Il Banal Grande

Un giorno Indro Montanelli domandò a Leo Longanesi perché scrivesse pochi libri. “Perché – gli rispose Longanesi – se vuoi raccontare qualcosa di organico, devi piegarti ogni tanto al banale. Perfino Tolstoj deve dire che ‘Anna Karenina si alzò e andò ad appoggiare la fronte ai vetri della finestra’. Ecco: io non sarò mai capace di seguire un’Anna Karenina in un movimento così ovvio e usuale. Che me ne frega, a me, che quella brava signora vada alla finestra? Anche la mia serva ogni tanto ci va… Eppure, se vuoi scrivere un romanzo, devi rassegnarti a seguirne i personaggi anche in queste faccenduole private”. Invece il bello della cronaca è che ti impone di concentrarti sulle novità. La notizia è l’uomo che morde il cane, non viceversa. Eppure i giornaloni ci ammorbano di non-notizie, per giunta spacciate per eventi sensazionali, epocali, rivoluzionari. Draghi chiama Macron per parlare degli effetti del loro stop ad AstraZeneca (inglese) contro il parere di Ema e Aifa per correr dietro alla Germania (che con gli Usa produce il Pfizer-Biontech). E che si dicono, di straordinario? Se domani l’Ema dà l’ok, venerdì si riprende. E, per usare un francesismo, grazie al cazzo: sarebbe una notizia se, malgrado il via libera dell’Ema che peraltro non aveva mai dato lo stop, si continuasse a non vaccinare. Ma il Corriere ci apre la prima pagina: “Pronti a ripartire con i vaccini”, “Se l’Ema dà l’ok, si riparte subito” (non fra un mese), . Stampa: “Telefonata Draghi-Macron, stupiti dall’annuncio unilaterale tedesco” (e allora perché si sono accodati, rendendolo trilaterale?).

Repubblica: “Patto Draghi-Macron”. Messaggero e Corriere: “Asse Draghi- Macron”. Ora, noi non escludiamo affatto che i due statisti si siano detti: “Ehi Manu/ Mario, allora ripartiamo subito”. Sarebbe strano il contrario. Ma che bisogno c’è di “patti” o “assi” per cose tanto scontate?

A proposito: la sapete “la tesi di Cottarelli”? La svela un paginone del Corriere: “Ricominciare dal merito”. Capito? Non dal demerito. Da leccarsi i baffi. E la “ricetta di Cingolani”? “Taglio alla burocrazia”, rivela Repubblica a chi temeva che volesse più burocrazia. Perbacco. Dei “due pilastri” del gen. Figliuolo abbiamo detto: prima “ricevere i vaccini”, poi “somministrarli”, e non viceversa. E i licenziamenti? “Da luglio ripartono, ma solo per le grandi aziende in crisi” (Rep), anche perché quelle in piena salute non han bisogno di licenziare. E i processi? La Cartabia li vuole “giusti e brevi”: una bella svolta rispetto ai predecessori, che li volevano ingiusti e lenti. Ma, quando arrivano i Migliori, non ce n’è più per nessuno. Presto avremo un “patto/asse Draghi-Biden” perché respirano entrambi.

Caloni, Di Martino, Palomba e Serragnoli: le scrittrici di talento snobbate dall’editoria

I premi forse peccano di presunzione, siamo in corsa per lo Strega, ogni anno è un panegirico di nomi, molto distrattamente sembrerebbero sempre gli stessi, a volte lo sono; spesso lo sono. Peccano di presunzione perché implicitamente – con arroganza – escludono un mondo, lo definisco un mondo grondante talento, sotterraneo, abitato da poche voci.

Oggi vi propongo alcuni nomi, sono letterate, donne, poco conosciute. Frequentano, producono, letteratura aristocratica, com’era un tempo sapete. Là dove si giunge per elezione, luogo mistico e metafisico in cui ripara l’eccezionalità. Là, stanno loro: Cristina Caloni; Letizia Di Martino; Ilaria Palomba; Francesca Serragnoli. A queste artiste devo chiedere perdono da subito, ognuna di loro ha una storia diversa e nuova; non hanno nulla in comune; solo il genio. Meriterebbe ognuna di loro una cornice a parte. Le incontro invece insieme così, ve le presento, per quel poco che posso.

