Più che sui sondaggi, che danno il suo partito Unidas Podemos sotto lo sbarramento del 5%, Pablo Iglesias deve aver puntato su un nuovo corso per sé, dimettendosi dalla vicepresidente del governo e da leader del partito per candidarsi alle primarie per le elezioni del 4 maggio della regione di Madrid. Una notizia bomba per la politica spagnola non meno di quella dello scioglimento della giunta da parte dell’attuale presidente, Isabel Diaz Ayuso per la rottura del patto con i centristi di Ciudadanos. La differenza è che la governatrice del Partito popolare è data vincente con il 60% dei voti. Le basterebbe l’astensione di Vox per governare. Al contrario, Iglesias lascia il governo per perdere la comunità madrilena da 25 anni in mano alla destra, laboratorio delle sue politiche, epicentro della corruzione e roccaforte del suo potere. “La Spagna mi deve un favore”, ha ironizzato Diaz Ayuso. “Sono riuscita a tirare fuori dal governo il comunista”. Dal canto suo, “il rosso figlio di un terrorista”, come il leader dell’ultradestra Santiago Abascal ama apostrofare Iglesias, nel video-messaggio chiarisce di candidarsi per fermare le destre. Così in poche ore a Madrid si ricrea il fronte: rossi contro neri. Iglesias per inforzare il suo, punta all’alleanza con l’ex co-leader, Íñigo Errejon, fuoriuscito da Unidas Podemos nel 2019. “Ne discuteremo”, ha risposto a Iglesias la candidata di Mas Madrid, Monica Garcia. Un’alleanza che gli permetterebbe di superare lo sbarramento del 5%, lontano dalla vittoria. Gli alleati del Psoe al governo, invece, il 4 maggio si ripresentano con Angel Gabilondo, ex ministro dell’Educazione che due anni fa vinse per voti ma non fu in grado di governare di fronte all’alleanza tra Popolari e Ciudadanos. Questa volta i socialisti sono dati come secondo partito (41-43 seggi) dopo il Pp di Diaz Ayuso (59-63). Il premier Sánchez – pare avvisato solo pochi minuti della candidatura di Iglesias – si è ritrovato a dover cambiare il vicepresidente del governo: sarà Yolanda Diaz, indicata dal dimissionario anche come nuova leader di Podemos. Non una brutta notizia per il governo. Amica di Iglesias dall’adolescenza, storiche le sue lacrime alla sfiducia che nel 2018 portò al crollo del governo di Mariano Rajoy. Ex Izquierda Unida, 50 anni, a Diaz, ministra del Lavoro, si riconosce una straordinaria capacità di dialogo con tutto l’arco parlamentare. Tra i suoi successi, l’astensione di Vox sul Recovery Plan e il rinnovo della cassa integrazione. “Un’ottima futura premier”, predice Iglesias.
Il “fattore Kretschmann”. Un verde sempre di moda
Cattolico da bambino, comunista da giovane, ambientalista da quando, circa 40 anni fa, ha cominciato a varcare corridoi e uffici della politica diventando uno dei volti di riferimento dei Grünen, i verdi tedeschi: Winfried Kretschmann è stato eletto per la terza volta consecutiva domenica scorsa a Baden-Wurttemberg. A 72 anni il governatore continuerà a gestire il land, il cui fiore all’occhiello è l’industria automobilistica, e a occuparsi della trasformazione del settore nell’era della crisi climatica.
Uscito vittorioso dalle urne, è il primo leader dei Verdi ad aver vinto tre elezioni di fila senza far parte di nessuno dei due più grandi partiti popolari tedeschi. Pagano l’alto prezzo dello “scandalo delle mascherine”, da cui sono stati travolti, i parlamentari della Cdu. Sconfitti dalla mancanza di entusiasmo che li avvolge, e soprattutto dalla pessima gestione della pandemia, sono stati comunque richiamati alla battaglia dopo la clamorosa disfatta di due giorni fa dai vertici di partito: “Dobbiamo combattere”, dice il leader, Laschet. Come altri governatori, anche Kretschmann non ha brillato nella gestione della seconda ondata dell’emergenza Covid-19, ma se la stampa nazionale lo definisce spesso “pragmatico” è perché ha saputo convogliare in un solo blocco l’elettorato misto che lo ha sostenuto e perchè, anche quando non vince, è capace di non perdere. Piace ai conservatori quanto ai giovani, e politologi e giornalisti hanno cominciato a parlare di “effetto Kretschmann”. Cresciuto di un punto rispetto a cinque anni fa, ha ottenuto il 31% delle preferenze dei cittadini, mentre i cristiano democratici hanno perso quattro punti rispetto al 2016. Sconfitta la Cdu della Merkel quanto l’ultradestra dell’AfD, Kretschmann mantiene ora il potere negoziale anche per una futura “coalizione semaforo”: i suoi verdi potrebbero governare insieme con i gialli liberali della Fdp e i rossi social democratici della Spd. Se nel giro di tre tornate elettorali ha portato il suo partito alla ribalta, nel giro di una vita lui è riuscito ad essere tutto: religioso e maoista, favorevole ai migranti e poi al controllo dei flussi degli stessi, prima alleato dei social-democratici, poi dei cattolici-democratici. Tradizionalista, membro dell’ala conservatrice del suo partito, è attento ai valori tradizionali ma è anche noto per saper essere anti-convenzionale: qualche giornale a Berlino adesso ricorda che nel 2011 ha prestato giuramento in scarpe da ginnastica.
