“Autorizzazioni manipolate”: così la dirigente del Lazio decise la discarica della Capitale

L’iter per la nuova discarica della Capitale, imposta dalla Regione Lazio al Comune di Roma alla fine del 2019, è stato “manipolato” dal “totale asservimento” della dirigente regionale all’imprenditore nuovo “re della monnezza” romana. L’indagine della Procura capitolina, nata da alcuni articoli del Fatto di gennaio 2020, ha portato ieri all’arresto di Flaminia Tosini e Valter Lozza, accusati di concussione e corruzione. La prima, direttrice dell’area Ciclo dei rifiuti della Regione Lazio, per gli inquirenti era “totalmente asservita” al secondo, 74 anni, con la sua Mad srl gestore delle discariche di Frosinone (la più grande d’Europa) e Civitavecchia.

Lozza era socio della Ngr srl, proprietaria della cava in zona Monte Carnevale (a ovest di Roma) indicata da Virginia Raggi, il 31 dicembre 2019, come sito per la discarica di Roma. Sindaca con le spalle al muro, in virtù di un’ordinanza del governatore Nicola Zingaretti, che le impose il nuovo piano regionale dei rifiuti realizzato proprio da Tosini. “Tu non ti rendi conto di quante cose faccio (…) penso sempre che ti devo proteggere, capito come?”, diceva Tosini, intercettata. Per i pm la donna era legata all’imprenditore da una relazione sentimentale e avrebbe ricevuto borse e gioielli in regalo. “Ti posso autorizzare quello che ti pare… fatti venire in mente qualcosa”, gli diceva. Come la nuova discarica di Roma. Il 23 dicembre, in seguito a un accordo politico fra Pd Lazio e M5S Roma, la giunta comunale indica una prima area, Tragliatella (vicino Bracciano). Il 27 dicembre, arriva il “cavallo di Troia” di Tosini: il nullaosta a una piccola discarica di inerti a Monte Carnevale, 75mila metri cubi in un’area di oltre 1,5 milioni di metri cubi. Un escamotage, per chi indaga, per fare passare l’autorizzazione con un iter più snello. Intanto Lozza entra nella Ngr e la notte fra il 30 e il 31 dicembre la scelta del sito vira su quella di Tosini. Dura la reazione di Virginia Raggi. “Sono stata massacrata per 5 anni – ha scritto su Facebook – ma alla fine avevo ragione. Ora Zingaretti ritiri il proprio piano regionale dei rifiuti. Volevo solo difendere la mia città, ma non si è alzata alcuna voce a difesa della mia amministrazione”. Il segretario del Pd Lazio, Bruno Astorre, ha voluto invece “rinnovare la stima nei confronti di Tosini, nella speranza che la magistratura possa presto chiarire il suo ruolo”.

“Lo Stato compri la villa di Giolitti” (messa in vendita)

Una petizione al ministro della Cultura perché non sia svenduta la villa che fu di Giovanni Giolitti sita a Cavour (To). L’immobile, messo in vendita da Sotheby’s, parte da una base d’asta di 680 mila euro, mobilio compreso, ed è così descritta: “A Cavour, nel centro del paese e situata ai piedi del parco naturale Rocca di Cavour, affascinante villa storica appartenuta all’Onorevole Giovanni Giolitti, nella quale lo statista amava trascorrere i suoi mesi estivi”. CulturaItaliae, che ha lanciato l’appello, chiarisce: “La villa ha un inestimabile valore documentario/politico/storico. Giolitti ci passava molto tempo, vi riceveva i più illustri personaggi dell’epoca, che qui elaboravano leggi e trattati. Ci rimase in maniera permanente negli ultimi anni sino alla sua morte qui avvenuta nel 1928”. Firmano, tra gli altri, Donatella D’Angelo, Alberto Barbera, Roberto Burioni, Pierluigi Castagnetti, Emanuele Bevilacqua, Andrea Catizione e Pietro Folena, Vinicio Marchioni, Paola Balducci, Simone Godano, Riccardo Milani, Volfango De Biasi e Davide Livermore.

