Il dl Sostegno appeso all’ok politico

Per non turbare la sensibilità del sottosegretario all’Economia Claudio Durigon sarebbe meglio non definirli “litigi”, quelli che il leghista smentisce essere la causa dello slittamento del decreto Sostegni. Ma comunque si voglia chiamarli, resta il braccio di ferro della maggioranza sull’accordo del decreto da 32 miliardi di nuovo extra-deficit che ancora non ha visto la luce dopo mesi di ritardo e nonostante le categorie in lockdown siano in ginocchio. La prova è l’ennesimo rinvio del vertice tra il ministro dell’Economia Daniele Franco e i capigruppo di maggioranza. Dopo averlo annunciato, l’incontro non c’è stato né lunedì né ieri. Si spera di trovare la quadra, ma tempo davvero non ce n’è più. Così, nella tarda serata di ieri è stato annunciato per oggi pomeriggio, attorno alle 17, un vertice sul decreto Sostegni direttamente tra il premier Mario Draghi e i ministri rappresentanti delle forze di maggioranza, formula già usata nelle riunioni dei giorni scorsi per le misure anti-Covid. Poi domani ci dovrebbe essere l’incontro con i leader di partito. Un via libera che potrebbe consentire a Draghi di portare il provvedimento nel Consiglio dei ministri di venerdì, al termine del quale il premier potrebbe addirittura tenere una conferenza stampa per illustrare il decreto con i ristori per le partite Iva, il piano vaccini e indennità per stagionali e sportivi, e con il rifinanziamento della cassa integrazione, della Naspi, del reddito di cittadinanza e di emergenza.

A scaldare gli animi ci sono, tra gli altri, gli indennizzi alle attività produttive che valgono 12 miliardi. Abbandonando i codici Ateco, decisione che aveva valutato anche il governo Conte ma che crea non pochi ostacoli ora che l’Italia è chiusa in lockdown, la platea si fa più ampia e serve un nuovo meccanismo di calcolo e di distribuzione, su cui non c’è ancora intesa. La Lega poi continua a richiedere la cancellazione del cashback, mentre M5S è sulle barricate per difendere la misura tanto voluta da Giuseppe Conte. Una richiesta giudicata comunque “di troppo” dopo che la maggioranza ha già assecondato la volontà del Carroccio e di Forza Italia di stralciare le cartelle esattoriali fino a 5 mila euro per tutti, giudicato l’ennesimo condono dal Pd. Anche se la viceministra all’Economia, Laura Castelli, insiste per ottenere lo stralcio di tutte le cartelle inesigibili “senza limite”.

L’esponente Cinque Stelle conferma, invece, l’accordo sulla norma a cui sta lavorando il ministero del Lavoro che permetterebbe ai percettori del reddito di cittadinanza di lavorare temporaneamente, sospendendo il beneficio senza subire la perdita o la riduzione dell’assegno. Di tempo ne è rimasto poco.

Arriva lo “sblocca cantieri” pure per il Recovery Fund

Da transizione ecologica a “transizione burocratica”, il passo è breve e suona pure bene. Il primo a colmare la distanza linguistica, ieri, è stato il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani in audizione alle Camere sulle linee programmatiche del suo dicastero in vista del Recovery plan. L’intenzione è colmare anche la distanza pratica e per quello, a quanto pare, dovrebbe arrivare l’ennesimo sblocca cantieri. Senza bisogno di interpretare, cosa intendesse Cingolani l’ha precisato poco dopo: Il “modello Genova” rappresenta “un esempio di governance virtuosa” e di “capacità di esprimere le energie più generose e le professionalità più elevate nei momenti di difficoltà”. Per “modello Genova”, in genere, si intende l’eliminazione delle gare con le procedure affidate a un commissario. Un sistema che poteva funzionare solo per la ricostruzione del Morandi, ma che continua a essere indicato dai più, dalla Lega a pezzi di maggioranza, come una soluzione per sbloccare i cantieri.

L’idea di fondo è che i soldi del Recovery Plan saranno tanti e dovranno essere spesi velocemente. “La governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) rappresenta un fattore critico: il Paese deve disporre di un sistema di procedure autorizzative che elevi drasticamente i risultati realizzativi dei progetti di intervento pubblico e incentivi e semplifichi l’intervento e il partenariato privato”, ha detto Cingolani. Per l’occasione ha fornito anche i numeri delle richieste per le Valutazioni di Impatto Ambientale, sulle quali nelle scorse settimane era stato sollevato un “allarme ingorgo” dalle pagine del Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria: da gennaio 2020 a metà febbraio 2021 sono arrivate al ministero 610 istanze, ne sono state lavorate 577 (il 95%) e sono in corso di esame di verifica di procedibilità le ultime arrivate, quindi 33 in totale. Trenta, invece, risultano non procedibili ed è stato chiesto ai proponenti che fossero perfezionate. Il problema dei rallentamenti, insomma – come raccontato dallo stesso presidente della commissione Via – spesso dipende pure da progetti non elaborati a regola d’arte. Eppure l’idea è che riguardi invece le autorizzazioni e l’esecuzione delle opere.

