Le banconote mortali sulla Roma-Fiumicino. E l’Harvey Flip shakerato

Investito sulla Roma-Fiumicino mentre raccoglieva i soldi che gli erano volati dal finestrino. L’uomo, 56 anni, è morto travolto da un’utilitaria, alla cui guida c’era una donna di 84 anni che non ha potuto evitarlo, colpendolo in pieno. “Molti automobilisti si sono fermati subito dopo l’impatto e hanno raccolto i soldi, intascandoseli”, racconta un testimone che nel primo pomeriggio si è presentato in una caserma dei carabinieri per restituire 450 euro raccolti sul luogo dell’incidente. (Il Messaggero, 14 marzo)

Quando un uomo che raccoglie banconote sulla Roma-Fiumicino incontra una donna di 84 anni al volante di un’utilitaria, l’uomo che raccoglie banconote sulla Roma-Fiumicino è un uomo morto. Perché a 84 anni non hai più i riflessi che ci vogliono per guidare su una strada a scorrimento veloce come la Roma-Fiumicino, direzione Roma, dove è avvenuto l’impatto. Ci siete mai stati? In prima corsia il traffico è rallentato dai camion e dalle auto che si inseriscono o che escono. Nella terza sfrecciano ai 180 le auto dall’aeroporto, e fanno paura. Per cui stai nella corsia di centro, affollata da prudenti come te, mentre attorno è il caos: lento a destra con pericolo sui fianchi, velocissimo a sinistra con pericolo da dietro. A 84 anni non puoi farlo, quel tratto: sei frastornata da troppe informazioni tutte insieme. Sei Mister Magoo. È pure l’una, non ci vedi più dalla fame. In tutto questo, entri in una nuvola di banconote! “Ma che c…?” BUMP! Che dire poi degli automobilisti che si sono fermati per raccogliere i soldi mentre il poveretto stava agonizzando sull’asfalto? Che è confortante: c’è chi non aspetta la fine della pandemia per riprendersi il suo diritto di essere spietato. O forse vanno capiti: di questi tempi, se vedi banconote planare come coriandoli sulla strada, non pensi che uno le abbia perse dal finestrino, pensi che Draghi sia ripartito con i soldi dall’elicottero per un ennesimo whatever it takes. Anni fa, fece notizia la storia di un bigliettaio di tram. Per mettere alla prova la probità dei suoi contemporanei, aggiungeva una moneta in più ogni volta che dava un resto, e osservava il contegno del beneficato. Tutti, ricontato il denaro, se lo mettevano in tasca soddisfatti, una cosa avvilente. Un giorno, tuttavia, una giovinetta esclamò con voce squillante: “Mi ha dato 50 lire di troppo.” E gli rese la moneta. Il volto del bigliettaio si rischiarò. Prese informazioni sulla ragazzina, e quando morì le lasciò un’eredità di 100 milioni di lire, che aveva vinto al Totocalcio. È una storia inventata, ma consola come quelle di Frank Capra, di cui oggi c’è di nuovo bisogno. E allora eccone un’altra:

Rimini, estate anni 80. Un zanza parcheggia la sua Saab decappottabile davanti a un famoso bar sul lungomare, entra e chiede un Harvey Flip. Il barista, che si vantava della conoscenza di tutti i cocktail del mondo, anche di quelli più oscuri, non ne aveva mai sentito parlare. “Un Harvey Flip?” “Sì, e ho una certa fretta,” dice quello, andando un attimo in bagno. “Subito, signore,” dice il barista; e poiché ha capito che il vitellone lo sta prendendo per il culo, prende uno shaker, ci mette del ghiaccio, lo riempie di vodka, succo d’arancia e Galliano, ci aggiunge l’uovo che va in tutti i flip, ci eiacula dentro una pippa, quindi tappa lo shaker, agita con forza, serve filtrando in una coppetta da cocktail raffreddata, spolvera la noce moscata in superficie, decora con una fetta d’arancia e una ciliegina, e offre la miscela al buontempone di ritorno. Questi ne resta sorpreso, ma a quel punto non può fare altro che berlo. “Com’era?” domanda alla fine il barista con un sorriso. E quello, per tenere il punto: “Se non fossi un esperto di Harvey Flip, avrei detto che era sborra”.