Maxi-condanne per ’ndrangheta nel Torinese

Quasi 250 anni di carcere e 48 condanne. Si è concluso così il processo con rito abbreviato a Torino nato da una maxi-inchiesta denominata “Cerbero” sulla presenza della ’ndrangheta nel territorio piemontese e su un traffico di stupefacenti tra l’Italia e il Sudamerica. Tra le accuse, a vario titolo, associazione mafiosa e traffico internazionale di stupefacenti, La pena più alta inflitta sono stati 19 anni di carcere. Nell’ambito dell’inchiesta figurano 85 imputati di cui 62 hanno chiesto il rito abbreviato, due però sono deceduti e un terzo è in attesa di estradizione dal Brasile. Con la sentenza il giudice ha confermato l’impianto accusatorio che aveva individuato, in provincia di Torino, due locali, una a Volpiano, considerata la principale e una San Giusto Canavese alle dipendenze delle quali secondo gli investigatori ci sarebbero stati due cartelli del narcotraffico operanti nella zona di Chivasso e Torino. In particolare, per quanto riguarda l’hashish, arrivava in Italia attraverso la Spagna, mentre la cocaina dal Sudamerica arriva attraverso la Spagna e il Nord Europa.

Mail Box

 

L’inspiegabile aumento del prezzo della benzina

In attesa della transizione ecologica, avremo constatato tutti il consistente aumento dei prezzi alla pompa dei rifornimenti. Carenza di materia prima? Direi di no. Dato il calo della domanda per le limitazioni alla circolazione, su cosa si basano i rincari? Un controllo da parte del Garante sarebbe necessario. E magari, i proprietari delle pompe di benzina attenderanno “propri” ristori.

Alberto Volpe

 

Figliuolo moltiplica i pani e i vaccini

Apprendo che il Figliuolo sa moltiplicare i pani, pardon i vaccini! Ora mi sento più sicuro: guarirò senza puntura! Grazie della bella notizia.

Raffaele Fabbrocino

 

Mario sta zitto e la stampa non chiede

In merito agli interventi in solitaria di Draghi, vorrei dire che mi pare trascurabile il fatto che non fossero previste domande da parte dei giornalisti… Chissà a quale raffica di domande pressanti e ficcanti lo avrebbero sottoposto, fatta la solita e unica eccezione…

Alessandro Sestini

 

Nazareno: belle idee, ma aspettiamo i fatti

Quando mi hanno detto che Letta sarebbe tornato nel Pd, ho pensato a Gianni, non al nipote. Sarebbe stato coerente con la storia del partito. Anche il giovane Letta non appartiene alla storia della sinistra, ma vuole comunque rifondare un partito di sinistra. A lui il curriculum non è richiesto.

Paolo Petruzzi

 

Caro Petruzzi, il passato di Letta jr. (governo con B. e altro) non è molto incoraggiante. Ma aspettiamo e giudichiamolo dai fatti.

M. Trav.

 

Le accuse a Travaglio sul dibattito sulle Ong

Caro Travaglio, a proposito degli articoli tuoi e di Lerner sulle Ong, Taradash di Radio Radicale ti ha accusato di scappare da qualsiasi confronto. Non sarebbe il caso di dargli una strigliata? Di questi tempi una risata farebbe bene.

