Spese folli da Covid, così Arcuri ha sgonfiato i conti alle Regioni

Quanto vale lo scalpo di Domenico Arcuri? Per le Regioni che non l’hanno mai amato, centinaia di milioni di euro. Quelli che difficilmente avrebbero ottenuto dal commissario defenestrato giusto alla vigilia della maxi-operazione per rifondere le spese per l’emergenza coronavirus sostenute dai governatori e a cui la struttura di Arcuri ha osato fare i conti in tasca. Conti che non tornano, a una ricognizione aggiornata all’8 marzo.

Ma riavvolgiamo il nastro al 19 giugno dello scorso anno, quando le Regioni avevano consegnato le tabelle delle spese sostenute per l’emergenza coronavirus dal 31 gennaio al 31 maggio 2020. Un conticino provvisorio da 4,1 miliardi di euro, di cui la metà serviti per assicurare l’assistenza alla popolazione nei Covid hotel, per la distribuzione di generi alimentari e di igiene personale a domicilio, per gli oneri legati all’impiego del volontariato di Protezione civile o per allestire tende e container per i triage da campo.

L’altra metà, ossia 2 miliardi, se ne era andata per l’acquisto di farmaci, kit medici, tamponi, apparecchi medicali come i ventilatori, maschere facciali, camici, guanti e mascherine che le Regioni avevano dichiarato di aver speso nonostante ricadessero nei dispositivi di tipo A, B e C per i quali nel frattempo Arcuri aveva disposto l’acquisto centralizzato e la distribuzione direttamente dalla centrale unica in capo alla struttura commissariale. Con cui, per via di tali acquisti, le Regioni avevano avuto un approccio pessimo fin da quando, ad aprile 2020, era stato loro comunicato lo stop all’autorizzazione di acquisti a valere sul fondo nazionale: se proprio avessero voluto fare da sé, i governatori avrebbero ben potuto spendere, ma a patto che si trattasse di fondi propri. Qualche Regione a quel punto aveva dichiarato il rischio di bancarotta, ma senza smettere di acquistare come se non ci fosse un domani denunciando le inefficienze del commissario: il governo per quietare gli animi aveva rassicurato tutti sollecitando però le necessarie rendicontazioni. Su cui Arcuri aveva messo al lavoro il suo staff, anche perché la dimensione degli importi presentati aveva da subito imposto una puntuale ricognizione delle spese. Come quelle della Regione Lombardia guidata dal leghista Attilio Fontana, tanto per fare un esempio. Che aveva dichiarato di aver sostenuto nei primi 5 mesi dell’emergenza una spesa di quasi 900 milioni di euro per ottenere i risultati che già allora erano sotto gli occhi di tutti.

Di questa cifra da capogiro, le spese per mascherine, ventilatori e dispositivi analoghi erano inizialmente circa 376 milioni: la ricognizione effettuata dalla struttura commissariale aggiornata all’inizio di marzo di quest’anno ha avuto l’effetto di sgonfiare il conto a quota 161 milioni, euro più euro meno. Peraltro in buona parte spesi in deroga agli ordini del commissario. E che dire della Sicilia di Nello Musumeci? Quasi 350 milioni di spese dichiarate in cinque mesi, di cui 195 per i famosi dispositivi di categoria A, B e C (il cui acquisto in teoria competeva al commissario) e che, rendicontazioni alla mano, sono stati rettificati a quota 66 milioni. E ancora il Piemonte con un cahier de doleances iniziale di 420 milioni, di cui 159 milioni per mascherine, kit e apparecchiature varie che a spulciare le fatture vere corrispondono a 120 milioni. Alla fine, mettendo a confronto il conto presentato da tutte le Regioni a giugno con quello rettificato dalla struttura commissariale, viene fuori una differenza di 390 milioni: se le spese dichiarate a ogni latitudine della penisola ammontavano a circa 2 miliardi, la ricognizione dell’8 marzo di quest’anno dice che la cifra effettivamente spesa è pari a poco più di 1,6 miliardi. E di questi 1,6 miliardi, circa il 38 per cento risulta essere stato speso dopo l’8 aprile, ossia in un’epoca in cui non erano più autorizzati acquisti sui fondi nazionali.

Arcuri, del resto, ha avuto da dire anche per i rimborsi dovuti per la primissima fase dell’emergenza. Quando il Dipartimento della Protezione civile aveva trasferito al commissario straordinario (nominato dal governo Conte il 18 marzo, ndr) le spese ad allora autorizzate condizionatamente alle regioni nella loro qualità di soggetti attuatori, era iniziato un vero e proprio braccio di ferro: dei 329,8 milioni inizialmente trasferiti, le regioni avevano formalizzato una richiesta di rimborso per 140 milioni di cui 133 ritenuti congrui. Il commissario aveva sganciato un acconto del 50 per cento riservandosi di saldare eventualmente il resto all’esito dell’attività di controllo.

Bild: “Bloccato tutto per paura delle cause dei cittadini tedeschi”

“Angela Merkel ha sospeso il vaccino Astrazeneca per evitare le azioni legali dei cittadini”. Cadono come macigni sui piani vaccinali di mezza Europa le rivelazioni del quotidiano tedesco Bild che, citando fonti governative, rivela una sorta di “strategia difensiva” da parte del governo di Berlino rispetto alla somministrazione del siero anglo-svedese.