Cristina Caloni, laurea in Filosofia, milanese, pubblica nel 2017, per Castelvecchi, l’unico romanzo La mia stagione è il buio. Il registro del piano narrativo della Caloni contiene qualcosa di arcano, lontanissimo nei secoli. Racconta una generazione, i ventenni degli Anni 90, racconta un suicidio; le ombre di una stagione, la definisce, la stagione di tragiche intemperanze. La voce sola di Cristina Caloni è ingiustamente trascurata dall’interesse della buona editoria. Continuo a credere nella buona editoria e a credere che per questo un giorno si accorgeranno di lei.

Letizia Di Martino è una signora elegante della Ragusa di Montalbano, tanto vi ispirerebbe a guardarla, elegante e preziosa come un dipinto d’epoca. La scrittura di Di Martino usa la memoria per attraversare la storia del Paese; la capacità ipnotica e di nemesi è straordinaria; non ho mai letto nulla del genere. Potremmo considerarla una delle voci più interessanti e sofisticate della letteratura italiana, non soltanto siciliana. Pubblica di recente il romanzo Tutta mia la città per Archilibri. Eppure anche il suo nome circola poco, in luogo di altri nomi.

Non troverete un già sentito nemmeno nella conturbante poetica di Ilaria Palomba, giovanissima scrittrice di origini pugliesi. Poetessa. Laurea in Filosofia. Riferisce di abissi umani, infilza le nostre fragilità. Incontra i quesiti esistenziali, le grandi domande, indagando il male o la malattia dello spirito, lo fa nel suo ultimo romanzo, Brama, pubblicato da Perrone editore a inizio 2020. Indaga il lascito scarno e mondano chiamato amore. Profetica.

E infine Francesca Serragnoli, poetessa bolognese, una delle maggiori, in assoluto. Una voce che stordisce, mistica alla maniera di Cristina Campo, i suoi versi sono raffinatissimi salmi: “Il cielo non è un bar per gente sola/ ordino per te la pioggia/ e Gesù fra i rami dell’acqua/ come un pusher ci guarda/ con la roba che spezza la morte”. La sua raccolta poetica, pubblicata da MC edizioni, si intitola La quasi notte. Vi suggerisco di leggere questo esempio di diamanti che oggi restituiscono la letteratura, com’era un tempo, dicevo, luogo di nobili eccessi, di turbamenti e abnegazione, destinati a eletti.

“Il futuro non è streaming. E ora tifo per i Maneskin”

“Ero a Los Angeles, per strada. Un clochard suonava una chitarra scassata. Cantava con un filo di voce. Gli dissi: ‘più forte’. E lui: ‘per me è ok così’. Non cercava soldi, lo stava facendo per se stesso”. Quella risposta fulminante bastò a Ermal Meta per riflettere su Gli invisibili: “Quando la scegli, la solitudine è uno stato di grazia. Il musicista chiude la porta e immagina”. Così, quella è diventata una delle canzoni del nuovo, caleidoscopico album Tribù urbana: “Nelle città far parte di un gruppo può salvarti, a patto che la tua anima venga accettata”. Non sempre accade: in un altro brano, Nina e Sara, Meta trasfigura la vicenda di una sua ex fidanzata che si accorge di essere attratta da altre ragazze. “Mi sono chiesto cosa si provi quando hai 16 anni e sei alle prese con un cliché dell’amore che non ti corrisponde. Fa ancora notizia, purtroppo, quando due giovani dello stesso sesso si baciano”. Isolati, giudicati, sperduti. Tutti hanno un frammento di croce da portare, in questo tempo ostile. “Sono preoccupato per i bambini. Ho una nipotina che amo immensamente. Durante Sanremo si lamentava perché mi esibivo tardissimo. E diceva: ‘zio, la tua canzone fa schifo!’. È in una fascia d’età di grandi scoperte, ma la pandemia tende imboscate. Ero da amici, la loro bimba guardava un film: ‘perché quei signori non hanno la mascherina?’. Ormai per i piccoli è la norma vedere gli adulti con la bocca coperta. E quelli più grandicelli, che sono nella fase in cui è necessario commettere errori? Esistenze in freeze-frame. Io a 13 anni avevo intuito che la vita fosse importante, come dico in Destino universale: mi aggrappo ancora a quella frase. Voglio che il futuro mi sorprenda. Quanto agli anziani, ho una nonna, in Albania. Ora è irraggiungibile. Mi spezza il cuore pensare a quella generazione azzannata dall’isolamento. Come l’ottantenne che a Natale chiamò i carabinieri perché non aveva nessuno con cui parlare”. A proposito di Sanremo: Meta vinse nel 2018 con Moro (“Fabrizio è alle prese con il montaggio del suo film su un pugile. Un cammeo? Non ho il fisico”), stavolta l’hanno spuntata i Maneskin. Ma per Ermal è stato “un miracolo” che la sua eterea Un milione di cose da dirti fosse arrivata così in alto. “I Maneskin meriterebbero di vincere pure l’Eurofestival. Un milione di cose da dirti l’ho lasciata tre anni nel cassetto, poi ho sentito picchiettare, reclamava spazio. Avevo bisogno di rivendicare la quotidianità preziosa fatta di piccole cose, senza lanciare messaggi”. Nel video, si vede Ermal suonare in una stanza scossa da tremori e flagellata da una nevicata indoor. Finché si scopre che quella è una bolla da mettere in uno scaffale. Come fa il personaggio che la afferra. “Forse è un demiurgo, o un antiquario che non sa che dentro la sfera di vetro ci sia un musicista”. Figure minacciate dalla crisi. “Come ne usciremo? Più forti. Non ho un piano B, ma mi rifiuto di credere che il futuro dei concerti sarà solo in streaming. La musica ha bisogno di viaggiare nell’aria, di attraversare un teatro verso gli occhi e le orecchie di chi ho davanti. E rivendico la mia identità: quando compilo una documentazione, alla voce ‘professione’ sono costretto a scrivere ‘altro’. Sono un artista, e l’arte è la memoria di un Paese. Che senza, sarebbe solo cemento armato”.

