Csm e nomine, retromarcia sul no alla riforma Bonafede

Sulla riforma del Csm dell’ex ministro Alfonso Bonafede, bollata dalla Sesta commissione come un tentativo anticostituzionale di imbrigliare il Consiglio, c’è una retromarcia dei “togati”, inizialmente d’accordo con questa accusa contenuta in premessa e nella prima parte del parere. La reazione di dissenso dei laici, ieri in plenum, a inizio dibattito sul parere, ha provocato il ripensamento: non vogliono passare per coloro che fanno finta che non sia esistito lo scandalo nomine. Lo scontro sotterraneo tra laici da una parte e togati dall’altra (non tutti come vedremo) ieri è emerso durante il plenum con parole forti. È uno dei professori, Alberto Maria Benedetti, consigliere laico M5S, a bocciare per primo il capitolo numero 1, sui paletti che il Consiglio deve seguire sulle nomine: relatrice Elisabetta Chinaglia, togata di Area, in Commissione quella parte è stata votata all’unanimità, pure cioè dai laici che ieri ne hanno preso nettamente le distanze, Fulvio Gigliotti, M5s e Alessio Lanzi, FI.

Benedetti, in risposta alla introduzione del parere, che parla di “ridimensionamento delle attribuzioni al Consiglio” derivanti dalla Costituzione – ma anche da pronunce del Consiglio di Stato – ribatte che ci si trova di fronte a errori “tecnico-giuridici”, “metodologici” e di “opportunità politica” nel senso che “non c’è un legislatore capriccioso e arbitrario che decide di incidere sulle nomine, ma interviene in un contesto ben preciso (lo scandalo nomine, ndr). Si rischia di fare un autogol, sembra che si voglia dire ‘non disturbateci, vogliamo continuare come abbiamo sempre fatto’”. Per non parlare degli errori tecnici, prosegue, visto che si chiamano in causa, a torto, la Costituzione, la Consulta e in modo “patetico” anche la giustizia amministrativa. Concordano “pienamente” non solo gli altri laici M5S, Filippo Donati e Gigliotti, che danno anche loro una lezione di diritto costituzionale ai togati sulle prerogative del legislatore, ma pure Stefano Cavanna ed Emanuele Basile della Lega, Alessio Lanzi di FI, che però si “allarga” e ribadisce il suo cavallo di battaglia sulla magistratura che scavalca la politica invece di limitarsi ad applicare la legge. I togati Giuseppe Cascini e Nino Di Matteo prendono le distanze da Lanzi a difesa della magistratura.

Ma tornando alla riforma, sulla questione delle nomine Di Matteo sta con i laici, uniti al di là dei partiti che in Parlamento li hanno indicati: “Non c’è l’intenzione di ridurre l’autonomia del Consiglio. I magistrati hanno un diffuso interesse a che vengano poste regole certe sui criteri per le nomine, sono le prime vittime di un sistema che alcuni hanno alimentato”. Anche Giuseppe Marra, altro togato, di Autonomia e Indipendenza, dissente dal parere: “Non credo che il legislatore riduca la discrezionalità del Consiglio. Il ritorno alle fasce di anzianità, per esempio, è una garanzia contro il carrierismo, l’altra faccia del correntismo, una scelta saggia e opportuna”. E Cavanna: “Deve essere chiaro che noi laici siamo a tutela della magistratura, ma quale organo dello Stato ha avuto i nostri problemi? Nessuno”. I togati di Magistratura Indipendente cercano una mediazione: Loredana Miccichè, che da componente della Sesta quel parere l’ha votato, riconosce che “effettivamente la premessa è troppo forte”, vanno messe “in rilievo le criticità, ma nelle conclusioni”. La relatrice Chinaglia formalizza il passo indietro dopo la sfilza di critiche e prende atto che “a fronte di un parere votato all’unanimità in Commissione si sono registrati tanti interventi soppressivi”, ammette che “c’è stata fretta, che è bene riflettere” ed è convinta, come Cascini, che si potrà trovare “un punto comune perché – sostiene – non c’è chi vuole portare la moralizzazione e chi no”. Togati preoccupati, compreso il relatore Ciccio Zaccaro, sul punto della riforma che riduce da 4 a 2 i passaggi di funzione dei magistrati da pm a giudice e viceversa: “È un passo verso la separazione delle carriere”. Il dibattito prosegue oggi.

