Il chiasso della movida può costare caro, perché dormire è un diritto. Lo ha stabilito il Tribunale di Torino, che ha condannato il Comune a pagare un risarcimento di quasi 1,2 milioni di euro a 29 residenti del quartiere San Salvario. Nel 2018 i cittadini, esasperati dalle notti insonni, fecero causa alla Città “per non aver assunto le misure necessarie a contenere entro i limiti di legge i rumori notturni provocati dalla movida”. Secondo il giudice civile, che ha acquisito le rilevazioni acustiche eseguite nella zona, e le relazioni dell’Arpa tra il 2013 e il 2020, il Comune non adottò provvedimenti idonei a contenere il fenomeno della movida, “violando il diritto alla salute, al riposo e alla tranquillità notturna dei residenti”. “La decisione – commenta Paola Parmentola, residente di San Salvario e consigliera (Pd) della Circoscrizione 8 – può costituire un precedente in tutta Italia. Molti altri potrebbero muoversi per ottenere il riconoscimento del danno. D’ora in poi le amministrazioni dovranno tenerne conto”.
Eni-Nigeria, assolti Descalzi&C. Per i giudici non ci fu corruzione
Assolti, “perché il fatto non sussiste”. Non c’è stato alcun accordo corruttivo per aggiudicarsi la licenza dell’immenso campo petrolifero Opl 245, in Nigeria. Questa è la fulminate sentenza letta in aula dal presidente della settima sezione penale del Tribunale, Marco Tremolada. Assolto l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi. Assolto il suo predecessore, Paolo Scaroni. Assolti i manager Eni Roberto Casula, Ciro Antonio Pagano, Vincenzo Armanna. Assolti i mediatori Luigi Bisignani, Ednan Agaev, Gianfranco Falcioni. Assolti i manager Shell Malcom Brinded, Peter Robinson, Guy Colgate e John Coplestone. Assolte, infine, le società Eni e Shell.
Finisce così un’inchiesta, aperta otto anni fa, su quella che per la Procura di Milano, rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal sostituto Sergio Spadaro, era la più grande corruzione internazionale mai scoperta. La storia, uscita dalle aule di giustizia, potrebbe ora diventare un grande film con George Clooney, dove manager e spie internazionali, politici e faccendieri intrecciano una danza in cui i soldi, tanti soldi, scorrono tra Milano, Londra, Lugano, Beirut, Abuja. Tutto inizia nel 2010, quando un uomo d’affari nigeriano, Emeka Obi, propone a un italiano con affari in giro per il mondo, Gianluca Di Nardo, di entrare nella mediazione di un grande business internazionale: l’acquisto della licenza Opl 245, un campo d’esplorazione petrolifera al largo delle coste nigeriane. Di Nardo è amico di Luigi Bisignani (iscritto alla P2, più volte indagato e condannato per corruzione) e Bisignani è legato a Paolo Scaroni, allora amministratore delegato di Eni. Il contatto funziona: Obi, Di Nardo e Bisignani fanno incontrare Scaroni con Dan Etete, ex ministro del Petrolio nigeriano, che nel 1998, quando era al governo, aveva fatto assegnare la licenza Opl 245 a una sua società, Malabu: cioè a se stesso, al prezzo stracciato di 20 milioni di dollari. Si apre una trattativa che va avanti per mesi. Coinvolge, oltre a Obi ed Etete, l’allora numero due di Eni, Descalzi, e i suoi dirigenti in Nigeria, Casula e Armanna. Torna nell’affare anche Shell, che negli anni precedenti aveva già tentato (invano) di acquisire quel campo petrolifero. A novembre 2010 la trattativa s’inceppa. Eni si convince di non poter comprare la licenza da un ex ministro che se l’è intestata. Etete, oltretutto, era già stato condannato per riciclaggio in Francia. C’è un altro motivo, aggiungono i pm d’accusa, per cui lo schema salta: Bisignani si allarma quando viene a sapere di essere stato intercettato (per tutt’altra vicenda, l’indagine dei pm di Napoli Henry John Woodcock e Francesco Curcio sulla cosiddetta P4). Nelle intercettazioni parlava anche dell’affare nigeriano che era in corso e che aveva per protagonisti gli amici Scaroni e Di Nardo, “il ragazzo della giungla” (Obi), “il Ciccione (Dan Etete)”, “il signor Fortunato” (l’ex presidente della Repubblica Goodluck Jonathan). A fine 2010, Eni cambia lo schema dell’affare. Bisignani viene escluso e all’operazione “viene messo il preservativo”, come scrive The Economist in un articolo intitolato “Safe sex in Nigeria”: la trattativa è chiusa da Eni e Shell direttamente con il governo nigeriano. I giudici non hanno creduto all’accusa, secondo cui esisteva un patto corruttivo e il governo era “puro ‘dispositivo di protezione’ per evitare alle due società petrolifere rapporti diretti con un ex ministro del petrolio già condannato per riciclaggio”.