Una presa di posizione, quella della cancelliera tedesca, il cui effetto domino ha travolto ben 14 Stati comunitari, fra cui l’Italia. Tutti, ora, aspettano la giornata di domani quando l’Ema (Agenzia europea del farmaco) dovrebbe pronunciarsi – per l’ennesima volta – sulla sostanziale sicurezza del siero. E, sul fronte delle preoccupazioni di Merkel, avocare a sé la responsabilità legale di eventuali azioni civili da parte di chi dovesse ritenersi danneggiato da presunti effetti collaterali. La decisione della Germania è arrivata lunedì, dopo le raccomandazioni del Paul Ehrlich Institut, sulla base di sette casi di trombosi riscontrati in Germania. “I cittadini vogliono fare affidamento sul fatto che i vaccini che autorizziamo sono sicuri ed efficaci”, ha spiegato il presidente dell’Istituto, Klaus Cichutek, difendendo la decisione di Merkel. Alcuni dei casi “sospetti” tuttavia, si sono verificati anche a 16 giorni dalla somministrazione.

In realtà, per la stampa tedesca la cancelliera non è mai stata troppo convinta dell’efficacia del siero di Oxford. Secondo quanto ricostruisce Linkiesta.it, già il 25 gennaio Handelsblatt e Bild avrebbero rilevato i “serissimi dubbi” sul vaccino Astrazeneca da parte del governo tedesco, in particolare sulla sua efficacia sugli over 65. Il farmaco, infatti, inizialmente era stato autorizzato solo per gli under 55, scalando poi la terza età a colpi di deroghe in virtù delle carenze (e delle difficoltà conservative) dei concorrenti Pfizer e Moderna. Addirittura, secondo i quotidiani tedeschi, fra i banchi del Bundestag giravano report allarmanti circa la percentuale di efficacia in questa fascia di popolazione, inferiore al 10%, contro il 65% rilevato dalla multinazionale farmaceutica. Tutto un equivoco, ovviamente, perché proprio quel 10% sarebbe stata la percentuale di pazienti su cui il vaccino è stato testato rispetto alle altre fasce d’età, un campione non considerato significativo dal Robert Koch Institut.

La disistima di Angela Merkel e del suo governo nei confronti di Astrazeneca è solo il riflesso della scarsa fiducia dei cittadini tedeschi. Secondo i dati del centro vaccinale di Bielefeld, nella regione della Vestfalia, addirittura il 30% dei pazienti rinuncia all’appuntamento con l’inoculazione quando apprende che gli toccherà il farmaco di Oxford. Secondo i dati ufficiali resi dalla struttura della Renania Settentrionale, al 26 febbraio rispetto alle 1,4 milioni di dosi consegnate ne erano state somministrate solo 212mila, perché le persone non si presentano. Al contrario delle prenotazioni per il vaccino Pfizer Biontech, che ha fatto registrare quasi il 100% delle adesioni. E in Germania c’è già chi azzarda: non è che la “cattiva pubblicità” nei confronti di Astrazeneca è indotta da un certo “sciovinismo” in favore della tedesca Biontech?

Draghi in difficoltà, pronto a ripartire con Astrazeneca

Si fonda su due pilastri il governo di Mario Draghi: l’Europa e la fiducia degli italiani. E l’intoppo nella campagna vaccinale rischia di intaccarli entrambi. La giornata di ieri a Palazzo Chigi è stata tutt’altro che facile. Il blocco di AstraZeneca rischia di “impallare” tutta la campagna e di istillare dubbi anche sugli altri vaccini. Per questo, ieri si sono susseguite le riunioni a Palazzo Chigi e a Bruxelles. Il nuovo commissario all’emergenza, il generale Francesco Figliuolo, sta già preparando un piano B e rassicura che lo stop ad AstraZeneca sarà comunque riassorbito con l’aumento delle forniture di Pfizer/Biontech. Ma il premier scommette sul sì dell’agenzia europea del farmaco Ema alla ripresa delle vaccinazioni siero anglo svedese: la decisione è attesa domani, al termine delle valutazioni su una quarantina di presunti eventi avversi e soprattutto di sette trombosi cerebrali in Germania, che hanno allarmato il governo sempre più debole di un Paese che dall’inizio preferisce il vaccino prodotto dall’americana Pfizer con la tedesca Biontech. Sono solo sette su 1,6 milioni di vaccinati, ma secondo uno studio tedesco eccedono largamente i dati attesi. In Italia, i tempi dell’Ema sono considerati troppo lunghi. L’ha fatto notare a Bruxelles il rappresentante italiano all’Ue, Maurizio Massari. Tempi dettati da procedure basate su criteri medici/scientifici, è la posizione della Commissione, che pure avrebbe fatto a meno dello stop tedesco imposto, di fatto, all’Italia e a tutta l’Unione.

