Brosio, da mani pulite a Medjugorje

Trent’anni dopo, ci si interroga sull’eredità di Tangentopoli. Chi vede nell’inchiesta Mani Pulite un salutare vaccino contro il virus della corruzione, chi ritiene che gli effetti collaterali abbiano peggiorato la situazione. In attesa di sentire il parere di Crisanti e di Bassetti, un’evidenza televisiva c’è, e ha un nome e cognome: Paolo Brosio. Il 1992 fu per l’informazione un anno di grazia, prima del diluvio dei cellulari, del web, dei social, dei talk. Dal video, breaking news quotidiane, che non si potevano né si volevano censurare (Silvio Berlusconi prima si giovò del sistema delle tangenti da imprenditore, poi ne prese le distanze da editore, e questo è stato il suo capolavoro).

Nella pigia pigia dei mezzibusti improvvisamente eretti, asserragliati a Palazzo di Giustizia, si fa notare un inviato del Tg4. Si collega dalla pensilina dei tram, oscillando pericolosamente tra i convogli sferraglianti, avviluppato in un gruppo lacoontico tra i cavi ad alta tensione, i pantografi, i bottoni del loden e il filo di un chilometrico auricolare. Quell’inviato è Paolo Brosio, i suoi duetti con il direttore Emilio Fede, stile Fratelli De Rege, fanno pensare più a un cabaret che a un telegiornale. Ma due anni dopo il ciclone Mani Pulite comincia a perdere potenza e di lì a poco gli inviati, tornati mezzibusti, riprendono la routine fatta di pastoni e veline. Brosio, no. Gettata alle ortiche la tonaca, prende a frequentare i salotti, i varietà, i reality, pioniere del giornalista che diventa Vip multiuso, solco che sarà difeso a spada tratta da tanti altri. Se qualcuno gridasse al miracolo, probabilmente lui non avrebbe nulla in contrario, considerata la svolta mistica che lo ha reso assiduo delle apparizioni di Medjugorje. Così la parabola di quest’uomo di fede ci invita a riflettere sulle conseguenze mediatiche di Tangentopoli. Nella Prima Repubblica, Brosio si collegava con Palazzo di giustizia; nella Seconda, si collega con la Madonna. Forse era meglio la Prima.

Appello Eni-Nigeria: a Milano si accettano scommesse sul finale

Attorno al processo d’appello sul più grande affare petrolifero mai tentato da Eni, quello per il giacimento Opl 245 in Nigeria, si sta giocando una partita senza esclusione di colpi. Il processo di primo grado per corruzione internazionale è finito il 17 marzo 2021 con un’assoluzione generale perché “il fatto non sussiste”. Poi la Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio per rifiuto di atti d’ufficio dei due pm del primo grado, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati dal collega Paolo Storari di non aver consegnato ai giudici del dibattimento prove favorevoli a Eni. Infine il procuratore generale di Milano, Francesca Nanni, ha respinto la richiesta di De Pasquale di essere applicato al processo (come succede spesso nei procedimenti d’appello complessi). Nanni ha spiegato che c’è già chi conosce bene gli atti: il sostituto procuratore generale Celestina Gravina, che ha sostenuto l’accusa nel processo d’appello a due imputati minori di Eni-Nigeria che avevano chiesto il giudizio abbreviato, Emeka Obi e Gianluca Di Nardo: due mediatori dell’affare, che erano stati condannati in primo grado a 4 anni. Ma in appello Gravina, invece di valorizzare gli argomenti d’accusa, aveva chiesto l’assoluzione, poi concessa dai giudici. Scegliere Gravina per quel processo era subito apparso un’anomalia: Nanni, invece di mandare in aula a rappresentare l’accusa – secondo i criteri organizzativi del suo stesso ufficio – uno dei magistrati che si occupavano di processi per corruzione (Fabio Napoleone, Vincenzo Calia, Massimo Gaballo), aveva incaricato Gravina, anche se il Csm l’aveva “degradata” e trasferita a Milano dopo una molto criticata permanenza a Matera come procuratore della Repubblica: aveva definito, davanti alla Commissione antimafia, “fuocherelli” gli attentati mafiosi in Basilicata; e “chiacchiere da comari”, davanti alla Bicamerale sul ciclo dei rifiuti, le denunce di traffici di materiali radioattivi.