Ad aprile 2011 Eni e Shell firmano l’accordo con il governo. Prezzo stabilito: 1,3 miliardi di dollari. I soldi sono versati da Eni su un conto Jp Morgan aperto a Londra dal governo nigeriano. Poi però il denaro, 1,092 miliardi di dollari, si sposta. Il ministro nigeriano delle Finanze tenta di trasferirli, prima su un conto Bsi a Lugano, poi su una banca di Beirut. Respinti per sospetto riciclaggio. Nell’agosto 2011, JpMorgan riesce a spostarli su due conti nigeriani (presso la First Bank of Nigeria e presso Keystone Bank) di Malabu Oil and Gas. Da lì, Dan Etete li smista su diversi conti. Una grossa fetta è per sé; altre per gli ex ministri Adoke Bello e Bajo Ojo; 500 milioni sono ritirati e poi movimentati in contanti; 1,2 milioni sono girati ad Armanna; 215 milioni sono rivendicati da Obi come compenso della sua mediazione e gli sono riconosciuti da un tribunale di Londra. Quello che è certo è che neppure un cent resta allo Stato nigeriano. Nel Paese africano il 43 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. Dalla Nigeria proviene la maggioranza dei migranti africani che arrivano in Italia (80 mila negli ultimi cinque anni, di cui 22 mila minori). Ma Eni non ha commesso alcun reato, dice la sentenza.
Festeggiano e si abbracciano in aula le decine di avvocati delle difese. Soddisfatte Eni e Shell. Protesta Re:common, la ong che con le organizzazioni sorelle Global Witness e The Corner House nel 2013 ha dato il via all’indagine, con un esposto sul caso Opl 245: “La sentenza è molto deludente, ma non ci fermerà nel nostro sforzo di portare queste aziende a rispondere delle loro azioni. Attendiamo le motivazioni della sentenza e le spiegazioni che il Tribunale darà alle pesanti ombre emerse su questa vicenda nel corso dell’istruttoria dibattimentale. Ci auguriamo che il probabile processo d’appello possa ribaltare quanto deciso in primo grado”.
Scuole “fuorilegge”: disabili ghettizzati
Uno, dieci, cento pasticci di cui dovrà occuparsi il neo sottosegretario leghista all’Istruzione, con delega alla Disabilità, Rossano Sasso: in molte scuole non c’è disponibilità ad accogliere i piccoli gruppi di studenti in presenza previsti quando un alunno con disabilità o con bisogni educativi speciali (BES) chiede di rinunciare alla didattica a distanza e di tornare in classe. Una possibilità stabilita dal ministero che, però, in nome dell’autonomia scolastica viene continuamente disattesa rendendo di fatto le scuole dei “ghetti” (così li hanno ribattezzati genitori e docenti) per le fasce di studenti più deboli.
Con ordine: l’anno scorso, decreti e ordinanze hanno stabilito che anche in zona rossa debba essere sempre garantita la didattica in presenza agli studenti disabili e con bisogni educativi speciali “in ragione di mantenere una relazione educativa che realizzi l’effettiva inclusione scolastica”. Significa che si può far richiesta, qualora la didattica a distanza risulti impraticabile, e che gli istituti debbano garantire il servizio.
Una circolare dei giorni scorsi ha poi specificato che “le istituzioni scolastiche non dovranno limitarsi a consentire la frequenza” ma “al fine di rendere effettivo il principio di inclusione valuteranno di coinvolgere nelle attività in presenza anche altri alunni appartenenti alla stessa sezione” secondo metodi e strumenti “autonomamente stabiliti e che ne consentano la completa rotazione in un tempo definito” con i quali gli studenti BES “possano continuare a sperimentare l’adeguata relazione nel gruppo dei pari, in costante rapporto educativo con il personale docente e non docente”. Tradotto: se sono in presenza ragazzi con bisogni educativi speciali, a turno deve esserci anche una piccola parte della classe, se disponibile. Ai dirigenti e al consiglio di classe stabilire come.
Se in molti istituti ci si sta organizzando in modo virtuoso, in molti altri questo non accade: si accettano gli alunni che ne fanno richiesta ma gli altri restano a casa a fare didattica a distanza anche quando sarebbero disposti a essere in presenza. All’istituto comprensivo Alberto Manzi di Roma, il dirigente scolastico ha regolato le modalità con cui gli insegnanti di sostegno e gli Oepa (gli operatori che assistono i ragazzi con disabilità) dovranno comportarsi, ma al termine della comunicazione ha precisato che per “ridurre al minimo indispensabile le presenze e i contatti… non si prenderanno in considerazione eventuali disponibilità presentate da docenti curriculari e non sarà inoltre programmata la presenza a scuola di altri alunni”. “In questo modo non si salvaguarda l’inclusione di questi ragazzi – spiega Cristina Di Folco, madre di uno dei bambini che hanno fatto richiesta – il dirigente ha disposto che i compagni stiano a casa nonostante fossero tutti disponibili a rientrare”.