Discorso simile per le infrastrutture e i trasporti. Ieri alle Camere è stato il turno anche del ministro Enrico Giovannini, che l’ha messa così: “O noi comprimiamo in modo straordinario i tempi che storicamente l’Italia usa per fare le opere o non vedremo i fondi europei perché non riusciremo a completare le opere nel 2026”. È stato più cauto del suo omologo all’ambiente parlando di “approcci rispettosi delle finalità complessive della nostra azione” ma che “consentano di fatto di rispettare i tempi”. Il ministro ha chiesto alla Struttura tecnica di missione un’analisi delle schede del Pnrr per accelerare il lavoro, ma soprattutto ha annunciato una commissione con Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Anac e ministero della Pa per produrre le proposte che dovranno comprimere i tempi delle opere.

Il tutto dovrebbe finire nel prossimo decretone, che conterrà anche la governance del Pnrr e le assunzioni nella Pa. Giovannini lo ha fatto intendere ieri ai sindacati. “Ci è stato comunicato che entro fino aprile vi sarà un intervento, forse un decreto, per semplificare alcuni passaggi, diversi dei quali ricompresi nel Codice degli Appalti – ha detto Alessandro Genovesi, segretario della Fillea Cgil – Eppure tutti sappiamo che con il decreto Semplificazioni del governo Conte e la legge 120/2020 si è già intervenuto pesantemente in materia e che i primi dati, dall’Anac al Cresme, ci dicono che le norme cominciano a funzionare”.

Concorsi, un anonimo annunciò ai pm i vincitori

“Oggetto: delazione anonima”. È il 23 ottobre 2019 quando il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli, invia al suo capo Giuseppe Creazzo, il testo di una lettera che è appena giunta sulla sua scrivania: “Mi pregio trasmettere per le relative determinazioni l’allegata delazione anonima proveniente da un asserito ‘accademico di Medicina di Careggi’”. Nel linguaggio tra togati, le “relative determinazioni”, altro non sono che l’avvio di un’indagine. L’asserito “accademico di Medicina di Careggi” chiude la sua missiva con queste parole: “So che l’anonimato non rappresenta il massimo, ma non tutti hanno la forza e la possibilità di seguire strade giudiziarie. Spero che possiate interrompere questa vergogna!”. Eppure due anni prima, era il 2017, un ricercatore universitario ebbe la forza di denunciare: il suo nome è Philip Laroma Jezzi – oggi è professore associato a Firenze – e grazie al suo esposto e alle prove prodotte fu avviata l’indagine che disvelò il baronaggio operato in tutta Italia nel diritto tributario. Fu il primo grande terremoto nell’ateneo fiorentino. E non fu l’ultimo. L’anno successivo un’altra inchiesta travolse la facoltà di Medicina e, in questi giorni, siamo di fronte alla terza ondata causata dalla nuova indagine condotta da Tescaroli e dal pm Antonino Nastasi.

Pur non avendo il coraggio di Laroma – che ha sempre sostenuto di non essere un “eroe” ma di aver fatto solo il suo dovere: denunciare – l’anonimo “accademico di Medicina di Careggi” ha comunque dato un notevole impulso all’indagine. Ha infatti allegato alla sua lettera 11 nominativi per altrettanti concorsi. “Per dimostrarLe che non mi sbaglio – scrive l’anonimo a Tescaroli – Le indicherò i vincitori dei concorsi accademici in atto prima ancora che molte commissioni presiedute dai baroni di Careggi si siano ancora insediate”. Circa 18 mesi dopo bisogna ammettere che in 7 casi su 11 l’anonimo l’ha azzeccata in pieno. Il primo dei nominativi vince il 14 ottobre 2019, quindi prima che la lettera giunga in procura, mentre il secondo risultato lo azzecca 24 ore dopo che Tescaroli ha trasmesso la missiva a Creazzo. E il lato più incredibile sta nel fatto che il vincitore indicato – come sottolineerà qualche mese dopo la Guardia di Finanza – è anche l’unico candidato. Il terzo vaticinio è datato 31 dicembre 2019: l’anonimo ha individua 3 nuovi professori ordinari su 3. Trattandosi di un anonimo, e non sapendo se i professori indicati siano indagati per i concorsi in questione, in questa sede decidiamo di non menzionarli. Se decidiamo di pubblicare le parole dell’anonimo è perché il suo scritto non soltanto è un atto depositato nell’indagine, ma è anche uno degli inneschi principali che hanno portato Tescaroli e Nastasi ad avviare l’indagine che oggi conta una trentina di professori indagati – molti per corruzione – tra i quali il rettore Luigi Dei. Nessuno scambio di denaro poiché il do ut des riguarda la spartizione delle nomine nei concorsi.

