Salce, Giommarelli e due funerali e mezzo: papà Luciano e Gassman

La prima volta fu quasi per caso. È il 2009, Emanuele Salce si vede offrire uno spazio nella rassegna estiva di un teatro milanese. La tentazione di rifugiarsi in un classico della letteratura – La mite di Dostoevskij –, poi l’improvvisa svolta verso qualcosa di più personale: nasce così Mumble mumble… Ovvero confessioni di un orfano d’arte.

Incredibilmente rigettato, va in scena dall’anno successivo – l’esordio al “Cometa Off” di Roma –, acclamato da pubblico e critica. E da allora è un successo costante: dieci stagioni sul palcoscenico per più di 400 repliche, spesso in “tutto esaurito”. Oggi arriva in streaming su TvLoft, con una selezione di brani che porta in esclusiva sugli schermi di Tutta scena – Il teatro in camera la carica originale del testo, scritto da Salce insieme al critico Andrea Pergolari (regia teatrale di Timothy Jomm) su materiale decisamente autobiografico.

È dall’esperienza del Nostro che Mumble mumble prende infatti le mosse. E non solo per quel verso, il “riflettere borbottando” dei fumetti che è anche il suo soprannome. Doppio figlio, anzi orfano, Salce porta in scena niente meno che i funerali delle due grandi figure paterne che ne hanno contrassegnato la vita: papà Luciano, protagonista a tutto campo della cultura e dello spettacolo del secondo dopoguerra, e Vittorio Gassman, indimenticato mattatore e marito della mamma Diletta D’Andrea, che con lui si sposò quando Emanuele aveva appena quattro anni. Ma non si tratta di un tributo ossequioso: Mumble mumble è una narrazione impudica, la vicenda di un doppio addio vissuto a distanza di dieci anni dall’autore, che non risparmia gli aspetti più grotteschi, accostando registri contrapposti.

Scopriamo così un Salce ventenne che si presenta all’ultimo saluto al padre Luciano con i postumi di una nottata di eccessi alcolici; o il carnevale di personaggi improbabili che fa da sfondo alle esequie del “divo” Gassman, proprio nel giorno di un’epica semifinale europea della Nazionale di calcio. Si ride in Mumble Mumble, ma non solo. L’autoironica infrazione dei codici condivisi del rapporto con la morte – che avrà una coda nella “procto-gastroenterologa” vicenda del mezzo funerale che chiude la pièce – è funzionale a una profonda riflessione sulla vita. Fondamentale in questo senso il ruolo dello spettatore-regista Paolo Giommarelli, complice di una confessione dalle chiare implicazioni filosofiche. Coabita così in Emanuele Salce la complessità dell’umano, in uno spettacolo che è anche un modo per proseguire la relazione con due figure fondamentali del suo percorso. Brani tratti da: “Mumble mumble… Ovvero confessioni di un orfano d’arte” è l’occasione per farne conoscenza.

“L’insaziabile e la contessina” riaccendono le luci rosse

Gli organi genitali in bella mostra, di un 2d che doveva sembrare tridimensionale, piombarono sul grande schermo italiano nel 1980. Una data assolutamente sintomatica. Il precursore dei cinematografi dedicati al porno era stato il Majestic di via Lambro, a Milano, nel 1977. Lo si riconosceva da un lampeggiante dei pompieri all’ingresso. A luci rosse, appunto. E con un avviso spartiacque: “Immagini non adatte a un pubblico sensibile”.

La battaglia con la censura era vinta. Una rivoluzione copernicana per il comune senso del pudore. La stirpe maschile in irriferibile, ma legittimata, fregola. Non occorreva più nascondersi in speakeasy clandestini. Anche le locandine di genere conobbero la stessa sorte. Tutt’a un tratto, spuntarono in ogni anfratto, nei boulevard del centro e nelle vie di periferia, visibili a occhio nudissimo e sgranato dagli anziani e dai ragazzini, dai borghesi più retrivi e dai sottoproletari smaniosi di futuro.

La loro ostensione metropolitana si fece sfacciata, capillare, rituale. Una rivalsa, a suo modo, epocale: di gallerie a cielo aperto inneggianti all’amor riproduttivo non se ne erano mai viste prima. Guarda a questa riforma, o controriforma, del costume la mostra che sta per debuttare al Centro per l’arte contemporanea “Luigi Pecci” di Prato. Curata da Cristiana Perrella, l’inaugurazione è stata posticipata al calendario dei ritorni in zona gialla. Si intitola Cult Fiction e ha per protagonisti i manifesti dei film erotici apparsi nelle strade di Napoli e Aversa tra il marzo 1978 e il dicembre dell’80. Negli scatti re-installati, qui oltre sessanta, della fotografa campana Marialba Russo. “Esplosione di una vitalità ormai perversa, ma pur sempre tale, nella storia della cultura popolare”, scrive a proposito Goffredo Fofi.

Riviviamo gli anni del primissimo boom delle sale specializzande in hardcore: è come se l’artista, col suo sguardo antropologico e semiotico, avesse voluto inanellare una serie di segni alternativi di quella transizione di massa alla stagione del riflusso. Ragionando sulla materia effimera e dal potente impatto della pubblicità stradale, e sui limiti di una rappresentazione esplicita dei corpi che risvegliava, sì, da ancestrali ipocrisie, ma non scardinando affatto i rapporti di potere cristallizzati. Tra i sessi, nella società. Non a caso la cinquantennale ricerca di Russo si è forgiata nella fucina intellettuale e politica degli anni Settanta. Liberazione della sessualità o mercificazione spregevole della donna, in leggero anticipo sulle tv commerciali subentranti?