Gli uomini vengono da Marte. Tra letteratura e astrofisica

Perseverance è approdata il 18 febbraio nell’entusiasmo generale. Curiosity è lì dal 2012, mentre in orbita ruotano Hope degli Emirati arabi uniti e l’europeo ExoMars, tra gli altri satelliti. Presto arriverà il primo rover cinese, mentre sulla Terra la Space X di Elon Musk testa missili e idee per viaggi interplanetari. Oggi Marte appare affollato, ma c’è stato un momento, nei vent’anni trascorsi tra la missione Viking del 1976 e Pathfinder del 1997, in cui il pianeta rosso non interessava più a nessuno. Cos’era successo? Una delusione. Viking aveva certificato che il pianeta era privo d’acqua, rompendo così un motore che per 150 anni ha alimentato la curiosità umana, non solo scientifica: la domanda “c’è vita su Marte?”.

Vita marziana. Il primo a porre seriamente il quesito è stato l’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, che tra il 1877 e il 1878 aveva creduto di osservare canali rettilinei, artificiali, sulla superficie di Marte e tracciò varie mappe. Un effetto ottico, che però è rimasto a lungo incastonato nel pensiero scientifico. “Fino agli anni 50 e 60 le idee, comunque realistiche, di Schiaparelli erano ancora enormemente in voga”, spiega Marcello Coradini, planetologo e responsabile dei programmi d’esplorazione del Sistema solare dell’Esa, che ha guidato la missione ExoMars ed è autore del saggio Marte, l’ultima frontiera (Il Mulino). “Per preparare le prime missioni sul pianeta rosso – continua Coradini – la Nasa usava praticamente la stessa mappa di Schiaparelli. Se dovessimo descriverlo come fenomeno culturale, direi che la Nasa ha preso il testimone dalle mani di Schiaparelli”.

Anche la statunitense Sarah Stewart Johnson, che ha lavorato alle missioni Spirit, Opportunity e Curiosity, in un libro recente (quasi omonimo: Marte. L’ultima frontiera, Sperling & Kupfer) ricorda che “il mistero di quelle formazioni lineari fu uno dei motivi per cui nel 1969 la Nasa decise di lanciare una coppia di sonde verso Marte”.

Tra scienza e finzione. La vita su Marte ha alimentato un immaginario che si è evoluto in parallelo tra scienza e finzione. Nel 1880, due anni dopo le ricerche di Schiaparelli, esce il romanzo Across the Zodiac di Percy Greg, in cui un esploratore scopre che il pianeta rosso è abitato da esseri molto simili a noi, che si rifiutano di credere che il visitatore venga da un altro pianeta. Quasi subito i marziani diventano pericolosi. Opera iniziatrice è La guerra dei mondi di Herbert George Wells (1898), riadattata da Orson Welles nel celebre sceneggiato radiofonico nel 1938 e poi in pellicola da Steven Spielberg. Di fatto è la prima invasione extraterrestre della storia letteraria, dove, peraltro, l’unica cosa che salva i terrestri dall’inesorabile avanzata marziana è un batterio. Quando la Terra precipita nella spirale delle guerre mondiali, Marte si offre come specchio in cui riflettere criticamente sulla società. Succede nella trilogia Sotto le lune di Marte dell’ex militare Edgar Rice Burroughs (1912-1919): un capitano viene teletrasportato su Marte e trova un mondo morente e una civiltà dilaniata dalla guerra tra fazioni divise dal colore della pelle.