Massimo Giorgi

 

Caro Massimo, curioso accusarmi di sottrarmi al confronto a proposito del mio confronto con Lerner, non trova? Ciò detto, vale sempre il motto di Arthur Bloch: “Mai discutere con un idiota: la gente potrebbe non notare la differenza”.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Nell’intervista intitolata “Nicola Russo chi? Quando l’omonimia diventa un incubo” (Il Fatto, 15.03) il giudice Russo della Corte di Appello di Napoli afferma di essersi rivolto al Garante per la protezione dei dati personali per lamentare la pubblicazione della sua foto a corredo di notizie relative a un altro magistrato suo omonimo, condannato per gravi reati, e di non aver ricevuto alcuna risposta dall’Autorità. A tale riguardo, occorre precisare che, in data 14.12.2020, il Garante ha provveduto a dare riscontro al giudice Russo, con una nota protocollata, inviata all’indirizzo mail indicato, fornendo tutte le informazioni utili per presentare un formale atto di reclamo, necessario per poter attivare l’intervento dell’Autorità. Dopo la risposta del Garante non risultano pervenuti reclami o ulteriori segnalazioni da parte dell’interessato.

Uff. st. Garante protezione dei dati personali

 

In merito all’articolo “Arcuri un fallimento? Insomma. Tutti i numeri del Commissario”, pubblicato domenica, precisiamo che nell’occhiello la definizione di “studio” è inappropriata: trattasi di elaborazioni o analisi, che non sono della Bocconi bensì dell’Osservatorio sul management degli acquisti e dei contratti in Sanità di Cergas Sda Bocconi. Le gare analizzate si riferiscono alla Sanità e non alla popolazione. Non sono state considerate quelle fatte da enti quali scuole, università, forze dell’ordine… Il quadro delle gare aggiudicate non è completo, non solo perché aziende e centrali hanno continuato ad acquistare utilizzando gare e contratti in essere, ma soprattutto perché le Regioni e le aziende non hanno obbligo di comunicare ad Anac le aggiudicazioni. L’omissione di tale informazione, esplicitata chiaramente nella mail di trasmissione dei dati, rende fuorvianti le conclusioni. Ancor più grave è quanto riportato nella quarta colonna del pezzo: “Dall’elaborazione, come spiega la coordinatrice dell’Osservatorio Giuditta Callea, mancano grosso modo metà delle gare indette da Arcuri”. Ciò non corrisponde al vero: sono stati utilizzati dati pubblicati proprio dalla Struttura commissariale. Semmai le aggiudicazioni mancanti sono quelle delle centrali. La frase riportata dopo è fuori contesto: non si riferiva alle gare mancanti. Con riferimento ai ventilatori polmonari con istruzioni per l’uso in cinese, l’informazione è parziale: spesso gli ospedali non hanno ricevuto del tutto le istruzioni per l’uso, cosa che ha impedito di effettuare il collaudo; e questo problema ci è stato riportato solo per acquisti fatti dal Commissario, non per quelli di centrali e aziende. Ribadisco la gravità dell’utilizzo di virgolettati non autorizzati.

Giuditta Callea

 

Nell’articolo è riportato correttamente che l’analisi è di Masan, l’Osservatorio sul management degli acquisti e dei contratti in Sanità. Ho però attribuito il Masan direttamente alla Bocconi e non a Cergas Sda Bocconi: me ne scuso. Quanto al resto, ho precisato che l’indagine non è esaustiva, scrivendo quanto mi è stato riferito dalla coordinatrice dello stesso Osservatorio.

Nat. Ronch.

Recovery Fund. Perché le risorse calano (e perché l’impatto è minimo)

 

Buongiorno, da affezionato lettore e abbonato del Fatto, mi sfugge il perché non si dia sufficiente rilievo alla diminuzione da 209 a 192 miliardi di euro del Recovery Fund, a opera del governo di Santo Subito… Dai giornaloni me lo aspetterei, ma dal mio gradirei almeno un approfondimento. Magari le motivazioni sono lecite, se non valide, ma per il pensionato che cerca di farsi un’opinione indipendente la cosa non è immediata. Vi saluto e ringrazio per il servizio che rendete con il vostro lavoro.