Nato in una famiglia cattolica nel 1942 a Spaichingen, poco più di diecimila abitanti, da genitori in fuga durante la Seconda guerra mondiale, “sa cosa vuol dire essere un rifugiato”, ha detto la sua biografa Johanna Henkel-Waidhofer. Nonostante abbia appoggiato nel 2015 la politica della Merkel, favorevole all’accesso ad oltre un milione di richiedenti asilo durante la crisi siriana, si è opposto qualche anno dopo “al flusso non controllato” dei migranti. Ama l’opera, la natura e sua moglie. È stata lei, ha ammesso, a salvarlo dal suo furore giovanile quando tra i banchi dell’università di Hohenheim militava tra le file di un minuscolo partito maoista, la lega dei comunisti della Germania ovest, un movimento che mirava a distruggere lo status della borghesia tedesca, ma che alle elezioni finiva per non ottenere mai più dello zero virgola delle preferenze. Un’epoca, quella, che l’uomo che ha saputo coniugare alleanze opposte dall’inizio della sua carriera, ricorda oggi come “un errore”, “una svista politica”. Laureatosi nel 1977 dopo aver studiato chimica, biologia ed etica, Kretschmann da rosso è diventato verde e dal comunismo è passato all’ecologia. Abbandonata l’opposizione radicale al sistema, ha iniziato a dare battaglia alla potenza nucleare ed alla costruzione dei suoi impianti, in nome della tutela e del rispetto ambientale. Nel 1979 ha fondato, insieme ad altri, il partito dei Verdi nel Baden-Wurttemberg per essere eletto nella circoscrizione di Nurtingen al Parlamento regionale un anno dopo: nel 1980 entra in politica per non uscirne mai più. Per l’ex insegnante di liceo questa legislatura potrebbe rivelarsi più complessa delle altre. Non riconosciuto come leader da alcuni suoi colleghi, Kretschmann è stato spesso criticato. Ma il capo “pragmatico” dopo le urne di domenica scorsa avanza già strategie a largo raggio per un dialogo con la Cdu: a settembre ci sono le elezioni nazionali e i Verdi vogliono essere il secondo partito.
Autorità unica per valutare i test
Il 9 gennaio 2020, il CDC cinese riferisce che è stato identificato un nuovo coronavirus (2019-nCoV) come agente causale di una grave polmonite interstiziale, e ne è stata resa pubblica la sequenza genomica. I laboratori più avanzati, hanno immediatamente costruito dei test a partire dalle sequenze pubblicate dall’Oms, nell’attesa molto breve, che fossero prodotti kit diagnostici dalle aziende del settore. L’esplosione della domanda e la collaborazione internazionale ha permesso la proliferazione di prodotti sempre più performanti e validati. Tuttavia sappiamo che nessun test diagnostico è infallibile. Uno scarto molto basso (circa il 3%) di errore è riconosciuto essere “fisiologico” in qualsiasi tipo di diagnostica di laboratorio. La querelle (infondata) sull’esistenza del virus, sfruttando anche la velocità con la quale si è arrivati ai test molecolari, ha sollevato molti dubbi sulla loro attendibilità, fino a superare i confini del ridicolo. I “no virus” a tuttora asseriscono che i kit utilizzati diano solo risultati falsi, perché il virus non esiste. Le colture di SarsCov2 sono nei nostri laboratori. Rinnovo l’invito a chi volesse, di contattarci. Invieremo una foto.
È invece rilevante porre l’attenzione sull’efficienza del test che lo diagnostica. Per questo è molto importante la professionalità dell’operatore, perché la lettura dei risultati spesso implica un’interpretazione tecnica e la sua rispondenza in base anche al paziente. Non si tratta di un test dal risultato sempre nettamente positivo o negativo. Esiste una fascia intermedia che si fonda sulla valutazione del numero di cicli di amplificazione del genoma virale e dal tipo di geni identificati. E, visto che il virus muta, non saremo chiamati solo a modificare i vaccini, ma anche i test di laboratorio. Bisognerebbe che un’autorità scientifica competente producesse periodicamente delle linee guida fondate sulle osservazioni raccolte. Il test molecolare a oggi è il più attendibile e l’unico che possa autorizzare (anche legalmente) una diagnosi. Dopo un anno di diagnostica, credo che piuttosto che affidarci alle singole esperienze, dovremmo esigere una linea internazionale condivisa.
Via Fani e l’ultimo depistaggio
Due perizie ufficiali sulla strage di via Fani, il 16 marzo 1978, quando fu rapito Aldo Moro, contengono la stessa manipolazione, un vero e proprio depistaggio di Stato, per dimostrare contro ogni logica ed evidenza che non si è sparato dal lato destro di via Fani.
