Cartabia apre ai correttivi della blocca-prescrizione

Prescrizione, riforma del Csm, processo penale e civile: si cambia ma non troppo, almeno così dice la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, senza buttare via quanto fatto da Alfonso Bonafede.

La prima volta della ministra in Commissione Giustizia della Camera è improntata all’ecumenico spirito di unità nazionale: “Il lavoro svolto non va vanificato ma arricchito alla luce del carattere ampio di questo governo”, cioè l’ingresso di Lega e Forza Italia. Dunque, non bisogna puntare “a illusorie riforme di sistema non praticabili” ma “a interventi mirati.” Mirati sì, come la riforma civile, gli investimenti del Recovery plan, ma anche divisivi come la prescrizione, che adesso si blocca, per effetto della Bonafede, dopo la sentenza di primo grado. Cartabia sa bene che il tema è critico e quindi fa una premessa che la dice lunga sulla voglia di evitare il conflitto: “A fronte della encomiabile disponibilità di alcuni gruppi ad accantonare gli emendamenti, per non esacerbare il dibattito… va onorato” l’ordine del giorno approvato dalla Camera che “impegna il governo ad adottare le necessarie iniziative” per un processo penale con tempi accettabili. Proprio “un processo dalla durata ragionevole di per sé risolverebbe il ‘nodo’ della prescrizione relegandola a evento eccezionale”.

Al ministero un gruppo di studio valuterà diverse proposte come quella sui “rimedi di tipo compensativo” o quelle “dirette a distinguere” in due fasi “il tempo necessario a prescrivere”. Sono alternative alla proposta in Parlamento che non fu votata in Cdm, un anno fa, dai renziani al governo ed è irricevibile pure per FI e Lega: bloccherebbe la prescrizione dopo il primo grado solo in caso di condanna. Cartabia tocca anche la riforma del Csm, già alla Camera. La ministra apprezza il lavoro di Bonafede: “Accolgo in particolare l’esigenza di disciplinare la procedura di conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi secondo criteri di trasparenza ed efficienza”, quanto al punto sulla legge elettorale, lancia una sua idea: il rinnovo di metà dei consiglieri, togati e laici, ogni due anni. Da ex presidente della Corte costituzionale, papabile presidente della Repubblica dopo Mattarella, chiude con una citazione: “L’augurio e l’impegno da parte mia è che al termine di questa fatica possiamo anche noi pronunciare le parole che furono di De Gasperi, Adenauer e Schuman: ‘Ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide’”.

Una frase che si può rovesciare parlando del clima al Csm dove sulla riforma del Consiglio c’è una divisione tra laici e togati. I laici pensano che i togati stiano tenendo un atteggiamento “corporativo” . Proprio domani è previsto il plenum sul parere alla riforma Bonafede: 190 pagine firmate da diversi relatori con critiche su ogni punto . Non è detto, però, che si arrivi al voto già domani perché si prevedono tanti emendamenti. Il malumore dei laici è in particolare sulla prima parte del parere firmata dalla consigliera di Area, Elisabetta Chinaglia, e votata dalla Sesta commissione all’unanimità. In sostanza, accusa la riforma di voler rendere il Consiglio un mero esecutore, in violazione della Costituzione, prevedendo dei paletti invalicabili sulle procedure per le nomine. Ci dice un laico: “Non si può ignorare lo scandalo Palamara. Il legislatore indica criteri trasparenti da seguire e noi diciamo che non lo può fare, ma non è vero! E poi sono gli stessi magistrati che ci chiedono più paletti”. Concorda un altro laico che lamenta la fretta di questo plenum: “Abbiamo avuto solo il weekend per studiare”. La riforma è in Parlamento da 7 mesi ma adesso il parere “è urgente”, aggiungono, perché serve alla ministra in vista delle sue proposte di modifica.

Il “sistema” creato nel ’91 oggi rinasce per salvare i colossi

Del sistema dell’Alta velocità ferroviaria, quella del “Terzo Valico” è la storia più emblematica. Serve studiarla per capire perché, trent’anni dopo, siamo alle porte di una nuova stagione di grandi investimenti nel settore, stavolta inseriti nel Recovery Plan.

Nessuno ha mai creduto che quei 52 km di binari servissero a qualcosa. Nel 2014, l’ad delle Ferrovie Mauro Moretti, committente dell’opera, lo disse proprio: “Da Genova a Milano è giusto che le merci vadano in camion. In nessun Paese per fare 150 chilometri si va con le ferrovie”. I 6,2 miliardi stanziati dal governo Monti nel 2011 servono per arrivare fino a Tortona (Alessandria); per Milano mancano altri 100 km. Se va bene serviranno 20 miliardi per un’opera inutile che però ha il vantaggio di essere affidata al consorzio Cociv guidato da Salini-Impregilo (oggi Webuild) e Condotte, due dei colossi più amati dai politici.