Le locandine ricreate ed esposte sono incentrate su un immaginario maschilista in toto. Allora come adesso. Siamo in territorio softcore, ma la sostanza non cambia. “Oggi al cinema Mignon La Pornopalla” (titolo originario, The cheerleaders), recita una. Isabel Sarli è L’insaziabile, tratteggiata in un voluttuoso bianco e nero stilizzato. Girato da tal Armando Bo nel 1976, pare in Argentina, narra eufemisticamente le gesta di Carol, moglie di un medico con la fissa delle avventure pruriginose. E il marito, devoto a Ippocrate, proprio non riesce a stare ai suoi ritmi. I cine-filologi lamentano: chi ha tagliato su YouTube la scena campale in cui la signora copula con il fattore nella stalla, mentre i mandriani spiano l’amplesso dalla fessura? Al cinema Primavera davano Pon Pon a Bangkok. Dietro la macchina da presa, mister H. Sala. Nel manifesto, l’origine del mondo è schermata solo da un serpente in technicolor. Perdibile pure “il francese” La contessa, la contessina… la cameriera. Descrizione del poster promozionale sexy vintage. Una barchetta del piacere galleggia: in semi-topless, si presume, la contessa; ai remi l’altrettanto discinta cameriera di colore; infine, ammiccando in due pezzi, la contessina. Cronache iconografiche dall’alba, dotata in fondo di una sua innocenza, di un mercato florido degli stereotipi che sarebbe durato un decennio abbondante. Ora che siamo assuefatti a qualsivoglia visione, e non ci stupiamo più di niente, ripensiamo, con l’imbarazzo della nostalgia, a quei brandelli di pseudo-desiderio. Di carta e scotch, appesi, stropicciati, sospirati sui muri.

“Il maestro è solo uno: Battiato”

Trentotto anni l’uno, 37 l’altro. Gavetta. Serate nei club. Differenziare, quindi libri, graphic novel, teatro per vivere di note, accordi e parole.

Se c’è qualcuno talmente anacronistico da apparire attuale, solido, forgiato con successo, figli di un filone classico alla De André, Dalla e soprattutto Battiato (“punto di riferimento assoluto”), questo qualcuno è proprio il duo Colapesce e Dimartino, arrivati al Festival con una canzone feroce nella sua leggerezza, “anzi leggerissima”, eppure diventata un tormentone così forte da generare già cover e a volte parodie (“e non ci piacciono”) perché si incolla alle celluline grigie (direbbe Poirot) e non le molla più. Le scuote per ore e ore. Eppure, nonostante il successo, non si scompongono.

Siete primi: cosa è cambiato da Sanremo?

Colapesce: ci siamo tolti il peso di tenerla nascosta; l’ascoltavamo da sei mesi e non vedevamo l’ora di farla sentire ad altri, così dopo averla cantata, ci siamo sentiti leggeri; (ci pensa) appena scesi dal palco, all’unisono, abbiamo espresso la stesa idea: “Non è più nostra, ora farà la sua strada, bella o brutta, ci siamo liberati di Musica leggerissima”.

Dimartino: prima di salire sul palco l’idea che ci rasserenava era che di lì a poco tutti avrebbero ascoltato.

Va bene, ma cosa è cambiato rispetto agli anni di gavetta?

Colapesce: artisticamente nulla, solo il canale di comunicazione; anche in passato abbiamo pubblicato pezzi con un appeal adatto alla radio, come Luna araba.

Avete raggiunto una quadra senza svendervi.

Colapesce: era l’obiettivo principale prima di andare a Sanremo: volevamo mantenere la nostra attitudine, evitando la retorica del Festival. Ora migliaia di persone si stanno identificando in quelle parole, ed è la magia del pop.

Un successo così grande porta aspetti fastidiosi?

Colapesce: non sono un amante delle parodie e ne sono uscite tantissime, come quella densa di tutti gli stereotipi legati al Sud. Ciò mi mette un po’ a disagio.

Dimartino: la verità è che finito Sanremo ci siamo chiusi in casa, mentre di solito, dopo il Festival, si va in giro per il firma copie, per la promozione in generale.

Bella fregatura.

Colapesce: in realtà è un grande vantaggio.

Dimartino: posso stare in tuta tutto il giorno (mostra le prove: ciabatte e tenuta ginnica).

Colapesce: per attitudine non mi piace molto andare in giro e venire fermato, preferisco parlare con la musica. In un momento di tale sovraesposizione preferisco questo stato d’isolamento.

A Sanremo eravate circondati dai giovani dei talent.

Dimartino: c’erano anche Ghemon, La rappresentante di lista, gli Extraliscio..

Colapesce: quello del talent è un altro campionato, non si possono tentare parallelismi.

Il parallelismo c’è…

Dimartino: quando penso ai ragazzi dei talent, li lego più alla tv, non alla musica, e il mio non è un giudizio di valore, è proprio un altro ambito.

È come dire sci di fondo e sci alpino.

Colapesce: esatto.

Dimartino: e poi noi siamo di un’altra generazione: se in questo momento avessi avuto vent’anni forse avrei partecipato a un talent.

Colapesce: io no; noi veniamo dal mondo reale della gavetta, e non me la sentirei di tagliare il percorso di formazione per raggiungere subito un milione di persone e venir forgiato dalla tv. Mi terrorizzerei.

Dimartino: a Sanremo ho parlato con Madame, lei non ha mai suonato davanti al pubblico; hanno un’altra concezione dello show.

Colapesce: siamo andati al Festival con le spalle larghe.

Senza ansia?

Colapesce: un po’ sì.

Il vostro video ha qualcosa di Maresco e Ciprì.

Dimartino: rientrano nel nostro pantheon e sono presenti dal punto di vista estetico, per il resto ci siamo ispirati a Kaurismäki.

Il brano è più bello nella versione originale che in quella di Sanremo.

Dimartino: effettivamente suona meglio.

Oltre alla musica, in questi anni di gavetta di cosa avete vissuto?