Ieri Draghi ha parlato al telefono con il presidente francese, Emanuel Macron, per commentare la conferenza stampa della direttrice esecutiva di Ema, l’irlandese Emer Cooke, che ha ribadito per un’ora “stiamo indagando” ma ha anche ripetuto più volte che “i vantaggi del vaccino AstraZeneca sembrano superare i rischi”. I due leader l’hanno trovato “incoraggiante” e sperano di poter ripartire con le somministrazioni. Lo stesso auspicio di Roberto Speranza e dei ministri della Sanità dell’Ue che si sono riuniti in videoconferenza. La decisione di ripartire con Astrazeneca, in caso di sì dell’Ema, secondo le valutazioni in corso a Palazzo Chigi, trainerà anche la Germania, sotto accusa in Europa anche per la gestione del dossier vaccini a opera della presidente di Commissione tedesca, Ursula von der Leyen. La quale ieri ha convocato una conferenza stampa per annunciare l’anticipo delle consegne in tutta Europa di 10 milioni di dosi Pfizer-Biontech, ma anche per chiarire che “ovviamente” sarebbe pronta ad immunizzarsi con Astrazeneca: l’ha detto il suo portavoce Eric Mamer. E poche ore dopo Jean Castex, primo ministro di Macron, ha preso l’impegno a farlo subito dopo l’atteso sì di Ema.

In questo clima, domattina, il premier farà un intervento pubblico a Bergamo. E venerdì una conferenza stampa dopo il varo del decreto Sostegni. Per la prima volta, ammesse domande.

Intanto Draghi mette mano al Comitato tecnico scientifico. Terminata la gestione di Agostino Miozzo, ora consulente del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, un’ordinanza del nuovo capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio, ridisegna l’organismo: coordinatore sarà Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità; portavoce Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. Sono gli incarichi a cui teneva Speranza. L’avvocato dello Stato Silvio Fiorentino sarà segretario della struttura, dimezzata da 24 a 12 componenti e arricchita, accanto ai medici, di personalità del “mondo statistico, matematico-previsionale”. Entrano il virologo e presidente dell’Aifa Giorgio Palù, la presidente del Comitato di bioetica Cinzia Caporale, l’immunologo Sergio Abrignani, la demografa e statistica Alessia Melegaro, l’ingegnere e studioso di modelli matematici Alberto Giovanni Gerli, l’epidemiologo Donato Greco. Restano ai loro posti Gianni Rezza che dirige la Prevenzione alla Salute e il professor Giuseppe Ippolito dello Spallanzani, il dottor Fabio Ciciliano della Protezione civile. Speranza ha ringraziato calorosamente gli uscenti.

Saltano 400 mila vaccini e manca il piano B. L’Italia spera nel dietrofront Ema

La sospensione in via precauzionale del vaccino AstraZeneca in Italia ha generato scompiglio a tutti i livelli. Dalle Regioni – tutte in attesa di conoscere le linee nazionali da seguire – all’Aifa, che sta lavorando a un possibile piano B, nei fatti ancora non concreto. Per ora l’Agenzia italiana del farmaco sembra non contemplare nemmeno la possibilità che Ema, l’Agenzia del farmaco europea, possa confermare la sospensione del siero prodotto dalla casa farmaceutica anglo-svedese. Di conseguenza non pare nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi che il richiamo per chi ha già ottenuto la prima dose possa saltare. “Il vaccino AstraZeneca è stato autorizzato il 30 gennaio, le somministrazioni sono iniziate l’11 febbraio – ha spiegato Aifa al Fatto –. Pertanto la seconda dose non sarà somministrata prima di maggio”. Intanto ieri la stessa Ema, attraverso la direttrice esecutiva, Emer Cooke, ha spiegato che la conclusione finale sugli effetti del vaccino, per valutare se ci sia una connessione con i decessi avvenuti dopo le somministrazioni, arriverà domani. E se sarà positiva, Italia e Francia sono pronte a dare il via libera immediato alla ripresa delle vaccinazioni: così hanno stabilito, dopo essersi sentiti, il presidente francese Macron e il premier italiano Draghi. Nel frattempo, però, lo spaesamento è totale.

Le Regioni. Intanto la somministrazione di AstraZeneca è bloccata in tutte le Regioni, che adesso si ritroveranno anche a dover stilare un nuovo calendario per le vaccinazioni. Abbiamo provato a verificare Regione per Regione quanti fossero i vaccini programmati per questa settimana e dunque saltati con la sospensione. Il dato è parziale: su nove Regioni si tratta di oltre 354 mila vaccinazioni che ora dovranno essere riprogrammate. Per fare qualche esempio, sono 34 mila i vaccini tenuti in stand by in Toscana: erano quelli programmati da lunedì scorso a domenica. 33.500 sono quelli rinviati in Lombardia, oltre 40.000 nelle Marche, mentre sono 60.000 le dosi AstraZeneca che resteranno nei frigoriferi dell’Emilia-Romagna e 38mila in Puglia. Nel Lazio, tra ieri e oggi, erano programmate 14mila vaccinazioni. Sono dati parziali che tengono conto, in alcuni casi, anche delle somministrazioni programmate fino a domenica. Diverse le cifre fornite ieri da fonti di Palazzo Chigi: se la durata della sospensione è di 4 giorni – è il ragionamento – si tratterebbe di circa 200 mila vaccinazioni in meno. “In caso di ripresa della somministrazioni a partire dal 18 marzo – riporta l’AdnKronos –, il rallentamento potrà essere riassorbito nell’arco di un paio di settimane, anche grazie all’incremento della quantità del vaccino Pfizer stimato in 707.850 mila dosi”. Un annuncio che sembra tenere poco conto delle difficoltà delle Regioni nel dover stilare un nuovo calendario per le convocazioni.