Marziani tra noi. Dopo la seconda guerra mondiale comincia la corsa allo spazio e nella cultura di massa è la fase dell’Invasione degli ultracorpi (romanzo del 1954 e film del 1956) e delle epiche extraterrestri alla Star Trek. Anche solo per associazione cromatica, Marte è spesso metafora del “nemico” comunista (esiste in effetti un’utopia socialista marziana: la scrisse Bogdanov nel 1908), ma altre volte serve a criticare la società del consumismo, come nel Pianeta rosso di Robert Heinlein o nelle Cronache marziane di Ray Bradbury. Filone prolifico è anche quello della colonizzazione, di cui è icona I fondatori di Isaac Asimov, primo romanzo sulla “terraformazione” di Marte. “Perché non abbiamo pensato ai crateri?” disse il re della fantascienza guardando una fotografia scattata dalla sonda Nasa Mariner 4, che per prima fotografò il pianeta rosso nel 1965. Come a ogni grande narrativa, le storie marziane hanno avuto il loro risvolto parodistico. Dal gioviale Marziano a Roma di Ennio Flaiano, che si ritira sopraffatto dall’indolenza dei terrestri capitolini, al cult Mars Attacks! di Tim Burton, parodia dell’action movie sull’invasione aliena. Fino a Fascisti su marte di Corrado Guzzanti, che sceneggia una farsesca invasione nera del pianeta rosso in un mix di satira politica e parodia delle cronache marziane.

Nuova frontiera.Dopo la delusione del 1976 sono state altre le suggestioni scientifiche che hanno ispirato l’epica spaziale. L’esplorazione intergalattica, i buchi neri e i paradossi della gravità. Diventato un “sasso” qualunque, il pianeta rosso ha ispirato meno, restando ancorato all’immaginario anni 70. Oggi, però, la seconda corsa allo spazio promette di portare gli astronauti su Marte: di certo gli autori stanno prendendo nota.

Molestie, le giornaliste contro il volto storico del tg di TF1

Il #MeToo francese investe anche il mondo del giornalismo. Al centro di accuse di stupri e molestie sessuali è Patrick Poivre d’Arvor, 73 anni, storico volto del tg delle 20 di TF1 il più seguito. Ieri Le Monde ha pubblicato le testimonianze di otto donne che, tra gli anni 90 e 2000, hanno lavorato con lui a TF1. Il giornalista avrebbe approfittato della sua posizione per molestare sistematicamente giovani giornaliste e collaboratrici. Una di loro, dietro anonimato, racconta: “Mi ha afferrata, baciata e rovesciata sulla scrivania. Ha infilato la mano nel reggiseno, poi negli slip. Ho cercato di reagire, ma ero pietrificata”. “Parlare sarebbe stato un suicidio professionale e sociale”, spiega Hélène Devynck, giornalista poi passata a LCI, 54 anni, che sarebbe stata violentata dal collega quando ne aveva 24. Molte di queste testimonianze sono già sul tavolo degli inquirenti. Su Patrick Poivre d’Arvor, che nega le accuse, è infatti aperta un’inchiesta per stupro, dopo la denuncia a febbraio della scrittrice Florence Porcel, 37 anni, che lo accusa di aver abusato di lei quando era ancora una studentessa, obbligandola a due rapporti sessuali, uno nel 2004 e l’altro nel 2009. Sulla scia della cascata di denunce di abusi sessuali e incesti in Francia, iniziata con il libro di Camille Kouchner sulla accuse di incesto contro il patrigno, il noto politologo Olivier Duhamel, l’Assemblea ha votato ieri e rinviato in Senato un progetto di legge per proteggere meglio i minori dalle violenze sessuali. L’età del “consenso” è stata fissata a 15 anni, a 18 in caso di incesto. Ogni “atto di penetrazione sessuale” da parte di un adulto sarà dunque considerato stupro e la giovane vittima non dovrà più dimostrare che non era consenziente. È stata votata anche una clausola detta “Romeo e Giulietta”, che vuole evitare di “criminalizzare” gli “amori adolescenziali”, per cui faranno eccezione i casi in cui la differenza di età tra i due è inferiore ai cinque anni.