Colapesce: siamo degli autori, lavoriamo per altri musicisti e fortunatamente siamo riusciti a vivere sereni anche nei momenti più complicati; poi Antonio ha scritto un libro e io ho realizzato un graphic novel e una pubblicità. Diversificare è fondamentale.

Dimartino: oggi non ti puoi permettere di restare fermo tra un disco e l’altro.

Sono 40 anni da La voce del padrone di Battiato.

Dimartino: è uno dei nostri dischi preferiti, e lui per primo, come noi dopo, ha “appesantito” la musica leggera con i contenuti.

Colapesce: quell’album è una bibbia, ha ribaltato il paradigma della canzone italiana.

Personaggio letterario preferito.

Colapesce: forse Stoner di Williams: è incredibile perché alla fine è un uomo normale.

Dimartino: sono un appassionato di Moby Dick: quando devo capire da che parte sto andando, riprendo in mano il libro e leggo l’incipit; aggiungo l’inizio di Conversazione in Sicilia di Vittorini: ti illumina su quale punto della vita sei.

Chi siete voi?

(In coro, dopo breve riflessione): due operai della musica.

“Al freddo, sporchi e senza comunicare. Così tengono rinchiusi Ramy e Zaki”

C éline Lebrun è tornata nella sua casa di Nanterre, a pochi chilometri da Parigi, un mese fa dopo aver trascorso nove giorni al Cairo, in visita a suo marito nel carcere di Tora. Non ci tornava da quando, a seguito di un blitz delle forze di sicurezza egiziane, il suo compagno, l’attivista e politico egiziano-palestinese Ramy Shaat, era stato arrestato. In piena notte, tra il 4 e 5 luglio 2019 gli agenti della National Security avevano sequestrato telefoni, pc, prelevato l’attivista anima della rivoluzione di piazza Tahrir nel 2011, oggi 50enne, e deportato sua moglie. Nato a Beirut (il padre fu consigliere di Gamal Abdel Nasser e ministro degli Esteri Palestinese), di sinistra e consigliere di Yasser Arafat, Shaat ha fondato il movimento politico al-Dostour. Ha superato i 600 giorni in prigione in attesa di giudizio, per 15 rinnovi della detenzione.

Signora Lebrun, più sollievo o ansia nel rivedere suo marito in carcere?

Lasciarmi Ramy alle spalle è stato doloroso, ma ora in Francia sono più forte sapendo che lui sta bene. Prima l’avevo sentito solo due volte al telefono. Tornare al Cairo, dove con Ramy vivevamo ormai in pianta stabile, mi ha regalato sensazioni forti. Amo l’Egitto, la mia vita, i miei affetti sono lì.

Com’è andata la visita?

Le autorità mi hanno concesso un visto speciale per tornare in Egitto, da cui ero stata bandita. Ho potuto incontrare Ramy tre volte, per 45 minuti l’una, da soli dentro un ufficio. Ci hanno concesso un po’ di intimità. Il tempo è passato in fretta.

Qual è la situazione giudiziaria di Ramy Shaat?

La sentenza di Cassazione sull’appello presentato dai nostri legali per evitare che Ramy venga inserito nella lista dei terroristi è stata rinviata a giugno. In caso di condanna, oltre alle conseguenze per noi due, non potrebbe più lasciare l’Egitto e fare politica.

In quale sezione di Tora è rinchiuso suo marito?

Nella stessa in cui si trovano migliaia di attivisti e difensori dei diritti umani, tra cui Zaki. Ramy e Patrick sono detenuti nella sezione ‘Investigation’, con altri oppositori, avvocati, giornalisti, politici.

Come vive in cella?

Sopravvivenza pura in un regime carcerario durissimo, in dieci-quindici dentro una cella di 25 metri quadrati. I detenuti dormono a terra, fa freddo, l’igiene personale è ai limiti perché le autorità carcerarie non sempre fanno passare i prodotti. Da quando sono in Francia non ricevo sue lettere e non so se lui abbia ricevuto le mie. Ci privano anche di questo mezzo per comunicare.

Quando Giulio Regeni è stato rapito e poi ucciso lei viveva in Egitto, come apprese la notizia?

Ricordo bene lo choc provocato da quella terribile tragedia. Al tempo, come Giulio, anche io ero ricercatrice universitaria. Il governo italiano ha fatto molto sull’aspetto giudiziario per arrivare alla verità, meno a livello politico e diplomatico.

Da cittadina francese, qual è stata la sua reazione al conferimento della Legione d’Onore ad al-Sisi da parte del suo presidente, Emmanuel Macron?

Sono rimasta molto sorpresa, in negativo ovviamente. Oggi, quattro mesi dopo, Ramy è in cella e non so quando lo rivedrò. La Francia potrebbe fare di più.

Il terreno in Egitto è fertile per una nuova rivolta a dieci anni da piazza Tahrir?

Non credo, ora la gente lotta per sopravvivere e quelli del 2019 sono stati tumulti, non una protesta con valori e contenuti. Tutte le anime della rivolta di dieci anni fa, inoltre, sono in carcere.

 

Biden: “Putin è un assassino” Mosca richiama l’ambasciatore

Joe Biden pensa che Vladimir Putin sia “un assassino”: intervistato dalla Abc, il presidente Usa lo dice dopo che l’intelligence statunitense ha accusato il Cremlino di interferenze pro Donald Trump nelle elezioni presidenziali Usa 2020. “Lei conosce Putin. Pensa che sia un killer?”, gli chiede George Stephanopoulos. “Lo penso”, risponde Biden.