Sergio Masiero

 

Gentile Masiero, lei ha ragione. Non abbiamo dato risalto a questo dato – illustrato dal ministro Daniele Franco in audizione alle Camere – perché non ha un impatto rilevante sul Piano, ma certo merita un chiarimento. Il Recovery fund o Next Generation Eu, si è detto, vale per l’Italia 210 miliardi. La cifra è la somma dei 196,5 miliardi – tra sovvenzioni (68,9) e prestiti (127,6) – previsti dal “Dispositivo di ripresa e resilienza” (Rrf), il cuore del piano, e i 13 miliardi del programma React Eu (politiche di coesione). A cosa è dovuto quindi il calo?

Il motivo è che le risorse del Piano devono tenere conto dei dati più aggiornati perché il regolamento europeo del Rff, emanato a febbraio, prende a riferimento, per stabilire la parte riguardante i prestiti, il reddito nazionale lordo del Paese beneficiario nel 2019. Questo dato è soggetto a revisione ed è quello che è avvenuto, portando il totale Rff da 196 a 191,2. Potrà accadere ancora. Come ha ricordato Franco, solo il 70% dei trasferimenti è allocato tra Paesi sulla base di dati già noti, il restante 30% sarà definito nel giugno 2022, sulla base del Pil dei Paesi dell’Ue nel biennio 2020-21. Maggiore sarà la ripresa, minori saranno le risorse.

Questo calo per ora non ha un grande impatto perché riguarda una quota piccola delle risorse (il 2,3%) e tocca la quota “prestiti”, il cui vantaggio è dato solo dal minor costo in termini di interessi rispetto all’emissione di titoli di Stato, a meno che non vengano usati per progetti “aggiuntivi” senza limitarsi a sostituire finanziamenti già previsti. Il piano italiano prevede al momento di usare 145,2 miliardi per “nuovi progetti” e 65,7 miliardi per “progetti già in essere”. Il governo Draghi, però, sembra voler ridurre i primi per contenere il deficit.

Carlo Di Foggia

Ci ha lasciato Bruno Tinti, pm e fondatore del Fatto

Bruno Tinti è stato uno dei soci fondatori del Fatto. Matto com’era, non ci aveva pensato un attimo quando all’alba del 2009 si cominciò a pensare di far nascere questo giornale corsaro e senza padroni: così è nata subito “Giustamente”, la rubrica che per tanti anni ha tenuto i nostri lettori aggiornati (e vigili) sulle questioni di giustizia. Anche Bruno è stato nella sua vita, personale e professionale, un senza padroni. Il lettore penserà: per un magistrato è normale. Ma non è mica tanto vero (e non solo per via delle ultime inquietanti cronache del caso Palamara). Bruno era una persona libera, per certi versi naïf: molti anni fa, quando era ancora in servizio alla Procura di Torino, ci raccontò che aveva preso la tessera di Magistratura indipendente e di Magistratura democratica. Per il puro gusto di rompere le scatole e scardinare la logica delle correnti contro cui si è sempre battuto (fino a proporre l’estrazione a sorte dei membri togati del Csm). Se è vero che aveva avuto una seconda giovinezza come commentatore dopo la pensione, di Bruno Tinti dobbiamo ricordare le inchieste. Entrato in magistratura giovanissimo, a 25 anni, dopo qualche anno in tribunale è stato prima giudice istruttore e poi pubblico ministero sempre a Torino. Dai primi anni Ottanta ha cominciato a occuparsi di reati tributari e societari con la stessa lungimiranza con cui ha voluto occuparsi della riorganizzazione informatica degli uffici. È stato il procuratore aggiunto a capo del pool di diritto penale dell’economia che ha portato avanti l’inchiesta Telekom Serbia, contro tutto e contro tutti. Perfino contro i buoni. Il procuratore di Isernia Carlo Fucci ha scritto che “con la scomparsa di Bruno Tinti il servizio giustizia e i magistrati hanno perso una persona indipendente capace di rappresentare esigenze oggettive e di dare voce anche a coloro che il ‘potere’ non avrebbe mai ascoltato”. Noi aggiungiamo solo un abbraccio alla sua adorata figlia Daisy e ai suoi nipotini.