Con buona pace di chi vorrebbe chiariti tutti i misteri del caso Moro, lo sportello di un’auto dimostra che invece proprio da destra si è sparato e con una preparazione militare: la ricostruzione ufficiale, la verità “dicibile”, concordata tra Stato e Brigate Rosse, non regge dinanzi all’incredibile vicenda della morte del vicebrigadiere Francesco Zizzi. È però necessario riavvolgere il filo della memoria per spiegare che cosa accadde quel giorno. Intorno alle ore 9 del 16 maggio 1978 la Fiat 130 con a bordo il presidente della Dc Aldo Moro, seduto sul sedile posteriore sinistro, sta per arrivare all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Moro deve raggiungere la Camera dove si discuterà del primo governo sostenuto con i voti espliciti del Pci. Al volante della 130 c’è l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, mentre al suo fianco siede il maresciallo Oreste Leonardi. Dietro di loro, a pochi metri, anche troppo vicina, c’è l’Alfetta con la scorta di polizia, guidata dalla guardia di Ps Giulio Rivera accanto a cui siede il vicebrigadiere Francesco Zizzi, al suo primo giorno come caposcorta. Sul sedile posteriore c’è l’agente Raffaele Iozzino.
Una Fiat 128 targata CD supera la 130 e arrivata all’incrocio frena, costringendo la 130 a inchiodare, senza però urtare la 128. Da qui in poi indicheremo come lato sinistro di via Fani quello dalla parte dei guidatori Ricci e Rivera e come lato destro quello occupato da Leonardi e Zizzi. Dalle fioriere del lato sinistro di via Fani sbucano quattro uomini delle Brigate Rosse vestiti da avieri, Valerio Morucci e Raffaele Fiore che sparano sulla 130 e Prospero Gallinari e Franco Bonisoli che sparano sull’Alfetta. La versione ufficiale vuole che si sia sparato soltanto da sinistra. La corta distanza dalle macchine, per la perizia e per i brigatisti, indica che non occorreva nessuna preparazione specifica. Ma a smentire questa versione “facile” della strage ci sono i reperti che restano in terra. Quattro bossoli di pistola calibro 7,65 sul lato destro della strada. E un proiettile 7,65 verrà rinvenuto in sede di autopsia all’altezza dell’omero destro di Giulio Rivera, l’autista dell’Alfetta che muore subito. Quindi quel proiettile viene sparato dal lato destro all’inizio del raid, mentre il gruppo di fuoco esce dalle fioriere a sinistra di via Fani. Ricci viene colpito più volte. Anche Leonardi viene crivellato di colpi, ma la maggior parte sono sul lato destro del suo corpo. Sia la perizia del 1978, sia quella eseguita per la Commissione Moro 2, sempre dalla Polizia, affermano, in accordo con il racconto del brigatista Valerio Morucci, che Leonardi viene colpito a destra perché si gira verso Moro, che però è nella parte opposta dell’auto. Non si deve dire che mentre a sinistra sparava l’approssimativo nucleo di fuoco brigatista, a destra era appostato almeno un tiratore, se non due, estremamente addestrati, che hanno chirurgicamente sparato su Leonardi, su Rivera e su Zizzi. Francesco Zizzi quel giorno proprio non doveva esserci in via Fani, era a Roma da poche settimane e sostituiva un collega che aveva preso ferie improvvise, Rocco Gentiluomo.
L’autopsia di Zizzi ci dice che è stato colpito alla schiena, con una direzione dal basso verso l’alto di circa 45 gradi, da tre colpi in rapida sequenza a due millimetri l’uno dall’altro. A differenza degli altri è l’unico che non viene investito da decine di colpi, è un omicidio chirurgico. Viene ritrovato agonizzante ma seduto al suo posto sull’Alfetta accanto all’autista Rivera con tre copi entrati dalla schiena e usciti dal petto. Il sedile anteriore destro dell’Alfetta però non presenta colpi da dietro. Che Zizzi sia quindi sceso dalla macchina non è un’ipotesi, è anche la conclusione a cui giunge la prima perizia effettuata da Antonio Ugolini, che il 16 marzo è sulla scena del delitto, mentre a coordinare la raccolta dei reperti è il capo di allora della Polizia scientifica, Giuseppe Pandiscia. Ugolini (pag. 35 del Vol. 45°, Doc. XXIII n.5, della Commissione Moro 1, cioè la pagina 4 della Relazione di perizia tecnico balistica diretta al Consigliere Gallucci) scrive: “Gli altri due occupanti (Iozzino e Zizzi ndr), riuscivano a uscire fuori dall’auto investite dalle raffiche dei proiettili e schegge di vetro, non si sa con esattezza se già feriti o indenni. Il vicebrigadiere Zizzi Francesco, che si trovava al fianco del guidatore davanti, si dirigeva verso il marciapiede destro”. Ora sappiamo che Iozzino si è appostato dietro l’angolo posteriore destro dell’Alfetta sparando e finendo con decine di colpi nel corpo, ma nulla sappiamo di Zizzi che non può essere molto distante da lui. Le foto scattate subito dopo la strage mostrano indiscutibilmente che lo sportello di Zizzi non è stato raggiunto da nessun colpo, anzi c’è una paletta del traffico non toccata dai proiettili proprio al centro dello sportello. Lo scenario cambia quando rileggendo le carte della perizia compaiono tre buchi di proiettile nello sportello che la perizia attribuisce al lato Zizzi. Viene infatti catalogata come foto dello sportello anteriore destro, invece è quello posteriore, quello da dove è uscito Iozzino, che ha esattamente tre fori di proiettile. Inoltre lo sportello posteriore ha il deflettore fisso, a differenza di quello anteriore che ha il deflettore mobile, quindi quello che Ugolini spaccia per lo sportello di Zizzi è in realtà lo sportello di Iozzino, per dimostrare che Zizzi era stato colpito mentre era dentro la macchina.