 

Dolce Enrico, a metà tra Draghi e Berlinguer

È un Enrico Letta “dolce”, dolcissimo quello che dipinge Francesco Merlo su Repubblica dopo l’esordio al Nazareno. Un articolo aulico, dotto, come sempre in punta di penna, ma pure marchiato dall’evidenziatore spesso di un’ammirazione incontrollabile. “C’è dunque di nuovo, e davvero, un ‘dolce Enrico’”, scrive Merlo citando Venditti e la sua canzone dedicata a Berlinguer. Gli sembra di sentirlo cantare: “Qui tutti gridano: noi siamo diversi/ ma se li senti parlare sono da sempre gli stessi”. Il gioco di specchi del corsivista di Repubblica è ardito: il nuovo Letta è un po’ Berlinguer, ma anche un po’ Draghi (esatto, hanno infilato il premier anche qui): “Letta somiglia a Mario Draghi perché ha girato il mondo, parla le lingue e nel suo romanzo di formazione non ci sono droghe e rivolte giovanili”. Nemmeno uno spinello, questi sono i veri leader. Dalla penna di Merlo esce un Letta moderatissimo ma comunque straordinario, tanto più bravo – se ne deduce – quanto erano scarsi i suoi predecessori: “Ora nel Pd torna la cultura che lo rese egemone. E finisce il populismo, la politica ridiventa studio, e senza più sgrammaticature si torna a parlare l’Italiano, il Francese e l’Inglese” (ma il povero Zingaretti era un analfabeta che si ammazzava di canne?).

Le firme dei draghiani sul Corriere della Sera

Che il governo “dei migliori” fosse stato accolto con mugoli di entusiasmo e scodinzolii commossi dalla stampa mainstream italiana è stato subito chiaro a tutti. Ora la comunione d’intenti tra l’esecutivo e i giornaloni fa un salto di qualità: i draghiani firmano sul Corriere della Sera. Sul numero di domenica è stato pubblicato un articolo firmato dalla pregevole collaborazione tra Roberto Garofoli e Andrea Zoppini. Il primo è un esponente di punta della squadra di Draghi, scelto personalmente dal premier come sottosegretario a Palazzo Chigi (nonostante i pessimi rapporti pregressi con il M5S del primo governo Conte, quando fu capo di gabinetto del ministro Tria). Il secondo invece non ha incarichi governativi, ma è molto vicino alla Guardasigilli Marta Cartabia. Come lei appartiene alla “cordata” dei giuristi cresciuti al cospetto di Sabino Cassese. Un gruppo unito e ambizioso che comprende i figli degli ultimi due presidenti della Repubblica, Giulio Napolitano e Bernardo Giorgio Mattarella. Garofoli e Zoppini hanno scritto sul Corriere per introdurre “Le parole del Diritto”, un ciclo di conferenze organizzate da Treccani e dalla fondazione di via Solferino. Una grande famiglia allargata.

L’ultimo miglio di un’Italia chiusa in casa

“Dobbiamo fare uscire l’Italia dalla depressione psicologica ed economica”: l’impegno preso da Mario Draghi durante la formazione del governo dovrebbe avere la precedenza su ogni altra precedenza, e oggi più che mai. Quando, trascorso un lunghissimo anno, si ricomincia da capo un’altra volta perché nulla sembra cambiato e nulla sembra possa cambiare, come nel citatissimo film con Bill Murray. Nella vita sospesa dei lockdown – rossi o arancioni fa poca differenza –, nella catastrofe perenne dei contagi in crescita, delle terapie intensive sopra la soglia di allerta, della infinita processione dei morti (che alla tv vengono contabilizzati con un “circa”, per fare cifra tonda), della vaccinazione di massa, montagna da scalare dove un lotto fallato di AstraZeneca può farci rotolare a valle, la depressione psicologica precede quella economica e ogni altra attività umana.