Prima di tornare al nostro anonimo segnaliamo che Tescaroli allega, alla comunicazione inviata a Creazzo, anche una nota, pubblicata dall’associazione Trasparenza e Merito, con la quale l’Osservatorio indipendente sui concorsi universitari aveva segnalato – proprio al Rettore, oltre che all’Anac e al Miur – probabili criticità su alcuni dei concorsi mezionati dall’anonimo. Un dettaglio che getta sulla vicenda una luce ancora più incredibile.

“Gentilissimo”, scrive l’anonimo a Tescaroli, “sono un accademico di Medicina di Careggi, penalizzato ed escluso dalla mafia dei baroni che da anni decide vita e morte di una classe di medici che, salvo rarissime eccezioni, in un silenzio omertoso, accetta di buon grado ogni decisione, qualunque essa sia, sperando un giorno di coronare il suo sogno di mediocre universitario: avere la cattedra! Bene, dopo i recenti scandali, nulla è cambiato (…). Ho letto con entusiasmo che la vicenda cattedropoli le è stata affidata e confido nella sua integerrima capacità di perseguire l’attività illecita, già dimostrata in veste di pm in processi chiave del nostro paese. Sappia che non uno dei concorsi che si stanno svolgendo è regolare. Praticamente tutti sono caratterizzato da bandi profilati atti a facilitare un vincitore, che nel 90% dei casi è un interno, spesso unico candidato presente! È una vergogna!”.

Non sappiamo se davvero il 90% dei concorsi è truccato – e ci auguriamo che non sia così – e ovviamente la “mafia dei baroni”, espressione molto dura, non ha nulla a che vedere con la mafia, che Tescaroli conosce molto bene per averla combattuta sin da giovanissimo pm in Sicilia. Però l’anonimo aveva visto giusto: nonostante le indagini in corso da anni, secondo l’accusa, le spartizioni e le corruzioni continuavano. Nonostante le segnalazioni delle associazioni, ancora una volta, si è dovuto attendere l’azione della magistratura.

La “soffiata” al Pci. E Pecchioli sbiancò: “No! Anche lui?”

I dirigenti del Pci vennero informati in via riservata sulle liste della P2. Lo racconta Claudio Petruccioli, nel 1981 condirettore dell’Unità, nel libro Comunisti a modo nostro (Marsilio), scritto insieme a Emanuele Macaluso: “Venne a parlarmi Ibio Paolucci”, cronista giudiziario del quotidiano comunista. “Il pm Guido Viola – scrive Petruccioli – aveva chiesto di parlare con me”. Nel marzo 1981, Viola era il pubblico ministero del caso Sindona, assegnato ai giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo che, indagando sul finto rapimento del bancarottiere, il 17 marzo 1981 avevano scoperto e sequestrato a Licio Gelli le liste della sua loggia segreta. L’incontro avviene “nello studio di un notaio, in piazza Cordusio”. Viola racconta a Petruccioli “del sequestro di Castiglion Fibocchi, di cui non si sapeva ancora nulla, e mi sciorina tutti i nomi – dico quelli più importanti, i più clamorosi”. “Mi spiega che ha chiesto di parlare con me per un motivo molto semplice: ‘Perché’, dice, ‘in questa lista non compare nessuno del suo partito, non siete dunque condizionabili, ricattabili. A voi, infatti, chiedo di fare pressione affinché questi elenchi vengano resi pubblici’. Mi fa capire (o, almeno, io capisco) che se questi elenchi non venissero resi pubblici, potrebbero esserci dei pericoli per gli inquirenti”.

Il giorno dopo, Petruccioli va a Roma, a Botteghe Oscure, e riferisce a Ugo Pecchioli, responsabile della sezione Problemi dello Stato del partito. “Quando arrivo ai nomi dei militari e dei capi dei servizi segreti lo vedo sbiancare – mi interrompe su un nome: ‘No! Anche lui?’. Era chiaro che ad alcune di quelle persone erano stati affidati incarichi di rilievo dopo averli discussi e concordati con lui”.

“Non sapevamo nulla”, reagiscono con stupore Turone e Colombo. “Viola non ci ha mai parlato di questa sua iniziativa e se ce ne avesse parlato non saremmo stati d’accordo, non glielo avremmo lasciato fare”. Viola nel 1990 uscirà dalla magistratura e da avvocato sarà condannato per riciclaggio.

