AstraZeneca, il silenzio di Draghi è inaccettabile

Avevamo lasciato i giornali nell’inerzia dell’adorazione per l’irresistibile taciturnità di Mario Draghi. Che fascino! E che sprint, il nuovo corso! Poche chiacchiere, molti fatti, niente conferenze stampa annunciate via social, niente ritardi, niente Casalini nell’inquadratura. Da svenire il Draghi che firma un Dpcm mandando avanti i ministri Speranza e Gelmini; sublime il Draghi che annuncia un decreto legge in una conferenza stampa senza domande, coi giornalisti assetati di una parola ma tutto sommato felici anche solo di essere stati al suo cospetto.

Tuttavia, l’amore per l’algida operatività dei banchieri centrali registra una prima, piccolissima crepa nella giornata di lunedì, quando la Germania, e a domino l’Italia, la Francia e la Spagna sospendono le vaccinazioni con AstraZeneca, il Santo Graal del “cambio di passo” del Governo dei Migliori e dell’europeismo palingenetico su cui ideologicamente si fonda. Mentre legittimamente la popolazione va nel panico (perché vaccinata o vaccinanda con Az) o sprofonda nella desolazione, da Palazzo Chigi non si leva una parola. Staranno studiando le cartelle cliniche dei deceduti di morte sospetta? Staranno conferendo con le cancellerie e le presidenze d’Europa? E però Macron, che pure è un gelido enarca, annuncia di persona la sospensione con poche, inequivocabili parole: “Sulla base della raccomandazione del nostro ministro della Salute è stata presa la decisione di sospendere in via precauzionale la vaccinazione con AstraZeneca, sperando di riprenderla rapidamente se il parere dell’Ema lo consentirà”.

Ecco, magari in momenti come questi ci sarebbe voluto, a capo del governo, qualcuno di meno misteriosamente elusivo e di un po’ più empatico coi destini della Nazione; uno capace di assumersi la responsabilità di una decisione francamente inintelligibile per i cittadini, che dà adito a congetture e a paure se possibile ancora più nefaste dei freni principali alla campagna di vaccinazione: l’inosservanza degli impegni per le forniture da parte delle case farmaceutiche; le difficoltà logistiche; la peste no-vax. Che effetto avrà sulla fiducia delle persone questa ritrosia a comunicare col popolo in un momento così delicato? Si può solo immaginare cosa sarebbe successo se l’omissione fosse stata commessa da Conte: editoriali sull’esecrabile governo degli incompetenti, maratone di ore attorno al tema “mancanza di anima” dell’alleanza Pd-5Stelle, crocifissione di Arcuri, minacce di Renzi, interviste di Renzi, tweet di Renzi e dei sui cascami pappagalleschi, in Parlamento e nelle redazioni.

Sarebbe bastata una paginetta Word con poche essenziali indicazioni, per ridare un po’ di fiducia a una popolazione stremata, e anche per non dare l’idea di essere di quelli che oltre all’aplomb non perdono tempo a parlare al popolo per cui governano e che in realtà sottovalutano (ricevendo in cambio ringraziamenti folli, lodi imbarazzanti, panegirici stellari, specie da parte di chi si sente poco popolo e molto “migliore” ad honorem). Naturalmente, i fan della oligarchia neoplatonica-liberale danno la colpa al ministro Speranza, residuo del Conte II, che secondo loro avrebbe indotto Merkel, Macron, Sanchez a bloccare le vaccinazioni con l’eccesso di zelo tipico di certa di sinistra anticapitalista, e si sono messi a fare capriole semiotiche per rintracciare nel mutismo di Draghi l’ulteriore conferma della sua straordinarietà (come il Klamm del Castello di Kafka, che non parla e non compare, risiedendo in questa invisibilità il suo potere); mentre più passano le ore, più questo silenzio apparirà un modo di dire “arrangiatevi. Non devo spiegare niente”. È inaccettabile che parli solo domani, a 4 giorni dal blocco, a Bergamo, nella Giornata per la memoria delle vittime; o che a parlare siano i retroscena che lo dipingono “irritato” con l’Ema, perché delle due l’una: o il blocco è ingiustificato e dettato da ragioni non scientifiche, il che sarebbe esiziale per la credibilità dei governi dell’Unione; o ci sono buoni motivi per dubitare della non tossicità del vaccino, e non si capirebbero allora le professioni di fede di questi giorni da parte di tutte le autorità, manco il vaccino di Az fosse una divinità incontestabile. A peggiorare l’omissione, c’è che il giorno prima era andato in Tv da Fazio il generale Figliuolo, decoratissimo, in divisa alle 10 di sera, a ordinare (a chi?) di vaccinare “chi passa” per non buttare le dosi avanzate (che si suppone adesso saranno tantissime), generando un’onda di estatica ammirazione presso certi commentatori sensibili ai presentat’arm. Silenzio del presidente del Consiglio banchiere graditissimo alle élite imprenditorial-editorial-finanziarie e propaganda militar-populista del “commissario straordinario” in mimetica, che invece, a ben vedere, dovrebbe parlare poco ed essere operativo: un mix inedito per una democrazia.