Perché con un’Italia in pigiama, confinata in casa e che non ci sta con la testa si può procedere con tutti i ristori e i sostegni immaginabili, comunque una goccia nel mare della crisi. Ma si rischia lo stesso di avere una ripresa che tossisce come un motore ingolfato, con gli scostamenti di bilancio benzina che va in fumo. Non ci azzardiamo a dire cosa il presidente del Consiglio potrebbe dire per risollevare il morale degli italiani (sursum corda, in alto i cuori ci insegnavano a scuola) ma qualcosa dovrà dire. Come sempre quando si indica un orizzonte, un limite da raggiungere, un risultato da realizzare funziona la metafora dell’ultimo miglio da percorrere, dell’ultima sfida da vincere, dello scollinamento oltre il quale il sentiero comincia finalmente a scendere. Sarebbero parole che pesano perché non si può certo giocare a colpi di “annuncite” con la fiducia del Paese, con le speranze tante volte tradite perché se l’ultimo miglio vale per chi è chiamato a percorrerlo con lo sforzo finale, ultimo miglio è anche quello a cui è chiamato il governo: dopodiché o c’è il traguardo o c’è il fallimento. Per cui bisognerà essere ben certi che nel limite temporale fissato – 20 giorni da qui alla Pasqua di Resurrezione – la maledetta curva plani (come sostengono i virologi), la vaccinazione acceleri (come promesso dai generali della logistica) e nella stagione propizia il morbo evapori (come l’esperienza insegna). Nell’attesa che Draghi sappia come riempire i vuoti di pressione, segnaliamo che l’ultimo miglio non è il Miglio verde dell’omonimo film. Là si andava verso il braccio della morte, qui verso la vita. Speriamo.

Roma, il dem Gualtieri si candida a sindaco. Tra oggi e domani arriva l’annuncio del Pd

La riserva è sciolta. Tra oggi e domani Roberto Gualtieri, deputato del Pd ed ex ministro dell’Economia, annuncerà la sua candidatura a sindaco di Roma. Gualtieri non ha ancora scelto come comunicare la decisione (tra le ipotesi, un video), ma ormai ha deciso, dopo alcuni giorni di ulteriore riflessione, presi anche per valutare anche l’effetto delle dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario dei democratici. E proprio il governatore del Lazio per mesi era stato l’unica vera alternativa al nome di Gualtieri.

Ma alla fine a cercare di ridare il Campidoglio ai dem sarà proprio l’ex ministro, 54 anni, professore associato di Storia contemporanea all’Università Sapienza di Roma, che ha ricevuto anche il placet del neo-segretario Enrico Letta. Politicamente dalemiano doc, in ottimi rapporti con Zingaretti, Gualtieri giocherà una partita che avrà ovvi riflessi anche a livello nazionale per i giallorosa. Perché con la sua candidatura salta definitivamente ogni ipotesi di alleanza tra Pd e M5S: almeno al primo turno. La sindaca Virginia Raggi si ripresenterà, forte anche dell’appoggio dei big del Movimento e innanzitutto di Beppe Grillo, che in due recenti post le ha confermato il sostegno. “Non si può prescindere da Virginia, volenti o nolenti lo hanno capito tutti” conferma una fonte qualificata del Movimento. Gli ultimi sondaggi, che danno Raggi come favorita per accedere al secondo turno (dove però verrebbe sconfitta), hanno suscitato diffusa sorpresa nel M5S, dove si aspettavano numeri peggiori. Viceversa in ambito Pd fanno notare come al ballottaggio la 5Stelle perderebbe contro Gualtieri, ammesso che sia lui l’avversario.

Il quadro delle candidature a Roma, anche per il rinvio delle elezioni a ottobre, non è infatti ancora delineato. In queste ore, Carlo Calenda ha confermato di voler correre, e rimanendo in pista l’eurodeputato potrebbe togliere consensi al candidato dem. Mentre nel centrodestra la prima opzione resta il presidente dell’Istituto per il Credito sportivo, Andrea Abodi, sostenuto da Giorgia Meloni. Proprio ieri la leader di Fratelli d’Italia ha sollecitato un tavolo del centrodestra sulle Amministrative, “per decidere che strada percorrere senza favorire gli avversari con la lotteria dei nomi e delle coalizioni”.

“Con un nuovo Pd, noi di Articolo Uno potremmo tornare”

C’è vita a sinistra del Pd. Ieri il ministro della Salute e leader di Articolo 1, Roberto Speranza, ha inviato una lettera a Enrico Letta e Giuseppe Conte per invitarli a far nascere “un progetto nuovo” che dia “casa alla sinistra plurale”. E Federico Fornaro, capogruppo alla Camera di LeU, rilancia il tema facendo un passo in avanti: il possibile ritorno della Ditta nel Pd a quattro anni dalla scissione dove i dem persero molti dei propri fondatori, da Pier Luigi Bersani a Massimo D’Alema fino a Guglielmo Epifani

Onorevole Fornaro, Letta vuole un Pd ripulito dalle correnti e aperto a tutti nel centrosinistra.