“Erano mesi tremendi”, ricorda Turone. “Arrivavano pressioni e, lo confesso, avevamo paura. Avevamo scoperto nella lista della P2 i nomi di personaggi importanti, politici, imprenditori, militari, alte cariche dello Stato. Stavamo ben attenti che non uscissero, perché lo scoop di qualche giornale avrebbe gettato una macchia sulla nostra inchiesta. Il difensore di Gelli presentava a ripetizione istanze, che sembravano minacce, per chiedere che i documenti che avevamo sequestrato fossero restituiti al Venerabile. Noi due giudici istruttori avevamo portato, in gran segreto, la lista al presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, e chiedevamo che fosse il governo a renderla pubblica”. Aggiunge Colombo: “Non sapevo dell’incontro di Viola con Petruccioli, anche se non mi stupisce. Come pm era informato su tutto da noi giudici istruttori, ma lui aveva uno stile diverso da noi. Forse la sua, comunque, era una richiesta d’aiuto, sbagliata seppur in buona fede, per proteggere l’indagine”. I nomi della lista poi non uscirono, né sull’Unità, né su altri giornali. “Paolucci era un giornalista corretto”, ricorda Turone, “e non usò quelle informazioni per fare uno scoop che avrebbe danneggiato l’inchiesta”. Forlani intanto temporeggia. Turone, Colombo e il capo del loro ufficio, il consigliere istruttore Antonio Amati, gli mandano una lettera in cui chiariscono che ritengono coperte da segreto istruttorio le deposizioni dei testimoni che stavano sfilando davanti a loro, ma non “il restante materiale trasmesso” (cioè le liste). Intanto si muove Francesco De Martino, il socialista presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta su Sindona: annuncia che la Commissione da lui guidata ha intenzione di rendere pubbliche le liste. Quello stesso giorno, il 20 maggio 1981, il tg della notte dà la notizia: la presidenza del Consiglio ha deciso di pubblicare i nomi degli appartenenti alla loggia massonica P2.

P2, quel club occulto che da Gelli arriva a B.

Giuliano Turone nel 1981, quarant’anni fa, era giudice istruttore a Milano e insieme al collega Gherardo Colombo stava lavorando a due inchieste. La prima riguardava lo strano (e falso) rapimento del banchiere Michele Sindona, scomparso dagli Stati Uniti, dov’era scappato per non rispondere del crac della sua banca italiana, e ospitato in Sicilia da una pittoresca e inquietante congrega di massoni e mafiosi. La seconda riguardava l’uccisione di Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore delle banche sindoniane, che non aveva voluto piegarsi né alle minacce di Sindona né alle pressioni di Andreotti. “Ritenemmo utile”, racconta Turone, “capire qualcosa di più su uno dei più misteriosi sponsor di Sindona: Licio Gelli, Maestro Venerabile del Grande Oriente d’Italia”.

Il 17 marzo, all’alba, la Guardia di finanza, mandata con grande discrezione dai giudici istruttori di Milano, bussò alla porta delle case e degli uffici di Gelli. “Nella cassaforte della Giole, la ditta d’abbigliamento di Castiglion Fibocchi, nei pressi di Arezzo, amministrata da Gelli, i finanzieri da noi mandati trovarono gli elenchi degli iscritti a una loggia massonica segreta, chiamata Propaganda 2”. Quando i nomi furono resi pubblici, fu uno choc per l’Italia. Si scoprì uno Stato parallelo. Cadde il governo.

Che cos’era la P2, e che cos’è? “È un sistema di potere occulto”, risponde Turone. “Questa è l’unica vera definizione che posso dare. Dire che è una loggia massonica deviata non è sbagliato, ma non spiega abbastanza. Le logge massoniche sono già di per sé associazioni particolarmente riservate, adatte dunque a funzionare come centrali di potere occulto. In sostanza, la P2 è un meccanismo sofisticato che consente a gruppi di potere di fare in modo che le decisioni più rilevanti di una comunità, o addirittura di un intero Paese, vengano gestite attraverso canali sotterranei e invisibili. In modo tale che il pubblico abbia la sensazione di essere governato in democrazia, mentre in realtà le vere decisioni vengono assunte in via sotterranea attraverso percorsi paralleli e incontrollabili. Questo è la P2: un meccanismo per esercitare il potere in maniera occulta, senza passare attraverso i canali di controllo istituzionali”.

Per capire la loggia di Gelli “è utile la metafora della doppia piramide”, spiega Turone. “L’ha usata, fin dal 1984, Tina Anselmi, la presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. Il Sistema P2 è l’insieme di due piramidi collocate l’una rovesciata sull’altra, in modo da assumere la forma di una clessidra. Licio Gelli, custode e notaio di quel sistema, occupa il vertice della piramide sottostante. In questa si trovano tutti i segreti svelati dalla perquisizione di Castiglion Fibocchi: l’esercito degli affiliati, la documentazione degli affari inconfessabili, i segreti relativi ai meccanismi del potere occulto e le grandi operazioni da esso controllate. Questa prima piramide è sovrastata da una seconda piramide capovolta, che vede il suo vertice inferiore pure collocato sulla figura di Gelli. Egli è infatti il punto di collegamento tra le forze, i personaggi e i gruppi che, nella piramide superiore, stabiliscono e perseguono le finalità ultime e ne stabiliscono le strategie (in altri termini, le forze che gestiscono il “golpe strisciante”), e le forze che invece operano nella piramide inferiore, dove quelle finalità trovano e hanno trovato pratica attuazione. Nel 1984 la presidente Anselmi scriveva, nella sua relazione finale, che non era possibile sapere quali forze si agitassero nella piramide superiore rovesciata. Oggi, invece, sappiamo qualcosa di più, come cerco di spiegare nel mio libro Italia occulta” (la cui nuova edizione, pubblicata da Chiarelettere, sarà in libreria il 25 marzo).