Lo sportello dei miracoli ricompare nella nuova perizia effettuata nel 2015 dalla Polizia di Stato. Anzi, in questo caso si arriva davvero allo sfregio verso il povero Zizzi. Quando la perizia viene presentata alla Commissione Moro, la funzionaria che l’illustra continuerà a confondere Zizzi con Rivera, non soltanto invertendo i cognomi, ma insistendo su Zizzi come autista dell’Alfetta, pur di non affermare che invece il vicebrigadiere è stato colpito da destra. E poi c’è il “complotto” di Stato sulla morte di Zizzi, dimostrabile dai verbali della Commissione Moro 2. Il magistrato Gianfranco Donadio interroga infatti tutti i componenti delle volanti giunte in via Fani pochi minuti dopo la strage. I poliziotti di tre volanti diverse sostengono tutti la stessa cosa: siamo arrivati per primi, non c’era nessuno oltre noi, abbiamo prestato soccorso a Zizzi. Tre volanti, secondo questo racconto, sarebbero quindi arrivate di corsa in via Fani, nessuno ha visto gli altri e tutti sono andati a soccorrere Zizzi. Naturalmente è impossibile, ma è chiaro che una regia ha pianificato le dichiarazioni degli ex poliziotti al magistrato. Quarant’anni dopo il primo errore, la Polizia non ha notato o ha evitato di notare che il rapporto sulla morte di Francesco Zizzi va riscritto, perché è stato colpito da colpi di arma da fuoco dalla destra di via Fani, che dimostrano la presenza di un tiratore appostato, probabilmente accosciato dato la direzione dei proiettili, difficilmente assimilabile ai brigatisti. E alla loro imperizia.
La videoinchiesta “Coperti a destra” è visibile qui: https://drive.google.com/file/d/1zKsUKUdohdQaHBGTKpctgKFHe-Iis7AI/view?usp=drivesdk
Scuole chiuse, che errore: ci sono più rischi fuori
Un articolo di Elisabetta Ambrosi (14 marzo) e con un intervento di Manlio Lilli nel suo blog (15 marzo), Il Fatto mantiene desta l’attenzione sul grande e doloroso tema delle scuole chiuse. In questa fase iniziale di applicazione del primo Dpcm del governo Draghi, è difficile dire fino a che punto quegli amari commenti trovano conferma nei fatti, ma, intanto, si può tentare qualche ulteriore riflessione. Il primo spunto viene dall’osservazione di un microcosmo su cui il sottoscritto dispone di buone informazioni, ma che non chiameremo con il suo nome per non far torto ad altri che probabilmente meriterebbero pari considerazione. Quel microcosmo è un scuola elementare che sorge in un quartiere semiperiferico di Roma. La scuola in questione, come molte, è stata risistemata e arredata rispettando le regole; si è data orari differenziati di ingresso e di uscita dei bambini per evitare assembramenti, e in questi momenti il comportamento di insegnanti, personale, alunni, genitori è esemplare; il personale docente e non docente è stato vaccinato con AstraZeneca, subendo anche la reazione piuttosto aggressiva che quel discusso farmaco comporta; tutti i bambini nei giorni scorsi soni stati sottoposti a tampone, cavandosela con qualche lacrimuccia ma con nessuna positività. Insomma, quella scuola è una “bolla” (come lo sono certamente anche altre, ripetiamolo): possiamo dire che è un errore chiuderla non solo perché non amiamo la Dad (pur se va detto che l’anno scorso anch’essa funzionava) ma perché all’esterno ci sono più rischi che all’interno, per non dire del moltiplicarsi dei problemi quotidiani delle famiglie.
Si dirà che non tutte le scuole sono così. E sarà anche vero (l’edilizia scolastica, fra l’altro, è un eterno tasto dolente), ma, anziché chiudere tutto, si potevano disporre ispezioni e intervenire solo nei casi davvero a rischio: il danno si sarebbe quanto meno circoscritto.
Mail box
Convertiti all’ecologia: è solo “greenwashing”
Registro una certa eccitazione tra i dirigenti dei Verdi per una presunta rappresentanza in Parlamento garantita dal cambio di casacca di alcuni deputati. E quasi un orgasmo all’annuncio dell’adesione del sindaco di Milano, Sala, convertitosi sulla strada dei grattacieli e delle speculazioni immobiliari, dopo qualche problema giudiziario sull’Expo presto derubricato. Ricordo l’ecologia della politica. E sommessamente la delusione che siano proprio loro a certificare il greenwashing politico. Deprimente!