La dichiarazione di Biden, durissima e senza precedenti, testimonia un livello di tensione molto alto tra Washington e Mosca. Il riflesso immediato è stato il richiamo a Mosca dell’ambasciatore russo negli Usa, per consultazioni: un passo diplomatico forte, anche se facilmente reversibile. Secondo il rapporto diffuso dalla direzione della National Intelligence, che coordina tutte le agenzie degli 007 Usa, Putin autorizzò massicce operazioni per influenzare il voto e favorire il successo di Trump. Pure l’Iran provò a condizionare le elezioni, in senso opposto: Teheran portò avanti una campagna per minare la rielezione di Trump, senza però promuovere il suo rivale. La Cina progettò di farlo, ma poi vi rinunciò. Nessuna potenza straniera, tuttavia, riuscì a penetrare nei sistemi di voto Usa, diversamente da quanto accadde nel 2016. Il rapporto fa riferimento all’accesso del Cremlino a persone prossime al presidente Trump. I media fanno il nome di Rudy Giuliani, l’avvocato personale del magnate che ebbe un ruolo di primo piano nelle accuse a Biden per i rapporti con l’Ucraina. Le conclusioni dell’Intelligence potrebbero preludere all’annuncio, da parte Usa, di nuove sanzioni ai Paesi responsabili la settimana prossima.

Il Cremlino respinge al mittente le accuse: “Riteniamo il rapporto sbagliato”, dice Dmitry Peskov, portavoce di Putin. “È assolutamente infondato”, “non contiene prove” e “danneggia relazioni già malate”. Il ministero degli Esteri russo manifesta l’intento di “prevenire il degrado irreversibile” delle relazioni russo-americane”, che “Washington ha sostanzialmente spinto in un vicolo cieco negli ultimi anni”, senza forse capire “i rischi che questo comporta”. Secondo gli 007 Usa, Putin autorizzò le operazioni per denigrare Biden e aiutare Trump, minando la fiducia nel processo elettorale dell’Unione ed esacerbando le divisioni socio-politiche. Nell’intervista alla Abc, Biden ha ricordato di avere avvertito Putin, nella loro telefonata a fine gennaio, su una possibile ritorsione per le interferenze nel voto. Biden non ha però precisato quale prezzo intende fare pagare a Mosca. E ha aggiunto che ritiene possibile “camminare e masticare una gomma”, ossia sanzionare la Russia per le interferenze e lavorarci insieme su questioni d’interesse degli Stati Uniti, come gli accordi sugli armamenti. Il rapporto dell’Intelligence sconfessa su tutta la linea l’ex presidente Trump, che ha sempre negato aiuti russi alla sua candidatura, ha accusato la Cina di appoggiare Biden e ha sostenuto che il rischio più grande erano le frodi alimentate dai “nemici dell’America”.

 

Elezioni Rutte ancora premier. Ora il nodo alleanze

Il partito liberale del premier uscente Mark Rutte resta la prima forza politica olandese, mentre l’estrema destra xenofoba e anti-islam scivola al terzo posto. Chi avanza di più è il D66, un partito di centrosinistra, che diventa la seconda forza della Camera Bassa. Dove entrano pure, come previsto, numerose altre sigle, i Verdi, che non fanno i progressi pronosticati, i Socialisti, i Laburisti e varie ancora. Secondo i primi exit poll, il Partito popolare per la libertà e la democrazia (Vvd) del premier Rutte ottiene intorno al 25% dei consensi e 35 seggi, tallonato dal D66, con 27 seggi: il Partito della Libertà (Pvv) del leader nazionalista e sovranista Geert Wilders avrebbe 17 seggi. Resta il rebus della futura coalizione governativa: in Olanda, la composizione della Camera Bassa è molto frammentata e mettere insieme una maggioranza non è mai semplice. In ogni caso, Vvd e D66 da soli non bastano: se si metteranno d’accordo per essere alleati al governo, dovranno trovare altri partner. Il voto, spalmato su tre giorni, come misura anti-contagio al tempo della pandemia, ha visto un’affluenza ai seggi molto alta, intorno all’80% – confrontabile con quella del 2017, all’82%, la più alta dal 1986 –. Circa un quinto degli elettori hanno approfittato dei seggi aperti lunedì e martedì, ma il grosso s’è recato alle urne ieri. I cittadini olandesi erano chiamati a eleggere i 150 deputati della Camera Bassa. Il premier uscente Mark Rutte, al potere ininterrottamente dal 2010 alla guida di coalizioni diverse, e le cui posizioni nell’Ue l’hanno talora fatto tacciare di ‘anti-italiano’, puntava a ottenere un quarto mandato e potrebbe averlo ottenuto, alla luce degli exit polls. Il voto è stato un test sulle politiche governative per la gestione della pandemia: nei Paesi Bassi sta sempre più crescendo l’insofferenza per coprifuoco e lockdown. Un anno fa, a inizio emergenza, ci furono le dimissioni del ministro della Sanità Bruno Bruins, svenuto esausto in Parlamento, dov’era sotto accusa per le prime mosse anti-contagio. In gennaio, a due mesi dal voto già fissato alla regolare scadenza della legislatura quadriennale, Rutte e il suo governo s’erano dimessi per lo scandalo dei sussidi all’infanzia, che risale ad anni fa, ma che ha scosso la credibilità di tutta la classe politica olandese: migliaia di famiglie, molte solo perché con cognome che suonava straniero, costrette a restituire aiuti per decine di migliaia di euro senza possibilità di fare ricorso.

Dall’Hôtel de ville all’Eliseo. Le “idee in comune” di Hidalgo

Ufficialmente non è ancora candidata, ma Anne Hidalgo sembra già aver lanciato la sua campagna per le Presidenziali del 2022. Ieri, a Douai, nel nord, la sindaca socialista di Parigi, rieletta a giugno in piena pandemia, ha presentato il suo nuovo movimento “Idées en commun”, non un partito politico, è precisato, ma una “piattaforma di idee”, che conta sull’appoggio di diverse figure della sinistra sociale ed ecologista, tra cui l’ex ministra e sindaca di Lille, Martine Aubry, di cui la Hidalgo era stata a suo tempo consigliera e che continua ad avere una certa influenza a sinistra. Da candidata per le municipali, Anne Hidalgo aveva detto che Parigi le bastava. L’Eliseo? Non ci pensava nemmeno.