L’arte in vendita nei musei d’America

Per coprire i buchi di bilancio e superare la crisi da pandemia i musei americani venderanno opere d’arte? Dal 17 al 19 marzo, questo tema verrà discusso in un convegno online alla Syracuse University (NY), Deaccessioning after 2020. Nel costume museale americano, de-accessioning (‘cancellare dagli inventari’) è pratica spesso seguita per liberarsi di opere scomode (per esempio falsi), o ritenute di scarso valore, o anche per realizzare rapidamente somme importanti per comprare qualcos’altro.

Esempio classico fu la vendita in blocco della collezione numismatica del Metropolitan Museum per acquistare (1973) lo spettacolare cratere di Sarpedonte, un grande vaso da simposio dipinto ad Atene dal ceramografo Eufronio verso il 515 a.C. Vendere per comprare era dunque, secondo il Met, un buon investimento, ma nel 2006 il museo riconobbe che il vaso era stato esportato illegalmente, e lo restituì all’Italia. Più recentemente, nel 2011 il Museum of Fine Arts di Boston ha venduto all’asta otto dipinti di Monet, Gauguin, Renoir e altri per “completare le proprie raccolte” con un quadro di Caillebotte, un artista entrato tardi nell’empireo dei mercati.

Ma ora le vendite sono figlie dell’emergenza Covid, che spinge a ripensare la politica museale. Il museo di Baltimora ha annunciato l’intenzione di vendere tre dipinti, fra cui un’Ultima Cena di Andy Warhol (da Leonardo), “per diversificare le proprie raccolte”, cioè acquistare opere di artisti afroamericani o di donne. Il ricavato della vendita era previsto in 65 milioni, ma di fronte alla valanga di proteste il museo ha fatto marcia indietro. Anne Pasternak, direttrice del Brooklyn Museum che ha già venduto opere di Cranach, Monet e Miró, sostiene che vendite come queste sono necessarie per creare un fondo di riserva (endowment) i cui interessi possano coprire i costi d’esercizio. Un articolo del Washington Post (8 marzo) dà queste e altre notizie, a cominciare dalla più eclatante: il Metropolitan Museum ha appena approvato una norma interna secondo cui potrà vendere opere delle proprie collezioni e usare il ricavato per gli stipendi dei dipendenti e altre spese di esercizio. In pochissimi giorni, un appello che chiede al museo di “respingere qualsiasi tentativo di vendere l’arte che il Met detiene”, poiché si tratta di un bene pubblico, è stato firmato da oltre 25.000 cittadini.

La stessa AAMD (Association of American Museum Directors), che fino a un anno fa raccomandava di limitare le operazioni di deaccessioning, ora autorizza i musei a “usare gli introiti dalle vendite di opere delle proprie collezioni permanenti per coprire i costi di mantenimento del museo”. Ma a questa decisione si stanno opponendo in molti: non solo esperti del ramo come Thomas Campbell che ha diretto a lungo il Metropolitan, ma soprattutto gruppi di cittadini, come quelli che hanno firmato la petizione a New York.

È istruttivo seguire queste discussioni da un Paese come l’Italia, dove la tradizione e la legge vietano operazioni come queste. Ma la reazione di un numero crescente di cittadini mostra che la sensibilità civile degli americani si può evolvere in un senso più “europeo”. Quel che ha diviso la mentalità di chi opera nei musei americani dai loro colleghi italiani e che ha trasformato molti negoziati in un dialogo fra sordi, è il peso relativo di due fattori-chiave nella costituzione delle raccolte museali: il contesto e il mercato. I musei italiani nascono dal territorio, o dalle istituzioni del territorio: agli Uffizi troviamo in prevalenza opere fiorentine, o del granducato di Toscana, o che appartennero alle collezioni granducali. A questa regola ci sono eccezioni, dove la cornice contestuale è più complessa (Brera non si capisce senza la museografia napoleonica) o raccolte private, anch’esse frutto di specifiche coordinate di cultura e di gusto: un’altra componente, anch’essa importante, del contesto storico. Se possibile ancor più intensa e vitale è la nozione di contesto archeologico: i materiali di scavo prendono significato solo dalla loro reciproca relazione. Anzi, riferendosi a civiltà la cui documentazione è fortemente lacunosa, perdono gran parte del loro significato se strappati al contesto di rinvenimento.