L’orrore dei jihadisti: decapitati anche i bimbi

Difficile ripescare nella storia contemporanea, dopo la mostruosità della Shoah, del genocidio armeno, cambogiano e staliniano, nei confronti dei bambini ucraini lasciati morire di fame, dell’annichilimento delle giovani yazide, il ricordo di bambini sottoposti all’inverosimile. Eppure dobbiamo aggiornare ancora la lista. Questa volta il luogo della perversione umana è un paese africano: il Mozambico, precisamente la provincia settentrionale di Cabo Delgado, da cui stanno fuggendo da mesi migliaia di persone.

L’organizzazione umanitaria Save the Children riporta storie per cui è impossibile trovare un aggettivo che ne quantifichi l’orrore.

Elsa, una mamma di 28 anni ha parlato del figlio maggiore, Filipe, di 12 anni, decapitato dove si era nascosta con gli altri tre figli. La giovane madre ha spiegato agli operatori umanitari: “Quella notte il nostro villaggio è stato attaccato e le case sono state bruciate. Quando tutto è iniziato ero a casa con i miei quattro figli. Abbiamo cercato di scappare nel bosco, ma hanno preso mio figlio maggiore e lo hanno decapitato. Non potemmo fare nulla per opporci uscendo dalla foresta altrimenti sarebbero stati uccisi anche loro”. Quasi 670 mila persone sono sfollate all’interno del Mozambico a causa del conflitto islamista a Cabo Delgado, quasi sette volte il numero riportato un anno fa. Almeno 2.614 persone sono morte nel conflitto, compresi 1.312 civili. La situazione si è gravemente deteriorata negli ultimi 12 mesi, con l’escalation degli attacchi ai villaggi. Cabo Delgado sta inoltre subendo choc climatici continui: il ciclone Kenneth del 2019, il più forte che ha colpito la parte settentrionale del Mozambico e le massicce inondazioni all’inizio del 2020. Amelia,29 anni, non ha avuto nemmeno la possibilità di dare al suo terzo figlio di 10 anni una sepoltura adeguata. A 44 anni dal devastante conflitto civile, il più lungo della storia africana, la popolazione del Mozambico si trova ad affrontare un incubo ancora più spaventoso, se possibile: la caccia e la decapitazione dei bambini. Come in un film horror diventato una realtà sempre più diffusa in tutto il paese dell’Africa orientale affacciato sull’Oceano Indiano, decine e decine di bambini e ragazzini sono stati decapitati dai terroristi islamici affiliati all’Isis.

Per ora questo atroce tentativo di annientare le nuove generazioni, finalizzato a inoculare terrore puro nelle vene degli abitanti del Mozambico, è stato esercitato nella provincia di Cabo Delgado, nel nord rurale del paese. I jihadisti che si ispirano all’Isis stanno dimostrando di avere ampliato la rotta africana fino ad arrivare qui, luogo finora rimasto quasi del tutto fuori dal mirino dei tagliagole. “Queste storie ci hanno letteralmente sconvolto”, ha raccontato alla Bbc il direttore di Save the Children in Mozambico, Chance Briggs. “È una violenza che deve finire, le famiglie dei rifugiati devono essere aiutate. È la prima volta che emergono notizie di civili decapitati dai terroristi islamici in Mozambico”, ha denunciato Briggs. Lo scorso novembre, i media locali hanno riportano la notizia di oltre 50 persone decapitate su un campo da calcio sempre a Cabo Delgado. Ad aprile 2020 decine di civili furono uccisi in un attacco ad un villaggio. Le associazioni per i diritti umani hanno inoltre accusato le forze di sicurezza regolari di abusi, torture e omicidi contro le tribù locali nel corso di operazioni contro i jihadisti. Una circostanza che si verifica anche in altre zone dell’Africa, come per esempio nel Congo orientale. Due giorni fa i funzionari dell’ambasciata Usa a Maputo hanno annunciato che militari americani addestreranno per due mesi i soldati del Mozambico oltre a fornire equipaggiamento medico e per le comunicazioni.