Il mutismo di Draghi? “Colpa dei giornalisti”

Se ne stanno accorgendo pure i sostenitori più scodinzolanti: Mario Draghi ha un problema. Da quando è presidente del Consiglio non ha mai risposto nemmeno a una domanda. Ma siccome Super Mario non sbaglia, per definizione, la responsabilità non può essere sua. Sapete di chi è la colpa? Dei giornalisti. Questa teoria immaginifica porta la firma di Michele Anzaldi, il cerbero renziano in Vigilanza Rai. Dopo aver combattuto per un anno e mezzo la “propaganda Minculpop” di Casalino a Palazzo Chigi, Anzaldi ora è impegnato a tempo pieno nel sottolineare le meraviglie del nuovo esecutivo. Ma pure lui s’è dovuto piegare all’evidenza: la comunicazione di Draghi non esiste. “Trovo molto positivo l’inizio del governo – spiega Anzaldi con cautela –, ma nell’ambito della comunicazione dovrebbe migliorare”. Come? “Con l’aiuto dei giornalisti”. Anzaldi dice sul serio: “La visita presidenziale al Centro vaccinale di Fiumicino, l’altro giorno, è passata quasi sotto silenzio. Recarvisi senza accettare alcuna domanda era inaccettabile fino a qualche anno fa. Il fatto che i giornalisti non facciano più domande al premier non è accettabile!”.

Casellati dice no alle interrogazioni su Bin Salman

Al Senato è vietato parlare del Renzi d’Arabia: Maria Elisabetta Alberti Casellati non vuole. E così rischia di finire nel cestino un’interrogazione urgente del vice capogruppo del M5S a Palazzo Madama nonché responsabile dell’Area internazionale, Gianluca Ferrara. Che si è permesso di chiedere lumi sulla discussa intervista al principe Mohammed bin Salman del leader di Italia Viva. E soprattutto sulla partecipazione al board della Future Investment Initiative Institute (FII) che gli frutta 80 mila euro all’anno. Motivo? “Dall’ufficio sindacato ispettivo a cui mi sono subito rivolto per avere chiarimenti, mi hanno riferito che la Presidenza ha sospeso la pubblicazione per via dell’argomento trattato nell’interrogazione” spiega Ferrara. Che a quel punto ha alzato ancora il telefono per parlare direttamente con la Casellati, ma senza successo. “Dai piani alti di Palazzo mi hanno detto che sarei stato ricontattato da lei in persona o dal suo segretario. Ma sto ancora aspettando. Spero che vorrà chiarire questa vicenda, anche perché alla Camera interrogazioni di contenuto analogo sono state ammesse senza alcun problema”. Ma cosa c’è scritto di tanto sca- broso nell’interrogazione su cui pare calata la mannaia presidenziale? Ferrara ha rimarcato i rapporti tra Renzi e Riyad risalenti all’epoca in cui guidava il governo che “autorizzava una fornitura per 19.675 bombe aeree Mk 80 – prodotte in Sardegna dalla Rwm Italia – dal valore di 411 milioni di euro proprio all’Arabia Saudita, dopo che le Nazioni Unite avevano condannato i bombardamenti indiscriminati della Royal Saudi Air Force su obiettivi civili in Yemen”. E quindi ha chiesto al neo inquilino Mario Draghi se intenda intraprendere iniziative, anche normative “per assicurare l’indipendenza dei Parlamentari e dei membri del governo e prevenire futuri casi di interferenza straniera o conflitti d’interessi con Paesi esteri”. Come ha del resto fatto anche Giuseppe Audino, altro pentastellato che si è visto respingere un’interrogazione sempre su Renzi che è membro della commissione Difesa del Senato, leader di un partito che “esprime ministri e sottosegretari, i quali contribuiscono a decidere l’indirizzo politico del governo italiano” e allo stesso tempo “nel Comitato consultivo di un fondo sovrano di un altro Stato che promuove gli interessi internazionali di quello stesso Stato con cospicuo compenso e altri benefit”. Ma il bavaglio è toccato anche a Elio Lannutti, che qualche giorno fa si era visto depennare un’interrogazione sulla consulenza affidata dal Mef al colosso americano McKinsey per la stesura del Recovery, poi riammessa solo dopo che l’ex 5Stelle ha fatto il diavolo a quattro. Ma è una lotta quotidiana al bavaglio dopo la direttiva della Casellati del 2018. Con cui Sua Presidenza ha imposto il nuovo corso che le consente di cestinare a più non posso: non possono essere più presentate interrogazioni e interpellanze al governo che riguardino organi costituzionali coperti da guarentigie, Autorità indipendenti, organi sovranazionali, ma anche partiti politici e molto altro. Ai senatori non resta che chiedere conto del meteo. Forse.