 

La cuoca cinese di mia zia svela segreti e futuro del Partito democratico

Mia zia ha una cuoca cinese bravissima a cucinare pugliese, crede lei (adesso stravede per Lolita Lobosco). Poiché è la nipote di Qing Jiang e Mao, di politica ci capisce, e quando ho dei dubbi le chiedo lumi. Domenica, mentre stava preparando la tiella (patate, riso e cozze), le ho chiesto: “Yu, cosa ne pensi del Pd?” Mi ha indicato l’ultimo numero dell’Espresso. “Fanno propaganda al Pd dal 2007, e solo ora che è in coma dicono che il Pd ‘ha smarrito l’identità’, come se il problema del Pd fosse la mancanza di idee di sinistra. Una rivista come MicroMega trabocca di idee di sinistra: basterebbe leggerla, e tradurre quelle idee in sede legislativa, per fare finalmente la differenza”. “E allora qual è il problema del Pd?” “Che ha finito i modi truffaldini con cui spacciare per politiche di sinistra il riformismo neo-liberista alla Blair che lo ha stregato. Mo’ il re è nudo”. “Sono disperati”. “La disperazione è una forza: la forza della disperazione. I quadri del Pd che oggi applaudono Letta sono in gran parte renziani, e i lettiani non è che siano molto diversi. Letta voleva privatizzare pezzi di Eni, Enel e Finmeccanica; e l’ex ministra De Micheli, già assidua ai VeDrò, il pensatoio bipartisan di Letta, dava credito alle manovre temporeggiatrici di Aspi, invece di cacciare subito a pedate i Benetton, la cui gestione irresponsabile dei viadotti fu condannata perfino da Mattarella. Vuoi ridere sul cambiamento in atto nel Pd? Vai a vedere chi c’era fra i finanziatori di VeDrò. Nel suo discorso da segretario, Letta ha ricordato il suo maestro Nino Andreatta, l’uomo che nel governo Ciampi fu il protagonista delle privatizzazioni”. “Embè?” “Invece di correggere la gestione delle imprese pubbliche, che s’indebitavano a rotta di collo in modo dissennato, lo Stato cedette le sue attività ai privati, privandosi di leve indispensabili alla politica industriale. L’Iri, cui si deve il miracolo italiano degli anni 60, venne chiusa. Vi fidaste della moralità, della bulimia e del senso dello Stato dei capitalisti italiani, si è visto con che bei risultati. Anni fa, il Governatore di Bankitalia Draghi esaltò quella stagione, dicendo che negli anni 80 Andreatta rimpiangeva ‘che si impedisse al mercato di esercitare la sua funzione, distruttrice di organismi e creatrice di ricchezza’: ricchezza per chi? Il Pil degli economisti, d’altra parte, non misura la qualità della vita, perché è poco correlato con la distribuzione della ricchezza, l’equità sociale, i diritti, la vita dignitosa, il progresso nella sanità, nell’istruzione, nella tutela dell’ambiente. Leggiti la Nussbaum. Hai grattugiato il pecorino?” “Eccolo. Letta però ha parlato di ius soli e di tassazione progressiva. Sono cose di sinistra”. “Non basta. Va ripensato tutto il sistema, insieme con le forze progressiste del resto del mondo”. “Vasto programma”. “Ma non più rinviabile. Dove pensano di andare con la barchetta piccola? Dammi le cozze”. “Quante sono?” “45”. “Credi che fra un anno si tornerà al voto?” “Ovvio, e cosa propone Letta in proposito? Una legge elettorale maggioritaria! Ma come, per convincervi al taglio dei parlamentari non vi avevano forse promesso una legge proporzionale che scongiurasse le inevitabili distorsioni della rappresentanza democratica? Col maggioritario si torna alla vecchia idea di Gelli: votare per eleggere non un Parlamento, ma un governo che agisca senza contrappesi”. “Dunque è ufficiale: non hanno ancora finito di prenderci per il culo”. “Se continuano così, fra un po’ si voteranno da soli. ‘Innalzo il bicchiere, invito la splendente luna: dall’altra parte c’è la mia ombra, e così siamo in tre’”. L’ammiro, anche se nella tiella ci ha messo le zucchine.