Melquiades
I lettori si dividono nel dibattito sulle Ong
È sempre un piacere leggere gli articoli contrapposti di Gad Lerner e Marco Travaglio, ma hanno il difetto di porre il lettore davanti a un bivio: a chi dare ragione? Risulta davvero complicato parteggiare per l’uno o per l’altro. Questo dimostra quanto sia difficile scegliere in modo acritico una tesi davanti a problemi complessi.
Roberto Raciti
Egregio dott. Travaglio, ho letto l’efficace editoriale sulle Ong e la risposta di Gad Lerner che spiega come lei avrebbe apostrofato “gli angeli delle Ong con sarcasmo degno di miglior causa”. Ma secondo me Lerner lo ha travisato, confondendo angeli e demoni che lei distingue chiaramente: agli angeli il salvataggio legittimo e doveroso, ai demoni i traffici illeciti e gli accordi con gli scafisti, con tutte le distinzioni che ne conseguono.
Paolo Scavo
Mi pare vi sia una radicalizzazione delle posizioni che non fa bene alla discussione. In medio stat virtus. Lerner si fa giusto difensore delle finalità normalmente perseguite dalle Ong nel Mediterraneo, ma può darsi che qualche Ong abbia “peccato”, come lei sottolinea. Non mi pare giusto fare di tutta l’erba un fascio, ma nel contempo bisogna pure prendere atto che di tante inchieste avviate verso dette organizzazioni, molte sono state archiviate e sinora non c’è stata condanna. E sì che i magistrati catanesi non l’hanno certo risparmiata a questi volontari!
Pietro Chiaro
Cari Travaglio e Lerner, voglio ringraziarvi per i dibattiti e per i diversi punti di vista che proponete a noi lettori. Su Ong e migranti, vi racconto lo stesso “dilemma” preso da un altro punto di vista. Vi sono cooperative sociali che gestiscono centri di accoglienza in modo discutibile. A volte parte dei finanziamenti statali non viene usata per i servizi concordati con le prefetture, ma “intascata” da qualche delinquente – come da inchieste nel mio comune, Bagnoli di Sopra (Padova) – o “reinvestita” per migliorare i servizi. Si tratta di appropriazione di denaro pubblico in entrambi i casi?
Diego Boscarolo
Quelle lodi stucchevoli a Draghi e Mattarella
Caro Travaglio, davvero non mi è piaciuto il suo paragonare Draghi che fa la coda al supermercato e Mattarella che fa il vaccino in un centro aspettando il turno. Non le sembra un po’ forzato? Quello del presidente della Repubblica è stato un gesto di “normalità” non dovuto, fatto per propagandare la necessità di vaccinarsi.
Annamaria Massaferro
Cara Annamaria, legga meglio. Non ho paragonato nessuno. Ho citato le leccate ai piedi dei giornali a due gesti “normali” che, proprio perché “normali”, non dovrebbero destare alcuno stupore né ammirazione.
M. Trav.
Vaccini ai giornalisti, una questione di priorità
Non capisco questa polemica contro l’Ordine dei giornalisti che vorrebbe aggiungersi alle categorie a rischio. Solo ci sarebbe da dare priorità a quei Giornaloni esposti al contagio salivare dai politici (effetto “slurp”).
Ferdinando
Lo Sport alla Vezzali: il peggio sta tornando
Pessima scelta dare la delega allo Sport alla Vezzali: ha idee smaccatamente destrorse ed è invisa per i suoi atteggiamenti anche a quasi tutte le compagne di Nazionale. Il peggio riaffiora un pezzo per volta, e questa signora ne è l’ennesima conferma.
Paolo Sanna
Consip, la magistratura in conflitto si astenga
In merito al caso Consip, non crede che tutta la magistratura inquirente di Roma e Perugia dovrebbe astenersi dal caso per palese conflitto d’interessi? Non dimentichiamo che il Di Matteo aveva proposto al Csm di non nominare Cantone procuratore capo di Perugia in quanto da poco dimessosi dall’Anac (nomina politica).
Antonino Crea
Sì, lo penso anch’io.
M. Trav.
A “Il giorno e la storia” manca solo il “Fatto”
Nella rubrica di storia Il giorno e la storia, viene periodicamente invitato il direttore di un giornale per commentare l’argomento del giorno. Tra i tanti direttori, lei non è mai stato invitato. Sono intervenuti direttori di giornali provinciali di cui ignoravo l’esistenza, ma quello del Fatto no. Posso immaginare il motivo, ma le confesso la mia indignazione da cittadino che finanzia la Rai con il canone.
Gennaro Lassandro
Caro Lassandro, certi inviti sono come i premi per Leo Longanesi: “Non basta rifiutarli, bisogna non meritarli”.