Nell’appello per Obi e Di Nardo non solo aveva chiesto l’assoluzione, ma si era permessa addirittura di criticare l’eccessivo costo delle indagini della Procura di Milano (in realtà, i soldi confiscati agli imputati sono molti di più di quelli spesi). Erano subito intervenuti tre autorevoli ex magistrati della Procura generale – Laura Bertolé Viale, Maria Elena Visconti e Salvatore Sinagra – con una lettera in cui contestavano “le critiche per l’eccessivo costo delle indagini”. Sinagra aveva anche osservato che “deve considerarsi del tutto eccezionale la richiesta di assoluzione del pg, dopo una condanna ottenuta in primo grado. Infatti, il sostituto pg d’udienza che intende chiedere la riforma della sentenza di condanna in processi penali di rilievo, sottopone, in base a una prassi normalmente seguita, la sua intenzione al capo dell’ufficio, il procuratore generale: la sua richiesta deve essere valutata dal titolare dell’ufficio e non può essere lasciata alle scelte del singolo sostituto”. Quanto alle critiche sull’opportunità di sottoporre a indagini i campioni nazionali (come Eni), secondo Sinagra “ignorano due principi costituzionali: l’obbligatorietà dell’azione penale e il principio di uguaglianza di tutti davanti alla legge. Ma richiedono anche l’attenzione verso la libertà della stampa, perché quei campioni foraggiano, lecitamente con la pubblicità, molti giornali che, seppur sommessamente, per i campioni nazionali pretendono una sorta di immunità”.

Ora la prima anomalia (aver scelto Gravina invece che i pg che si occupano di corruzione, come Gaballo, che conosce bene la materia per essersi occupato del processo Eni-Algeria) viene rivendicata da Nanni come precedente per aggiungervi una seconda anomalia: mandarla anche al processo d’appello Eni-Nigeria. Con quali risultati, si accettano scommesse.

 

Il Sud non importa più a nessuno e la colpa è pure dei meridionali

Oramai il Mezzogiorno funziona solo come ambientazione di fiction, che a volte sembrano dei promo turistici e nulla più. Per il resto la cultura e la politica del nostro Paese non hanno voglia di pensare il Sud, di rimetterlo al centro dell’attenzione. Altrimenti non si spiegherebbe il silenzio che ha accolto l’uscita di Una profezia per l’Italia. Ritorno al Sud di Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone. Il saggio, di novembre, non ha trovato nel discorso pubblico lo spazio che meritava non solo per l’arrivo della quarta ondata. Eppure è ricco di stimoli, con un solido frame storico e pone domande urgenti. Il libro nasce da un viaggio nel Meridione perché, specie al Sud, “ci sono realtà di persone e di fatti che solo la vista, il contatto diretto possono far intendere” (vivaddio!); e chissà, si scrive, che le condizioni del Mezzogiorno non siano peggiorate proprio da quando la politica, il giornalismo e la cultura hanno smesso di frequentarlo. Più che tare antropologiche dietro una vera “regressione” ci sono concreti nodi storici che il presente ha reso più difficili da sciogliere. Come la scomparsa dei partiti che un tempo supplivano con le loro organizzazioni alle carenze dello Stato istituendo una “dimensione pubblica della vita per intere fasce della popolazione”. La loro crisi ha lasciato scoperti “tutti i nodi irrisolti della vita pubblica del Mezzogiorno” e ha eroso quelle solidarietà e appartenenze, anche di tipo ideologico, che avevano la virtù di guidare scelte, “bene o male, capaci di andare al di là del particolarismo e delle singole esistenze”. Insomma il venir meno del collante dei partiti al Sud, molto più che nel resto del Paese, secondo gli autori ha avuto effetti devastanti. Il libro non è tenero nei confronti di coloro che il Sud lo abitano, colpevoli di essere non di rado complici di un sistema che perpetua subalternità, familismo e incapacità di sviluppo. Come ha sintetizzato Pippo Callipo, noto imprenditore del tonno, convinto che le cose in Calabria vadano come vanno anche “perché ai calabresi gli piace così!”. Perché una parte del problema, diciamocelo, è che ai meridionali “gli piace così”: alla realtà difficile non rispondono con lotte collettive, ma con percorsi individuali di movimento, magari per “aggiustarsi” un personale tornaconto. Il vecchio “familismo amorale” sta ancora lì a (s)piegare il Sud. Né il regionalismo, di cui gli autori denunciano con veemenza il clamoroso fallimento, è mai riuscito ad avvicinare le due metà del Paese, se non in un breve frangente frutto dell’onda lunga del dopoguerra. Forse è arrivato il momento di ridiscutere la sciagurata modifica del Titolo V che nel 2000 ha peggiorato non di poco le cose, affermano i due studiosi, arciconvinti che si debba riassegnare allo Stato un ruolo più incisivo, soprattutto se ci sono risorse da spendere come quelle del Pnrr: “Che non siano i Comuni e le Regioni a farlo” scrivono Galli della Loggia e Schiavone, criticando anche lo scarso realismo del governo nel disporre il Recovery plan. Il guaio è che la criminalità da un lato e la crisi della democrazia dall’altro, rischiano di accelerare l’imbocco per il Sud di un vicolo cieco se non ci sarà un intervento forte dall’esterno: se lo Stato non decide una volta per tutte a “gettare tutto il proprio peso” nella lotta alle mafie e a investire. Dal 1950 al 2008 solo l’1% del Pil è stato investito al Sud, i tedeschi invece dopo il 1989 hanno impegnato il 4,5% del loro Pil per la ex Germania dell’Est. Tutto ciò sarebbe però inutile senza uno scatto della cultura e delle classi dirigenti meridionali, nel solco del meridionalismo dei Pasquale Villari, dei Salvemini, dei Croce. Un bel libro, insomma, che meriterebbe attenzione nel dibattito pubblico. Ma c’è ancora un dibattito pubblico?

