e il 17 di Gualtieri. Mannaggia, che fare? Il sondaggio finisce in cronaca locale, con un titolo di consolazione: “Raggi in fuga, ma Gualtieri vincerebbe tutte le sfide a due”. Segue un appello strappalacrime a “centrosinistra e centrodestra” perché non “regàlino il Campidoglio alla solita Virginia. Sarebbe diabolico”. Ma una soluzione c’è. Siccome Gualtieri vincerebbe tutti i ballottaggi, ma non ci arriva perché è terzo, basta sostituire la legge elettorale col regolamento del tennis: tabellone con sfide a due. O mandare al ballottaggio il secondo e il terzo classificato. Anzi, meglio: abolire il primo turno e passare direttamente al secondo.