Il nuovo segretario ha parlato della costruzione di un nuovo Pd e ora si aprirà una discussione ampia su che tipo di partito sarà. Non solo: sarà fatto anche un bilancio dopo 13 anni di esistenza.

Alla luce del “rinnovamento” che vuole portare Letta, voi siete pronti a rientrare nel Pd?

Se si tratta di un semplice ritorno nella logica dell’heri dicebamus (Dov’eravamo rimasti, ndr), non servirebbe a nessuno, né al Pd né a noi. Se invece si tratta di costruire insieme un nuovo soggetto politico di una nuova sinistra di governo larga e plurale, allora lo trovo necessario.

Che tipo di partito dovrà essere?

Tutti gli attuali contenitori sono insufficienti, anche quello più grande e organizzato. Una semplice riproposizione del modello Ulivo con un grande partito al centro e tanti piccoli intorno non è egualmente sufficiente per vincere.

Questo contenitore potrebbe essere anche il Pd?

Sì, non mi impicco sui nomi. L’importante è costruire un partito unico che tenga dentro una pluralità di posizioni sul modello del Labour inglese o del Partito democratico americano. Il messaggio che arriva dalla nostra gente è quello di unità e non di frammentazione.

Quali saranno i primi passi per questo nuovo partito?

Noi oggi abbiamo lanciato un documento per avviare il dialogo. Poi ci vuole una costituente della sinistra: le agorà democratiche che ha proposto Letta potrebbero essere un punto di partenza per iniziare un percorso. Nei prossimi giorni Roberto Speranza incontrerà Letta e sarà l’occasione per fare insieme i primi passi.

Alla luce di questo, LeU è stato un fallimento?

Per chi di noi è uscito dal Pd è sempre stato chiaro che l’obiettivo non era costruire l’ennesimo partitino a sinistra. Volevamo essere il seme di una ricostruzione della sinistra di governo e se uno guarda l’impianto della segreteria Renzi e vede quella di Zingaretti e quella di Letta il cambiamento è evidente.

Alcuni adesso vedono una competizione tra Giuseppe Conte ed Enrico Letta come leader del centrosinistra.

Se la competizione è virtuosa per interpretare al meglio i bisogni e le domande degli italiani è solo positivo.

Mancano i numeri: le riforme di Letta partono già azzoppate

Libera dalle gabbie della concretezza, l’osteria dell’avvenire è sempre ricca di nuove ricette. Enrico Letta ha delineato il suo Partito democratico intorno ad alcuni pilastri: Ius soli, legge elettorale maggioritaria, voto ai sedicenni e stop al trasformismo politico. Un impianto molto applaudito nel Pd, ma che parte già con un grosso problema: di tutti questi temi la politica ha già discusso in Parlamento negli anni, riuscendo sempre a incagliarsi prima del traguardo. E adesso che il peso del Pd in maggioranza è ancor meno rilevante, il rischio è che i buoni propositi si infrangano con la mancanza di numeri.

Ius Soli. Nella scorsa legislatura il Pd ha guidato tre governi – Letta ne sa qualcosa – provando a introdurre una norma che unisse uno Ius soli temperato allo Ius culturae. Alla fine, Paolo Gentiloni rinunciò, un po’ per i numeri ballerini in Senato e un po’ per poca convinzione dei dem. Oggi la situazione non promette nulla di diverso, se è vero che già la Lega ha bocciato l’idea (“Cose da marziani, vogliono far cadere il governo?”) e anche Forza Italia non ci sta. Coi 5 Stelle se ne potrebbe parlare, ma riproponendo qualcosa di più simile allo Ius culturae: “Lo dico molto chiaramente – è la versione di Giuseppe Brescia, capogruppo M5S in Affari costituzionali – lo Ius soli non è la soluzione. La cittadinanza va legata a un percorso di integrazione che solo la scuola può dare”. Morale: la strada è tutta in salita.