Dosi buttate. Impossibile sapere quante dosi di AstraZeneca già pronte per l’inoculazione siano state gettate lunedì, dopo l’ordine di sospensione arrivato nel pomeriggio. Uno spreco inevitabile. Resta la questione delle dosi che avanzano dopo una giornata di vaccinazioni. Per il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo, che ha firmato una ordinanza del Presidenza del Consiglio, quelle “eventualmente residue a fine giornata, qualora non conservabili”, dovranno essere “eccezionalmente somministrate per ottimizzare l’impiego evitando sprechi, in favore di soggetti comunque disponibili al momento, secondo l’ordine di priorità individuato dal Piano nazionale”. In pratica le Regioni dovranno dare disposizioni alle aziende sanitarie per evitare di gettare le dosi già preparate, qualora qualcuno non si sia presentato all’appuntamento per la somministrazione. Questo anche prevedendo liste di persone che hanno diritto, in base alle priorità, alla somministrazione. Persone da convocare con la massima celerità. Pratica che in alcune Regioni – poche – viene già adottata, per evitare sprechi o somministrazioni ad amici e parenti, ma in altre no.

Il richiamo. Resta l’incertezza che riguarda chi ha ricevuto la prima dose di AstraZeneca, il cui richiamo deve essere fatto dopo dodici settimane, anche se vi è una flessibilità di una settimana in più o in meno. Parliamo, in Italia, di circa un milione di persone. E nell’ipotesi, seppure remota, che il vaccino europeo non sia ritenuto idoneo bisognerà capire quali sono le conseguenze.

Come non detto

È una vera vergogna che Giuseppe Conte, schiavo di Trump e di Casalino, grillino e dunque servo dei No Vax alla Sara Cunial, sospenda per tre giorni il vaccino AstraZeneca fottendosene del Verbo della Scienza, fregandosene delle rassicurazioni di Ema, Aifa, Iss, Css, Cts, Ministro della Salute e generalissimo-commissarissimo Figliuolo con tutti quei nastrini sul fianco sinistr-sinistr! dell’uniforme (e non avete visto il retro), gettando così nel panico decine di migliaia di italiani in attesa della prima o della seconda dose, compromettendo il Piano Vaccinale presentato in pompa magna domenica e già da buttare lunedì per lo stop di almeno 72 ore e perché molta gente non si vaccinerà comunque più o pretenderà una dose di Pfizer o di Moderna o di Johnson&Johnson anziché una dell’antidoto britannico ormai sputtanato, o magari una di Sputnik o di Sinopharm, così favorendo pure i suoi amichetti russi e cinesi, e quel che è peggio non ci ha neppure messo la faccia – lui così prodigo di conferenze stampa, videomessaggi e dirette Facebook – lasciando un’intera Nazione nel terrore e allo sbando senza uno straccio di spiegazione, una parola di conforto, una frase di rassicurazione, una sillaba di informazione e facendo in un giorno, da solo, molti più danni di tutto l’esercito mondiale dei No Vax in tutta la loro vita, con una gigantesca iniezione di sfiducia impossibile da cancellare, ed esponendo le massime autorità sanitarie dello Stato a una figura barbina, avendole costrette a rimangiarsi tutte le garanzie sull’infondatezza dei sospetti su decessi, trombosi, eczemi, unghie incarnite e altre reazioni avverse post-Astrazeneca, confondendo – da premier per caso, incapace, incompetente, inesperto, inetto, dilettante allo sbaraglio qual è l’“avvocato del popolo”, scelto per disperazione dal movimento del comico genovese, dell’“uno vale uno” e della piattaforma tarocca Rousseau – la consecutio temporum col nesso causale, l’immunità da Covid con l’immortalità, e regalando un formidabile assist alla peggior destra negazionista antieuropeista sovranista nemica della scienza, della competenza e del progresso, con cui del resto il Fregoli di Volturara Appula governava prima di mettersi col Pd, e infatti il suo vecchio sodale Salvini ora ha buon gioco a manifestare in piazza Montecitorio con la Meloni e poi a occupare il Parlamento per protesta contro il disastro politico, scientifico e comunicativo denunciato da tutti i giornali, tg e talk show e aggravato dal fatto che il decreto Ristori, pronto da due mesi e più, continua a non arrivare, ergo si dimetta subito, sparisca per sempre e lasci il campo al Governo dei Migliori. Ah no, scusate, non era lui. Come non detto.

Fucili, tate, lacrime e sigarette: una vita da nobili Windsor

Fazzoletti. Quando Diana si chiudeva in bagno a piangere, il bambino principe William, futuro re d’Inghilterra, faceva scivolare sotto la porta i fazzoletti di carta che le servivano per asciugarsi gli occhi.