Rutte, il voto è un referendum sulla gestione della pandemia

Chiudono oggi, in Olanda, i seggi aperti da lunedì per le politiche al tempo della pandemia che potrebbero confermare alla guida del governo il premier uscente Mark Rutte, dimessosi a metà gennaio per uno scandalo legato al bonus figli. Nelle ultime ore, però, i sondaggi lo danno in calo. Liberale, 54 anni, Rutte, premier dal 2010 senza soluzione di continuità, è uno dei leader europei più longevi: nell’Unione, è la figura di riferimento dei cosiddetti ‘Paesi frugali’, poco inclini a fare debito e poco tolleranti per il debito altrui; ed è quindi percepito come un ‘nemico dell’Italia’. Le elezioni, che si svolgono alla scadenza regolare della legislatura quadriennale, ma cui il governo arriva dimissionario per una vicenda relativa agli anni 2013/’19, sono una sorta di pronunciamento della popolazione sulla gestione della pandemia da parte di Rutte e dei suoi ministri. Fino a ieri, l’accesso ai seggi era riservato alle persone a rischio, soprattutto gli anziani, mentre oggi potrà votare tutto il resto della popolazione: attesi alle urne oltre 810 mila giovani al primo voto. Nonostante diffuse insofferenze anti-lockdown, il governo ha di recente prorogato la maggior parte delle restrizioni imposte per contenere la diffusione dei contagi; ed è stato fra i primi a sospendere precauzionalmente la somministrazione del vaccino AstraZeneca. Il coprifuoco è in atto dalle 21 alle 4.30 e resterà in vigore almeno fino al 31 marzo. La proroga del coprifuoco ha suscitato reazioni e proteste: domenica, la polizia ha usato i cannoni ad acqua per disperdere manifestanti che ad Amsterdam contestavano le misure anti-coronavirus. Ma, malgrado scandali e tensioni, i sondaggi danno i liberali del Vvd di Rutte in testa alle intenzioni di voto con il 25%. La destra populista e xenofoba, sovranista e islamofoba del Partito nazionalista di Geet Wilders è al 13%: la pandemia lo vede su posizioni tendenzialmente negazioniste. Nel Parlamento olandese, tradizionalmente molto frammentato, dovrebbero pure entrare i cristiano-sociali del Cda, i socialdemocratici del D66, i verdi, i socialisti e i laburisti, in tutto forse 15 sigle. Anche la destra è frammentata, con diversi movimenti che hanno programmi anti-costituzionali.

“Il franchismo c’è ancora, Spagna a rischio stabilità”

Mi candido contro “il rischio enorme di un governo di ultradestra Popolari-Vox a Madrid”. Il pericolo che il vicepresidente dimissionario del governo spagnolo, Pablo Iglesias, vede “non è da sottovalutare”, spiega Ángel Viñas, storico, diplomatico e autore di vari libri sulla Guerra civile spagnola, in libreria con El gran error de la Republica (Planeta). “Ho scritto del 1936 quando Francisco Franco compì il colpo di Stato contro la Repubblica di Santiago Quiroga e Manuel Azaña, con un occhio a oggi. Anche ora si sottovaluta il rischio. Per non parlare dell’allarme – che la destra lancia ora come allora – contro il socialcomunismo, che nel ’36 fu una scusa per attirare proseliti della dittatura”, ci dice.

Professor Viñas, lei scrive che l’errore del governo allora fu credere che l’esercito sarebbe stato fedele alla Repubblica. Potrebbe succedere di nuovo?

Credo che ci siano frange franchiste nell’esercito. Basta leggere le chat dei militari trapelate negli ultimi mesi: inneggiano al franchismo e al golpe contro il governo socialcomunista, appunto. E non si tratta solo di generali in pensione che anche nel ‘36 si rimisero al fronte con i golpisti. Sa perché esistono ancora?

No, perché?

Perché la nostra amata Transizione dalla dittatura alla democrazia è avvenuta all’ombra vigile delle baionette.

Il suo libro contiene due teorie inedite: la prima è che la sollevazione ebbe l’appoggio di Benito Mussolini prima del 18 luglio, cioè da prima della presa del comando di Francisco Franco. L’altra è che il golpe aveva come fine la monarchia.


Esatto. Ho i documenti che lo provano, li ho trovati anche negli archivi italiani. José Sanjurjo e José Calvo Sotelo chiedono e ottengono l’aiuto del duce ai primi di luglio. All’Italia conveniva una monarchia alleata nel Mediterraneo contro il fronte comunista. Per tornare allo spettro che si agita anche ora. Franco subentra quando Sanjurjo e Sotelo, le teste monarchica e militare muoiono. Lui resta il più alto in grado al comando dell’operazione. E non finirà con la monarchia.

Ma fu Franco a riportare la corona in Spagna. Lo fece per salvare il “sistema?”

Franco era cosciente di essere un usurpatore. La Guerra civile non si fece perché lui diventasse capo di Stato, ma per portare la monarchia in Spagna. Quando alla fine della sua vita si rese conto di non poter fondare una dinastia, ricorse alla vecchia monarchia: alla casa dei Borboni. Ma non a Don Juan de Borbon che stava dietro al sollevamento dei monarchici. Scelse già dal 48-49 il figlio, Juan Carlos che poteva plasmare. L’attuale re emerito ha avuto quattro legittimazioni: quella del dittatore, quella dell’esercito, quella della democrazia e quella del golpe del 1981 in cui salvò la democrazia. Ma Juan Carlos non era stupido come credeva Franco e si consegnò alla democrazia. Quindi al caudillo non riuscì di preservare “il sistema”.