 

Letta sr. & C., i veri eredi del “metodo venerabile”

Adistanza di quarant’anni, l’Italia dell’eterna P2 gelliana non è solo una galleria di nomi, liste, cappucci e segreti ancora da svelare. Ma è anche una questione di metodo. Metodo piduista, naturalmente. Quando otto anni fa morì Giulio Andreotti, lo storico Aldo Giannuli disse che Silvio Berlusconi era il vero erede del Divo Giulio, non di Bettino Craxi. Vero. E non solo per la tessera di B. alla loggia deviata del Grande Oriente d’Italia, la principale obbedienza massonica del Paese. Nella Seconda Repubblica il berlusconismo è stato infatti il largo ombrello sotto cui ha agito l’ineffabile coppia formata dal Gran Visir Gianni Letta e dal suo uomo macchina Luigi Bisignani, già tuttofare andreottian-gelliano. E come scrisse il compianto Alberto Statera “il metodo Bisignani-Letta è in fondo null’altro che il clone del metodo Gelli-Andreotti adattato al Terzo millennio”.

Basta rileggere inchieste e cronache di questi ultimi vent’anni: la cricca degli appalti del G8; la Protezione civile di Bertolaso a mo’ di Bancomat; gli scandali P3 e P4; il tangentismo dell’Eni di Scaroni; gli affari della filiera Geronzi-Caltagirone-Angelucci. L’andreottismo d’antan combinato con il lobbismo di Gelli era un partito ombra deputato al controllo dei ministeri; alle nomine che contano (dai Servizi alla Rai); al reclutamento di magistrati per aggiustare processi; alla prosperità di industriali e imprenditori amici; alla cura, infine, di una rete di relazioni nei giornali. Il periodo di massimo fulgore per la Ditta di Letta & Bisignani è stato nell’ultimo esecutivo Berlusconi. Per esempio, ben quattro ministre (di cui due oggi sono di nuovo al governo) telefonavano a Bisignani per capire come muoversi. E quello del faccendiere, all’epoca, era un nome che non si poteva scrivere. Occulto, appunto.

Sondaggi: Enrico come Brad Pitt

Vorrei tanto conoscere quell’0,8 % di elettori che il giorno prima (dimissioni di Nicola Zingaretti) avevano tolto il voto al Pd e il giorno dopo (elezione di Enrico Letta) glielo hanno restituito. Mi dicono gli esperti del ramo che, con una proiezione sul totale degli aventi diritto al voto, potrebbero essere circa 150mila. Mi accontenterei di incontrarne uno solo e di esplorare con attenzione tale prodigio di volubilità, perché immagino che applicando lo stesso criterio alla vita di tutti i giorni per il coniuge (se ne avrà uno) sarà un grosso problema averci a che fare. Per cena vorrà riso come ieri sera o nelle intenzioni di gusto mi è ritornato agli spaghetti? Sarà ancora della Roma o ieri è passato alla Lazio?