Kensington. Giorgio I (regnante 1714-1727) fece costruire Kensington Palace per l’amante sua Melusine, baronessa Von der Schulenburg, duchessa di Kendal (1667-1743). Qui nacque anche, nel 1817, la regina Vittoria. Elisabetta II, al momento del matrimonio fra Carlo e Diana, riunì gli appartamenti 8 e 9 di Kensington Palace e li destinò ai neosposi. Tre camere da letto, una suite, tre salotti di cui uno con pianoforte (Diana suonava bene), una sala da pranzo. Sopra, una grande nursery e le stanze dello staff. Sul tetto, la terrazza dove si prendeva il sole. Le pareti, però, erano troppo sottili.

Nursery. Nella nursery c’erano: “Camere da letto, sale giochi, una cucina, una sala da pranzo, un salotto ricavati sotto le grondaie di Kensington Palace. C’erano nannies full-time e part-time, poliziotti, un autista condiviso e una routine separata di scuola, feste, shopping e uscite al cinema. Ogni venerdì mattina tutto l’apparato si trasferiva 160 chilometri a ovest per passare il weekend a Highgrove, dove c’era un duplicato della nursery” (Patrick Jephson, ex scudiero e segretario privato di Diana, nel libro Shadows of a Princess).

Barbara. I bambini, entrati di corsa nella stanza, invece di precipitarsi dalla mamma, si rifugiarono tra le braccia della governante, miss Barbara Barnes. Diana la licenziò in tronco.

Ruth. La bambinaia Ruth Wallace, chiamata dopo la Barnes, resistette tre anni. Alla fine, per via dell’atmosfera pesante che si respirava in casa, preferì lasciare.

Nozze. Carlo e Diana in viaggio di nozze sul Britannia. Lui sulla veranda di poppa a leggere i libri di Laurens van der Post (scrittore, esploratore, filosofo sudafricano). Lei a girovagare per la nave. Non avevano niente da dirsi.

Giorno. Un giornale calcolò che in sei settimane lei e Carlo avevano passato insieme un solo giorno.

Tiggy. Dopo la Wallace, a far la bambinaia di William e Harry venne Tiggy Legge-Bourke, figlia di Shan, dama di corte della pricipessa Anna, e di William, capitano delle Royal Horse Guards. Era il 1993. William aveva 11 anni, Harry 9.

Tiggy. “Io do loro quello di cui i ragazzi hanno bisogno: aria fresca, un fucile e un cavallo. Diana gli dava racchette da tennis e sacchetti di pop-corn da mangiare al cinema” (Tiggy Legge-Bourke).

Sigarette. Tiggy Legge-Bourke, fumatrice accanita, fece fare il primo tiro di sigaretta a Harry.

Aborto. Diana, convinta che Carlo avesse una storia con Tiggy. Diceva: “Camilla è solo un paravento, quello che Carlo vuole davvero è sposare Tiggy”. Era pure convinta che Tiggy gli avesse abortito un figlio.

Rosso. Diana aveva saputo dal risultato di uno scanner a ultrasuoni che il secondo figlio sarebbe stato un maschio, ma non l’aveva detto a Carlo. Sapeva che lui avrebbe voluto una femmina, e temeva di deluderlo. Quando Carlo vide Harry, esclamò: “Oh Dio, è un maschio. E ha pure i capelli rossi”.

Carlo. Carlo, di ritorno dal lungo tour nel Commonwealth, si aspettava che la madre lo abbracciasse. Elisabetta, invece, gli strinse la mano.

Conigli. Tiggy, che guida la Land Rover e intanto lascia che Harry, affacciato al finestrino col fucile, spari ai conigli. (1. continua)

Notizie tratte da: Vittorio Sabadin, “La guerra dei Windsor”, Utet, 286 pagine, euro 26

 

Alla ricerca del tempo perduto: “Disfunzioni Musicali (negozio di dischi Roma)”

Erano giorni di formidabili scoperte. “Hai ascoltato Nevermind dei Nirvana?”. “E questo Ten dei Pearl Jam com’è?”. “Puaaah, Badmotorfinger li supera tutti…”. Si risparmiavano paghette, si saltavano colazioni e il cinema nel weekend, per raccogliere i soldi che avrebbero permesso di acquistare le chiavi che aprivano mondi: i cd e i vinili. Come ogni favola che si rispetti, anche questa inizia con un “c’era una volta”, che purtroppo, oggi, non c’è più. Disfunzioni Musicali era un negozio di dischi dove ogni appassionato si recava, perché lì si trovavano dischi rari, ma soprattutto perché offriva il “cambio usato”, che permetteva di rivendersi i propri dischi in cambio di un buono acquisto per i nuovi.