Il mercato è sempre stato un’altra componente essenziale del collezionismo, ma nei nostri musei la componente contestuale è dominante. I musei americani sono di formazione assai più recente, dovuta al mercato e non al contesto d’origine delle opere. Quando possono provare che le opere in loro possesso furono acquisite senza violare le leggi del paese d’origine, i musei americani le mantengono e le studiano benissimo, eppure l’ipotesi di deaccession mina l’integrità delle loro raccolte. Da alcuni decenni gli archeologi americani sono stati i primi in the profession a riconoscere (anche se non sempre) il valore insostituibile dei contesti d’origine: in tal senso andò negli anni Novanta del secolo scorso la nuova acquisition policy del Getty, che dopo aver ‘pescato’ nel mercato senza troppi scrupoli, vietò a se stesso di acquistare qualsiasi opera antica di provenienza non documentata.

Perciò la vera notizia non è la deaccession di opere d’arte, legata o no alla pandemia in corso, quanto il successo di chi protesta, come la raccolta di firme di cittadini che (scrive il Washington Post) “credono nell’inviolabilità delle collezioni pubbliche”. In altri termini, un segmento importante della società civile sta faticosamente conquistando una cultura della conservazione contestuale che somiglia a quella che dovrebbe essere la nostra. Dovremmo esserne più consapevoli, nel Paese dove è nata la cultura della tutela contestuale e territoriale del patrimonio, proclamata al massimo livello dalla Costituzione, ma che sta ora allentandosi per carenza di personale e di risorse. Dall’Italia veniva Antonio Canova, che secondo fonti contemporanee osò tener testa a Napoleone ricordandogli che “il popolo romano ha un sacro diritto sui monumenti scoperti nelle viscere di Roma, prodotto intrinsecamente connesso a quel suolo, per modo che né le famiglie nobili né lo stesso Papa possono vendere questo retaggio del popolo re”. Riportate da un diplomatico francese, Alexis-François Artaud de Montor, queste parole condensano il nesso genetico e civile fra opere d’arte, territorio e sovranità popolare. Un tal principio finirà col penetrare nella democrazia americana? E riusciremo a tenervi fede noi italiani, ridando vita alle nostre stremate strutture della tutela?

L’apericena, ultima vittima designata della pandemia

Come è spesso capitato, certe mode nate nei centri urbani hanno impiegato un po’ di tempo per giungere fino a qui, ai confini del regno, e radicarsi. Potrei ricordare i pantaloni a zampa d’elefante o i più recenti, e ridicoli, pinocchietti. Per citarne una figlia di più moderni tempi non posso che pensare all’apericena. Sulle prime quel profluvio di stuzzichini, quadratini di piazza, patatine, noccioline e chi più ne ha più ne metta, disorientò i frequentatori dei caffè e restò perlopiù intonso. Ci volle un po’ infatti a comprendere che tutto quel bendidio era offerto dalla casa e non avrebbe comportato un carico sul prezzo del bicchiere di vino o spritz che fosse. Allora si cominciò ad allungare le mani mangiucchiando qualcosina, con discrezione però onde evitare di passar per morti di fame. Col passare del tempo l’acquisita abitudine ha conquistato al rito dell’aperitivo anche soggetti insospettabili che con l’esborso anche di un semplice Crodino, oltre che sgranocchiare un cetriolino, un’olivetta o una cipollina in agrodolce, hanno avuto la possibilità di socializzare, allargando la rete dei rapporti interpersonali. L’ascia dei colori, con relative chiusure e misure di asporto, è calata come fulmine dal cielo su un rito ormai consolidato. Agendo con modalità da selezione naturale ha fatto sì che sopravvivesse una sola categoria, quella degli irriducibili dell’aperitivo vecchio stile, coloro per i quali aperitivo significa solo bere, meglio se solo vino, e senza star lì a contare troppo il numero dei bicchieri. Duri a morire mettono un po’ in ambasce il mio barista preferito che, ligio alle regole, anticipa anche di mezzora le fatali diciotto pomeridiane onde evitare i rigori della legge. Non manco mai di informarmi quando passo da lui su com’è andata la sera prima, gli faccio coraggio, è attraverso le difficoltà che l’uomo migliora, (dicono). Giusto ieri, con dannunziano afflato, gli ho detto “Per aspera ad astra”. Non so se ha capito, ma mi ha risposto “Zeneca”.