A parte le battute, nutro grande rispetto per sondaggi e sondaggisti e non mi permetterei di mettere in discussione i fondamenti di una scienza (quasi) esatta. Trovo lo stesso affascinanti delle variazioni così subitanee da una settimana all’altra anche perché non credo di essere il solo che alla vigilia del voto entra regolarmente in ambasce, asserragliato nella casella degli incerti che è poi il partito più votato (il 37%). Con molta pazienza mi viene spiegato: a) che le intenzioni di voto non sono le convinzioni; b) che non essendoci una vera campagna elettorale si misura l’umore e non le scelte definitive; c) che nel sondaggio citato, solo 756 persone hanno espresso un voto e che quindi quello 0,8% corrisponde a un campione di 6 persone. Be’, sei persone che aspettavano Letta da sette anni (come fosse Brad Pitt in Sette anni in Tibet) ci possono anche stare.

Un possibile problema è che i sondaggi oltre a fotografare gli umori possono condizionarli. Esiste infatti un’attrazione naturale a schierarsi con chi viene dato sicuramente per vincente, per esempio la destra (il cosiddetto voto utile). E a scansare chi viene pronosticato perdente, per esempio la sinistra (il voto sprecato). Perciò, forse, certi meccanismi andrebbero spiegati meglio per garantire la più ampia e oggettiva facoltà di scelta. Tranne che nel caso di Matteo Renzi che non schioda dal 2%, ma lì i sondaggi non possono sbagliare.

E subito con Mario ritornò la Carta

 

• “Con poche mosse, e in breve tempo, le istituzioni sono state riportate nell’alveo giusto (…). Con la conversione del decreto legge, il Parlamento, che era stato tenuto fuori dalla porta, riprende il suo ruolo nel contrasto alla pandemia. Della campagna di vaccinazione è stato incaricato il massimo esperto di logistica militare, cioè della pianificazione, movimentazione e mantenimento delle Forze armate (…). Chi potrebbe far meglio? Si torna alla Costituzione”.

Sabino Cassese, Corsera

 

• “Il Pd stia con Draghi e torni a pensare agli ultimi”.

Walter Veltroni, La stampa

 

• “Il passaggio più nuovo del discorso di Letta all’Assemblea del Pd è stato quello sul governo di Draghi. Rivendicarlo come l’esecutivo nel quale si riconosce non era scontato; (…) all’inizio il Pd ha lasciato che fosse il centrodestra a esaltare Draghi.

Corriere della sera

Il Corriere e i nastrini colorati di Figliuolo

Minchia signor Generale: molti nastrini molto onore. Francesco Paolo Figliuolo, il militare che Draghi ha messo a capo dell’emergenza Covid, i titoli ce li ha proprio tutti. Il Corriere della Sera si è messo a contarli, con zelo. Ha fatto un bell’ingrandimento delle decorazioni esibite da Figliuolo domenica sera in tv, ospite a Che tempo che fa. Poi ha stilato l’elenco, abbellito da un’infografica colorata. Ordine militare d’Italia: ce l’ha. Croce d’oro al Merito dell’Esercito: ce l’ha. Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: ce l’ha. Medaglia Mauriziana al Merito dei dieci lustri di carriera militare: ce l’ha. Croce d’oro per anzianità di servizio: ce l’ha. Croce commemorativa operazioni militari in Afghanistan: ce l’ha. Croce commemorativa per partecipazione a missioni di salvaguardia e mantenimento dell’ordine pubblico: ce l’ha.

Gli mancano solo i titoli degli scatti di carriera fantozziani, tipo: “direttor. lup. mann. figl. di putt.”. Ma ci sta lavorando, arriveranno presto.

Il Viminale corre per Suárez. Però dimentica Patrick Zaki

Mi rivolgo con deferenza a Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno in carica dal settembre 2019, per sottoporre alla sua attenzione il caso di due giovani stranieri per i quali le è pervenuta – non direttamente dagli interessati – analoga richiesta di concessione della cittadinanza italiana.

Il primo ha 34 anni, il secondo ne ha 29. Uno è uruguaiano, l’altro egiziano. Il primo si chiama Luis Alberto Suárez Diaz e fa il calciatore. Il secondo si chiama Patrick George Zaki e avrebbe dovuto conseguire nel settembre prossimo il suo Master presso l’Università di Bologna, non fosse recluso in attesa di giudizio da oltre 13 mesi nel carcere di Tora, alla periferia del Cairo. Risultano coinvolte, a diverso titolo, anche due importanti università italiane: quella di Perugia, oltre a quella di Bologna.