Voto ai sedicenni. Secondo Letta, i tempi sarebbero maturi per allargare l’elettorato anche ai sedicenni. Una posizione legittima, ma che si scontra con le fatiche parlamentari di una riforma simile: a ottobre 2020 la maggioranza giallorosa ha infatti congelato l’iter di una legge per estendere ai diciottenni la possibilità di votare al Senato, al momento concessa solo a chi ha più di 25 anni. E così da mesi nessuno sa più niente della proposta, pur meno invasiva rispetto a quella di Letta.

Legge elettorale. La riforma maggioritaria immaginata da Letta è tutt’altro che inverosimile. Il Conte II era nato su un accordo tra M5S, Pd e Leu per una legge proporzionale, ma in due anni è cambiato tutto e il cosiddetto Brescellum è fermo da mesi, coi dem che spingono per un sistema in cui le coalizioni si formano prima del voto. Il Mattarellum invocato da Letta si può fare, allora, ma per il Pd c’è una questione di coerenza: il sostegno al maggioritario sbugiarda mesi di appelli, moniti e suppliche in favore del proporzionale, che durante la campagna referendaria per il taglio del numero dei parlamentari era citato come ultima ancora di salvezza per evitare “la fine della rappresentanza” e un “vulnus democratico”. La vera sfida per Letta sarà sui collegi e sui listini delle eventuali circoscrizioni plurinominali: il leader dem giura di voler superare le liste bloccate e ripristinare un rapporto tra eletti ed elettori, ma negli ultimi anni non c’è stata legge elettorale iniziata senza simili auspici, per un motivo o per l’altro mai realizzati.

Trasformismo. L’idea di Letta è di porre un freno ai cambi di casacca: “Non ho nessuna intenzione di superare il vincolo di mandato, ma oggi il Gruppo misto è un Paradiso a cui tendere. La politica si fa coi gruppi che si sono presentati alle elezioni”. Qualche sponda potrebbe arrivare dal M5S, da sempre sensibile sull’argomento. Per il resto, a parole tutti hanno condannato in vario modo il trasformismo, salvo servirsene al bisogno: “Basta con gli Scilipoti e i Verdini”, disse una volta Salvini commentando le capacità di adattamento del futuro suocero. Più realizzabile – ma quanto efficace? – sarebbe una modifica dei regolamenti delle Camere, sull’onda di quanto già deciso in Senato nella scorsa legislatura. Già oggi a Palazzo Madama non si possono formare nuovi gruppi a meno che non siano associati a un simbolo presente alle ultime elezioni.

Una norma aggirata senza troppa fatica da chi, negli ultimi due anni, ha resuscitato l’effigie di 10 Volte meglio o dell’Italia dei Valori, per non citare il caso più noto: quello di Italia Viva, presente grazie alla gentile concessione del Psi. Va da sé che servirebbe allora una soluzione più decisa, come quella ipotizzata dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky: “Il parlamentare è libero di cambiare partito, ma se passa dalla maggioranza all’opposizione, o viceversa, deve decadere”. Se ci sarà davvero una legge maggioritaria, potrà riconquistarsi il seggio col nuovo partito.

Forza Italia. Carfagna sempre più vicina all’addio

Un tempo era l’astro nascente di Forza Italia in prima fila per diventare la “delfina” di Silvio Berlusconi. Oggi, però, nonostante sia stata nominata ministro del Sud del governo Draghi, Mara Carfagna è sempre più vicina all’addio a Forza Italia. Da tempo si parla di un suo avvicinamento al partito di Giovanni Toti “Cambiamo!” per costruire insieme a lui un polo centrista e moderato rifiutando la linea del partito troppo schiacciata su quella di Matteo Salvini. Tant’è che durante la crisi di governo Carfagna e Toti avevano condiviso la richiesta di un governo di “salvezza nazionale” mentre Berlusconi taceva e la coppia Salvini-Meloni chiedeva di andare al voto. Poi, il 15 febbraio, è arrivata la prima rottura: tre deputati molto vicini a Carfagna – Osvaldo Napoli, Daniela Ruffino e Guido Della Frera – hanno lasciato Forza Italia per approdare nel gruppo di Toti (10 alla Camera e 4 al Senato) e tra i berluscones si vocifera che altri 10 sarebbero pronti a lasciare proprio in contrasto con la gestione del partito del trio Ronzulli-Tajani-Bernini. Tra questi ci sono Matteo Perego, Simona Vietina, Gigi Casciello, Gabriella Giammanco e Stefania Prestigiacomo. Ad allontanare sempre di più Carfagna da Forza Italia c’è anche la partita delle elezioni comunali a Napoli e la gestione del partito in Campania (la ministra è nata a Salerno), commissariato a Salerno e Avellino. A settembre si era consumato un primo strappo con Stefano Caldoro, candidato governatore di FI, e adesso il partito è spaccato in tre: ci sono i Cesaro, l’area dell’eurodeputato Fulvio Martusciello e Carfagna. Secondo i rumors Cesaro-Martusciello-Caldoro si stanno preparando a mettere ai margini Carfagna e i suoi fedelissimi (Paolo Russo, Gigi Casciello e Cosimo Sibilia) dalle elezioni a Napoli e creare l’incidente definitivo per allontanare Carfagna da Forza Italia.