Ai dem. Sicuri che i 16enni vogliano andare a votare per i nostri politici?

Le ragazze e i ragazzi italiani che hanno dai sedici ai diciott’anni sono un milione e centomila, più o meno, il che significa – su una platea elettorale di 49 milioni di persone – appena il due per cento. Dunque se votassero (difficile) e se votassero tutti insieme per lo stesso partito (impossibile) varrebbero già più di Italia Viva, Più Europa (parlandone da viva) e altre micro-formazioni che allietano il dibattito politico italiano. Tanti, ma non così tanti da sconvolgere gli equilibri esistenti, anche perché, com’è ovvio, il loro voto si spalmerebbe su tutte le forze politiche.

Eppure la proposta di Enrico Letta nel suo discorso di investitura a capo del Pd ha mosso decine e decine di commenti, controdeduzioni, critiche, applausi, rimembranze. Qualcuno ha ricordato che la cosa fu proposta a più riprese e da molti, tra cui la Lega e i 5S, e che l’argomento di abbassare l’età del voto torna periodicamente come un jolly pescato dal mazzo: sfina e non impegna. In generale, le reazioni sono di prudente attendismo o di costernata opposizione.

Comprensibile sgomento: in un Paese che odia i giovani, come tiene a dimostrare con fatti, parole, opere e omissioni, ecco il dibattito sui giovani, condotto da non più giovani (quasi sempre non più giovani da almeno mezzo secolo), che riflettono pensosi e assorti su quanto un sedicenne possa capire di politica e destreggiarsi nel marasma dell’offerta.

E vai con il valzer: ci vuole più maturità per votare. Ci vuole più preparazione. La scuola non aiuta. Dobbiamo formarli meglio, eccetera eccetera. Cioè, se ho capito bene, i giovani dai sedici ai diciott’anni non meriterebbero il diritto di voto perché gli adulti e gli anziani del Paese, in cinquant’anni, non sono riusciti a formarli come si deve, a fare della scuola un posto dove si costruiscono cittadini, a fermare l’impazzito oscillare tra l’insulto (sono tutti scemi) e il paternalismo (vieni qui che ti formo). Il gatto (adulto, anzi anziano) si mangia la coda, insomma. C’è anche chi teorizza – e non gli viene nemmeno da ridere – che per arrivare a quel traguardo del voto ai più giovani bisogna bocciarli di più alle scuole medie. Chapeau: è il grande ritornello paraculo della “meritocrazia”, in un Paese dove vincono a man bassa quelli nati meritati.

Ignoranti, bulletti, gente che pensa solo al telefonino, da ultimo untori cattivi che ammazzano i nonni con il contagio, con la scuola chiusa da un anno, plasmati sul mercato come se già all’asilo fossero manodopera da indirizzare, spediti a far fotocopie in qualche ufficio per “far dialogare la scuola col mondo del lavoro” (ahahah!, ndr), casinisti, arruffapopolo, bevono, si fanno le canne.

Insomma, ribalterei il dibattito: non tanto “Siamo sicuri che sia una buona idea far votare i sedicenni?”, ma piuttosto: “Siamo sicuri che i sedicenni vogliano andare a votare per questi partiti?”, per una classe dirigente che in più di un anno non li ha fatti andare a scuola perché non è riuscita a rendere sicuri i mezzi pubblici che ce li portano? Magari a votare gente che è andata in pensione a cinquant’anni mentre loro a cinquant’anni usciranno (forse) dalla precarietà?