Riecco. Renzi “globe-trotter”. Parte la campagna d’Africa

Più che senatore, Matteo Renzi è ormai un globe-trotter. Le trasferte internazionali dell’ex presidente del Consiglio non hanno confini. I prossimi viaggi saranno in Africa: Senegal e Kenya, poi forse anche Ruanda. La partenza per Dakar dovrebbe essere imminente, forse subito dopo il 20 marzo, data della prossima assemblea nazionale di Italia Viva.

Stavolta non si tratta di conferenze a pagamento, come nel caso del famigerato duetto con Mohammad bin Salman, il principe ereditario della famiglia reale saudita che fu omaggiato dall’ex premier come protagonista di un “nuovo Rinascimento” (e invidiato per il costo del lavoro in Arabia Saudita).

Per i viaggi in Africa di Renzi non ci sarà nessuna lucrativa attività da conferenziere, il senatore di Scandicci parte per rinsaldare il capitale di rapporti personali e relazioni istituzionali che si è costruito nel corso della sua carriera politica. Renzi continua a “fare rete” come quando era ai vertici dello Stato italiano: a Dakar incontrerà il presidente Macky Sall, in Kenya dovrebbe vedere il presidente Uhuru Kenyatta. Con entrambi c’è un rapporto amichevole che risale proprio agli anni di Renzi a Palazzo Chigi: Sall e Kenyatta sono stati ricevuti a Roma, a sua volta Renzi è stato accolto nelle sedi istituzionali dei due Stati africani (a Nairobi nel 2015 si presentò con un corpetto antiproiettile sotto la giacca: una “umiliazione”, come la definirono i media locali, che evidentemente non ha compromesso i rapporti tra i due leader).

Nelle sue escursioni africane, Renzi potrebbe non essere solo: è tutt’altro che infrequente, fa sapere, che nei suoi viaggi sia seguito da imprenditori interessati a “fare network” con gli interlocutori istituzionali dell’ex presidente del Consiglio. Ma in questo caso, la circostanza che il senatore possa essere accompagnato in Africa da alcuni imprenditori lombardi (come risultava al Fatto) è stata smentita da Renzi stesso. Le trasferte in Africa subsahariana sono le prime di una lunga serie di viaggi che ha in programma il senatore di Scandicci (e che conta di realizzare anche a seconda dell’evoluzione del quadro pandemico): nelle prossime settimane ha intenzione di partire per il Sudamerica (probabilmente in Argentina), mentre a giugno dovrebbe essere in Grecia.

Finora le sue uscite internazionali non sono state fortunate, almeno per il ritorno d’immagine presso l’opinione pubblica nazionale. È già stato citato l’inciampo della conferenza saudita, nella quale Renzi ha lodato il giovane leader di uno Stato autoritario, poche settimane prima che l’Amministrazione Biden divulgasse il rapporto dell’intelligence americana che conferma le responsabilità di Bin Salman nella cattura e nell’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi.

Più di recente sulle cronache politiche è finito il viaggio di Renzi a Dubai, nel quale l’ex presidente del Consiglio sarebbe stato accompagnato dall’amico Marco Carrai, imprenditore e presidente di Toscana Aeroporti. Renzi non ha voluto spiegare le ragioni della sua trasferta nella Capitale degli Emirati Arabi, ma ha minacciato di querela i primi due giornali che hanno pubblicato la notizia del viaggio, La Stampa e The Post internazionale, accusati di aver divulgato delle circostanze diffamatorie sul suo viaggio.