“Mi ha fatta fuori Marina B. In FI solo donne contro donne”

Il potere lo conosce da molto vicino. “Quando ero ai vertici di Forza Italia la richiesta ricorrente era quella di incontrare Berlusconi, addirittura mi fermavano per strada per avere un contatto con lui”.

Il potere l’ha bollata: “Da anni mi chiamano ‘badante’, ma vista l’accezione negativa data dai giornalisti, a offendersi dovrebbe essere la categoria stessa”.

Il potere ha i suoi lati B: “Se credo sempre alla storia della nipote di Mubarak? C’è un processo in corso, ho già parlato nelle sedi opportune”.

Dal 19 gennaio ha deciso di prendere il potere nelle proprie mani e, in dissenso con le indicazione di Forza Italia, ha votato sì alla fiducia al governo Conte. Per questo è stata cacciata.

Dal 19 stesso resta il mistero di questa sua decisione.

E perché? Ero e sono convinta che in questa fase drammatica le energie dovevano concentrarsi sulla pandemia e a come uscirne al più presto.

Invece è stata espulsa.

Esattamente 5 minuti dopo il voto, il vicepresidente del partito oggi coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani, ha preso questa decisione.

È diventata contiana.

È quello che hanno sostenuto coloro che non vedevano l’ora di cacciarmi, screditarmi e farmi passare da traditrice. Gli stessi che pur di fare la pelle a Conte avrebbero messo il Paese in pericolo andando a votare con la terza ondata in corso; Conte era riuscito a strappare un accordo per un massimo di 209 miliardi, lo stesso accordo che il governo Draghi sta portando avanti.

Ora la fiducia a Draghi.

Resta lo stesso principio.

In Forza Italia non era una qualunque….

Ho aderito nel 1994 e per diversi anni ne sono stata addirittura una delle figure dirigenziali ricoprendo incarichi importanti e delicati.

E poi?

La mia utilità è venuta meno così come le mie cariche.

Dolore.

Invece è giusto e per un principio di rinnovamento.

Il suo ridimensionamento dicono sia stata opera di Marina Berlusconi.

Risulta anche a me.

L’accusa: non si è accorta del problema al cuore di Berlusconi.

Ho svolto tanti incarichi al suo fianco ma non quello di cardiologo, non sono un medico. Di medici il presidente ne ha abbastanza, e lo seguono h24 .

Quindi sono loro a non essersi accorti del problema.

Parliamo del presente, il passato è passato.

Ha condiviso con Berlusconi la sua decisione di votare la fiducia?

Da quando è scoppiata la pandemia ho sempre espresso al presidente la mia posizione, quella di una opposizione responsabile.

Adesso è con Toti, come mai?

Con lui ho lavorato bene quando eravamo accanto al presidente: Giovanni è uomo pratico, pragmatico, un ottimo amministratore, sempre sul pezzo, ma più di tutto è persona perbene, l’amico che tutti vorrebbero.

Ma ha conosciuto la nipote di Mubarak?

Ancora! Cambi argomento.

La Pascale la sente?

Tanto vuole solo sapere dei rapporti tra Francesca e il presidente…

Maliziosa.

Certi sentimenti nascono per non finire mai.

Allora torneranno insieme.

Non credo, ma non smetteranno mai di cercarsi e di volersi bene. (Silenzio).