Licio Gelli è stato centrale nella storia italiana dal dopoguerra fino agli anni Ottanta. Non un burattinaio in proprio, ma un volonteroso funzionario della guerra segreta che è stata combattuta (anche) in Italia in difesa dell’Occidente. Nemico dichiarato: il comunismo. Nemico combattuto: la democrazia, le regole, la legalità, la Costituzione repubblicana. Nella P2 c’erano i vertici dei servizi segreti e delle Forze armate, magistrati, politici, imprenditori, giornalisti. Uomini della P2 sono coinvolti nel tentato golpe Borghese dell’8 dicembre 1970 e in tutte le vicende di eversione e di stragi, da piazza Fontana alla stazione di Bologna.

Dopo il 1974, anno di svolta, la strategia della guerra segreta contro il comunismo cambia: basta con i progetti apertamente golpisti, sostituiti da un più flessibile programma di occupazione, attraverso uomini fidati, di tutti gli ambiti della società e di tutti i centri di potere. Esercito, servizi, partiti, imprese, banche, giornali… La massoneria fornisce le strutture e le coperture necessarie a organizzare questo club del doppio Stato, questo circolo dell’oltranzismo atlantico in cui poi, all’italiana, si sovrappongono anche (e per alcuni soprattutto) le protezioni, le carriere, gli affari.

E oggi? È rimasto qualcosa della P2? “Non è facile dire se oggi siano rimasti ancora operativi alcuni tentacoli di quel sistema di potere occulto, non foss’altro perché – se così fosse – sarebbero appunto tentacoli occulti. Ma che qualcosa di quel sistema sia sopravvissuto ce lo fa pensare l’andamento degli eventi che si sono succeduti dopo la scoperta degli elenchi e degli altri documenti scottanti di Castiglion Fibocchi. Il sequestro e la pubblicazione di quelle carte fu certo un duro colpo per il Sistema P2, che per circa un anno ne rimase, diciamo così, stordito, più o meno come un pugile messo ko da un uppercut dell’avversario. Ma allo stesso modo in cui il pugile suonato si rialza dal tappeto, così la P2 ha rialzato la testa dopo un anno, facendo cadere il governo Spadolini (con lo zampino di Bettino Craxi, che voleva rimettere il piduista Di Donna alla testa dell’Eni, cosa a cui Spadolini si opponeva). Da lì in avanti, abbiamo assistito a diversi altri recuperi da parte degli epigoni di quel sistema. E il fatto stesso di avere poi avuto per anni a Palazzo Chigi un presidente iscritto alla loggia, descritto dallo stesso Gelli come il personaggio più indicato per completare la realizzazione del cosiddetto “Piano di rinascita democratica” della P2, non si può pensare che non significhi nulla”.

È Silvio Berlusconi. In pista, con molti nuovi amici, ancora oggi.

Istituti aperti tutta l’estate: il “ponte” che vuole Bianchi

“Sono assolutamente convinto che serva riprendere la scuola in presenza, a partire dalle aree periferiche, ma il calendario lo fanno le Regioni”: il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi sceglie l’audizione di ieri sul Recovery plan per dire quello che è evidente da giorni, ovvero che poco è cambiato. E quel poco è peggiorato. Le Regioni continuano a fare ciò che vogliono, indipendentemente dai parametri che sono stati loro forniti. Questo anno scolastico, è la sensazione che emerge, è andato. “Dobbiamo riportare i più piccoli in presenza e soprattutto lavorare in vista del prossimo anno scolastico” ha aggiunto il ministro, sottolineando che spera “di avere risorse per interventi sostanziali” per garantire “un ponte” in vista del prossimo anno scolastico visto che “il problema degli apprendimenti non si risolve negli ultimi 20 giorni di giugno”. Tradotto: i recuperi di fine giugno vengono lasciati all’autonomia delle scuole, ma l’idea è tenere gli istituti aperti d’estate per il “recupero della socialità” (con i patti di comunità) ed estenderli fino all’avvio del prossimo anno. Il ministro ha confermato il lavoro sulla scuola svolto per il Pnrr elaborato dall’ex ministra Lucia Azzolina “già apprezzato molto dalla stessa Commissione europea” e si è difeso sul cambio di passo del governo, da aperturista a precauzionale nel giro di poche settimane: “Quando si è deciso di sospendere la didattica in presenza non è che da una parte c’erano i difensori dei bambini e dall’altra gli orchi ma persone responsabili. Rappresentanti dell’Iss deputati a fare questo”. Annuncia che prima del blocco del vaccino AstraZeneca si era arrivati a coprire il 44,3% dei docenti. “La Puglia è la regione che ha vaccinato di più” ha detto. Ed è anche quella che ha chiuso un po’ di più. Il resto, è una programmazione vaga su lungo raggio, dopo aver sottolineato di essere salito “su un treno in corsa”: scuola 4.0, digitalizzazione, ristrutturazione degli edifici, il recupero del divario Nord-Sud, il potenziamento delle materie Stem (quelle scientifico-matematiche) e della fascia 0-6 anni. Tra queste, un paio di indicazioni rilevanti: la scuola media, ha detto, “è l’anello debole del sistema della scuola italiana, non ancorata alle elementari e non in continuità con le superiori” mentre sulla “filiera tecnico professionale” ha stabilito un obiettivo di forte potenziamento con “i privati che devono intervenire e le Regioni pure”.