M. Trav.
Scuola: “Noi insegnanti, pur snobbati, abbiamo lavorato per tenere aperto”
Gentile redazione, vorrei ricordare che le scuole sono state chiuse (nelle zone rosse) perché si teme la virulenza del Coronavirus che ha fatto ammalare anche molti alunni delle primarie e degli asili. Capisco bene il diritto e il bisogno alla scuola in presenza dei bambini, soprattutto di quelli disabili e fragili visto che, particolarmente per loro, si è rivelata fallimentare la Dad lo scorso anno scolastico, ma temo che stiamo assistendo a una guerra assurda tra le varie categorie lavorative poiché ogni lavoro è indispensabile per garantire i bisogni essenziali della popolazione…
Quest’anno ci ha visti impegnati a sostituire colleghi assenti, facendo ore di straordinario o modificando il nostro orario di lavoro quando non si trovavano supplenti per evitare di dover lasciare a casa le classi. In un anno in cui ci siamo ammalati di Covid e abbiamo dovuto rigidamente sorvegliare che anche alunni molto piccoli rispettassero le regole di distanziamento sociale e frequentemente si sanificassero le mani e gli oggetti di uso comune nelle aule. Siamo stati attentissimi affinché nella scuola non entrasse e non uscisse il virus proprio per garantire il più possibile le lezioni in presenza… Ricordo che oltre a dover preparare le lezioni e correggere i compiti, abbiamo sempre cercato di “raggiungere” gli alunni non presenti a scuola (più assenti del solito perché malati o in isolamento fiduciario in quanto conviventi con genitori positivi), predisponendo materiale scolastico affinché “non perdessero le lezioni” svolte in classe dai compagni. Abbiamo cercato di rassicurare alunni che non sono assolutamente sereni in questo momento, perché soffrono l’isolamento e la mancata socializzazione con i compagni e a insegnare cercando di tenere vivo il desiderio di imparare e di frequentare la scuola anche quando i nostri famigliari stavano male o noi stessi ci siamo ammalati. Resta comunque l’amarezza e lo sconforto perché come lavoratori abbiamo la sensazione di aver perso i nostri diritti ad avere un orario di lavoro definito, dignitosamente retribuito e socialmente riconosciuto in primis da chi ci governa. Solo quei genitori che colgono tutti gli sforzi e la fatica che facciamo per “tenere alto e vivo nei loro figli il desiderio di venire a scuola” e i nostri famigliari che ci vedono impegnati a casa ore per la preparazione del nostro lavoro ci aiutano a essere resilienti. Grazie per l’attenzione.
Paola Colombino, insegnante di scuola primari
Ecco perché Letta a capo del Pd è una buona notizia
Enrico Letta (di nuovo) a capo del Pd è una buona notizia? Domanda legittima, ma dalla risposta complicata. Senz’altro è una brava persona, e non è poco. Dopo il tradimento del 2014 patito da Renzi, che pochi giorni prima gli aveva detto di stare “sereno” ospite dell’amica Daria Bignardi, Letta ha navigato a distanza dal sudicio mare della politica politicante.
Profilo centrista e garbato, mai iconoclasta e poco divisivo, Enrico Letta alla guida del Pd è una buona e al contempo una meno buona notizia. Partiamo dalle meno buone. Il suo primo punto debole è il profilo da “usato sicuro”. Letta appartiene a tutti gli effetti a una nomenclatura di centrosinistra che ha fallito, al punto tale che il Pd non ha mai vinto uno straccio di elezione nazionale (Regionali ed Europee fanno storia a sé). Ritornare a Letta sa di polveroso e politichese: chi è l’elettore che dovrebbe votare – o rivotare – il Pd grazie a Letta? Bah. Al tempo stesso, Letta è una figura squisitamente priva di carisma. Se Zingaretti non sapeva incendiare le masse, con Letta non è che si avvertano miglioramenti. Mi si dirà qui che la storia del carisma è una dannazione della politica contemporanea, e che sia meglio un politico serio e silenzioso rispetto a un fanfarone falso ma mediaticamente scaltro. Siamo d’accordo, ma qui non bisogna vincere il Premio della Critica: qui c’è da vincere le elezioni, sconfiggendo questa destraccia e questi mefitici rigurgiti di renzismo. Oltre a ciò, Letta era e resta il leader Pd che ha accettato per primo l’abbraccio con Berlusconi. Anno 2013. Rodotà venne “ucciso” dal suo stesso Pd nella corsa al Quirinale (una delle più grandi vergogne della Repubblica italiana). E Letta fu la faccia dell’orrenda Restaurazione imposta dal Napolitano Bis. Lo stesso Letta, in quei giorni, diceva che Berlusconi fosse meglio dei grillini. È incredibile come, in otto anni, sia cambiato tutto.