Insomma: Matteo Renzi continua a girare il mondo senza farsi troppi problemi, impermeabile alle cautele imposte dalla pandemia (d’altra parte i parlamentari non sono sottoposti alle norme sulla quarantena) e insensibile alle richieste di chiarimenti di chi lo accusa di mescolare “politica e affari” (come Nicola Fratoianni) o di confondere il suo ruolo istituzionale di senatore con i suoi interessi di privato cittadino. Continua a partire alternando l’attività di conferenziere e la frequentazione di leader e capi di Stato; gli interessi economici e il prestigio personale. In Parlamento lo si vede meno, i numeri di Openpolis dicono che tra assenze e missioni ha saltato quasi il 60% delle votazioni del Senato. Ma questa è un’altra storia.

L’ideona. Mattarellum che dà “pieni poteri”: vince sempre la destra

Per chiedere di tornare al “Mattarellum”, Enrico Letta si è ispirato alla dottrina dei suoi padrini politici della sinistra Dc, Beniamino Andreatta e Roberto Ruffilli: le coalizioni si devono formare prima del voto e non dopo, come prevedono i sistemi proporzionali in stile Prima Repubblica. Peccato però che stavolta l’effetto del Mattarellum, alla luce del taglio dei parlamentari, sarebbe nefasto per il centrosinistra: il centrodestra stravincerebbe le prossime elezioni. E non solo: con il Mattarellum il rischio dei “pieni poteri” a Salvini è molto concreto perché, secondo le simulazioni, la coalizione di centrodestra si avvicinerebbe ai due terzi dei seggi necessari per modificare in solitaria la Costituzione.

Il leader della Lega nel frattempo dice che il Rosatellum in vigore oggi “va bene” ma nel Carroccio, con l’assenso di Giorgia Meloni, direbbero sì anche al Mattarellum: in ognuno dei due casi il centrodestra avrebbe una maggioranza ampia facendo il pieno nei collegi uninominali. Una situazione win-win. È questa la conclusione di una simulazione condotta nelle ultime ore da YouTrend/Cattaneo, Zanetto &c. che ha incrociato i dati degli ultimi sondaggi con il sistema di voto utilizzato per le elezioni del 1994, 1996 e 2001. La legge, ideata dall’allora deputato democristiano e oggi presidente della Repubblica, fu definita con disprezzo “Mattarellum” da Giovanni Sartori che ne criticava l’impianto da “minotauro” (corpo proporzionale e testa maggioritaria): il 75% dei parlamentari viene eletto nei collegi uninominali, il restante 25% con le liste (bloccate) proporzionali. Se si votasse oggi i risultati sarebbero questi.

Scenario 1. In questo caso le coalizioni sono le stesse del 2018: centrodestra unito, Pd e M5S divisi. La coalizione Lega-FI-FdI arriverebbe a ottenere tre quarti dei seggi, sfiorando l’80% sia alla Camera (318 su 400) che al Senato (159 su 200), facendo il pieno nei collegi uninominali. È uno scenario piuttosto improbabile perché è difficile che i giallorosa possano correre divisi alle prossime Politiche.

Scenario 2. Il secondo scenario prevede la sfida tra la coalizione di centrodestra e quella di centrosinistra che ha sostenuto il Conte-2 (Pd-M5S-LeU), ma senza i centristi di Azione, Italia Viva e Più Europa. Anche in questo caso però non ci sarebbe partita: il centrodestra supererebbe il 60% dei seggi sia alla Camera (250 su 400) che al Senato (123 su 200). Un risultato che porterebbe la coalizione di Salvini a sfiorare i due terzi dei seggi in Parlamento necessari per cambiare la Carta.

Scenario 3. Infine è possibile che alle prossime elezioni si sfidino due grandi blocchi: il centrodestra unito e una coalizione larga di centrosinistra che comprenda anche i renziani e il partito di Calenda. In questo caso la partita sarebbe più aperta con un sostanziale pareggio: alla Camera il centrodestra avrebbe 201 seggi contro i 187 del centrosinistra, mentre al Senato la situazione si ribalterebbe con 100 seggi al centrosinistra e 93 al centrodestra. Questo scenario è piuttosto improbabile perché è molto difficile che il M5S di Giuseppe Conte sia in coalizione col partito – Italia Viva di Renzi – che ha fatto cadere il suo governo.