Non male per uno studente squattrinato. Entravi e improvvisamente ti trovavi in territori sconosciuti di un mondo tutto da esplorare e la musica era la chiave per interpretarla. Dentro ci trovavi personaggi che magari fuori erano considerati dei poco di buono – capelloni, metallari, punk, mods – che lì erano davvero a proprio agio. Per oltre 25 anni Disfunzioni è stato più che un negozio di dischi: un vero e proprio luogo di aggregazione. Dario Calfapietra è l’autore del documentario Disfunzioni Musicali (negozio di dischi Roma) – reperibile su Youtube sul canale RadioDario Berlin –, realizzato per rendere omaggio alla storia di quella che per ogni appassionato è stata una vera e propria istituzione: “In epoca preinternettiana era lì che noi ragazzi ci incontravamo il sabato pomeriggio. La gente si conosceva scambiandosi pareri sui dischi, formava band rispondendo agli annunci appesi alle apposite bacheche, scopriva nuovi artisti”. Dino, Domenico, Gianni e Alberto, i quattro soci della attività, da esperti appassionati di musica andavano a caccia di vinili al mercato di Porta Portese ed è lì che si conobbero. Tra una chiacchiera e uno scambio di pareri è così che nasce l’idea di aprire il negozio. Che però, con l’arrivo del nuovo millennio, conosce un rapido declino di clientela e di vendite, che lo porta alla chiusura nel 2014. “Quel posto – ricorda Dario con vena nostalgica – è stato lo specchio del mio passato, l’origine delle radici, quando la giovinezza era impetuosa e l’estate delle scoperte era davvero infinita”. Tu sei la musica, finché la musica perdura.

“Speravo de morì prima”: l’eroe Totti esce di scena

Dopo i tormentoni promo interpretati da sua maestà Francesco Totti, l’ora è scoccata: la serie più attesa dal popolo del Gra e non è pronta a mostrarsi in tutta la sua sacralità pop. Perché Speravo de morì prima – La serie su Francesco Totti – da venerdì su Sky e Now Tv – travalica l’omaggio al mitico Capitano dell’As Roma per abbracciare una città, un’identità, persino una visione di mondo.

A benedirla è lo stesso campione con un video dal suo giardino, sotto la curva Sud dell’Olimpico: “Ringrazio chi ha partecipato a questa serie, uno su tutti Pietro perché ha un ruolo molto difficile, e ha cercato in tutto e per tutto di farmi uscire per come sono realmente, ho visto cose di me che non conoscevo, perciò lo ringrazierò dal vivo, un bacione e mi raccomando: ’sta serie va vista perché è simpatica e allo stesso tempo emozionante”. Parole e sintassi alla Totti, e dunque ineccepibili come lo storytelling “epico in leggerezza” su cui si articola la serie Sky Original, fortemente voluta dal produttore romanista Mario Gianani (Wildside), Virginia Valsecchi (Capri Ent.) e Nicola Maccanico (Sky Italia), e intensamente interpretata dal supertifoso Pietro Castellitto, notoriamente dialogante col poster der Capitano appeso in camera. Con lui, vibranti, recitano Greta Scarano da Ilary Blasi, la magnifica Monica Guerritore (mamma Fiorella), Giorgio Colangeli (papà Enzo) e un agguerrito Gian Marco Tognazzi nelle non facili vesti dell’antagonista, il mister Luciano Spalletti. La sfida era titanica per gli sceneggiatori Bises, Astori e Careddu e per il regista Luca Ribuoli, perché Totti è una leggenda vivente, ma se tutti conoscono l’icona pubblica, poco si sapeva dell’uomo privato finché questo non ha dato alle stampe l’autobiografia Un capitano scritta con Paolo Condò (Rizzoli), che sta alla base del progetto. E quella materia umanissima di cui è fatto il Francesco nazionalpopolare si è trasferita nelle fibre di Castellitto jr, che ha trovato nella “zona d’ombra l’essenza, cioè l’ironia”. A cui si aggiunge l’idea di “radicare un grande talento in un mondo e una famiglia normale” ricorda “mamma” Guerritore.

Il plot verte sugli ultimi 18 mesi della carriera calcistica del 39enne Capitano che deve affrontare due ostacoli, Spalletti e il tempo che passa: è l’inizio della fine, la sua sofferenza pervade la famiglia e una città intera. Il culmine sarà la serata del 27 maggio 2017 che fece piangere un popolo. Domanda a margine: è una serie solo per romani/romanisti? Gli autori assicurano di no: “È la parabola universale dell’eroe, in commedia”.

Quanto “Mank” agli Oscar. A Fincher 10 candidature

Oscar, Mank di David Fincher in pole-position, e c’è gloria anche per l’Italia. Svelate le nomination per la 93esima edizione degli Academy Awards, che celebrerà la propria Notte il prossimo 25 aprile, con un inedito slittamento dovuto all’emergenza pandemica.

A fare il pieno di candidature, ben dieci, è Mank, ovvero lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz inquadrato da Fincher nella stesura del copione di Quarto potere (1941), che gli valse l’Oscar a quattro mani con il regista Orson Welles. Elogio dell’età dell’oro di Hollywood e dello Studio system, è targato Netflix: non un paradosso, ma lo specchio dei tempi, senza ipocrisie. Ai giurati dell’Academy è piaciuto parecchio: miglior film, regista, attore protagonista, ossia Gary Oldman, attrice non protagonista (Amanda Seyfried), fotografia (Erik Messerschmidt), costumi, make-up e hairstyling, scenografia, suono e musiche originali (Trent Reznor e Atticus Ross). Mank contribuisce in maniera determinante al primato di Netflix: trentacinque nomination, complici Il processo ai Chicago 7 con sei, Ma Rainey’s Black Bottom con cinque, tra cui quella postuma a Chadwick Boseman, nonché Hillbilly Elegy, Pieces of a Woman e Crip Camp.