E qui veniamo agli aspetti positivi della scelta di Letta. Una scelta assai furbina operata da Franceschini e Orlando, che hanno proposto un nome a cui la Base Riformista renziana (Guerini, Lotti, etc) non può dire di no, ma che certo non può amare. Una sorta di scacco matto, almeno per ora, sebbene il Pd resti un progetto politico drammaticamente balcanizzato (auguri, Enrico!). Letta, al momento, vuol dire due cose. La prima è che il Pd rilancerà l’accordo con M5S e bersaniani (e Sardine, e società civile), perché questa è stata la sua linea dalla nascita del Conte II a oggi. La seconda è che, con lui alla guida, Renzi non ha chance alcuna di rientrare nel Pd. Renzi è quello che lo ha accoltellato politicamente nel 2014. È quello a cui consegnò la campanella col broncio. È quello che, durante le settimane della crisi, Letta criticava duramente un giorno sì e l’altro pure. Se c’è lui al comando, possono rientrare nella “Ditta” i renziani minori ma non certo i Renzi e le Boschi.
In questo senso, verrebbe da esprimere solidarietà a quei soloni senza lettori né morale che, fino a ieri, parlavano di un Renzi “geniale e vincitore”. Come no: è il politico meno amato dagli italiani, almeno tra i sedicenti “leader”, e con la sua crisi scellerata ha consegnato il Pd a Letta e i 5 Stelle a Conte. Ovvero alle sue vittime più note, che ora verosimilmente lo isoleranno ancora di più. Davvero un “genio” e un “vincente”, ’sto Renzi!
Alla luce di tutto questo, a oggi la scelta di Letta è – lungi dal giustificare cortei – più una buona che una cattiva notizia. Tutto il resto si vedrà.
Dpcm dovuti e legittimi: lo dice la Consulta ma il giudice non sa
Il quotidiano La Verità del 12 marzo ha pubblicato un articolo dal titolo “Giudice fa a pezzi i Dpcm di Giuseppi: ‘Dire il falso per uscire non è reato’”; in esso si fa riferimento a una sentenza di un giudice di Reggio Emilia che ha ritenuto “l’indiscutibile illegittimità del Dpcm dell’8 marzo 2020 come pure di tutti quelli successivi” per violazione dell’articolo 13 della Costituzione, secondo cui “le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo ‘con atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e nei modi previsti dalla legge’”. Secondo tale giudice stabilire “un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitazioni e specifiche eccezioni, configura un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare” che può essere imposto solo “da un atto normativo avente forza di legge”. Conseguentemente ha prosciolto dal reato (art. 483 C. p.) una coppia di coniugi che – sorpresi dai carabinieri – avevano esibito una falsa autocertificazione.
La tesi è destituita di qualsiasi fondamento. Come è noto, il governo ha il potere-dovere di intervenire – sostituendosi anche alle Regioni (art. 120 Cost.) – in ogni caso di “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica” adottando temporaneamente provvedimenti in deroga al diritto vigente (e, quindi, comprimendo anche diritti costituzionalmente garantiti) per fronteggiare una situazione emergenziale (che può essere sanitaria, ambientale, economica, criminale). Per la legittimità dei provvedimenti governativi è necessario: a) che l’emanazione di essi sia prevista da una legge dello Stato; b) che si versi in una situazione straordinaria che metta in pericolo la vita, l’incolumità o i beni della persona; c) che l’intervento sia necessario per la tutela di un altro diritto costituzionale; d) che le deroghe all’ordinamento giuridico abbiano imprescindibilmente carattere temporaneo. Ed è quanto avvenuto nel caso di specie ove il Dpcm in questione, emanato (come gli altri successivi) per contrastare e contenere il diffondersi della pandemia, ha sì compresso i diritti costituzionali sanciti dalla Carta (artt. 13, 16, 17, 18, 24, 33, 34), ma tale compressione è avvenuta a tutela del diritto alla salute (art. 32). Inoltre, il provvedimento limitativo delle libertà individuali è stato sì preso per mezzo del Dpcm, ma esso era stato a tale scopo autorizzato in una fase precedente dal Dl del 23.2.2020 (convertito dal Parlamento dalla legge n° 13/2020, così come i successivi Dpcm sono stati sempre autorizzati con appositi decreti legge, che specificavano ulteriormente il contenuto, le modalità e i tempi di esercizio dei poteri autorizzati). I Dpcm hanno, quindi, trovato in una fonte primaria la loro legittimazione e la loro valenza democratica. Pertanto, ben sono state eccezionalmente disposte, in via temporanea, di volta in volta, perdurando la pandemia, limitazioni o compressioni di qualsiasi diritto dei cittadini, ivi compresi diritti costituzionali quali la libertà di locomozione, di riunione, di associazione, di iniziativa economica. Ed è proprio sulla base del fondamentale principio previsto dell’articolo 32 che la Consulta, con sentenza dello scorso 24 febbraio, ha accolto il ricorso del governo contro la legge “anti-Dpcm” della Valle d’Aosta riaffermando la “competenza esclusiva statale in materia di profilassi con l’attivazione di tutte le misure occorrenti” (con buona pace dell’“emerito” Sabino Cassese).
E allora non vi è dubbio, a differenza di quanto assume il giudice di Reggio Emilia, che i cittadini debbano ottemperare alle disposizioni governative; e non vi è alcun dubbio che il cittadino il quale, per aggirare i divieti, sottoscriva ed esibisca agli organi di polizia una certificazione contenente false dichiarazioni, debba rispondere del reato di cui all’articolo 483 del Codice penale.