Invece ieri in una intervista al grande quotidiano di Lille, La Voix du Nord, ha detto: “Il mio ruolo è di portare l’energia per riunirsi. In tutta umiltà”. Anne Hidalgo vorrebbe essere l’alternativa a gauche dopo il fallimento del “né di destra né di sinistra” su cui Emmanuel Macron ha vinto le elezioni nel 2017. La rotta a destra presa dalla politica dell’Eliseo da tempo ha deluso tutta una fetta di francesi che avevano votato per lui nel 2017 per barrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen, la leader dell’ultradestra che di Eliseo continua a sognare. La Hidalgo intende giocare quindi anche da terzo incomodo nella sfida a due del 2022 che, con una sinistra frammentata e una destra moderata senza leader, come tanti osservatori e sondaggisti già predicono, rischia di essere un replay del 2017, con un nuovo faccia a faccia Macron-Le Pen. Da settimane la sindaca si prepara a indossare gli abiti della “presidenziabile”. Ha iniziato un tour de France come se stesse in campagna per le primarie. Moltiplica i suoi interventi, sempre ponendosi in opposizione a Macron. Per lei il presidente “non costituisce più un riparo al Rassemblement National” perché “ha maltrattato le questioni dell’uguaglianza, della democrazia e dell’ecologia”. Per lei la sola alternativa possibile è quella che “coniuga ecologia e sociale”. Interviene sulla gestione dell’emergenza sanitaria: “Bisogna applicare una strategia zero-Covid evitando i confinamento”, ha scritto su Le Monde a inizio mese. Anne Hidalgo, andalusa di origine (è nata a San Fernando, in Spagna, nel 1959), figlia di esuli della dittatura franchista, naturalizzata francese quando aveva 14 anni, ha costruito la sua carriera politica seguendo i passi dell’ex carismatico sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, di cui è stata il braccio destro dal 2001. È stata eletta per la prima volta nel 2014, e poi rieletta di recente, grazie a una coalizione che riunisce socialisti, ecologisti e comunisti. La “fibra verde” le viene riconosciuta da tutti. Anche dal Time, che a settembre l’ha citata tra le cento persone più influenti al mondo per aver “trasformato Parigi in un folgorante esempio di come le città possono guidare la transizione verso società più pulite, più sane e prospere”. Lusingante. Il bilancio verde di Macron ha invece deluso, rivedendo al ribasso obiettivi ambiziosi e rimanendo impantanato nelle pressioni delle lobby. Il segretario Ps, Olivier Faure, senza reale carisma, ha già dato alla Hidalgo la sua benedizione: “Farebbe un eccellente presidente”, ha detto. Ma non sarà facile per lei unire intorno a sé tutta la gauche, come vorrebbe il suo partito, mai ripresosi davvero dal disastroso mandato presidenziale di François Hollande.

Anne Hidalgo dovrà vedersela innanzitutto con le ambizioni del segretario di Europe-Ècologie-Les Verts, Jannick Jadot, rinforzato dal successo dei Verdi alle municipali, favorevole a una candidatura comune con il Ps ma probabilmente dietro di sé. Tra gli ecologisti emerge anche il rampante giovane sindaco di Lione, Éric Piolle. Un altro socialista poi sembra già in campagna, Arnaud Montebourg, ex ministro dell’Economia militante del Made in France. Da parte sua, Jean-Luc Mélenchon, leader di La France Insoumise, sinistra radicale, si è già lanciato nella corsa per il 2022 per conto suo, e per la terza volta consecutiva. E così ha fatto il segretario del partito comunista Fabien Roussel, che lo scorso anno si era alleato all’“indomito” Mélenchon. La Hidalgo non ha neanche i sondaggi dalla sua. L’Ifop ieri le accreditava solo l’8% dei voti al primo turno, davanti a Jadot (6%) ma dietro a Mélenchon (10%). In testa, Marine Le Pen (28%), seguita da Macron (24%). Hidalgo dovrebbe dire in autunno se metterà da parte Parigi per candidarsi all’Eliseo.

 

Trappola social e pc distrutti: le ombre sul Sereni “martire”

Riassumere l’intricata vicenda che ha coinvolto l’ex portiere Matteo Sereni, la sua ex moglie Silvia Cantoro e i due figli avuti dalla coppia è un’operazione tristemente complessa. Di sicuro, sebbene la storia racconti con efficacia il cortocircuito della giustizia e il fallimento degli assistenti sociali, il dipingere come “martire” sulla stampa Matteo Sereni è un racconto quantomeno parziale.

Certo, è vero che dopo undici anni di battaglie legali in cui Matteo Sereni si è dovuto difendere dalle accuse di abusi nei confronti della figlia (e più lateralmente del figlio), le accuse nei suoi confronti sono state archiviate. Tuttavia, nel leggere l’infinita quantità di carte si scopre che sulla figura di Sereni restano delle ombre poco edificanti. I fatti: Silvia e Matteo Sereni si sposano nel 1998 e hanno due figli: un maschio nel 2001 e una femmina nel 2005. Nel 2009 il loro matrimonio va in crisi, lui già dall’estate inizia a dare i primi segnali di insofferenza. Silvia e i figli vivono nella villa di Sori, lui va a trovarli ogni tanto. Silvia scopre che il marito ha una relazione con un’altra donna. Verso la fine del 2009, secondo la ricostruzione della Cantoro, Sereni va a Sori a trovare i bambini e lo sorprende in una situazione che ritiene equivoca, con la figlia di 4 anni. Litigano, lui va via. La bambina nel frattempo inizia a riferire cose ambigue sul padre avvenute durante le vacanze in Sardegna. Da questo momento il conflitto tra la Cantoro e Sereni diventerà sempre più aspro: lei chiede al giudice che accerti la verità, lui potrà vedere i figli in presenza di un educatore, lei nel tempo riferisce nuove rivelazioni della bambina su un caro amico di Sereni, Marco Quaglia, e il fratello di Sereni, Giacomo. A un certo punto Silvia sparisce con i bambini per un po’, poi, in attesa dell’incidente probatorio, i due minori finiscono in comunità, per non subire l’influenza dei genitori.

