Il ministro dei Cinque Stelle non ha mosso un muscolo, mentre gli ex 5Stelle di Alternativa c’è gli lanciavano addosso una pioggia di fogli dai banchi del governo, appositamente occupati. Ciò che avrebbero fatto i grillini prima maniera, quelli della scorsa legislatura, e a pensarci sembra passato un secolo. Invece era appena qualche anno fa, per il M5S e per Federico D’Incà, ministro per i Rapporti con il Parlamento, ricoperto di carta due giorni fa mentre alla Camera annunciava il voto di fiducia sul decreto legge sull’obbligo vaccinale.
Decisione di Palazzo Chigi, certo, ma dal microfono l’ha dovuta diffondere lui, D’Incà: veneto di Belluno, 46 anni, una moglie e una figlia, contiano, vicino a Roberto Fico. Tre anni fa, mentre nasceva faticosamente il governo M5S-Pd, fu il presidente della Camera a spingere per avere in quel ruolo questo grillino alto e dai modi cortesi. Fautore del dialogo coi dem, anche nel Veneto dopo invece la base grillina del Pd non ne mai voluto saperne, e in certe assemblee glielo hanno anche gridato in faccia.
Ma ora ha altri problemi D’Incà, perché quei rapporti con il Parlamento a cui deve dedicarsi raramente sono stati così sfibrati. Prima ragione: Mario Draghi di coinvolgere partiti e soprattutto parlamentari ha sempre avuto scarsa voglia, figurarsi di trattare. Punto secondo, forze politiche ed eletti sentono ormai il richiamo della foresta, cioè delle urne, e nell’anno che porta alle Politiche devono piazzare bandierine e ricordare a tutti che esistono. In mezzo c’è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, addetto alle grane che da tecnico parla comunque un linguaggio un po’ diverso dai politici. Quindi tra i due fuochi c’è soprattutto D’Incà, che martedì dopo essersi preso gli aeroplanini di carta ha preso parte a una conferenza dei capigruppo. Dove ha ricevuto diffusa solidarietà ma anche qualche battuta sulla nemesi (“in Aula abbiamo visto ex grillini contro grillini”). Magari gli fanno più male certi spifferi sui giornali, scagliatigli contro da anonimi del Pd (“non sa gestire”) e ovviamente anche del M5S, dove ormai tutti mordono tutti. Compreso il ministro, accusato da alcuni di non tutelare abbastanza il gruppo. Va meglio con il centrodestra, con la capogruppo di Forza Italia in Senato Anna Maria Bernini, che domenica lo ha difeso a Mezz’ora in più.
Di sicuro sono stati, sono e saranno giorni perigliosi per il ministro, che la settimana scorsa ha dovuto affrontare una rogna come il decreto Milleproroghe, varco perfetto per i partiti per assestare colpi al Draghi autocrate. “D’Incà ha fatto riunioni in Parlamento per due giorni sul decreto, e sono stati due giorni pieni di urla incrociate” raccontano. Ha provato a frenare gli emendamenti che andavano contro il governo, anche con tavoli con i ministeri competenti. Ma alla fine l’esecutivo è andato sotto in commissione quattro volte, anche su misure fondamentali per Palazzo Chigi, come il tetto ai contanti e i soldi per l’ex Ilva. Abbastanza per provocare l’ira di Draghi, che ha convocato i capidelegazione per avvertirli: “Siamo qui per fare le cose, ma così è difficile andare avanti”.
Deve averlo pensato anche D’Incà, che il legame più forte nel governo lo ha con il ministro dell’Economia, Daniele Franco: suo compaesano, visto che sono cresciuti entrambi a Trichiana, frazione vicino Belluno. Proprio per non far chiudere un’azienda delle sue parti, l’Ideal Standard, D’Incà ha trovato una cordata di imprenditori con dentro anche Leonardo Del Vecchio, il patron di Luxottica. Ma ora l’attenzione la deve tenere tutta su Roma, dove parlare di burrone è abitudine, nei Palazzi. “Questo esecutivo ballerà sempre, è nato sull’onda di un’emergenza che il 31 marzo finirà in via ufficiale” osserva con discreta preoccupazione un grillino dei piani alti. Anche se adesso c’è una guerra lì fuori, e far cadere tutto non appare esattamente semplice. Ma rendere tutto maledettamente complicato in Parlamento quello sì, è ancora possibile, perfino semplice. Una croce quotidiana per D’Incà, che quasi corre nei corridoi di Camera e Senato. Perché i guai vanno veloci.