“Anche con la variante inglese, la scuola resta il luogo meno rischioso”

Per la fascia d’età 0-19, il rischio di diventare positivi al Covid-19 è dimezzato, anche nel caso della variante inglese. A dirlo è Sara Gandini, epidemiologa, biostatistica e docente di Statistica medica all’Università di Milano. Gandini spiega anche che, per essere significativo, ogni aumento dei casi in quella fascia di età va accompagnato al numero di tamponi fatti nelle scuole. “Il rischio assoluto non esiste – afferma – ma la scuola resta uno dei posti più sicuri”.

Il governo Conte ha lasciato le scuole aperte il più possibile. Una scelta corretta?

Sì. Oramai è vasta la letteratura scientifica che scagiona i bambini e mostra che i protocolli permettono di tenere sotto controllo i rischi. In gran parte dei Paesi europei la scuola è rimasta aperta perché considerata un servizio essenziale.

Dopo aver inizialmente detto di voler riaprire le scuole, il governo Draghi le ha chiuse, nidi compresi, in zona rossa o arancione, a causa della varianti…

Per quanto riguarda la trasmissibilità, nel più recente report di Public Health England (agenzia governativa per la sanità pubblica), Investigation of novel SARS-CoV-2 variant Variant of Concern 202012/01 Technical briefing 3, sono riportati importanti volumi di dati provenienti da un’analisi comparativa dell’attività di contact tracing su individui infettati dal virus normale e dalla cosiddetta variante inglese. Quei dati, commentati anche dalla rivista Nature, mostrano che gli individui in età scolare non presentano una trasmissibilità della variante inglese superiore agli adulti.

Però hanno interrotto la didattica in presenza, anche per i piccoli.

Pare sia stata condizionata dall’analisi dei tassi di incidenza riportati nel report dell’Iss (‘confidenziale’ ma reperibile online). I grafici sembrano mostrare un aumento a febbraio 2021 dei casi nella fascia di età 10-19. Questi dati vanno però considerati alla luce del fatto che con il 2021 sono iniziate diverse campagne di screening nelle scuole con test rapidi che hanno reso non confrontabili le varie classi di età, perché negli altri luoghi e per le altre professioni non si esegue un simile numero di test. In breve, se si confrontano i tassi di positività senza tener conto di questo si ottengono risultati non confrontabili. L’Emilia Romagna ad esempio pubblica i dati dei contagi nelle scuole e per età. Un passo in avanti? Sì perché nel report mostrano che c’è stato un leggero incremento (da 11% a 13%) negli adolescenti negli ultimi 30 giorni rispetto a settembre 2020, a fronte di un numero di tamponi che è più che raddoppiato, da 115mila a gennaio a 242mila di marzo 2021.

Altre regioni?

L’Ufficio Scolastico Regionale in Sicilia sta conducendo uno studio sistematico e ripetuto nel tempo che riguarda la totalità delle scuole Siciliane (97%) con regolari screening. Ha mostrato che a marzo 2021 c’è stata una diminuzione dei casi positivi nelle scuole rispetto alle precedenti rilevazioni del 2020. Su un totale di 683.545 studenti sottoposti allo screening, solo lo 0,19% è risultato positivo ai tamponi. Considerando le scuole di infanzia e I ciclo nell’intero periodo di osservazione, dal 19 novembre 2020 a oggi, il trend dell’incidenza degli alunni positivi al Covid-19 si conferma in diminuzione.

È giusto legare il ritorno a scuola alla vaccinazione degli insegnanti?

Le pubblicazioni scientifiche internazionali non mostrano rischi più elevati negli insegnanti rispetto alle altre categorie professionali.

C’è una differenza tra bambini e adolescenti?

Il rischio cresce con l’età. Gli adolescenti si contagiano e contagiano di più rispetto ai bambini e meno rispetto agli adulti. Anche una recente pubblicazione su Science ha mostrato che la classe di età che contribuisce in modo sproporzionato alla diffusione del virus è quella degli adulti (20-50 anni). I contagi avvengono principalmente tra adulti e adulti anche nelle scuole. Intendiamoci: il rischio zero non esiste. Le scuole non sono “sicure in assoluto” come nessun luogo durante una pandemia, ma ci sono protocolli da seguire. E come per ogni scelta, va fatto un bilancio tra rischi e benefici.