Non ho bisogno di dilungarmi oltre sulle vicende del calciatore Suárez e del ricercatore Zaki perché le conosce bene entrambe. Per ambedue, infatti, è stata richiesta da terzi l’applicazione urgente del comma 2 dell’articolo 9 della legge 91. Quello che recita: “La cittadinanza può essere concessa allo straniero quando questi abbia reso eminenti servizi all’Italia, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato”. In tali circostanze lo straniero può venir naturalizzato quand’anche non risieda “da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica”.

Suppongo che nel caso di Suárez il suo dicastero intendesse far valere il requisito degli “eminenti servizi resi all’Italia”. Non mi spiegherei altrimenti la premura con cui alti funzionari del Viminale, nel settembre scorso, contattarono a più riprese la Juventus prospettando a suoi rappresentanti l’accoglimento in pochi giorni della richiesta di cittadinanza del calciatore. Sui giornali abbiamo letto vari messaggi di rassicurazione pervenuti in tal senso dal suo ministero alla squadra torinese, prima e dopo che la Juventus rinunciasse all’ingaggio di Suárez (fors’anche perché avvertita dell’inchiesta della Procura di Perugia sull’“esame-farsa” allestito su misura per lui dall’Università umbra).

La vicenda ha suscitato grande scalpore, non solo fra le migliaia di stranieri che attendono la cittadinanza, avendone maturato i requisiti, e che si vedevano scavalcati dal nuovo venuto. Il rettore dell’Università di Bologna, Francesco Ubertini, insieme a tutto il corpo docente e agli studenti dell’ateneo, è impegnato in prima fila nella campagna per la scarcerazione del suo ricercatore Patrick Zaki. Centinaia di migliaia di connazionali hanno sottoscritto la petizione perché gli venga concessa urgentemente la cittadinanza italiana, considerando che in tal senso “ricorra un eccezionale interesse dello Stato”, come prescrive la legge e come lo stesso atroce trattamento subito da Giulio Regeni suggerisce. Il decreto presidenziale può essere emanato solo previa proposta del ministero dell’Interno.

Sono certo, signora ministra, che il Viminale possa pronunciarsi in merito con la medesima celerità che ha dimostrato nel caso Suárez.

Salvate il soldato Marcucci: la guerra dei capigruppo dem

Era il dossier più urgente e forse anche quello più complicato da risolvere. E così è stato: è su Roma che si consuma il primo inciampo del nuovo corso di Enrico Letta come segretario del Pd. La prima prova, a due giorni dall’insediamento, per passare in un attimo dalle prestigiose aule di Sciences Po a Parigi ai personalismi, alle liti tra correnti e alle beghe del Pd. La fuga in avanti di Roberto Gualtieri non è piaciuta al Nazareno ma quella delle Amministrative – non solo per la Capitale – è solo l’assaggio di una ricostruzione del partito che inizierà nelle prossime ore a partire dalla segreteria e poi dai gruppi parlamentari. Sui tempi, nessun “turbo”: Letta si prenderà il tempo necessario, circa una settimana, per decidere. In autonomia, perché la sua non sarà una segreteria fatta col bilancino. E qui iniziano i problemi perché i vari big del Pd ne vorrebbero una più ampia possibile, una sorta di “comitato politico”, che tenga dentro tutti, a partire dal vice. Base Riformista, la corrente di Lorenzo Guerini e Luca Lotti, sta spingendo per far nominare Alessia Morani vicesegretaria ma, di fronte a questa ipotesi, nel partito levano gli scudi. “Sarebbe una scelta bizzarra considerando che Zingaretti si era dimesso proprio perché i renziani gli volevano imporre il vicesegretario”, ragiona un senatore dem, ricordando una delle ultime gocce che hanno fatto traboccare il vaso.