Perché questi risultati? “La destra va molto forte nei collegi uninominali – spiega Alessio Vernetti di YouTrend – per questo la proposta di Letta ha stupito un po’ tutti: probabilmente il suo obiettivo è quello di creare una coalizione più ampia possibile, l’unico modo che ha il centrosinistra per essere competitivo”.

Ma, proprio alla luce della simulazione, la scelta di Letta di puntare sul Mattarellum non piace a molti, nel centrosinistra e anche nel Pd. “Il combinato disposto tra taglio dei parlamentari e il Mattarellum porterebbe a un effetto ipermaggioritario – attacca il capogruppo di LeU Federico Fornaro – l’obiettivo della prossima legge elettorale deve essere quello di mettere in sicurezza la Costituzione e questo si può fare solo con un proporzionale”.

Retro-marcia su Roma. Letta fa bloccare Gualtieri

A Roma si azzera tutto e si ricomincia daccapo: almeno nel Pd. Ieri il neo segretario Enrico Letta ha incontrato Roberto Gualtieri e gli ha ribadito che “la fuga in avanti” sulla candidatura al Campidoglio non gli è piaciuta. Nel colloquio, Letta ha spiegato che per lui è essenziale il metodo, e che deve ancora prendere in mano il dossier Roma. L’indicazione di un candidato verrà dopo.

Gualtieri sapeva dell’irritazione del segretario e ha fatto subito un passo indietro. “Non ho ancora deciso, e le indiscrezioni non sono partite da me” ha assicurato. Della partita di Roma si riparlerà in aprile, ripartendo dai tavoli locali. Sullo sfondo c’è l’ipotesi primarie, ma Letta non ha deciso. Invece ieri ha parlato anche con Carlo Calenda, candidatosi mesi fa a sindaco, e oggi dovrebbe incontrarlo. Nel Pd c’è chi ritiene che il segretario valuti anche questa opzione. Ma con Calenda in campo, un accordo al secondo turno con il M5S sarebbe impossibile. Di certo Letta vuole quanto prima affrontare il tema complessivo delle Comunali con Giuseppe Conte, che fino a Pasqua lavorerà al progetto di rifondazione dei 5Stelle. Nell’attesa, ha iniziato con un certo decisionismo. Ieri ha nominato i due vicesegretari: Irene Tinagli (vicaria) e Peppe Provenzano. Una scelta che guarda agli equilibri del partito, ma soprattutto al profilo del nuovo Pd. I due sono entrambi nativi dem e under 50. Il primo, già direttore dello Svimez, saggista, ministro uscente del Sud, è vicino alle posizioni di Andrea Orlando. Tinagli è presidente della Commissione economica del Parlamento europeo, quella in precedenza guidata da Gualtieri. Economista e accademica, era stata nel gruppo che ha redatto lo statuto del Pd. Poi deputata con Scelta civica, alle Europee si era candidata con il Pd per Siamo europei di Calenda, ma quando è nata Azione è rimasta nei dem. Con entrambi Letta ha ottimi rapporti, ma Tinagli è anche nel board della Scuola di Politiche.

Nessuno dei due è esattamente ascrivibile a una corrente, anche se il primo parla al mondo di sinistra, la seconda al centro. L’economista poi va bene anche a Base Riformista: non è organica alla corrente (che però l’ha appoggiata alle Europee) e ha un ottimo rapporto con Lorenzo Guerini. In settimana, Letta nominerà la segreteria. Sceglierà profili nel partito ma anche fuori. In questi giorni, possibile anche un incontro con Mario Draghi. L’idea è quella di costruire un metodo e delle sedi per il rapporto con il governo.

Ferrovie, la storia di un affare per pochi

Poche storie come quella dell’Alta velocità ferroviaria, o meglio delle ferrovie in Italia, raccontano meglio il declino di un Paese che ha perso sfide importanti per modernizzarsi e che continua a snobbare le valutazioni negli investimenti pubblici.

Dopo il conflitto bellico, l’Italia scelse di ricostruire la sua rete dei binari senza puntare sull’innovazione tecnologica (come fece il Giappone con la rete veloce degli Shinkansen). Tutto venne rifatto “com’era e dov’era” mai immaginando l’arrivo della motorizzazione di massa. Le ferrovie hanno perso rilievo accumulando deficit. Agli inizi degli anni 90, per importare l’Alta velocità si scelse il sistema più costoso possibile: nuova rete separata, “alla francese”, ma con caratteristiche tecniche adatte anche per le merci, “alla tedesca”.