L’iter giudiziario è a dir poco folle: a Tempio Pausania, dopo ben 6 anni dalle prime accuse, Sereni viene condannato per abusi a 3 anni e sei mesi. La sentenza viene annullata per incompetenza territoriale e passa a Torino, che archivia nel 2019 una porzione del procedimento. L’altra parte del procedimento è a Cagliari, dove il pm Ganassi chiede la prima archiviazione nel 2016, poi nuove indagini nel 2017 e un nuovo incidente probatorio sui bambini nel 2018. In pratica, interrogano una bambina di 13 anni su fatti che sarebbero avvenuti quando ne aveva 4. La testimonianza della bambina è a tratti poco credibile, si parla perfino di un bambino ferito con un coltello, ma al di là di questo, come diranno i giudici nella sentenza di archiviazione per tutti gli indagati “le testimonianze della minore sono state rese con modalità non conformi ai parametri scientifici e psicologici”. Insomma il clima conflittuale e l’iter giudiziario hanno penalizzato la ricerca della verità. “Emerge la figura di una madre che ha inteso proteggere i figli”, dicono i giudici, ma le prove sono usurate. Ed è indubbiamente così. Sui giornali e le tv la tendenza è già “povero Sereni, maledetta donna”. Comprensibile. Manca però una visione d’insieme della storia. Tralasciando le accuse di pedofilia su cui la giustizia si è pronunciata, il comportamento di Sereni negli anni non è lineare. Dopo le prime accuse dei bambini, lui si crea un account finto (Manuel Costa) con cui corteggia la ex moglie. Lei ci casca, fanno sesso virtuale, confida all’uomo le sue preoccupazioni per le rivelazioni dei figli. Sereni invia tutto al tribunale dei minori affermando che ha ricevuto quel materiale da una fonte misteriosa, ma dovrà ammettere di aver teso lui una trappola alla moglie. Verrà processato e condannato per sostituzione di persona, alla fine tutto sarà prescritto.

I computer perquisiti a Sereni non forniranno alcuna prova utile, è vero, ma in un’intercettazione telefonica la sua compagna dirà che hanno sequestrato i computer sbagliati, perché quelli in uso all’epoca li hanno eliminati: “Abbiamo distrutto tutto”. C’è poi un passaggio molto opaco. Quando i bambini vanno in comunità, presso un istituto di suore, in teoria le assistenti sociali incaricate di seguire i bambini avrebbero dovuto avere un ruolo imparziale. Invece, dalle intercettazioni, viene fuori che le due assistenti sociali avevano contatti quasi quotidiani con Sereni e la compagna. Suggerivano loro il comportamento da tenere anche in sede di tribunale. Addirittura, quando una suora viene invitata dalla Procura a testimoniare sulla bambina, le due assistenti sociali la contattano proponendole un incontro e garantendole che avrà del denaro (il tutto viene intercettato). Quando il pm chiede alla suora se ha avuto contatti con le assistenti sociali, la suora nega. E viene condannata per false dichiarazioni. Inoltre, tra Sereni e il suo amico (e co-indagato all’epoca) Marco Quaglia, i rapporti durante le indagini si fanno tesi. Quaglia denuncerà addirittura Sereni per falsa testimonianza, affermando anche su fb che Sereni “ha cambiato a suo piacimento fatti ed eventi accaduti in questi anni”. E non solo. Nel dicembre del 2020 l’ormai ex amico di Sereni scrive un lungo post su fb: “Nel 2019 ho avuto un incontro con i legali di Sereni. Mi hanno umiliato. Quando sono uscito avevo due scelte: o andare dalla Cantoro e darle in mano le registrazioni che dimostravano il comportamento non corretto del Sereni in questi anni, ma farlo sarebbe stato diventare complice della mia nemica, o farla finita”.

Di cosa parlava Quaglia? Molto probabilmente di una registrazione che Quaglia fa di nascosto nel 2017 quando incontra per caso Sereni in Sardegna. Sereni, in quell’incontro, racconta che ha sostanzialmente “fregato” la Cantoro perché si è accordato con l’onorevole Librandi perché comprasse il 50% della sua casa sarda in comproprietà con Silvia (il 50% ipotecato) all’asta. Parlando poi del prossimo processo d’appello, Sereni gli dice che ha messo in mezzo la massoneria. E dunque Quaglia scrive sempre su fb: “Io non ho bisogno di aiuti di massoni e anche se alla fine di questa storia non avrò in regalo da un onorevole un appartamento in Costa Smeralda, come mi è stato detto dal Sereni (la registrazione è agli atti), io vado avanti per la mia verità”.

Insomma, sul “Sereni martire” sarei cauta, fermo restando che la giustizia – in questa vicenda – ha devastato tutti.

“Tra Pd e Forza Italia non vedo differenze. Ci manca la sinistra”

MicroMega torna. Dopo l’annuncio della chiusura da parte della nuova proprietà (il gruppo Gedi, controllato dalla famiglia Elkann) il direttore Paolo Flores d’Arcais rilancia la rivista che per tre decenni ha nutrito la sinistra, da sinistra: “Non potevo rassegnarmi a che la storia di MicroMega finisse qui. Non volevo accettare che il panorama culturale italiano perdesse – bando all’ipocrisia delle false modestie – una delle sue voci più autorevoli. Negli anni a venire ci sarà sempre più bisogno di un impegno intellettuale e politico per ‘giustizia e libertà’, e di pensiero critico, spirito illuminista, intransigenza laica”, ha scritto sul nuovo sito. Da queste parole ripartiamo.