Ci sono decine di casi simili. “Il rischio nella maggior parte degli istituti è quello di creare dei ghetti, dei centri diurni ‘scolastici’ dove isolare i ragazzi con disabilità, gli insegnanti di sostegno e gli operatori, aumentando ancora di più il senso di emarginazione” scrive il Coordinamento AEC operatori sociali auto-organizzati. Segnala scuole in cui “il ragazzo resterà da solo con l’insegnante di sostegno”, altre in cui “non si sa se ci sarà la partecipazione dei compagni della classe” e altre che subordinano la presenza degli operatori alle risorse a disposizione o che non lo hanno autorizzato per nulla.
Il nuovo Cts: Speranza declassato, Salvini gode
In assenza di novità sostanziali nelle politiche che riguardano la pandemia, Mario Draghi continua a offrire senza risparmio ai suoi alleati di centrodestra, Matteo Salvini in primis, se non altro qualche scalpo simbolico. A fronte delle nuove chiusure, per prepararsi al futuro gli “aperturisti” vogliono almeno isolare Roberto Speranza, rimasto ministro della Salute solo grazie a un diktat di Sergio Mattarella: prima venne la sostituzione del capo della Protezione civile Angelo Borrelli, poi quella politicamente più rilevante del commissario all’emergenza Domenico Arcuri e ora si passa al Comitato tecnico scientifico, la cui “riforma” è stata subito festeggiata da Matteo Salvini.
La scelta del premier di modificare il Cts – tecnicamente attraverso un’ordinanza di Protezione civile – ha ovviamente delle sue ragioni: intanto un’assemblea più snella è un bene (da 26 a 12 membri), come pure l’ingresso di un immunologo come Sergio Abrignani (specializzazione finora mancante nel Comitato). In generale, però, è alla presa del ministero della Salute sul Cts che mirano le novità: prima aveva al suo interno quattro direttori generali, oggi il solo Giovanni Rezza. Ma al di là dei numeri, anche i nomi scelti segnano il cambio di orizzonte verso la nuova “unità nazionale”, ovviamente da realizzare attraverso l’asse Draghi-destra (senza, d’altra parte, non ci sarebbe discontinuità).
Ad esempio l’Agenzia del farmaco (Aifa) resta nel Cts: non più però col dg Nicola Magrini, ma col presidente Giorgio Palù, virologo con ottimo curriculum che fu consulente di Luca Zaia e – essendosi spesso schierato su posizioni “moderate” rispetto alla pandemia – spesso citato da Salvini lungo quest’anno per dimostrare che era possibile “aprire”. Palù, peraltro, firmò a giugno una dichiarazione che metteva in dubbio che gli asintomatici potessero trasmettere il virus con Donato Greco, ex dirigente del ministero e dell’Iss e autore del Piano pandemico del 2006: anche lui entra nel Cts e molti ricordano una sua presa di posizione di settembre (“anche se il Covid circola ancora, l’emergenza è finita a maggio”).
Un certo scalpore ha destato la scelta di Alberto Gerli, ingegnere gestionale che ha elaborato un suo modello matematico di previsione dei contagi amato dai giornali e poco dagli epidemiologi, che sostiene – all’ingrosso – che i cicli di espansione della curva dei contagi durino 40 giorni, sempre: “A fine febbraio il Veneto sarà zona bianca” (era rossa), “a metà marzo in Lombardia 350 contagi al giorno” (4.700), prevedeva a fine gennaio. Va detto che il modello Gerli a volte sbaglia pure per eccesso, come nei casi dei contagi nelle province di Como e Bergamo. Ora la sua stima è che siamo vicini al picco, a prescindere dalle chiusure decise dal governo, che vanno quindi considerate inutili.
A capo del Comitato, dimessosi Agostino Miozzo, sarà il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli, storicamente più “aperturista” dei colleghi. Il numero 1 dell’Iss Silvio Brusaferro sarà invece il portavoce: ruolo che lo ingabbierà nella necessità di fare sintesi con gli altri. Il segretario del Comitato, infine, non sarà più il medico della PS Fabio Ciciliano (che resta nel Cts), ma l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino: scelto dal nuovo capo della Protezione civile Fabrizio Curcio, che è uomo assai legato a Franco Gabrielli, a sua volta sottosegretario alle grane di Draghi.