L’unica certezza è che il vicesegretario sarà uno solo e sarà una donna. Sul resto Letta sceglierà anche esterni, in base alle competenze e ai progetti. Ma il nucleo sarà politico. Poi c’è la spinosa questione dei capigruppo: il segretario si sarebbe augurato un passo indietro autonomo da parte di Graziano Delrio (Camera) e Andrea Marcucci (Senato), ma al momento i due non hanno alcuna intenzione di lasciare. Se Delrio ha più chance di rimanere al suo posto (per sostituirlo si fa il nome di Paola De Micheli), il destino di Marcucci sembra segnato anche se da Br si fa muro. “Non è arrivato alcun segnale in tal senso”, dicono. E: “Sul capogruppo non molliamo”. Al posto di Marcucci, che in queste ore si sta facendo notare per un iperattivismo, con comunicati e interviste un po’ ovunque, in pole c’è la vicepresidente del Senato, Anna Rossomando, che conosce benissimo il gruppo di Palazzo Madama. Perché se ieri, di fronte alla stampa estera, Letta ha spiegato che “Renzi non è più nel Pd e i renziani sono una categoria del passato”, il nuovo segretario sa benissimo che il rinnovamento del Pd deve per forza passare da un ridimensionamento di quella corrente che ha bombardato dall’interno per settimane la segreteria di Nicola Zingaretti.

La sostituzione dei capigruppo però dovrebbe arrivare all’inizio della prossima settimana quando Letta incontrerà i gruppi di Camera e Senato.

Nel weekend il neo segretario, che in queste ore sta prendendo le misure al Nazareno e oggi incontrerà via Zoom i 100 dipendenti in cassa integrazione, si dedicherà anche agli incontri con i leader dei partiti della futura coalizione di centrosinistra. Già nel fine settimana si vedrà con Roberto Speranza di LeU e soprattutto con l’ex premier, Giuseppe Conte: “Il suo impegno nel M5S è una buona notizia – ha detto ieri il segretario – voglio stabilire un rapporto con loro”. Poi dovrebbe vedere anche Carlo Calenda e il suo acerrimo nemico Matteo Renzi, che lo pugnalò alle spalle nel 2014 con l’indimenticabile #Enricostaisereno. I due non si sono ancora sentiti.

Letta “irritato” su Gualtieri. Ora il Pd vuole le primarie

Tutte le strade portano lì, portano a Roma. Una verità che può rappresentare la prima rogna: per il segretario che si è appena preso il Pd, Enrico Letta, come per il rifondatore che prepara il nuovo Movimento, Giuseppe Conte. Chiamati a salvare i rispettivi partiti, ma anche a parlarsi per riannodare il filo giallorosa pure in vista delle Comunali di ottobre, cioè a cercare accordi e alleanze.

Mica facile però, e lo specchio della difficoltà è proprio Roma, dove la sindaca grillina uscente Virginia Raggi è intoccabile. E dove sul tavolo c’è già un’altra carta, l’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, deciso a candidarsi al Campidoglio. Come anticipato ieri dal Fatto, Gualtieri, 54 anni, di antico rito dalemiano, ha sciolto la (sua) riserva dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd. E ieri sera Letta si è mostrato aperturista: “Gualtieri è un amico e un ottimo nome e lo incontrerò prestissimo”. I due si dovrebbero vedere già oggi. Ma fonti del Nazareno frenano: “Nulla ancora è deciso”. Ieri sera Letta ha sentito i segretari del Pd di Roma e del Lazio per cominciare a prendere in mano “il dossier”. Il segretario dem non ha per nulla gradito “l’accelerazione”. Avrebbe preferito tempi più lunghi e una valutazione “in ottica di coalizione”. Tradotto, che se ne parlasse prima anche con Carlo Calenda, candidatosi mesi fa: magari per convincerlo a ritirarsi. Invece nulla, e Calenda ieri ha fatto l’inferno: “La candidatura di Gualtieri serve a rompere, ci confronteremo nelle elezioni”. D’altronde può picchiare, perché restando in corsa toglierebbe voti preziosi a Gualtieri.

Nell’attesa l’ex ministro non parla ufficialmente, ma fonti dem fanno sapere che “sta riflettendo seriamente” e che ha ricevuto “richieste da più parti” di candidarsi. Non solo: “Sull’importanza del voto a Roma lui è in piena sintonia con Letta e Zingaretti”. Però ora dal Pd più voci dicono che comunque “Gualtieri si dovrà sottoporre a primarie di coalizione”. Ad oggi, anche con Calenda. “Ma Gualtieri è prontissimo a farle” giurano.