Accordo con l’Ue per 10 mln di dosi entro fine giugno

Accordo tra la commissione europea e Pfizer Biontech per la consegna “accelerata” di 10 milioni di dosi di vaccino anti-Covid per il secondo trimestre 2021, entro fine giugno. La presidente della commissione Ursula von der Leyen sa “quanto sia critico il secondo trimestre per il dispiegamento delle nostre strategie vaccinali negli Stati membri;

questi dieci milioni di dosi accelerate – continua Von der Leyen – porteranno il totale delle dosi nel secondo trimestre sopra i 200 milioni. È un’ottima notizia: questo darà agli Stati membri un margine di manovra e consentirà di colmare mancanze nelle consegne”. I 10 milioni di dosi vengono anticipati dall’opzione di acquisto di 100 milioni di dosi del vaccino esercitabile nel terzo e quarto trimestre 2021. La proposta della commissione dovrà essere ora approvata dagli Stati membri nel comitato direttivo congiunto, ma è improbabile sia bloccata.

La stessa commissione europea conferma l’obiettivo di avere nel secondo trimestre 2021 consegne di vaccini anti-Covid per “300 milioni di dosi”, che è la cifra “complessiva per tutte le compagnie” farmaceutiche che hanno sieri approvati (Pfizer Biontech, Moderna, Astrazeneca, Johnson & Johnson). Lo dice il portavoce capo della commissione Eric Mamer. L’obiettivo viene confermato malgrado l’accordo con Pfizer Biontech per anticipare la consegna di 10 milioni di dosi nel secondo trimestre, cosa che dovrebbe portare il totale delle consegne da parte della cordata Usa-Germania a 200 milioni.

Alla domanda se siano inclusi nella stima dei 300 milioni anche i 55 milioni di dosi del vaccino Janssen (Johnson & Johnson), Mamer risponde che i 300 milioni sono una “stima complessiva” e che la situazione è in costante “evoluzione”. Mentre è pacifico che Pfizer Biontech è il fornitore più in linea con gli impegni, al punto da poter anticipare consegne previste per il secondo semestre, e che Astrazeneca è quello più indietro, non è possibile stabilire con assoluta certezza quali altri fornitori abbiano problemi, se Johnson & Johnson, oppure Moderna, oppure entrambi, oppure nessuno dei due e solo Astrazeneca, perché la commissione europea non fornisce un quadro completo dei numeri.

È noto però che Johnson & Johnson ha preannunciato problemi per le consegne all’Unione europea nel secondo trimestre, che inizieranno solo nella seconda metà di aprile, oltre un mese dopo l’autorizzazione: la multinazionale americana si è limitata a confermare che onorerà l’impegno di consegnare 200 milioni di dosi nel 2021, senza fornire garanzie sulla quantità di dosi che verranno consegnate nel secondo trimestre; J&J ha solo annunciato, infatti, che le consegne inizieranno in quel periodo. Intanto arriva un appello alla Pfizer del sindaco di Catania, Salvo Pogliese: “La decisione di sospendere la distribuzione del vaccino Astrazeneca anche in Italia è un motivo in più per convincere i vertici aziendali della Pfizer ad attivare gli investimenti necessari per produrre, anche nello stabilimento di Catania, le fiale anti-Covid necessarie per avviare una campagna di inoculazione proficua e rapida”.

Pfizer: “Ci sarà la terza dose. È una grande opportunità”

Astrazeneca è alle prese con la più grande difficoltà da quando è partita la campagna vaccinazioni, ma il concorrente Pfizer brinda ai successi. La trascrizione dell’intervento alla Global Healthcare conference della britannica Barclays – reso noto dal giornalista Lee Fang di The Intercept – è in questo senso cristallino.

Intervenuto come direttore finanziario della Pfizer, Frank D’Amelio ha confermato che il prossimo periodo apre per Pfizer “opportunità significative” sia per la somministrazione “di una terza dose” sia sul fronte dei prezzi, visto che da una fase pandemica si passerà a una fase endemica, quindi con un ricorso stabile al vaccino.

D’Amelio, alla Barclays, si trova molto a suo agio, quando sottolinea che nel 2020 la sua azienda ha avuto “una performance davvero solida dal punto di vista operativo”. I ricavi sono aumentati dell’8% e nel quarto trimestre dell’11%. Ma per il 2021 si prevedono ricavi in crescita del 41%, con un incremento di 15 miliardi tutti frutto del vaccino anti-Covid: “Quindi, dal mio punto di vista, abbiamo un buon ritmo operativo rispetto alle prestazioni operative dell’azienda”. Difficile dubitarne.

D’Amelio ricorda anche i progressi nella logistica e il boom produttivo: “Inizialmente dovevamo consegnare 100 milioni di dosi al governo degli Stati Uniti entro la fine di marzo. Adesso siamo a 120 milioni. Avremmo dovuto fornire 200 milioni di dosi entro fine luglio. Ora consegneremo 200 milioni di dosi entro la fine di maggio. Per l’intero anno, inizialmente avevamo detto che pensavamo di poter fare 1,3 miliardi di dosi. Ora siamo a 2 miliardi di dosi”.