In un’annata funestata dal Covid, che ha comportato un po’ ovunque la chiusura delle sale e la conseguente procrastinazione delle uscite, gli Oscar ratificano la supremazia degli streamers sugli studios: Amazon incassa dodici statuette, grazie alle sei di Sound of Metal, le tre di One night in Miami…, le due di Borat Subsequent Moviefilm nonché quella del documentario Time. Categoria in cui non è rientrato Notturno di Gianfranco Rosi, già escluso anzitempo dalla shortlist del film internazionale, il vecchio “straniero”, per la quale era stato candidato dal nostro Paese: ribadiamo, urge riformare le modalità di selezione in seno all’Anica, a meno di non voler continuare il forzato digiuno, giacché la nomination ci manca dal 2014, quando La grande bellezza di Paolo Sorrentino seppe pure trasformarla. Altresì va ricordato che non dovremmo proporre il film che ci piace, ammesso ci piaccia, ma quello che può piacere a loro, agli americani, all’Academy.

Strano ma vero, quest’anno lo avevamo, anzi, ne avevamo due, e ce l’ha confermato la stessa Academy, a suon di candidature: Pinocchio di Matteo Garrone ne conquista un paio, per i costumi di Massimo Cantini Parrini e per il trucco e parrucco di Mark Coulier, Dalia Colli e Francesco Pegoretti; La vita davanti a sé di Edoardo Ponti, interpretato da Sophia Loren e prodotto da Palomar per Netflix, manda avanti la canzone originale di Diane Warren e Laura PausiniIo sì (Seen), già incoronata ai Golden Globes. Insomma, abbiamo, o meglio, hanno sbagliato a segnalare Notturno. Nemmeno da dire che il lavoro di Rosi abbia scontato lo status documentaristico, giacché dopo il macedone Honeyland nel 2020 il cinema del reale centra l’ennesima doppietta: il bellissimo Collective del romeno Alexander Nanau, che potete e dovete vedere sulla piattaforma IWonderFull, è sia nella cinquina del documentario che del film internazionale.

Due nomination per un secondo film straniero, Un altro giro (Drunk), che vale al danese Thomas Vinterberg l’inserimento tra i Best Director. Le novità più importanti riguardano però le registe: per la prima volta nella storia, sin qui invero sessista, degli Academy Awards la cinquina accoglie due donne, Chloé Zhao per Nomadland, già Leone d’Oro a Venezia e trionfatore ai Globes, e Emerald Fennell per Promising Young Woman. Accanto a questo record di coppia, vantano primati individuali: la cinese Zhao è la prima donna di colore nominata nella categoria, la britannica Fennell la prima esordiente. Per dare un’idea di che significhi questo bis basti pensare che in novantatré anni succedono a sole cinque colleghe, ovvero la nostra Lina Wertmüller, apripista nel 1977 con Pasqualino Settebellezze, Jane Campion, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow, l’unica a vincere nel 2010 con The Hurt Locker, e Greta Gerwig. Vedremo il 25 aprile se sarà anche qui Liberazione.

Dopo Mank, ci sono sei titoli con altrettante nomination, The Father, Judas and the Black Messiah, Minari, Nomadland, Sound of Metal e The Trial of the Chicago 7: tutti concorrono al miglior film, insieme a Promising Young Woman, che si ferma a cinque candidature. A quattro News of the World, con Tom Hanks; a tre One night in Miami… di Regina King e l’animazione Disney-Pixar Soul. La cerimonia, prodotta anche da Steven Spielberg, verrà trasmessa da differenti location, tra cui il tradizionale Dolby Theatre di Hollywood. Da seguire la sfida Oldman vs Anthony Hopkins (The Father) e il triello Vanessa Kirby (Pieces of a Woman), Frances McDormand (Nomadland) e Carey Mulligan (Promising Young Woman), l’outsider è Minari, diretto da Lee Isac Chung, nato a Denver da immigrati coreani, e prodotto dall’americana A24: arriverà in Italia con Academy Two, la stessa distribuzione di Parasite. E se analogo fosse anche il palmares?

 

“Io, biologa e ‘cosplayer’, ora combatto uno stalker”

Ambra Pazzani ha 28 anni, è laureata in Biologia con 110 e lode ed è una cosplayer. Per chi non sapesse chi sia una cosplayer do una spiegazione facile, a prova di boomer: sono persone che indossano costumi ispirati a personaggi di videogiochi, cartoni animati, film e in qualche modo “li interpretano”. Le ragazze del mondo cosplay hanno un vasto seguito maschile.
Questo perché spesso incarnano personaggi di fumetti che fanno parte dell’immaginario erotico di nerd e non solo. Purtroppo, come è capitato ad Ambra e a molte altre cosplayer, può succedere che questa “passione” si trasformi in ossessione.

Ambra, partiamo dall’inizio: sei una biologa, prima che una cosplayer.

Ho da sempre la passione per natura e animali, per cui ho scelto di studiare Scienze naturali ed Ecobiologia, mi sono laureata con 110 e lode.