Quanto all’appello alla “maturità” necessaria per votare, è il classico argomento boomerang, e si potrebbe obiettare, visto un Paese che periodicamente si aggrappa a questo o quel salvatore della patria, o uomo della provvidenza, o ultima spiaggia, che anche gli adulti che votano, in quanto a maturità, non possono dare tutte queste raffinate e profonde lezioni di vita.

 

Fermo posta. Pd: cento parole per dire “sinistra”

Fermo posta Pd: dice il compagno segretario di mandargli le risposte al vademecum, che poi si apre la discussione, si ritorna protagonisti e si apre una nuova stagione. Non è più la D’Urso, è il Partito democratico motore di magnifiche sorti progressive. La richiesta è indirizzata alle 5.209 sezioni rimaste sul territorio. Il fu giornale della sinistra ha scritto che è una sorta di gigantesco “thread” (come direbbe San Mario, “chissà perché usiamo tutte queste parole inglesi) su scala nazionale “per sondare gli umori profondi di un partito che, specie in periferia, si è spesso sentito trascurato”. In sostanza bisogna rispondere ai 20 punti+1 (modello festival di Sanremo 70+1), con un massimo di 100 parole per ogni tema: dalle alleanze al nuovo patto tra generazioni, dallo ius soli al voto ai sedicenni. Cento parole! Non sono poche come sembrano e, come si dice di molte cose, il punto non è tanto la quantità quanto piuttosto la qualità. Grazie a questa importante operazione di ascolto, questo partito dovrebbe “uscire dalla Ztl” e recuperare la connessione sentimentale con il suo popolo. Ma quale popolo? Il discorso di Letta non ci ha aiutato a individuarlo. Di certo sappiamo che non sono più comunisti e neanche socialdemocratici, ma certamente e convintamente europeisti. Cioè, come dice il professor Canfora, “un nulla che parla a chi vive ai Parioli e dintorni, dimenticandosi della realtà”. Ormai diversi anni fa lo aveva scritto bene Mario Tronti (Il popolo perduto, Nutrimenti): “Il dramma, per me politicamente insopportabile, è una sinistra di benpensanti e una destra di nullatenenti (…) Non me la sento di stare con quelli che alle nove di sera entrano all’Auditorium contro quelli che alle sei di mattina escono di casa”.

Dei venti punti quelli che hanno mandato in brodo di giuggiole i commentatori sono lo ius soli e il voto ai sedicenni. Ma il segretario che condivide il nome di battesimo con Berlinguer e il cognome con il Mazarino di Forza Italia, ha parlato anche d’altro. Di riforme istituzionali, per esempio. Alcune semplici, come quelle dei regolamenti parlamentari anti-voltagabbana, ma anche elettorali e naturalmente costituzionali, perché le riforme costituzionali sono il gioco sadomaso preferito dai dirigenti del Pd. L’ultima volta Letta ci provò quando era premier con l’inaudita proposta (i 35 saggi furono scelti tramite dpcm, quando il dpcm non era ancora strumento del diavolo) di scassinare la Carta manomettendo l’articolo 138. Senza dire che l’altra mirabile riforma costò il posto al suo successore. Letta ha parlato anche del mai applicato articolo 49 della Costituzione (ordinamento dei partiti): ottima idea per carità, ma dovendosi occupare di Costituzione, per avvicinare i territori (le periferie) c’erano anche altre opzioni. Tipo gli articoli, anch’essi nella sostanza inapplicati, che riguardano il lavoro: la Repubblica promuove le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro (art.4); il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (36); la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore (37); ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria (38). Non è questo un programma politico? Non è un sillabario capace di far prendere agli elettori quel tram chiamato sinistra che porta dalla Ztl alla periferia?