 

Le tante badanti ucraine e quelle verità sgradite

È a loro che per prime dovremmo dare la parola: alle badanti ucraine. Quante ne avete conosciute? Sono più di 200 mila, immigrate in Italia. La storia europea l’hanno vissuta sulla loro pelle. Da ragazze hanno fatto in tempo a conoscere l’oppressione del regime sovietico. Nel 1991 hanno esultato per la conquista dell’indipendenza seguita però da un crollo dell’economia pianificata, accompagnato dal dilagare della criminalità, tale da costringerle all’emigrazione per mantenere figli e mariti. Ora curano i nostri nonni e i nostri bambini. Non riusciremmo più a farne a meno. Ci fidiamo di loro. Ma loro, possono fidarsi di noi?

Non sfuggo ai dilemmi della geopolitica che oggi ci s’impongono con l’urgenza di una nuova, devastante guerra europea. Putin ci ha fatto capire con la sua consueta brutalità quanto poco lo spaventino le ritorsioni economiche contro la Russia, e quanto poco gli importi versare il sangue dei loro cari. Forse che saremmo disposti a sfidare il rischio di un conflitto nucleare per difendere la libertà della giovane repubblica indipendente di Ucraina? Le badanti sanno benissimo che non combatteremo al fianco del malandato esercito di Kiev. Telefonano a casa, sentono in diretta le esplosioni. Provano i sentimenti dell’angoscia e dell’abbandono.

Forse non ricordano che nel 1956 concedemmo asilo politico ai profughi in fuga dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, e lo stesso nel 1968 dopo l’invasione della Cecoslovacchia. Ma sanno che, sebbene non esista più il Patto di Varsavia, neanche stavolta gli eserciti occidentali si opporranno con la forza alla prepotenza di Mosca, decisa a ripristinare quella “sfera d’influenza” imperiale che, a torto o a ragione, considera vitale per la propria sopravvivenza. Quanto ai profughi, sanno come li maltrattiamo.

Da entrambe le parti fioccano i richiami a pretestuose formule novecentesche: Putin vaneggia di “denazificazione” dell’Ucraina, come se rivendicare la libertà di quel popolo comportasse nostalgia di un nazionalismo aggressivo. Il governo di Kiev replica paragonando l’invasione russa del 2022 all’Operazione Barbarossa scatenata da Hitler nel 1941. Inutile propaganda innestata sugli strascichi della guerra civile seguita alla rivoluzione del 1917 che proprio in Ucraina conobbe il suo tragico epicentro, Armata Rossa contro Armate Bianche. Basta visitare quei luoghi per constatare il lascito d’odio che vi perdura. Il rosso e il bruno si sono nel frattempo miscelati velenosamente: non a caso un avventuriero divenuto personaggio letterario come Eduard Limonov, cresciuto nella periferia desolata di Charkiv, fondò un partito che si definiva nazionalbolscevico. Limonov, strenuo oppositore di Putin, oggi plaudirebbe alla sua offensiva.