A guardare da fuori resta Raggi. Correrà di nuovo, forte dell’appoggio di Beppe Grillo, con cui ha ripreso a sentirsi regolarmente. Non ci sono invece contatti con Conte, chiuso a immaginare il futuro dei 5Stelle, lavoro per cui avrà bisogno di altre settimane. Al punto che il piano di rifondazione potrebbe slittare a dopo Pasqua. Ma tanto Grillo e gli altri big si sono decisi (o rassegnati) alla corsa bis. Per dirla con Francesco Silvestri, deputato romano molto ascoltato nel M5S, “la candidatura di Gualtieri non cambia nulla, noi ci teniamo stretta Raggi”.

Certo, l’accordo che oggi non c’è potrebbe riapparire nel ballottaggio, e a settembre, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti quello si sussurrano: ne riparliamo al secondo turno. Ma meglio non dirlo a Raggi, che ieri ha rovesciato un torrenziale post contro la Regione Lazio governata da Zingaretti, dove la 5Stelle Roberta Lombardi, non proprio una sua sodale, è neo assessora con la benedizione di Conte e Grillo.

La miccia è l’arresto di due persone, tra cui la direttrice del Dipartimento rifiuti della Regione, per l’apertura della discarica di Monte Carnevale a Roma. “Sono stata ‘massacrata’ per cinque anni – scrive Raggi – perché mi opponevo al modello di gestione dei rifiuti della Regione Lazio, ma avevo ragione. Ora Zingaretti ritiri il suo Piano dei rifiuti che impone discariche a Roma”. E Alessandro Di Battista, da sempre sostenitore della sindaca, ci mette il carico: “Nel Lazio l’unica transizione ecologica dovrebbe essere il passaggio di certi soggetti da posti di comando al carcere”. Chissà che ne pensano Letta e Conte, che dovranno discutere anche di molto altro: dall’apertura del segretario dem al rientro di Renzi in coalizione, alla legge elettorale, perché Letta già invoca il Mattarellum, e saluti al proporzionale caro ai grillini.

Scontri interni sulle nomine. E Dal Verme verso il Demanio

Sarà anche il governo dei “migliori”, ma le logiche di potere che animano le nomine ricordano tanto i peggiori. Prendiamo il ministero dell’Economia, dove è in atto una guerra sotterranea dopo l’insediamento di Daniele Franco.

L’effetto più visibile dovrebbe arrivare giovedì, quando il Consiglio dei ministri deciderà sullo spoils system dei vertici delle agenzie. Stando ai rumors, otterranno la riconferma sia il direttore delle Entrate, il tributarista renziano Ernesto Maria Ruffini sia quello delle Dogane, Marcello Minenna (in quota 5S). A saltare dovrebbe essere il direttore del Demanio, Antonio Agostini. Il motivo non è dei più nobili: deve lasciare il posto ad Alessandra Dal Verme, già capo dell’ispettorato alla Ragioneria e poi dirigente del Gabinetto con Roberto Gualtieri (dove ha lavorato alla stesura del Recovery Plan). La dirigente – cognata di Paolo Gentiloni e da tempo in pole per molti incarichi – viene premiata con uno stipendio da 240 mila euro con il classico promoveatur ut amoveatur, visto che non pare proprio nelle grazie né del ministro né della Ragioneria, dove siede il fedelissimo di Franco, Biagio Mazzotta. I 5Stelle sono contrari al siluramento di Agostini, ex dirigente dei Servizi e di diversi ministeri, ritenuto vicino a Gianni Letta (e che peraltro avevano attaccato quando era al ministero dell’Ambiente), ma difficilmente basterà.

La parte meno visibile dello scontro riguarda invece le nomine interne. Al Gabinetto, Franco ha subìto la nomina di Giuseppe Chinè, vicinissimo al leghista Giorgetti e caldeggiato dal sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli, uomo forte di Palazzo Chigi indicato dal Quirinale. Per riequilibrare, il ministro ha nominato nel gabinetto due persone di fiducia: il vice capo, Lucia Calabrese (suo braccio destro alla Ragioneria) e il direttore Giuseppe Parise, che sostituisce Valentina Gemignani, fedelissima di Garofoli (a cui sono legati i vertici dell’ufficio legislativo, Mastrandrea e Zaccardi). In risposta, Chiné ha nominato un altro vice capo di Gabinetto, Nicoletta Fusco. Se ne vedranno delle belle.