Le Fs , guidate da Lorenzo Necci, decisero per un sistema a T (Torino-Venezia e Milano-Napoli), finanziato per il 60% dal mercato e per il 40% dallo Stato. A un brillante economista dei Trasporti, Marco Ponti, fu chiesto di valutare il modello finanziario. Ponti arrivò alla conclusione che non stava in piedi: lo Stato si sarebbe accollato tutto. Gli venne risposto che “era necessario simulare una forte partecipazione del capitale privato per rendere politicamente accettabile il piano” e che lo avrebbero mantenuto a libro paga. L’analisi costi-benefici sociali fu affidata ad altri e fatta non per tratte ma nel suo insieme, vanificando l’analisi. Necci affidò l’Av senza gara ai sette consorzi guidati dall’Iri e dall’Eni (pubblici) e dalla Fiat e dalla Montedison (privati) per tagliare fuori la concorrenza straniera. Lo Stato ha speso oltre 90 miliardi.

Ponti aveva ragione. Ed è anche solo per questo che oggi è utile leggere L’ultimo Treno, edito da Paper First, dove ricostruisce, insieme all’ingegnere esperto di trasporti Francesco Ramella, una storia presentata sempre come un successo da una stampa compiacente. Ponti è stato consulente di cinque ministri – e collaboratore del Fatto fin dalla sua nascita – un raro esempio di esperto in grado di unire passione civile e rigore accademico, sempre cercato dai ministri di ogni colore che quasi sempre ha mollato quando gli sono state imposte scelte non condivisibili (è successo col governo gialloverde dopo la bocciatura di Tav, Terzo Valico etc.).

Il libro è una miniera d’oro di informazioni. Le Fs sono un campione nazionale presentato come profittevole, ma incassano un flusso enorme di trasferimenti pubblici motivati dal loro servizio sociale, di cui però è difficile valutare i benefici sociali e ambientali perché nessuno dice quali sono i parametri. Sussidiare le imprese non è un male, ma la trasparenza è d’obbligo. I sussidi mantengono le tariffe basse per gli utenti, che non si lamentano, ma non coprono gli investimenti. Dati chiari e pubblici non esistono. Per la prima volta, Ponti e Ramella riescono a tracciare un bilancio. Tra il 1990 e il 2016 le spese sono state di 555 miliardi, i ricavi 117 miliardi: lo sbilancio è a carico dello Stato, eppure le ferrovie soddisfano solo il 6% della mobilità. È un settore dove il regolatore è stato catturato nell’acquiescenza di tutti (i benefici son saliti nell’Av grazie alla concorrenz, assente nel trasporto locale). Dagli anni 90, le grandi opere ferroviarie sono state sempre sottratte alle analisi costi-benefici, con l’ok dell’Ue. Il conto è stato salato e i benefici, anche ambientali, poco chiari. Oggi che il Recovery stanzia altri 20 miliardi, sarebbe utile affidarsi davvero a valutazioni indipendenti. Il libro illustra perché non accadrà nemmeno questa volta.

L’intergruppo dei “pontisti”: tutti dentro, pure Pd e destra

In una manciata di ore il Ponte sullo Stretto ha già fatto il botto. Sì, perché l’intergruppo parlamentare promosso da Forza Italia, Lega e Italia Viva per sponsorizzare la realizzazione dell’opera più contestata di sempre, è gettonatissimo. La “strettista” berlusconiana Matilde Siracusano, che sta raccogliendo le adesioni, non sta nella pelle e già canta vittoria: “A non volerlo è una minoranza esigua. Alla fine diranno no solo i 5Stelle e pure tra loro c’è chi è a favore, ma non può confessarlo”.

Fatto sta che il fronte dei favorevoli al Ponte si è già allargato: già si contano le adesioni di un paio di parlamentari del Pd, Vincenza Bruno Bossio e Pietro Navarra, e a breve dovrebbero rispondere “Presente!” anche quelli di Fratelli d’Italia, pure loro favorevolissimi all’opera. La quale, per il partito delle ruspe, s’ha da fare, costi quel che costi: Matteo Salvini, anzi, là dà per fatta tanto che ha già promesso a Mario Draghi di intitolargli il ponte a imperitura memoria, altro che Quirinale.