Non è solo l’ex ambasciatore Sergio Romano, nell’intervista a Il Fatto, a giudicare irresponsabile la scelta di circondare la Russia post-sovietica con gli arsenali della Nato. Rileggo l’avvertimento che Romano Prodi consegnò al Corriere della Sera nel 2015: “Se vuoi che l’Ucraina non sia membro della Nato e dell’Ue, ma sia un Paese amico dell’Europa e un ponte con la Russia, devi avere una politica coerente con questo obiettivo. Se l’obiettivo è portare l’Ucraina nella Nato, allora crei tensioni irreversibili”. Purtroppo ci siamo arrivati. E pazienza se riconoscerlo ti attira la stolta accusa di essere filorusso. Dobbiamo solo sperare che il richiamo di Polonia, Lituania, Estonia e Lettonia all’articolo 4 della Nato non preluda ad azioni sconsiderate, tali da allargare il teatro dei combattimenti. La decisione di non fornire armamenti all’Ucraina annunciata prima dall’Ungheria e poi dalla Germania, per fortuna sembra andare nella direzione opposta. Evitiamo paragoni fuorvianti. Putin è un autocrate criminale, ma il suo progetto neozarista è altra cosa dal piano di dominazione mondiale del Terzo Reich. È duro ammetterlo, tanto più guardando negli occhi le nostre badanti ucraine. Ma oggi più che mai la pace si difende con la pace. Assistiamo impotenti al sopruso di cui è vittima una nazione grande due volte l’Italia. Ne subiamo conseguenze gravi che si sommano alla pandemia Covid nel minacciare il nostro tenore di vita e le nostre riserve energetiche. Ma non è viltà escludere un ricorso alle armi che, al di là dei proclami tonitruanti al presunto “riallineamento atlantista”, vedrebbe ben presto dividersi le democrazie occidentali. Allo smacco del ritiro dall’Afghanistan si somma l’ormai quasi certa riconquista russa dell’Ucraina. In un mondo multipolare l’egemonia atlantica ha fatto il suo tempo. Troverà nuovi equilibri se l’Unione europea perseguirà con saggezza la propria autonomia politica ed energetica, instaurando con i suoi vicini zone di neutralità e collaborazione paritaria. Solo allora i despoti alla Putin saranno costretti a fare i conti con le aspirazioni democratiche delle loro società.

 

Più oroscopi e meno omelie, più Ilary e meno Lukaku: che commedia

In un Paese dove tutto va a commedia, niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

La notizia del giorno è che Putin sta bombardando l’Ucraina. Un passo verso la Terza guerra mondiale, ovvero, come titola La Gazzetta dello Sport, “Lukaku: Rivoglio l’Inter”.

A proposito di calcio. È troppo presto per provarci con Ilary?

La frase, la parola e la data che si possono leggere da sinistra a destra e viceversa, restando invariate (identità delle letture diretta e retrograda), sono i palindromi più affascinanti. L’altro giorno era il 22 02 2022, una data palindroma. “Ossesso” è una parola palindroma. “In girum imus nocte et consumimur igni” (“Giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco”) è una frase latina palindroma tratta da un verso di Virgilio, e usata da Debord come titolo di un documentario contro la Società dello Spettacolo (mai così attuale: bit.ly/3HcO1Yt). Trovo però molto irritante che “palindromo” non sia palindromo.

Ritenere che certe azioni possano influire sugli eventi e sugli oggetti, anche se non c’è nessuna causa scientifica a collegarli, è pensiero magico (cfr. Ncdc 12 febbraio 2021). Ne sono un esempio gli oroscopi, e le omelie domenicali che parlano di Dio e Gesù come se i fenomeni stupefacenti loro attribuiti dall’Antico e dal Nuovo Testamento fossero una cronaca di fatti, e non frutti mirabolanti della fantasia umana secondi soltanto all’opera omnia di Stan Lee, che però voleva solo vendere albi a fumetti, non fare propaganda politica o religiosa. “L’idea di un solo regno, di un solo popolo, di una sola capitale e di un solo Tempio sostenuta dalla Bibbia non è altro che una storia raccontata per realizzare le ambizioni territoriali e religiose del regno di Giuda del VII secolo. Anche i racconti dei patriarchi, l’esodo dall’Egitto e la conquista della terra di Canaan sono leggende compilate in quel periodo” (Finkelstein & Silberman, Sulle tracce di Mosè, 2001). “La risurrezione di Gesù non può essere qualificata come evento storico” (Romano Penna, docente alla Pontificia Università Lateranense, 2012). Come le storie di Stan Lee, anche le omelie sono consolatorie, ma pubblicarle ogni domenica sul Fatto ne avvalora le fantasie e legittima il potere ecclesiastico fondato su di esse. (L’anima, poi, che invenzione fantastica: permette alle religioni che se ne fanno tutrici di interporsi fra te e i tuoi comportamenti, come la carta di credito permette alle banche di interporsi fra te e i tuoi acquisti, o come il metaverso permette a Zuckerberg di interporsi fra te e il tuo tempo libero, lucrandoci su). Pensiero magico per pensiero magico, la domenica sul Fatto vorrei poter leggere, accanto alle omelie di padre Spadaro, anche l’oroscopo di Branko.