Quanto all’ipotesi terza dose, spiega, “vogliamo stare al passo con le varianti. Valuteremo quindi una terza dose del nostro vaccino, un richiamo, per capire la durata dell’immunità e l’efficacia contro queste varianti”.

Alla Pfizer credono stia diventando “sempre più probabile che avvenga una rivaccinazione annuale. E crediamo che ciò accadrà nel prossimo futuro”. E quindi si prepara a passare da uno “stato pandemico” a una “situazione endemica” in cui saranno importanti l’efficacia del vaccino, la capacità di richiamo e “l’utilità clinica”. E le opportunità saranno molto interessanti, anche sul fronte dei prezzi.

D’Amelio spiega agli investitori della Barclays che tramite il vaccino anti-Covid potrà “migliorare significativamente anche il vaccino antinfluenzale” così come l’applicazione dell’mRna per altri impieghi. Anche l’influenza, così, rappresenta “una potenziale e significativa opportunità per noi”.

I 15 miliardi di ricavi aggiuntivi corrispondono, dopo il pagamento delle tasse, a 3,75 miliardi di utili netti. Per farci cosa? “Dal mio punto di vista – spiega D’Amelio – le nostre priorità rimangono le stesse. Continuiamo a pagare un buon dividendo”. Pur assumendo un profilo prudente e investendo in sviluppo e ricerca, spiega, “il nostro obiettivo è sempre quello di massimizzare l’azionista”.

Di fronte a una banca d’affari non c’è spartito migliore da suonare. E Pfizer è talmente determinata nella sua prospettiva di guadagno, da fare pressioni sull’Amministrazione Biden perché intervenga contro i Paesi che dovessero intralciare i suoi i piani. Come emerge da un’altra inchiesta di The Intercept, l’industria farmaceutica ha chiesto al presidente Usa di “punire” Paesi come Ungheria, Colombia, Cile e altri per aver cercato di aumentare la produzione di vaccini e terapie Covid senza l’espresso permesso delle aziende farmaceutiche. A muoversi sono state le due associazioni di aziende farmaceutiche, Bio e PhRma che rappresentano giganti come Pfizer, Gilead Sciences, Johnson&Johnson chiedendo a Biden di “utilizzare tutti gli strumenti disponibili per garantire che i partner commerciali americani” non sospendano i tradizionali diritti di proprietà intellettuale nella lotta al coronavirus.

La proprietà intellettuale resta un punto sensibile e anche il fronte di una iniziativa che è oggetto, ha ricordato ieri il segretario di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo, della campagna europea “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia” che chiede alla Commissione europea di sganciarsi dagli interessi di Big Pharma.

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Nel day after della sospensione del vaccino AstraZeneca, l’Istituto superiore di Sanità prova a dare un po’ di punti fermi sulla campagna in corso. Lo fa con un documento presentato assieme a Inail, Aifa e ministero della Salute. Sullo sfondo, la preoccupazione per le varianti inglese, brasiliana e sudafricana, che impone qualche precisazione anche sulle misure di contrasto già note. “Sarebbe opportuno aumentare il distanziamento fisico fino a due metri, laddove possibile” e in tutte le situazioni in cui si resta senza mascherina; è consigliato l’isolamento in stanza singola o il raggruppamento per tipologia per i casi di contagio da varianti; suggerito l’utilizzo di test diagnostici multi-target non limitati al gene Spike, per evitare false negatività indotte dalle mutazioni. Per quanto riguarda i vaccini, si registrano le prime valutazioni della tempistica dell’immunità per i tre sin qui utilizzati: una settimana dopo la seconda dose con Pfizer, due settimane dopo con Moderna, tre settimane dopo la prima e fino al richiamo della dodicesima settimana con AstraZeneca. E qualche (in)certezza non irrilevante: nessun vaccino garantisce il 100% dell’immunità, ma non sono chiari neanche il grado di protezione dalle forme asintomatiche e la durata della protezione indotta (ma potrebbe essere simile a quella successiva all’infezione, che i primi studi attestano a una media di 5 mesi). Nessuna eccezione all’utilizzo dei Dpi e al mantenimento delle distanze fisiche per i vaccinati dunque. E in caso di contatto con un positivo al Covid, restano l’isolamento e le misure previste dalla normativa attuale. Chiarimenti anche sui casi di pregressa positività: è confermata la possibilità della somministrazione di una sola dose dopo 3 mesi dall’infezione (ma almeno entro 6 e non in caso di soggetti a rischio). Si ribadisce poi la sicurezza del vaccino indipendentemente da precedenti contagi; sconsigliata quindi la ricerca di anticorpi prima della somministrazione (ma negli ex-positivi si rileva una maggiore possibilità di lievi effetti collaterali). Discorso a parte per i pazienti trattati con plasma o monoclonali, cui si consiglia un’attesa di 90 giorni prima della vaccinazione.