Ora la monarchia proprio per colpa di Juan Carlos non ha buona stampa.

Sì, Juan Carlos a un certo punto è impazzito dietro alle gonnelle e al denaro. La storia delle donne la Spagna gliel’ha perdonata. Quella del denaro sottratto ai contribuenti no. Ora spetta al figlio, Felipe VI, chiedersi se sia più importante suo padre o gli spagnoli, suo padre o la corona. Se crede nella seconda, deve agire. Magari non ora che è sotto pressione, ma si deve rinnovare.

Lei non appoggia un referendum tra Repubblica e monarchia?

No, sarebbe troppo complesso e non credo che l’idea di Podemos o degli indipendentisti di cambiare la Costituzione sia praticabile. Credo che Felipe VI insieme al governo potrebbe scrivere finalmente la parte mancante della Costituzione: la legge della Corona. Quella che regola la trasparenza della monarchia.

Il governo Sanchez ha fatto vari gesti per sanare il passato. Dalla riesumazione di Franco dal mausoleo costruito dai prigionieri alla confisca dei suoi beni.

Sì, nessun governo ci aveva pensato prima. Ma sa, la gente l’ha già dimenticato. Se non vuole essere travolto dalla questione della monarchia deve agire, e non sottovalutarla.

Landini sazio a casa Brunetta: la politica magna come sempre

“Cipolla, sedano, carota, un po’ d’aglio. I borlotti (tenuti ammollo dalla sera prima), una patata, rosmarino, pelati e poi, se si vuole un po’ di sapore, un culetto di prosciutto cotto. Quindi i maltagliati, fatti a mano però”. Non sappiamo se Renato Brunetta abbia proposto a Cgil, Cisl e Uil, per riformare la Pubblica amministrazione, la sua pasta e fagioli, ma sappiamo che la riforma è stata inghiottita da Maurizio Landini.

E dunque, come la storia gastronomica del Palazzo suggerisce, serve la cucina alla politica, quel “contatto umano” necessario, come appunto ha detto Brunetta rivelando la cena risolutoria nella sua casa alle porte di Roma che ha risolto il conflitto convertendolo un pochettino in un magna magna, qui da intendersi in senso proprio.

Il patto dei borlotti o del fegato alla veneziana, altro piatto cult del ministro cuoco, fa finalmente rivivere la liturgia della buona tavola, dei compromessi magari al sugo, insaporiti e accompagnati da un rosso indiscutibile, per cui alla fine della bicchierata i distinguo si appianano, le riserve si annebbiano, l’antagonismo va a nanna.

Nella Seconda Repubblica è stato un felice susseguirsi di accordi post prandiali o di brevi incursioni nel frigorifero che hanno prodotto fatti e non parole. L’attacco di fame a volte è stato la premessa delle svolte. “Avete fame, vero?”, chiese Umberto Bossi a Massimo D’Alema mentre concordavano la caduta del governo Berlusconi nella cucina romana del senatur, un bilocale “tetro e cupo della periferia, un posto da operai”. Quello fu “il patto delle sardine” (era il 22 dicembre 1994) in ragione del fatto che Bossi – appurato che i colleghi congiurati avevano voglia di addentare qualcosa – si fiondò al frigorifero: “Trovai del pan carrè, qualche scatola di sardine e qualche lattina di Coca Cola e birra. Misi tutto sul tavolo”. “Io preferii digiunare”, annotò tempo dopo D’Alema. Ma Rocco Buttiglione, col quale il leader della sinistra aveva già pasteggiato a vongole nell’estate precedente, mangiò i tramezzini preparati dall’Umberto.

C’è modo e modo di invitare, di certo il più solenne fu quello che partì da casa Letta (Gianni, lo zio di Enrico) nel giugno del ’97, il 18 del mese per la precisione. E alla Camilluccia, il ricovero offerto dal plenipotenziario di Silvio Berlusconi, fu adeguato alle necessità: bisognava trovare un accordo non solo per riformare la Costituzione, ma anche per chiudere la belligeranza sul conflitto di interessi di cui il proprietario di Mediaset era protagonista. La cronaca, chissà perché, ha annotato solo il dolce, la crostata (da cui il patto della crostata) che in verità, secondo i narratori più accreditati, la signora Letta non servì avendo preparato un eccellente budino. Lo assaggiarono e ringraziarono dell’ospitalità Franco Marini, allora segretario del Ppi, Gianfranco Fini, naturalmente Berlusconi che insieme a D’Alema e sotto la regia di Letta, approvarono l’accordo.