I media continuano a darci notizie su Berlusconi e sulla sua corte di ruffiani e squinzie. Non me ne può fregare di meno. Dico solo che il restauro di Berlusconi mi basta a questo punto, e che trovo che ogni di più guasterebbe. Non va dimenticato, comunque, che se la crisi in Ucraina si è risolta è grazie alla sua grande amicizia con Putin. Come dirà fra un mese.

 

Autonomia: pressing leghista su Draghi

Faranno presto una proposta a Mario Draghi. Per adesso, però, si può dire che il percorso è ricominciato. E, con la pandemia che va a esaurirsi e lo stato di emergenza a terminare, la Lega torna ai suoi vecchi cavalli di battaglia. Parliamo dell’autonomia regionale, che ieri è tornata a mostrare la testa in un incontro in cui si sono visti Matteo Salvini, Luca Zaia, Attilio Fontana e la ministra per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini. Un incontro che dai partecipanti viene definito “positivo”, ma “interlocutorio”, comunque “il primo passo per riprendere i fili di un discorso interrotto”. L’obbiettivo è ripartire dalla legge quadro messa a punto dall’ex ministro Francesco Boccia, su cui è aperto un tavolo al ministero di cui fanno parte, oltre a quelli già citati, anche i presidenti di Emilia-Romagna, Liguria, Piemonte e Toscana.

Su questo fronte è però Salvini ad aver ripreso fortemente in mano la questione, tanto da parlarne con il presidente Mattarella, in un colloquio due giorni fa. Gli sta a cuore per due ordini di fattori. Il primo è che, a un anno dalle elezioni, il leader del Carroccio ha tutto l’interesse a riprendere a sventolare le istanze originarie della Lega, autonomia in primis. Inoltre Salvini ha il problema di non farsi scavalcare dal governatore veneto Zaia, che su questo terreno ha già ripreso a muoversi. Venerdì scorso, per esempio, ha invitato a Venezia l’emiliano Stefano Bonaccini, assai sensibile all’argomento, per fare il punto della situazione. “Siamo ai calci di rigore. Sull’autonomia il governo batta un colpo. Ci aspettiamo di essere convocati il prima possibile e vedere approvata la legge quadro”, hanno detto all’unisono. E martedì Zaia è tornato alla carica con un’intervista al Corriere: “Non ci sono più tabù, l’autonomia è di tutti e questo Parlamento può scrivere la storia. Se riuscissimo a metterla sul binario giusto sarebbe un fatto poderoso che darebbe senso a questa legislatura”.

Parole ben diverse dalla bocciatura della legge quadro che tempo addietro arrivò dallo stesso Zaia e poi dal lombardo Fontana, che ancora nel novembre scorso si diceva contrario perché “la norma va contro la Costituzione”. Insomma, nella Lega si sarebbe preferito dare corso al risultato del referendum dell’ottobre 2017, quando la maggioranza di lombardi e veneti dicevano sì ad avere l’esclusiva su 23 materie ora in condivisione con Roma. Mentre secondo la legge quadro ipotizzata da Boccia nel 2019 e ripresa da Gelmini – che cambierebbe comunque parecchio la situazione attuale – le materie saranno meno e varieranno da regione a regione. “Siamo disponibili a ragionare solo se si tratta di autonomia vera. Lavoriamo a una proposta comune senza dimenticare che 2 milioni e 273 mila veneti si sono già espressi per l’autonomia”, ha ribadito ieri Zaia al termine dell’incontro.

“È il primo passo dopo 2 anni e mezzo di stop”, osserva il vice capogruppo leghista alla Camera, Fabrizio Cecchetti. “La strada maestra è seguire la Costituzione, ma se la legge quadro serve a sbloccare, va bene. Bisogna però vedere il testo…”, osserva un po’ meno convinto Fontana. Testo su cui ora Gelmini lavorerà insieme ai governatori. Per poi presentare una proposta a Draghi. Che “arriverà presto”, promette la ministra.

Aeroplanini, errori e veline: tutti sul parafulmine D’Incà

Il ministro dei Cinque Stelle non ha mosso un muscolo, mentre gli ex 5Stelle di Alternativa c’è gli lanciavano addosso una pioggia di fogli dai banchi del governo, appositamente occupati. Ciò che avrebbero fatto i grillini prima maniera, quelli della scorsa legislatura, e a pensarci sembra passato un secolo. Invece era appena qualche anno fa, per il M5S e per Federico D’Incà, ministro per i Rapporti con il Parlamento, ricoperto di carta due giorni fa mentre alla Camera annunciava il voto di fiducia sul decreto legge sull’obbligo vaccinale.