“L’altro giorno abbiamo strutturato la squadra che vuole essere trasversale su quest’opera indispensabile”, dice al Fatto la Siracusano rivendicando la primogenitura dell’iniziativa che non lascerà a suo dire indifferente l’esecutivo da poco insediato a Palazzo Chigi. “Il governo – dice la forzista – nasce nello spirito dell’unità e per mettere a terra progetti su cui c’è una larga condivisione. E il Ponte è un’opera condivisa eccome, anche nel Pd, sebbene da quelle parti si preferisca chiamarlo ‘attraversamento stabile’ per pudore. Ma sempre Ponte è. O no?”.

Che il progetto abbia fan anche al Nazareno lo sa bene Matteo Renzi che nel 2016, quand’era a Palazzo Chigi, si era fatto carico di riaccendere le speranze dei costruttori del gruppo Salini-Impregilo (oggi WeBuild), parte del consorzio che ancora pretende un risarcimento da 700 milioni di euro dallo Stato, oltre a rivalutazioni e interessi, per lo stop all’opera imposto nel 2012. Il capo di Italia Viva del resto non vede l’ora di spaccare quel che rimane dell’asse M5S-Pd e riuscirci col Ponte sullo Stretto, uno dei piedi di porco usati per far deflagrare il governo Conte, sarebbe il massimo.

E così la già pentastellata Gelsomina Vono, oggi renzianissima, è tra quelli che si danno più da fare per rilanciare la storia del Ponte. L’altro giorno, insieme alla Siracusano, Armando Siri del Carroccio e la dem Bruno Bossio hanno partecipato a un webinair organizzato dalla Rete civica per le Infrastrutture per ascoltare l’eterno Ercole Incalza, l’ex mega dirigente delle Infrastrutture rimasto impigliato in diverse inchieste giudiziarie che per gli strettisti è diventato uno spirito guida. Di lì è nata l’idea d un intergruppo che sia più largo e politicamente pesante possibile: d’altra parte, prima o dopo, il ministro per le Infrastrutture Enrico Giovannini dovrà venire allo scoperto e sciogliere la riserva su un dossier che per lui è una buccia di banana.

L’altro giorno, per esempio, ha detto in audizione alla Camera di essere in attesa che la Commissione di valutazione sul Ponte insediata al Mit ai tempi di Paola De Micheli, termini i suoi lavori. Deve rifare una discussione chiusa 50 anni fa: meglio il Ponte o un tunnel alveo o sub-alveo?

Ma il dossier è già bell’e pronto da dicembre e ai 16 membri dell’organismo ministeriale, il neo ministro Giovannini non ha chiesto integrazioni istruttorie: insomma allo stato non c’è altro che la Commissione debba dire rispetto a quanto contenuto nelle 200 pagine fitte fitte già consegnate alla De Micheli e in cui, par di capire, viene evidenziata la necessità di realizzare l’ennesimo studio di fattibilità dell’opera da cui sono attesi favolosi benefici, specie se in connessione con l’Alta velocità Salerno-Reggio.

E la Sicilia? Si frega le mani chi finora ha proposto l’Alta velocità senza riuscirvi: il Ponte, o anche solo il progetto, spalancherebbe le porte anche a questo altro affarone. Altro che mettere mano alle infrastrutture elementari che ancora languono.