Negli anni altre gozzoviglie sono state protagoniste di specialissime intese. L’ultima conosciuta, quella dell’arancino (siamo a Catania, novembre 2017) ha fatto fare pace al nuovo centrodestra formalizzando il trapasso di leadership: dal Biscione a Salvini.

Con la spigola (patto della spigola, 30 luglio 2008) Fini e Berlusca si accordano sull’ingresso di Alleanza Nazionale, l’erede del Movimento sociale italiano, in quello che allora si chiamava Popolo delle libertà. Qui la cronaca ha avuto un ripensamento, perché gli strateghi della comunicazione hanno orientato l’interesse sul pesce di mare in luogo del carciofo parendo sconveniente che due pesi massimi della politica avessero stretto la mano intorno al vegetale.

La cronaca è lunga e, riassumendo, ritroviamo la pajata, il piatto dell’Urbe, regina della svolta bossiana: mai più Roma ladrona e via a Gianni Alemanno sindaco della città. Si ritrovarono tutti davanti Montecitorio, l’Umberto, e una vigorosa Renata Polverini infilò nella bocca di Bossi un numero imprecisato di rigatoni. Il sugo colò sulla camicia. Poi gli applausi.

Fondi Lega, “società fallita e bancarotta”. Nuove accuse per il contabile di Salvini

L’Anghelus è una discoteca in Valcalepio (Bergamo) gestita dalla New Quien dal 2007 fino alla sua liquidazione nel marzo 2020. Ed è a partire da questa srl che la Procura di Milano segue una pista inedita nell’inchiesta sui commercialisti della Lega. Pista che potrebbe approdare nei prossimi giorni a una nuova indagine per bancarotta fraudolenta (pena massima 10 anni). E che, secondo la ricostruzione del pm Stefano Civardi, riguarda, oltre gli amministratori della società, anche il commercialista della Lega Andrea Manzoni, fedelissimo del tesoriere Giulio Centemero. Manzoni, considerato dalla Procura il “deus ex machina” della New Quien, è stato titolare dei libri contabili insieme all’altro ex professionista leghista Alberto Di Rubba attraverso la Dea Consulting ritenuta uno dei crocevia per il passaggio dei soldi della Lega. Il nuovo fascicolo oggi è aperto senza titolo di reato né indagati. Ma a breve potrebbero arrivare le prime iscrizioni. Ieri il tribunale ha dichiarato fallita la New Quien dopo la richiesta del pm che indaga sul caso Lombardia Film Commission (Lfc). Già nei prossimi giorni così partirà un’indagine per bancarotta. L’ultimo bilancio della società (2019) mostrava debiti tributari per 463mila euro. Da una nota della Guardia di finanza emerge come sui conti della società, fra il 2015 e il 2019, siano stati movimentati 4 milioni. Denaro entrato in buona parte con depositi in contante e uscito con assegni bancari. Emergono poi bonifici per 1.200 euro dal conto della Lega. Il fallimento, secondo l’ipotesi della Procura, riguarda Manzoni che non ha mai avuto cariche ufficiali, e i vari amministratori. Tra questi Alessandro Foiadelli, cugino di Manzoni, Gabriele Nicoli, Luca Lanfranchi e Luca Sostegni, che ha patteggiato 4 anni e 10 mesi per il filone Lfc. Sostegni dal 2018 al marzo 2020 è stato socio unico e liquidatore. Sarà estromesso durante un’assemblea di fine 2019 dove risulterà presente sebbene fosse in Brasile. Un atto “falso”. Il caso New Quien, dirà Sostegni “è solo la punta dell’iceberg”. Dal 2013 al 2015 la srl risulta domiciliata a Bergamo in viale Vittorio Emanuele, indirizzo condiviso con la Pontida Fin e la Mc srl, già riconducibile a Centemero. Il ruolo di Manzoni nella New Quien è spiegato da Michele Scillieri intercettato: “Dietro questa società c’è un commercialista legato a una cosa che sappiamo tutti”. Per Sostegni è stato “quello che lavora da Michele” a metterlo in contatto con la ditta. Scrive la Finanza: “Sostegni parla di Andrea Manzoni”. Scillieri infine definisce Manzoni “amministratore di fatto” della società fallita.