Decisione di Palazzo Chigi, certo, ma dal microfono l’ha dovuta diffondere lui, D’Incà: veneto di Belluno, 46 anni, una moglie e una figlia, contiano, vicino a Roberto Fico. Tre anni fa, mentre nasceva faticosamente il governo M5S-Pd, fu il presidente della Camera a spingere per avere in quel ruolo questo grillino alto e dai modi cortesi. Fautore del dialogo coi dem, anche nel Veneto dopo invece la base grillina del Pd non ne mai voluto saperne, e in certe assemblee glielo hanno anche gridato in faccia.

Ma ora ha altri problemi D’Incà, perché quei rapporti con il Parlamento a cui deve dedicarsi raramente sono stati così sfibrati. Prima ragione: Mario Draghi di coinvolgere partiti e soprattutto parlamentari ha sempre avuto scarsa voglia, figurarsi di trattare. Punto secondo, forze politiche ed eletti sentono ormai il richiamo della foresta, cioè delle urne, e nell’anno che porta alle Politiche devono piazzare bandierine e ricordare a tutti che esistono. In mezzo c’è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, addetto alle grane che da tecnico parla comunque un linguaggio un po’ diverso dai politici. Quindi tra i due fuochi c’è soprattutto D’Incà, che martedì dopo essersi preso gli aeroplanini di carta ha preso parte a una conferenza dei capigruppo. Dove ha ricevuto diffusa solidarietà ma anche qualche battuta sulla nemesi (“in Aula abbiamo visto ex grillini contro grillini”). Magari gli fanno più male certi spifferi sui giornali, scagliatigli contro da anonimi del Pd (“non sa gestire”) e ovviamente anche del M5S, dove ormai tutti mordono tutti. Compreso il ministro, accusato da alcuni di non tutelare abbastanza il gruppo. Va meglio con il centrodestra, con la capogruppo di Forza Italia in Senato Anna Maria Bernini, che domenica lo ha difeso a Mezz’ora in più.

Di sicuro sono stati, sono e saranno giorni perigliosi per il ministro, che la settimana scorsa ha dovuto affrontare una rogna come il decreto Milleproroghe, varco perfetto per i partiti per assestare colpi al Draghi autocrate. “D’Incà ha fatto riunioni in Parlamento per due giorni sul decreto, e sono stati due giorni pieni di urla incrociate” raccontano. Ha provato a frenare gli emendamenti che andavano contro il governo, anche con tavoli con i ministeri competenti. Ma alla fine l’esecutivo è andato sotto in commissione quattro volte, anche su misure fondamentali per Palazzo Chigi, come il tetto ai contanti e i soldi per l’ex Ilva. Abbastanza per provocare l’ira di Draghi, che ha convocato i capidelegazione per avvertirli: “Siamo qui per fare le cose, ma così è difficile andare avanti”.

Deve averlo pensato anche D’Incà, che il legame più forte nel governo lo ha con il ministro dell’Economia, Daniele Franco: suo compaesano, visto che sono cresciuti entrambi a Trichiana, frazione vicino Belluno. Proprio per non far chiudere un’azienda delle sue parti, l’Ideal Standard, D’Incà ha trovato una cordata di imprenditori con dentro anche Leonardo Del Vecchio, il patron di Luxottica. Ma ora l’attenzione la deve tenere tutta su Roma, dove parlare di burrone è abitudine, nei Palazzi. “Questo esecutivo ballerà sempre, è nato sull’onda di un’emergenza che il 31 marzo finirà in via ufficiale” osserva con discreta preoccupazione un grillino dei piani alti. Anche se adesso c’è una guerra lì fuori, e far cadere tutto non appare esattamente semplice. Ma rendere tutto maledettamente complicato in Parlamento quello sì, è ancora possibile, perfino semplice. Una croce quotidiana per D’Incà, che quasi corre nei corridoi di Camera e Senato. Perché i guai vanno veloci.