Un altro nome nuovo è quello di Cinzia Caporale, dirigente del Cnr e membro del Comitato nazionale per la bioetica, sia detto en passant moglie di Angelo Maria Petroni, che i più ricordano in un mitico cda Rai regnante Berlusconi e oggi segretario generale dell’Aspen (l’unica altra donna è Alessia Melegaro, che insegna Demografia e Statistica sociale e dirige il Covid Crisis Lab della Bocconi).
Vanno infine notate almeno un paio di assenze: escono dal Cts sia Kyriakoula Petropulakos, dg della Sanità emiliana indicata a suo tempo dal presidente della Conferenza Stato-Regioni Stefano Bonaccini, sia Sergio Iavicoli dell’Inail, assenza sorprendente mentre si riscrivono i nuovi protocolli anti-Covid per i luoghi di lavoro (bizzarramente silenti i sindacati). Non bastasse il Cts, al povero Speranza è toccato pure ingoiare la nomina (in quota Gelmini e FI) dell’infettivologo della Cattolica Roberto Cauda al tavolo tecnico che dovrà rivedere i famosi 21 parametri di rischio epidemiologico odiati dalle Regioni, Lombardia su tutte, che com’è noto ha problemi a inviare i dati giusti.
L’Ue si immunizza prima: subito dosi a deputati e staff
Nel marasma europeo dei vaccini, c’è almeno una buona notizia per i rappresentanti della Ue: la prossima settimana partirà il programma per immunizzare tutti gli eurodeputati, i componenti della Commissione e i funzionari dell’Unione. Circa 21 mila persone di tutte le nazionalità che potranno ricevere la propria dose a Bruxelles, secondo il calendario stabilito nel quadro del sistema sanitario belga. Un bel vantaggio anche per i parecchi italiani eletti all’Europarlamento, visti i tempi lunghi delle somministrazioni dalle nostre parti.
Bruxelles invece corre e conferma al Fatto che il Parlamento dovrebbe ricevere le dosi necessarie “nella seconda metà della prossima settimana, in accordo con le autorità locali”. Come detto, il programma di vaccinazione seguirà quello indicato dal governo (che adesso dovrebbe entrare nella fase 1b), dunque i primi a ricevere la dose saranno gli over 65 e le persone con gravi vulnerabilità: malattie respiratorie o cardiovascolari, obesità, diabete e così via. Nelle settimane scorse la Commissione aveva provato ad anticipare i tempi rispetto al Parlamento, ma poi si è dovuta arrendere allineandosi all’agenda degli eletti, forse anche per evitare un caso mediatico non certo piacevole.
Settimana prossima, allora, si parte tutti insieme con le categorie a rischio, poi, col precedere delle settimane, arriverà il turno anche dei parlamentari e dei tecnici più giovani. A Bruxelles i più allargano le braccia, indicando l’inizio delle vaccinazioni come la logica conseguenza dell’inserimento delle Istituzioni Ue nel protocollo nazionale belga. La dem Pina Picierno, per esempio, spiega al Fatto che “parlare di privilegio è una bugia”: “Seguiamo le regole del Belgio, dove non c’è nessuna corsia preferenziale per i parlamentari e siamo in linea col resto della popolazione. Il turno di chi, come me, ha meno di 40 anni, arriverà tra un bel pezzo”. Qualche imbarazzo però c’è, soprattutto tra chi sposta il paragone non col resto dei belgi, ma con chi osserva i propri politici dall’Italia: “Ci sono soggetti fragili che aspettano i vaccini – ci dice l’eurodeputato di Forza Italia Fulvio Martusciello – e personalmente non sento l’esigenza di superare la fila. Spero che altri colleghi mi seguano, anche per dare un segnale ai cittadini”.
Anche la leghista Silvia Sardone non ha fretta di ricevere la puntura: “È sbagliato dare l’idea che prima si vaccinano i funzionari Ue, i burocrati e gli europarlamentari e poi la gente comune. Ci sono tante categorie di lavoratori fragili ed esposti che dovrebbero essere vaccinate prima di noi”. Il problema è il solito: se i deputati rinunceranno alla dose, bisognerà fare in modo che il vaccino non vada sprecato, come purtroppo succede ogni giorno anche in Italia. In quel caso, il passo indietro degli eletti sarebbe dannoso, ancor più che inutile: “Bisognerà evitare questa situazione – è la versione della Sardone – e fare in modo che la scelta a monte sia diversa”. Secondo la 5Stelle Chiara Gemma, però, la protesta non sta in piedi: “È una polemica basata sul nulla, il Parlamento europeo segue le regole del Paese che lo ospita. I suoi funzionari riceveranno il vaccino in base alle tempistiche e ai criteri stabiliti per tutti i cittadini belgi, non c’è alcun favoritismo. Se qualche europarlamentare italiano ritiene il contrario sbaglia e si può sempre vaccinare in Italia”.