Direttore, da dove ricomincia la seconda vita di MicroMega?

Il numero che esce oggi era già pronto – avrebbe dovuto uscire in febbraio, ma la chiusura della testata ha creato diversi problemi – ed è dedicato ai cento anni del Partito comunista. I lettori troveranno testimonianze preziose, da Tortorella a Macaluso a Castellina, Asor Rosa, Giulia Mafai, Marisa Cinciari Rodano. Il numero di maggio sarà in due parti: MicroMega compie 35 anni, in edicola andrà un volume con oltre 50 testimonianze e un secondo con testi introvabili: dal primo numero abbiamo ripreso un carteggio tra Ingrao e Bobbio e un saggio sul welfare di Federico Caffè, per dire.

Avete lanciato una sottoscrizione.

Per rilevare la testata è stato necessario accettare la proibizione di avere, per quattro anni, anche come soci di minoranza, società editrici, anche non italiane, o soci di società editrici. La nuova società, senza fini di lucro (il che vuol dire che tutti i proventi vengono reinvestiti) ha bisogno per sopravvivere che i lettori partecipino. Quindi abbiamo lanciato una campagna abbonamenti e una sottoscrizione: se ci sarà una seconda vita dipende dalla risposta. Altrimenti vorrà dire che avrà vinto Elkann. Ma io credo che esista un importante strato di lettori-elettori che non si rassegna, nonostante le difficoltà del momento, all’alternativa che si pone oggi.

E qual è?

O Draghi o la destra estrema: è un aut aut a cui non voglio credere. Non ho alcuna obiezione al fatto che il presidente della Repubblica abbia scelto una personalità fuori dai partiti. Lo avevo proposto all’indomani delle ultime elezioni, indicando anche alcuni nomi di ministri: da Gustavo Zagrebelsky a Fabrizio Barca, da Tomaso Montanari a Piercamillo Davigo (i famosi “migliori”). L’involuzione dei partiti è tale per cui bisogna cercare nella società civile. Per quali politiche, però? Con quale maggioranza?

Nel nostro caso tutti i partiti. È una scelta sensata?

Quando D’Alema fece la bicamerale con Berlusconi si parlò di inciucio. Oggi siamo davanti a un mega inciucio, al tutti dentro. Un’ammucchiata di forze politiche che hanno posizioni diametralmente opposte. Il guaio è che tra il Pd e Forza Italia le differenze sono sempre più scolorite.

Lei ha scritto: “Draghi ha una superiorità, rispetto a tutti i politici, nello stile e nella credibilità. Con il “whatever it takes” ha prevalso su Merkel e i banchieri tedeschi, e non sono pinzillacchere”. C’è un ma?

Gigantesco: noi abbiamo bisogno di politiche anti-liberiste, di ritorno alla giustizia e all’eguaglianza sociale. Sulla giustizia la riforma Bonafede della prescrizione era blanda: dovrebbe cessare già dopo il rinvio a giudizio. Ai grandi evasori va fatta la guerra, le misure marginali non servono. Questo governo andrà in direzione opposta. Mario Draghi ha uno spessore che altri non hanno, ma nei ministeri e nei ruoli da sottosegretario ha messo una quantità pantagruelica di impresentabili. E sulla politica economica ha scelto liberismo e giavazzismo, quando c’è bisogno dell’opposto: solo l’eguaglianza ci può salvare.

Che impressione le ha fatto il discorso di Enrico Letta?

Vale quanto detto per Draghi. Letta è uomo serio, ha una professione anche fuori della politica, cacciato da Renzi non si è dedicato ai giochi di corrente e di poltrone, è andato a fare il professore in una delle più prestigiose istituzioni universitarie francesi. Le pagliacciate di Renzi ci saranno risparmiate, ma Letta è del tutto inadeguato alle necessità del Paese, che in questa congiuntura coincidono con le necessità dal Pd. In Italia manca la sinistra, manca il partito dell’eguaglianza. L’abbiamo visto con l’emergenza sanitaria: la crisi in cui ci troviamo dipende dall’assenza della sinistra. Per quarant’anni, invece di rafforzare e ampliare il welfare, i governi lo hanno smantellato con tagli dissennati alla sanità e all’istruzione. Questo è avvenuto perché il brodo di coltura della nostra politica è stato il liberismo. La pandemia era stata annunciata, dall’Oms e perfino da Bill Gates: per fronteggiarla bisognava fare l’opposto di quello che è stato fatto. A questo serviva e serve la sinistra. Che nel “Palazzo”, Pd compreso, però non c’è.

L’estate fottutadei nostri timori

“Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua” (Celentano, Azzurro). E così, dopo averci fottuto il Natale, dopo averci fottuto le vacanze sulla neve, dopo averci fottuto la Pasqua, ci fotteranno anche l’estate. E visto che abbiamo preso la strada dei lockdown fin dall’inizio è la cosa più ragionevole da fare.