Bonomi e Renzi: ora la guerra è una scusa per fuggire dai guai

Zitto zitto, mentre i riflettori dell’Italia e del mondo erano ovviamente puntati sull’invasione dell’Ucraina, Matteo Renzi ha liquidato i suoi affari col paese di Putin. L’ex premier si è dimesso dal board di Delimobil, la maggiore azienda russa di car-sharing. Nonostante il riserbo renziano, se n’è accorto il Financial Times: di prima mattina, con la guerra in cima a tutti i notiziari, il senatore di Rignano ha inviato un’email al consiglio di amministrazione dell’azienda per annunciare il suo passo indietro. Sono trascorsi pochi mesi – era il 2 novembre 2021 – da quando un entusiastico Renzi volava a New York per la quotazione in Borsa di Delimobil, poi rinviata anche a causa delle crescenti tensioni internazionali. Allora il leader di Italia Viva aveva negato l’evidenza di un suo ennesimo conflitto d’interessi e aveva provato a giustificare l’impegno in Delimobil come sostegno all’italiano Vincenzo Trani, fondatore dell’azienda.

Renzi faceva orecchie da mercante a chi gli faceva notare i rapporti assai cordiali tra Trani, presidente della Camera di commercio italo-russa, e Vladimir Putin. Tra gli altri azionisti di Delimobil c’è anche la banca russa Vtb bank, uno degli istituti di credito finiti sotto il fuoco delle sanzioni occidentali, altro elemento significativo per comprendere l’improvviso pentimento di Renzi. Fatto sta che dopo aver difeso tenacemente la sua impresa con Trani e dopo averne negato le implicazioni etiche e politiche, all’improvviso e nel massimo silenzio Renzi se ne va, coperto dal clamore delle prime bombe.

Non è l’unico ad avere, in qualche modo, sfruttato gli avvenimenti per cavarsi da una situazione d’impaccio. Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha rinunciato alla difficoltosa scalata al calcio italiano e alla presidenza della Lega Serie A con questo laconico messaggio: “Il mio dovere istituzionale in un momento straordinario come questo non può che concentrarsi solo sulla difesa degli interessi del sistema industriale italiano”. Dunque “mi è impossibile accogliere la richiesta che mi era stata rivolta di assumere la presidenza”. Una richiesta, va detto, tutt’altro che unitaria: c’erano diversi club a ostacolare l’ascesa di Bonomi, che due giorni fa aveva pure dettato il suo programma in una densa intervista di due pagine al Corriere dello Sport. Il capo degli industriali sembrava convintissimo, il mondo del calcio molto meno. Meglio così: c’è la guerra e fa anche lui un passo indietro.

D’altra parte di fronte agli eventi storici tutto il resto sfuma e magari si dimentica. Persino Carlo Calenda ha cessato le minute ostilità capitoline con gli amici-nemici di Italia Viva e ha ritrovato un inconsueto ecumenismo: “Per quanto concerne Azione ogni considerazione politica, incompatibilità, agenda di alleanze, polemica etc. cade in questo momento. Siamo con il governo e con tutti i partiti che ne fanno parte LEALMENTE (maiuscole sue, ndr). Avanti con forza e compattezza”. Poi c’è Matteo Salvini che depone un mazzo di fiori all’ingresso dell’ambasciata ucraina, dopo anni di foto in colbacco o con magliette putiniane. Ma questa è ancora un’altra storia.

Il Pd si intesta il pacifismo. Salvini “rinnega” se stesso

Il Pd si intesta il movimento pacifista, Matteo Salvini rinnega sé stesso e Silvio Berlusconi, per ora, si limita a far filtrare raccomandazioni ecumeniche. L’attacco russo in Ucraina consente almeno per una volta di compattare la maggioranza (e di allinearla con l’opposizione), ma tra le sfumature delle unanimi prese di posizione contro la guerra è possibile intravedere imbarazzi e rivendicazioni politiche.

In mattinata, appena dopo le prime notizie dell’invasione voluta da Vladimir Putin, è il Partito democratico a trascinare la questione in piazza: “Il Pd organizza un presidio di tutte le forze democratiche per dire stop alle armi, stop all’aggressione armata di Putin, esprimere solidarietà all’Ucraina, sostenere la mobilitazione dell’Italia e dell’Europa per la pace”. E così alle 16 Enrico Letta guida qualche centinaio di persone di fronte all’ambasciata russa a Roma, dove si fanno vedere – tra gli altri – anche Nicola Zingaretti, Debora Serracchiani e i renziani Ettore Rosato e Luigi Marattin: “Le sanzioni devono far male alla Russia e a Putin – scandisce il segretario dem – devono mettere in ginocchio quel Paese, è l’unico modo perché Putin si fermi”.