Fatto sta che l’Unione è pronta. Ha trasformato parte dei suoi edifici in centri vaccinali – sono previste aree apposite al Palazzo Antall e al Breydel –mettendo a disposizione delle autorità locali alcuni spazi che verranno utilizzati per immunizzare i cittadini. Una questione che sta molto a cuore alla 5 Stelle Gemma: “Il Parlamento dimostra grande generosità, perché verranno vaccinate alcune categorie vulnerabili, come le persone con disabilità. Lo spirito giusto per ricostruire l’Europa è questo”. Il prezzo da pagare è che qualcuno ne dia un’interpretazione ben meno lusinghiera.
Il virus tra i medici: quasi sparito in tre mesi
Poco più di due settimane fa, il premier britannico Boris Johnson esultava di fronte al crollo dei contagi nel Regno Unito: 40 per cento in meno, solo nell’ultima settimana di febbraio, grazie alla campagna vaccinale, in Gran Bretagna iniziata il 9 dicembre, prima del V-Day dei Paesi dell’Unione europea, scattato il 27, diciotto giorni dopo. Contemporaneamente i grafici sull’andamento dell’epidemia in Israele e negli Usa mostravano un crollo dei ricoveri.
Il vaccino funziona Priorità a chi lavora nella sanità
Ora dall’Istituto superiore della Sanità arrivano i primi, confortanti, numeri anche per l’Italia. Le vaccinazioni hanno quasi debellato il virus tra medici, infermieri, operatori sociosanitari, vale a dire la prima categoria – quella sempre impegnata sul fronte, nelle corsie degli ospedali – sottoposta alle somministrazioni insieme agli ospiti delle case di riposo.
Secondo round Primi segnali anche tra gli over 80
La campagna sta anche portando a una diminuzione dei contagi tra gli over 80. Tra gli operatori della sanità i casi di positività al Covid-19 il 28 dicembre scorso erano oltre 38 mila. Poi la curva ha cominciato a scendere sempre di più, fino ad arrivare ai 478 casi dell’1 marzo: in pratica si sono quasi azzerati (-98,7%). Molto meno accentuata la flessione per gli over 80: il 28 dicembre si contavano 5.256 contagiati, l’1 marzo 4.452: meno 15,3%. Una diminuzione decisamente più contenuta. Ma va considerato che in questo caso le somministrazioni sono iniziate dopo quelle assicurate negli ospedali, negli ambulatori e nelle Rsa e che molti anziani sono ancora in attesa della seconda dose: questi sono solo i primi effetti, anche se dopo una lenta discesa c’è stata una piccola inversione di tendenza nell’ultima settimana di febbraio.
È presto per festeggiare Ma c’è da essere ottimisti
Questa prima analisi dell’Iss deve essere considerata puramente descrittiva. “Le differenze nei trend osservati nel numero di casi tra gli operatori sanitari e nelle persone di età pari o superiore agli 80 anni – precisa l’istituto – sono probabilmente da attribuire alla campagna di vaccinazione”. Ma l’ipotesi, prosegue l’Iss – “dovrà essere confermata con valutazioni più approfondite”. Del resto, l’elaborazione dei dati è, infatti, ancora in corso. Ma è un fatto che già l’11 febbraio scorso anche la Fondazione Gimbe – organizzazione indipendente per la diffusione e l’applicazione delle migliori evidenze scientifiche – aveva rilevato tra gli operatori della sanità una diminuzione dei contagi del 64%.
Report aggiornato al 10.03Ora tocca alla fascia 60-79
I numeri che arrivano dall’Iss sono contenuti in un report aggiornato al 10 marzo scorso, con un focus destinato alle vaccinazioni che fa il punto anche sulla fascia d’età compresa tra i 60 e i 79 anni. E anche qui si osserva la stessa dinamica che riguarda gli over 80, vale a dire una lenta flessione seguita da una leggera inversione di tendenza nell’ultima settimana di febbraio che dovrebbe arrestarsi (per poi ricominciare a diminuire) con il progressivo aumento della copertura vaccinale.
La strage dei camici 303 morti da inizio pandemia
Dall’inizio della pandemia gli operatori sanitari contagiati sono stati oltre 125 mila. E 303 sono morti. Tra questi anche tanti medici di famiglia (121). Ora, in attesa del pronunciamento dell’Ema sulla sospensione in via cautelativa del vaccino AstraZeneca (pronunciamento atteso oggi) e dell’arrivo di quello sviluppato da Johnson&Johnson (che ha già ottenuto il via libera dall’agenzia europea del farmaco) continuano in questi giorni le vaccinazioni con gli altri due sieri statunitensi, Pfizer-BioNTech e Moderna.