La solitudine dei Verdi, inascoltati e osteggiati
Nel 1977 la poetessa americana Adrienne Rich scriveva: “Il mio cuore è toccato da tutto ciò che non riesco a salvare/ così tanto è stato distrutto/ che devo condividere il destino con quelli che/ giorno dopo giorno, con ostinazione,/ senza alcun potere straordinario,/ ricostruiscono il mondo”.
Chi si occupa di ambiente conosce bene questo dolore, il veder distruggere paesaggio, natura, clima, nell’indifferenza di società e istituzioni. Chi si occupa di ambiente conosce bene anche la frustrazione dell’impotenza, delle armi spuntate di cui dispone per impedire il saccheggio del pianeta, che porterà l’umanità stessa sull’orlo dell’estinzione.
La solitudine degli uomini verdi compie poco più di un secolo e mezzo, dalle prime provocazioni ottocentesche di Thoreau, che lamentava i guasti della nascente civiltà industriale, agli attuali inascoltati allarmi della comunità scientifica che si occupa di limiti ecologici. Nemmeno l’enciclica Laudato Si’ di papa Francesco ha fatto breccia. Tra i poeti e gli scienziati fluttua un composito movimento di associazioni e cittadini, a cui si sono aggiunti da un paio d’anni i giovani svegliati da Greta Thunberg, tanti, ma non sufficienti. E alla fine, cosa è stato ottenuto dall’ambientalismo negli ultimi decenni, quelli dell’Antropocene, della Grande Accelerazione? Parole tante, fatti veramente pochi, a dispetto delle accuse agli uomini verdi di aver perfino ostacolato la grande marcia del progresso economico.
Ma suvvia, dove? Se qua e là si è vinta qualche crociata contro il tale stabilimento mortifero – chiuso quasi sempre perché ormai destinato ad andare fuori mercato da sé –, se si è evitata qualche cementificazione, qualche asfaltatura, qualche abbattimento, è quasi per caso. Se si è ottenuto qualche referendum vittorioso contro l’energia nucleare è perché alcuni poteri avevano già deciso di assecondarlo. Ma lo stato del pianeta mostra indicatori sempre più in rosso: la questione climatica, con emissioni fuori controllo e accordi internazionali farlocchi, la deforestazione tropicale, la zuppa di plastica negli oceani, la violenza dell’estrazione mineraria e delle grandi e piccole opere cementizie, volute tanto dalla lobby della betoniera quanto dal sindaco e dal geometra di paese.
I solitari uomini verdi che combattono “con ostinazione e senza alcun potere straordinario” per difendere ciò che resta della natura, sono in minoranza rispetto ai poteri economici; la loro posizione è nel migliore dei casi neutralizzata con la disattenzione, anche dei media, e nel caso peggiore con i lacrimogeni, la galera e l’eliminazione alla sudamericana. Non c’è un tribunale ambientale che assuma le difese di chi lotta per il bene più prezioso che abbiamo. In Italia se vuoi difendere paesaggio, acqua, aria e salute, non basta donare tempo libero e protestare civilmente chiedendo un doveroso ascolto delle istituzioni, devi anche spendere un sacco di soldi per pagare avvocati e ricorsi contro gli ecocidi. I comitati ambientalisti sono sempre etichettati come “quelli del no a tutto”, “quelli della sindrome nimby”, mai sono visti come una risorsa per una discussione informata e una revisione di decisioni perniciose e irreversibili già prese altrove. A forza di sconfitte e di impotenza, l’ambientalismo si disgrega, evapora in una costellazione di piccoli gruppi in lotta per un pugno di terra, per un’aiuola alberata, sempre più deboli di fronte alle grandi programmazioni di una “transizione ecologica” il più delle volte invocata in modalità greenwashing.
Nel Bel Paese, dopo le denunce dei maestri di cinquant’anni fa, da Cederna a Peccei, non è cambiato granché. Certo, ora incalzati da norme europee, cerchiamo di fare un po’ più di raccolta differenziata, ma da Nord a Sud i cittadini qualunque che buttano i rifiuti dal finestrino e riempiono le piazzole stradali di vecchi materassi e pneumatici logori non si contano, è un malcostume radicato che esplicita il disprezzo diffuso per il territorio. Il consumo di suolo va avanti senza freni, le grandi opere inutili e dannose spadroneggiano scortate dai militari, gli sprechi energetici gridano allo scandalo, il degrado erode come un cancro mari e monti. La maggior parte della popolazione accetta supina, quando non è complice.
La piccola parte di individui sensibili all’ambiente combatte stremata e si scontra con il muro di gomma di istituzioni che vedono solo il guadagno monetario e il consenso elettorale a breve termine, i posti di lavoro, la competitività e la crescita fine a se stessa. Poveri uomini e donne verdi, che niente riescono a salvare. Ai loro figli e nipoti consegneranno le sconfitte di tante battaglie ambientali, il cui esito sarà l’inabitabilità del pianeta e la sofferenza collettiva. Ma forse nemmeno a loro importa granché.