Guerra a Bose, il Vaticano spara pure sui soldi

Non c’è pace a Bose. La dura presa di posizione di padre Bianchi contro il suo allontanamento e il suo rifiuto di trasferirsi nella sede di Cellole (San Gimignano) concessagli in comodato d’uso dalla Comunità – condizioni “disumane e offensive della dignità” sua e dei confratelli che lo avrebbero accompagnato nella nuova destinazione – ha avuto pronta e altrettanto dura risposta vaticana. Secondo il delegato pontificio, padre Amedeo Cencini, non è vero che il trasferimento avverrebbe “senza sapere né identità né numero dei fratelli e delle sorelle che sarebbero andati a vivere” con padre Bianchi. Almeno sette monaci, infatti, sarebbero stati disposti a trasferirsi. Secondo il delegato pontificio, poi, “il comodato d’uso gratuito non indica affatto la possibilità di ‘cacciare’ il comodatario, ma garantisce il comodante da un uso dei beni difforme da quanto pattuito”. Inoltre, “contrariamente a quanto affermato da Enzo Bianchi, né il decreto né tantomeno il comodato d’uso contengono alcun divieto a ‘condurre vita monastica’, ma solo a ‘fondare comunità, associazioni o altre aggregazioni ecclesiali’. Chi vi andrà sarà libero di vivere il tipo di vita (monastica) che desidera, in piena libertà”.

Padre Cencini, cosa mai esplicitata prima, si sofferma anche sulle questioni di vil denaro e sulle possibilità di mantenersi: “Il comodato d’uso gratuito – afferma – fa esplicitamente carico al comodatario ‘di tutte le spese sostenute per servirsi, lui e tutte le persone ivi domiciliate, degli immobili stessi (…) come pure le spese di manutenzione ordinaria degli immobili’, nonché di ‘tutte le spese personali, proprie e delle persone domiciliate con lui per prestargli assistenza’”. “Tutto questo – aggiunge – in quanto il comodatario stesso dispone di adeguati mezzi di sussistenza personali, come da me appurato, nel corso del mio operato per l’esecuzione del decreto singolare del 13 maggio 2020”.

Caso Palamara, ora la Procura di Perugia apre indagine sul disciplinare a Woodcock

Le chat di Luca Palamara, e pure le sue dichiarazioni mediatiche, fanno aprire un nuovo fascicolo alla Procura di Perugia: sul processo disciplinare ai pm di Napoli Henry John Woodcock e Celeste Carrano, accusati e poi assolti per presunte scorrettezze durante l’indagine su Consip. Il fascicolo è stato aperto per capire come mai la sentenza non sia stata emessa dal collegio di cui faceva parte Palamara, presieduto da Giovanni Legnini. Secondo quanto risulta al Fatto, nei giorni scorsi, il Csm ha trasmesso, su richiesta, l’incartamento di quel processo alla Procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone, che ha aperto un’indagine per ora contro ignoti. Secondo la versione di Palamara mai smentita né dall’ex vicepresidente del Csm Legnini né dall’attuale consigliere del Csm Giuseppe Cascini, chiamati in causa, quel processo disciplinare a Woodcock e a Carrano fu rinviato all’esame dell’attuale Consiglio perché Legnini avrebbe espresso, in mezzo al processo, un giudizio negativo su Woodcock con Cirino Pomicino. L’ex ministro avrebbe riferito del presunto atteggiamento preconcetto di Legnini verso Woodcock mentre era intercettato indirettamente per l’inchiesta Consip della Procura di Napoli, trasmessa poi per competenza a Roma. Di un motivo “segreto” per il rinvio del processo disciplinare ai pm napoletani a un nuovo collegio, Palamara ne vorrebbe parlare alla stampa a scandalo nomine appena deflagrato, nell’estate 2019: si consiglia, intercettato, proprio con Legnini che gli dice: “Io la vicenda Woodcock non la sfruculierei, alla fine abbiamo rinviato… certo per quel motivo, però alla fine era anche una decisione ragionevole”. Quale motivo nascosto? Legnini risponde ad Antonio Massari che lo interpella per il libro Magistropoli edito dalla nostra PaperFirst: “Palamara mi aveva parlato di una intercettazione in cui Pomicino diceva di avermi incontrato… Nell’intercettazione avrebbe sostenuto che io mi ero espresso in termini non lusinghieri nei confronti di Woodcock… È vero che incontrai Pomicino ed è anche vero che lui si lamentò di Woodcock, ma io gli risposi soltanto che non potevo farci niente”. Sempre Palamara sostiene che di quella intercettazione, il 5 luglio 2018, gli avrebbe parlato Cascini, allora procuratore aggiunto di Roma. Il consigliere ha annunciato querela contro Palamara e nella mailing list dei magistrati ha scritto: “Non so se una tale intercettazione esista. Non parlo con Woodcock da anni e certamente non mi ha riferito il contenuto di una intercettazione del genere”.