Quota 7,1 milioni adesso si aspettano nuove forniture
Finora sul totale delle dosi somministrate (più di 7,1 milioni, nel pomeriggio di ieri), quasi 2,8 milioni sono andate a medici, infermieri e operatori socio sanitari, mentre più di 1,8 milioni sono state somministrate ai grandi anziani e quasi 494 mila agli ospiti delle case di riposo. Il totale dei vaccinati, cioè quelli che hanno ricevuto anche il richiamo, è arrivato a quota 2,2 milioni di persone. Quanto alle forniture restano alcune incognite. Al momento sono state distribuite più di 8,8 milioni di dosi.
Ancora poche rispetto alle attese, visto che entro il primo trimestre dell’anno ne erano previste quasi 15,7 milioni. E la pressione sugli ospedali (e sulle terapie intensive) è ancora elevatissima. L’ultimo report dell’Iss conferma anche la Lombardia al primo posto per numero di casi (20,80%), seguita dal Veneto, dall’Emilia-Romagna, dalla Campania e dal Piemonte.
Magrini (Aifa): “Volevamo lo stop alle iniezioni per 2 settimane”
Fin qui avevamo capito che la decisione tedesca di sospendere le vaccinazioni con AstraZeneca era piovuta sul governo italiano come una bomba, lunedì scorso all’ora di pranzo, spingendo il ministro Speranza e il presidente del Consiglio Draghi ad allinearsi rapidamente, come poi è avvenuto con un provvedimento dell’Aifa, l’agenzia del farmaco. Infatti il giorno prima, domenica, il presidente dell’Aifa Giorgio Palù e il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri erano andati in tv a rassicurare sul vaccino anglo-svedese, come aveva fatto sabato Speranza su Repubblica. Martedì sera però, ospite di Giovanni Floris a “Dimartedì”, il direttore dell’Aifa Nicola Magrini l’ha spiegata un po’ diversamente: “Noi eravamo stati molto prudenti (…) La Germania, invece è stata lei a dare un input scientifico e non politico rispetto al fatto che ha individuato 7 casi, 6 in donne e uno in un uomo, in persone giovani che hanno avuto un evento molto raro, cioè trombosi del seno cavernoso a livello cerebrale (…). Pertanto l’idea che si facesse una pausa l’abbiamo anche avanzata in una prima discussione noi, per dire va approfondito, e originariamente si era proposto di ragionarci per un paio di settimane, che è un tempo molto lungo, infatti qua siamo a parlare di giorni o di ore. Ma era stato discusso. E via via poi che i dati aumentavano c’è stata molta emozionalità o partecipazione e pertanto la decisione dei tre principali Paesi europei, cui immediatamente si è legata anche la Spagna, è stata uno sforzo di unitarietà europea”. L’hanno discusso quando? Nella mezz’ora tra la comunicazione tedesca e la decisione italiana? Prima? E con chi? Magrini ha preferito non rispondere al Fatto. Magari oggi lo spiega in audizione alla commissione Affari sociali alla Camera.
“Scudo penale ai medici? Rischioso, ci finisce tutto”
“Scudo penale? Mah, è un tema che mi lascia sempre molto perplesso”. Raffaele Guariniello, ex procuratore aggiunto di Torino, una carriera dedicata alla sicurezza sul lavoro, così commenta l’ipotesi di introdurre uno scudo normativo che “immunizzi” il personale addetto alla vaccinazione da eventuali responsabilità penali derivanti dall’esercizio delle funzioni.
Dottor Gauriniello, rimane perplesso anche di fronte a uno stato di assoluta emergenza?
Mi pare evidente che il motivo all’origine di questo dibattito sia esclusivamente la vicenda della sospensione del vaccino AstraZeneca per ipotetiche connessioni con alcuni eventi fatali. Ma se il problema è questo, come si può pensare che un operatore sanitario sia responsabile di un effetto letale (ammesso e non concesso che ciò sia avvenuto) derivante dalla sommistrazione di un vaccino approvato dalle autorità sanitarie? Se invece il discorso si riferisce non alla presunta pericolosità del vaccino, ma ad altre condotte di tipo colposo, allora il discorso è diverso.
Appunto. Chi lo invoca parla espressamente di “scudo per responsabilità penali di carattere colposo”…
Mi sembrano delle espressioni di desiderio. che comprendo ma non condivido. Si tratta di capire come verrebbe formulato il testo, se mai ci sarà un testo. Che significa scudo, che per tutto il periodo della vaccinazione non si risponderà di condotte colpose? È davvero difficile valutare senza un testo. Se non c’è condotta colposa il problema non si pone nemmeno.
Tuttavia, come lei stesso dice, è un desiderio comprensibile?