Con una tesi su?

Te lo spiego semplicemente: dovevo definire se esistessero differenze fisiche e comportamentali in popolazioni di raganelle sarde che si erano spostate nel corso del tempo verso la Corsica e l’Elba ed erano state poi separate dalle altre raganelle dallo scioglimento dei ghiacciai.

Accidenti. E cosa c’entra il cosplay con tutto questo?

Nulla! Nel 2012, a 19 anni, degli amici mi propongono di partecipare a un cosplay di gruppo con loro a Romics, la rassegna internazionale del fumetto e i videogiochi.

E?

Mi sono innamorata di quel mondo. Quando entri in fiera col tuo costume provi un grande senso di condivisione e inclusività, non ti senti più un nerd.

Da cosa ti eri travestita?

Avevo la faccia pitturata di bianco e le pupille verticali da serpente.

Non molto sensuale.

No, ma non ho problemi con i travestimenti sensuali, anzi, anche quella è una parte di me, tanto che il successo sui social è arrivato con un mio travestimento da Wonder Woman. Quella mia foto caricata su Instagram è un po’ ovunque, dal Messico alla Russia.

I vestiti dove li prendi?

Li faccio io. Quando ho capito che in questo settore stavo funzionando, mi sono messa a fare la sarta per me stessa, ho fatto un corso e due accademie. Poi se i travestimenti prevedono armi o oggettistica varia, mi rivolgo a chi le fa.

Cioè?

Ci sono artigiani del cosplay in Italia e all’estero, vendono le loro cose online e se le fanno anche pagare piuttosto bene. Io ho speso anche mille euro per un costume.

I lavori più belli?

Ho lavorato per lanciare “Pokemon spada e scudo” per Nintendo, sono stata in Giappone per lanciare un’app dedicata al cosplay e così via. Ma è anche un hobby per tante persone, ci sono anche anziani che fanno i cosplayer. C’è un signore che viene sempre alle fiere vestito da Silente di Harry Potter.

Passiamo al lato meno piacevole dell’essere una cosplayer. Alcune ragazze sono vittime di bullismo e di molestie, perché secondo te?

Interpretiamo talvolta personaggi su cui magari dei ragazzi hanno fantasticato leggendo fumetti o guardando film, capita che individui già non del tutto sani tendano a confondersi e a dissociarsi dalla realtà.

Nel 2016 arriva un personaggio inquietante.

Sì, mi ha scritto in inglese un ragazzo di nome Arato, credo ungherese. Messaggi carini, della serie “come sei bella”. Poi inizia a farmi domande tipo cosa fai oggi, spero passerai un buon Natale, era insistente e ossessivo. Se non riceveva una risposta commentava qualsiasi cosa facessi con punti interrogativi, chiedendo perché non gli rispondessi.

L’avrai bloccato.

Sì e da lì è scattato l’innesco che ha fatto partire una campagna d’odio: insulti con fake che si creava ripetutamente, finché ad agosto del 2020 mi scrive con un profilo falso: “Sono innamorato di una cosplayer, verrò a Roma per conoscerla”.

Hai capito chi fosse la ragazza?

Sì, perché qualche mese dopo mi scrive lei e scopro che questo tizio aveva tormentato tutte le donne della community. Lei era disperata perché dopo averlo bloccato, l’aveva tormentata al punto tale da costringerla a cancellarsi dai social. Le mandava mail di fishing, le diceva che sarebbe andato a Roma sotto casa sua a suicidarsi, la perseguitava. E poi scriveva post tutti uguali sotto i vari account delle cosplayer: “Vergognati, tu sei la causa per cui mi suiciderò, la pagherai!”.

Come vi siete difese?

Abbiamo cercato di capire quante ragazze avesse molestato e abbiamo scoperto che sono tantissime dalla Russia alla Svizzera, noi italiane ci stiamo muovendo in maniera compatta, ma non posso aggiungere altro per il momento.

Cosa hai vissuto da un punto di vista psicologico?

A un certo punto rubava le nostre foto e creava finti profili insultando nostri follower, scriveva “adesso ci divertiamo!”. Ho buttato intere giornate per arginarlo, avevo la tachicardia. Poi c’erano periodi in cui era silente, ma perché stava molestando qualcun altro.

Altre minacce?

Quella di diffondere mie foto modificate sui siti porno. Ora dice che l’8 aprile verrà a Romics e che “sarà divertente, chi mi ha fatto del male la pagherà”. C’è il Covid, Romics non si farà di sicuro, ma ha mandato la foto dei biglietti aerei a una ragazza.

Hai mai pensato di chiudere i social?

No, non gliela do vinta. Voglio essere tutelata e sto facendo di tutto perché ciò avvenga.

Con quale travestimento lo andresti a cercare?

Con quello da poliziotta, lo vorrei in galera.

Qualche becero dirà “sono loro che fanno le sexy” sui social, ovvio che attirino i pazzi.

Primo: mi vesto come mi pare. Secondo: questo personaggio molesta ragazze che fanno nudo artistico e altre vestite da suore, la porzione di pelle scoperta non gli interessa. Odia le cosplayer. E le donne.