Il nome del premier russo manca, invece, nelle dichiarazioni di Matteo Salvini. La notizia sorprende a metà, visto l’antico rapporto di devozione del leghista nei confronti di Vladimir. Perciò, mentre una nota del partito esprime una “ferma condanna per l’aggressione militare russa”, Salvini ricorre a quanti più possibili artifici retorici per non apparire ambiguo, salvaguardando però l’ex (?) idolo: “No alla guerra, sempre. Sì alla vita, sempre. Non si usi la tragedia per beghe interne”. Incalzato dai cronisti, la butta sull’ironia: “Ma cosa devo fare, devo darmi fuoco in piazza? Sono convinto anche io che la Russia abbia torto, sono loro che hanno tirato i missili”. Che qualche problema ci sia lo dimostra lo stesso Salvini, che in queste ore ha eliminato dai social un vecchio post in cui si diceva pronto a “scambiare due Mattarella per mezzo Putin”.

Non a caso Giorgia Meloni, che ieri è volata a Orlando per la convention dei repubblicani Usa, può permettersi di essere molto più netta: “È inaccettabile l’attacco bellico della Russia di Putin contro l’Ucraina.” Di “attacco ingiustificato” parla anche il leader M5S Giuseppe Conte, convinto ci sia bisogno di “una risposta ferma, coesa, unitaria dell’Ue”.

A pesare è però anche un silenzio. Quello di Silvio Berlusconi, vecchio amico di Putin, che ieri ha preferito mandare avanti Antonio Tajani (“una invasione vera e propria, un atto da condannare”) Giorgio Mulé e Valentino Valentini, suo storico interprete e accompagnatore durante i viaggi a Mosca, affidando le solite veline alle agenzie (la formula di rito è “confida ai suoi”) “la ferma condanna e preoccupazione per l’uso della violenza, che non è mai una soluzione”: “Sto mettendo le mie relazioni internazionali al servizio della pace – sarebbe la posizione di Silvio – per salvare vite umane e arrestare la distruzione in Ucraina, ma anche per difendere l’Europa dalle possibili conseguenze economiche del conflitto”. Anche qui, di Putin non c’è traccia.

Silvio potrà rimediare martedì, quando dovrebbe partecipare alla sessione straordinaria del Parlamento europeo sulla crisi ucraina.

“Non mi pento, sto con Putin. Gli Usa dovevano ascoltarlo”

“Forza Putin! I russi, ma anche molti italiani sono con te”. Parola di Carlo Rossella, giornalista, per una vita dirigente berlusconiano, oggi tra l’altro collaboratore del Foglio su cui cura la rubrica Alta società. È in quel riquadrino che due giorni fa Rossella ha incitato il presidente russo ad andare avanti, forte del sostegno del suo popolo ma pure di tanti italiani di buona volontà. Frasi di cui Rossella assicura “di non essersi pentito”, nonostante il tempismo di quell’uscita – a poche ore dall’invasione ucraina – avrebbe potuto consigliare lo stesso dietrofront compiuto da altri (ex) estimatori nostrani di Putin.

Carlo Rossella, si è pentito di aver scritto quelle frasi due giorni fa?

No, affatto. Non mi sono pentito e non mi pentirò, il pentimento è una categoria che seguo soltanto col mio confessore, con il quale però non parlo certo di Putin.

Ma questa volta Putin l’ha fatta grossa.

Bisogna mettersi nella sua testa, la Russia è un Paese che si sente dentro un clima da guerra fredda. E Putin questo sentimento lo sente in maniera particolare, vuole un ritorno alla grande nazione sovietica.

E secondo lei ha ragione?

Dico che bisogna comprendere cosa pensa e il motivo della sua incazzatura. Credo che nei confronti di Putin ci sia un odio esagerato anche in Italia, provocato soprattutto dagli americani. Ecco, chiediamoci perché gli americani fanno tutto quello che gli pare e in Italia nessuno si permette mai di dire nulla contro di loro. Basta leggere i giornali: non c’è mezza parola critica verso gli americani.

Adesso però è Putin a rischiare di trascinarci in un conflitto.

Non credo che si aprirà un conflitto anche con gli altri Stati europei. Certo questa storia non finirà bene lo stesso, perché trovarsi di fronte un Putin così incazzato non è un bel vivere dal punto di vista diplomatico. Però anche su questo mi pare che non abbia fatto tutto da solo.

Cioè?

Oggi è complicato cercare una strada diplomatica. Ma in passato si poteva fare molto di più per evitare che si arrivasse fin qua e invece non si è mai provato a trovare un’intesa con Putin neanche quando aveva posto le condizioni per farlo. Ora la situazione non sarà certo più semplice e noi ci siamo in mezzo, perché come sempre gli Stati Uniti spingeranno in avanti i loro fedeli amici italiani.