Sì, ma rischioso. Spesso queste cose sono un pretesto per estendere garanzie a condotte che nulla hanno a che fare con la fattispecie in esame. Penso per esempio a quando fu richiesto lo scudo penale per gli operatori ospedalieri durante la prima ondata. Anche lì fu un desiderio comprensibile, ma poi si venne a scoprire che tra gli operatori figuravano anche direttori e dirigenti vari che in ospedale non operavano affatto. Per fortuna non ci fu seguito in Parlamento.
Anche questa volta andrà a finire così?
Davvero non saprei, senza un testo da commentare è difficile dire cose sensate. Di certo c’è solo che senza il caso AstraZeneca non saremmo qui a parlare di scudo penale per il personale addetto alla vaccinazione. Ma come ho già detto, questo è un problema che non si pone.
In Sardegna arriva l’invasione di Pasqua: “Nessun controllo”
“La possibilità che dalle zone rosse italiane si possa venire in Sardegna rappresenta un paradosso e un rischio per la salute di tutti i sardi. L’esperienza dell’estate scorsa dovrebbe aver insegnato qualcosa, ma pare non sia così”.
Inizia così la petizione lanciata martedì scorso su Change.org per blindare la Sardegna. In 48 ore ha raccolto oltre 35 mila firme. Un documento che testimonia la rabbia e la preoccupazione di una buona fetta dell’Isola, che assiste impotente a un’invasione. Nessuna norma, infatti, impedisce a migliaia di proprietari di seconde case, provenienti da regioni rosse o arancioni, di approdare. Una fiumana che dall’inizio settimana si è ingrossata sempre più e che sfugge alle larghe maglie dei controlli stabiliti dal presidente Cristian Solinas dall’8 marzo scorso.
“La tanto temuta invasione è già cominciata, ma soprattutto i rigidi controlli sbandierati dal presidente Solinas sono talmente blandi da aver già consentito l’ingresso di centinaia di turisti privi di certificato di negatività al Covid, e senza che si fossero sottoposti al test gratuito”, hanno attaccato i consiglieri regionali M5S.
Per avere un’idea, lunedì a Olbia sono sbarcati 997 passeggeri. Secondo le norme, avrebbero dovuto esibire un certificato di vaccinazione o di negatività al tampone, oppure si sarebbero dovuti sottoporre a un test rapido. La maggioranza il test l’ha rifiutato e ha lasciato il porto indisturbata, senza lasciare le generalità.
E anche quando i turisti fanno il test e risultano positivi, vengono avvisati con molto ritardo. È il caso di alcuni camperisti, contattati quando erano già a 100 km da Olbia. Ma, forse il caso più eclatante è quello denunciato da Leu di due coniugi sardi rientrati mercoledì dalla Toscana. Sbarcati a Olbia, si sono sottoposti al test e poi sono tornati a Onanì (Nu). Entrambi sono risultati positivi, ma nessuno – dopo il test al porto – gliel’ha detto. Risultato: 15 persone in isolamento domiciliare (su 400 abitanti).
Solinas si appresta a firmare un’ordinanza che intensifica le verifiche post-sbarco. Il provvedimento prevede l’impiego di uomini della Forestale e della Polizia locale, col supporto dei “Barracelli”, la polizia rurale sarda.
Troppo poco per le opposizioni: “Il sistema dei controlli nei porti è già saltato, pertanto consentire ai residenti nelle zone rosse di trascorrere la Pasqua in zona bianca è un azzardo – attacca il 5S Alessandro Solinas – non si capisce perché il presidente non abbia emanato un’ordinanza per impedire l’arrivo dei proprietari di seconde case, come ha fatto la Valle d’Aosta”.
Ed è proprio questo il pomo della discordia che martedì aveva impedito al Consiglio regionale di firmare un ordine del giorno unitario per ridurre il rischio di aumento dei contagi legato ai nuovi arrivi. A bloccarlo, il presidente dell’aula, il leghista Michele Pais.
E visto che la Regione Sardegna latita, sono i sindaci ad agire, come Ignazio Locci, primo cittadino di Sant’Antioco, firmatario di un’ordinanza che prevede da oggi l’obbligo di quarantena di 10 giorni per chi arriva sull’isola pur in possesso di tampone negativo.
Intanto i dati di ieri parlano di 92 nuovi positivi, di 29 pazienti in terapia intensiva, di 163 in non intensiva e di due morti. Ma il problema della Sardegna è la campagna vaccinale: con il 3,5% è all’ultimo posto, subito dietro la Valle d’Aosta, per la percentuale di popolazione che ha ricevuto solo la prima dose, a fronte di una media nazionale del 4,61%. L’isola è ultima anche per la percentuale (2,71%) di abitanti che hanno completato il ciclo vaccinale e per quota di over 80 vaccinati: solo l’1,9% ha ricevuto entrambe le dosi, mentre il 20,9% attende la seconda. Per la Cgil, invece, sono 90 mila (su 115.000) gli anziani che l’attendono la prima iniezione.