L’errore più grave del governo Conte è stato di aprire le gabbie la scorsa estate senza prevedere quello che i suoi stessi tecnici avevano previsto e del resto era ovvio: la seconda ondata. Errore cui si è aggiunto quello di non rinforzare adeguatamente i trasporti ricorrendo anche, se necessario, alla requisizione di mezzi privati. In un’economia di guerra, quale è quella in cui stiamo vivendo, si ricorre anche a metodi di guerra. Quando si sono violati tutti i diritti di libertà personale non si vede perché non si dovrebbe violare anche il sacro diritto di proprietà. Se il governo Draghi dovesse aprire le gabbie per l’estate ci sarebbe una quarta ondata che porterebbe a un nuovo lockdown che porterebbe successivamente a una riapertura e quindi a una quinta ondata, a una richiusura, in una spirale di cui non si intravede la fine. Né è lecito sperare troppo nei vaccini, come si sta facendo, perché il virus muta in continuazione. Ci sono già in circolazione quattro o cinque varianti che noi chiamiamo inglese, brasiliana, sudafricana, nigeriana solo perché la mutazione è stata individuata la prima volta in quei Paesi, magari lontani e le riteniamo perciò meno preoccupanti, ma in realtà si tratta sempre dello stesso virus, sia pur mutato, tant’è che la cosiddetta ‘variante inglese’ copre già i due terzi del nostro territorio e quindi non è affatto inglese. In ogni caso, il commissario straordinario, generale Figliuolo, prevede che si raggiungerà l’immunità dell’80% della popolazione a fine settembre. Estate fottuta quindi. Si salveranno solo quelli che abitano in regioni di mare, perché benché il nostro, con Draghi, sia diventato a tutti gli effetti uno Stato di polizia, dubito molto che la pula riesca a far sloggiare dalle spiagge i bagnanti, ma sarebbe meglio dire gli aspiranti tali perché negli ultimi anni ho notato che sempre meno persone nuotano, preferiscono starsene sul bagnasciuga o là dove si tocca. Evidentemente temono di sentirsi male in acqua e di lasciarci le penne. Non c’è altra ragione, perché in un mare dove si conoscono le correnti non si corre alcun pericolo nemmeno se è leggermente mosso (solo Sgarbi, questo “D’Annunzio de noantri”, è riuscito a farsi abbattere, con un effetto irresistibilmente comico, da un’ondina di 30 centimetri). La bandiera nazionale è diventata la paura, non è più il Tricolore.

L’Italia è una penisola in mezzo al Mediterraneo e quindi la maggioranza delle nostre regioni è bagnata dal mare, ma ce ne sono alcune, molto popolose, Lombardia e Piemonte, che non lo toccano. Cesare Pavese e Paolo Conte hanno cantato in modo magistrale cosa significhi il mare per chi abita “al di qua delle colline”. Mare ed estate coniugano il più proibito dei nomi: felicità. È d’estate, al mare, che si intrecciano gli amori come raccontano decine e decine di canzoni, almeno le canzoni di un tempo, quelle di oggi parlano più volentieri di soldi. Niente felicità per milanesi e torinesi. Ed è, forse, un giusto contrappasso perché hanno distrutto la Riviera ligure, coprendola di cemento, da La Spezia a Ventimiglia (con l’eccezione virtuosa delle Cinque Terre).

Dice: se non puoi andare “al di là delle colline” puoi andare però sulle colline (in montagna no, alla tua età fa male per la pressione) e lì stai al fresco e ti riposi. Gli è che è un riposo che somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. È pieno di vecchi perché i vecchi al mare non ci vanno ritenendo, non a torto, che faccia male. Allora il lago. Ho vissuto per dieci anni, sia pure a mezzadria, a Lugano e ogni volta che guardavo il lago mi veniva in mente il mar (“vide un lago ed era il mar”, il Prode Anselmo). Il lago mi mette una “infinita tristeza”. Allora fattene una ragione e resta a Milano. Luglio è il mese più caldo dell’anno e Milano è un forno avvolto dalla caligine (niente cielo azzurro, caro Adriano) con un insopportabile effetto phon, un forno comunque trafficatissimo dalle automobili perché per ragioni storiche (la Fiat e tutto il suo enorme indotto si fermava solo ad agosto) gli italiani a luglio restano in città. Di persone in giro invece non se ne vedono, per il caldo i milanesi non osano uscire di casa, si fanno lockdown da soli. Se sopravvivo mi divertirò a mandare i conti dei morti e degli impazziti per il caldo, a Milano, a Draghi e ai suoi generali.

Insomma il terrorismo epidemiologico delle Autorità, appoggiato da un poderoso apparato massmediatico, quando non ci toglie la vita ci toglie ciò che è più importante: la voglia di vivere. È vero che una coscienza che si spegne si spegne per sempre. Ma è altrettanto vero che il tempo perduto è perduto per sempre. Il tempo non torna indietro. Penso, poniamo, ai ragazzi e alle ragazze di 14 e 15 anni che vengono derubati del periodo più inquieto, ma anche più denso della vita: l’adolescenza. Ed è anche vero che, secondo le statistiche (viviamo ormai di statistiche), l’età media dei morti per Covid è di 81 anni per gli uomini e 86 per le donne. C’è un’età in cui è decente morire e, in certe condizioni, è indecente vivere.

Il terrorismo epidemiologico non è che una specializzazione del terrorismo diagnostico che a sua volta è figlio del principio assunto dalla Scienza medica secondo la quale il prolungamento della vita è il suo principale fine e il bene supremo. Secondo questa ideologia dovremmo fare, qualsiasi età si abbia, sei check-up l’anno, non bere, non fumare. Dovremmo vivere da vecchi fin da giovani. Siamo tutti “a rischio”. È ovvio: è vivere che ci fa morire.

Già Max Weber, nel 1918, aveva messo in dubbio questa impostazione: “La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di essere vissuta. Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini” (Il lavoro intellettuale come professione). Ma ciò involge una questione che va oltre la tecnologia medica e riguarda la Tecnica in se stessa. È stato Martin Heidegger ad affrontare il fondamentale problema della Tecnica e della sua ambivalenza, dei suoi effetti positivi e negativi sulla nostra vita. Heidegger è l’ultimo filosofo degno di questo nome (non possiamo considerar tali Cacciari e simili, che, come dice Ivano Fossati, sono, se va bene, dei docenti di filosofia. Del resto la filosofia è greca e tedesca). E Heidegger era attivo negli anni Trenta del Novecento. Vuol dire che da allora non c’è più un pensiero che pensi sé stesso. Heidegger conclude la sua poderosa riflessione con questa frase semplice, semplice: “Dio ci salvi dalla Tecnica”. Se Dio non ci pensa, pensiamoci noi.