A cosa pensa?

A Forza Italia…


E allora?

È da tempo che non mi sentivo più parte di un progetto comune: oggi è un posto dove sembra prevalere la legge del meno siamo meglio stiamo, dove gli interessi del singolo prevalgono su quelli della collettività, dove vale la logica del tutti contro tutti e dove ci sono donne che devono necessariamente andare contro le altre donne.

A Berlusconi piaceva realmente Renzi?

Apprezzava l’approccio politico e caratteriale, però secondo me l’idea di Renzi è quella di centro.

È una portatrice di segreti.

Non è vero.

Impossibile.

C’è una riservatezza in ognuno di noi.

Forza Italia esiste ancora?

Solo finché ci sarà Berlusconi.

Lo sente ancora?

No.

Ci ha litigato.

Impossibile con lui.

Si è pentita dello strappo?

Alla fine ho solo anticipato i tempi, mi sembra chiaro.

Un errore di questi anni?

Rifarei tutto, ma non lo rifarei una seconda volta.

+Europa? Non sa quanti iscritti ha

Fedeli alla migliore tradizione radicale, anche in Più Europa sono volati gli stracci. Perché, come diceva qualcuno, “se metti due radicali dentro una stanza, sta sicuro che escono litigati”. Chi conosce quel mondo, però, assicura che le dimissioni di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova sono una sorta di sceneggiata per uscire dall’angolo in cui erano finiti, ovvero in minoranza nel loro stesso partito, per ripresentarsi al congresso più forti che pria. Prima di continuare, urge però chiarire.

Più Europa è un soggetto nato dalle ceneri del Partito Radicale che, dopo la morte di Marco Pannella (maggio 2016), si è diviso tra quelli rimasti fedeli alla linea, i radicali, e chi invece ha scelto di presentarsi alle elezioni. Così, nel 2018, la lista Più Europa-Centro democratico ottiene il 2,5% alla Camera e il 2,3% al Senato, eleggendo 3 deputati (Bruno Tabacci, Riccardo Magi e Alessandro Fusacchia) e un senatore (Emma Bonino). Poi inizia il caos. La prima volta nel gennaio 2019, quando l’elezione a segretario di Della Vedova viene contestata dalla minoranza che accusa Bruno Tabacci di aver portato truppe cammellate a supporto. “E come sarebbero dovuti arrivare a Milano i delegati?”, rispose l’ex-Dc. La seconda nell’agosto dello stesso anno, quando c’è da decidere l’appoggio al Conte 2. Il partito dice no, Tabacci e Fusacchia se ne vanno e i due rimasti in Parlamento si dividono: Magi vota a favore e Bonino contro. Il massimo. Nel 2020, poi, arrivano i gruppi comuni con Azione di Carlo Calenda.

Adesso, nonostante siano tutti con Draghi, nuova esplosione, con la vecchia minoranza che è riuscita a sfiduciare il tesoriere Valerio Federico, con l’obbiettivo di cambiare le regole per tesseramento e congresso. Ma pure il numero degli iscritti è variabile: per Bonino e Della Vedova (che nel frattempo è diventato sottosegretario agli Esteri) sono 2.700, per Carmelo Palma, del fronte anti-Bonino, solo 376. E pure i sondaggi non sorridono: Più Europa e Azione insieme fanno il 2,3%. Le elezioni, però, sono lontane. Nel frattempo è arrivato il colpo di testa della Bonino (“La vostra cupidigia è senza limiti. Me ne vado prima che mi facciate fuori voi”, ha detto) dopo un’assemblea-fiume degna del miglior Pannella (71 membri collegati per 24 ore su Zoom) senza riuscire a mettersi d’accordo su nulla. Con la minoranza ad accusare gli altri di usare “metodi democristiani”, di aver deciso da soli la fusione con Calenda, di aver “reclutato” Carlo Cottarelli e altre amenità. “Da mesi non si trova un accordo. Con le mie dimissioni il congresso deve esser convocato entro 3 mesi (con le vecchie regole, ndr). E io mi ricandiderò”, afferma Della Vedova, che ringrazia Emma per “aver dato la scossa”. Naturalmente al suo fianco ci sarà anche lei (che è quella che al partito versa più soldi). E tutto ricomincerà. Un’altra volta.