Gli ospedali sono al limite. Oggi verdetto AstraZeneca
In Puglia hanno sospeso i ricoveri ordinari, in Emilia-Romagna da due giorni i malati in terapia intensiva hanno superato anche il picco della prima ondata. I contagi rilevati cominciano a frenare, ma intanto gli ospedali scoppiano. E tutti attendono oggi la decisione dell’Ema, l’agenzia europea del farmaco, sul vaccino di AstraZeneca, sospeso lunedi in Italia e in mezza Europa.
Ieri i contagi notificati dalle Regioni sono stati 23.059 contro i 20.396 di martedì. I morti sono stati 431, meno dei 502 di martedì che però erano “gonfiati” dal dato del Veneto (84) che il martedì registra i decessi del fine settimana. Guardando tutti i mercoledì sui grafici di Giorgio Presicce, analista della Regione Toscana, siamo andati da 12.074 il 17 febbraio a 16.424 il 24 febbraio (+36%), poi 20.884 il 3 marzo (+27,1%), 22.409 il 10 marzo (+7,3/) e appunto 23.059 ieri (+2,9%). “Siamo vicini al picco, alcune Regioni l’hanno già superato”, spiega il matematico Giovanni Sebastiani del Cnr. Anche gli specialisti del ministero della Salute dicono che “la crescita rallenta dopo diverse settimane, presto dovremmo scendere”.
Il problema è che i contagi delle scorse settimane mettono in crisi gli ospedali. Ben 13 Regioni sono sopra la soglia critica nelle terapie intensive, quel 30% che impedisce di funzionare regolarmente. A livello nazionale siamo al 36%, cinque punti in otto giorni: numeri che ci riportano a novembre, se non a marzo-aprile 2020. Sei Regioni hanno oltre il 40% delle rianimazioni occupato da pazienti Covid: Lombardia (54%), Emilia Romagna (50%), Molise (49%), Piemonte (48%), Friuli Venezia Giulia (44%). E anche i morti, purtroppo, aumenteranno: le elaborazioni del sito https://covid19.healthdata.org/ prevedono per l’Italia una crescita della mortalità fino ai primi di aprile che potrebbe superare gli 800/900 decessi giornalieri. Sono, naturalmente, previsioni da prendere con le molle, ma indicano la tendenza.
Tutto questo avviene mentre la campagna vaccinale subisce lo stop al vaccino AstraZeneca, su cui oggi dovrebbe pronunciarsi l’agenzia europea Ema dopo la decisione presa da diversi Paesi e, dopo la Germania, anche dal nostro. In Italia, l’abbiamo scritto, stanno saltando almeno 400 mila iniezioni. Il tema è quello delle trombosi cerebrali riscontrate in Germania e in Norvegia: ieri siamo passati da sette a nove casi su 1,6 milioni di vaccinati. La maggior parte degli studi dice che normalmente sono non più di 5 all’anno ogni milione di abitanti, anche se alcuni riportano dati più alti: troppe comunque in tre mesi di vaccinazioni secondo il prestigioso Paul Ehrlich Institute. Nulla di tutto questo è successo in Gran Bretagna, oppure lì non se ne sono accorti: ne hanno contate tre su quasi dodici milioni di vaccinati con AstraZeneca. Due degli almeno otto decessi post-vaccino sotto inchiesta in Italia potrebbero essere ricondotti a quel tipo di evento, ma per nessuno è stato individuato un ruolo del vaccino. La questione è in mano all’agenzia europea Ema, che non ha affatto gradito le sospensioni decise a livello nazionale e potrebbe ribadire il via libera al vaccino AstraZeneca ma con limitazioni e prescrizione per età o patologie. Giorgio Palù, presidente dell’Aifa, ha ipotizzato cautele particolari per le donne che prendono la pillola anticoncezionale, che può avere effetti protrombotici. Nella comunità scientifica la sospensione improvvisa delle vaccinazioni è stata fortemente criticata: da Massimo Galli del Sacco di Milano ad Andrea Crisanti dell’Università di Padova fino all’ex direttore dell’Ema, Guido Rasi. L’effetto negativo sull’immagine e la credibilità del vaccino AstraZeneca sarà difficile da riparare. E anche in Germania, dove il siero anglo-svedese è da mesi oggetto di diffidenze e rinunce, sale la polemica. Socialdemocratici e liberali attaccano la cancelliera Angela Merkel e il suo ministro della Salute, Jens Spahn, per avere “avere minato la fiducia nella politica di vaccinazione”. Oggi, intanto, il premier Mario Draghi sarà a Bergamo.