Nelle carte dell’inchiesta genovese la storia è ben illustrata. L’operazione Alta Velocità è iniziata nell’agosto 1991 su due assi: orizzontale (Torino-Venezia) e verticale (Milano-Napoli); il terzo valico fu aggiunto dopo. Un’idea di Raul Gardini, fresco della tangentona Enimont, che pretese la linea Milano-Genova per tirare dentro la Montedison, tenuta fuori dalla spartizione che ha salvato il mercato degli appalti dopo il crollo per le inchieste di Mani pulite.

Il gran capo delle FS, Lorenzo Necci, e il ras delle grandi opere Ercole Incalza (imputato nell’inchiesta genovese) escogitano il meccanismo che si rivelerà provvidenziale: il grande appalto per l’Av senza gara ai tre general contractor (Iri, Eni, Fiat). Incalza si vantò di aver trovato il sistema perfetto: prezzo bloccato e zero contenziosi. Le concessioni con Tav Spa, la controllata Fs (che Incalza nel ‘91 andò subito a dirigere lasciando il ministero) prevedevano che il 60% del finanziamento fosse a carico dei privati. Nel ‘94 i costi erano già saliti del 34%: lo Stato si accollò oltre 90 miliardi. Fu la “grande abbuffata” raccontata da Ivan Cicconi nel Libro nero dell’Alta velocità.

L’affare partì un attimo prima dell’entrata in vigore dell’obbligo europeo di fare le gare. I pm genovesi ricordano i meccanismi con cui per oltre 20 anni si è tutelato il sistema. Alla fine del 2000, per dire, l’allora ministro Pier Luigi Bersani impose l’obbligo di gara con annesso scioglimento dei contratti. Qualche mese dopo, tornato Berlusconi a Palazzo Chigi, il ministro Pietro Lunardi e il suo capo segreteria Incalza si inventarono la “Legge obiettivo” che sottrae l’Alta velocità alle gare. Il general contractor diviene affidatario e costruttore dell’opera: si sceglie perfino il direttore dei lavori, zero controlli. Risultato: i costi esploderanno. Nel 2007 il governo Prodi prova di nuovo a reinserire l’obbligo di gara, che però ri-salta nel 2008 col ritorno dell’ex Cav.

Oggi il problema si ripete. I grandi costruttori sono alla canna del gas. Grazie ai soldi di Cdp, Salini-Impregilo è stata messa in sicurezza creando WeBuild. Insieme, però, i nostri primi 20 gruppi non fanno il fatturato del gigante francese Vinci. E così nel Recovery Plan il capitolo “Alta velocità” è cresciuto a 15 miliardi: c’è la Palermo-Catania, la Napoli-Bari, la Salerno-Reggio Calabria, la Brescia-Verona-Vicenza, il Terzo Valico, eccetera… I soldi devono essere spesi entro il 2026: nei primi due anni la spesa è di 2,2 miliardi, ma si accelera negli ultimi tre (4,4 miliardi nel 2026). Alcune linee, come la Napoli-Bari, sono a buon punto, altre per nulla. Nei documenti si parla di progettazioni e bandi e si promettono 500 km di nuovi binari in 6 anni. Un crono-programma ardito che però può bastare a gonfiare il portafoglio ordini dei gruppi, WeBuild in testa. Solo l’Alta velocità in Sicilia vale l’enormità di 20 miliardi, spesa di cui il Ponte sullo Stretto è il prerequisito, per così dire, ideologico. Magari è un caso, ma da mesi è ripartito il tam tam sulla grande opera, ovviamente da fare col “modello Genova”. Entrambi, guarda caso, cari a WeBuild.

Terzo Valico, gare truccate e mazzette ad alta velocità

L’idea di affidarsi ai campioni nazionali dell’industria è stato il sogno della stagione in cui tramontava la Prima Repubblica: la convinzione era che i privati, con leggi speciali, potessero fare meglio, in modo più rapido, onesto ed efficiente del settore pubblico, travolto da Tangentopoli. Anche quella strada però ha portato alle aule di giustizia. Con la Cassazione che ha ribadito che il general contractor, sostituito allo Stato, risponde degli stessi reati, corruzione e turbativa d’asta, come incaricato di pubblico servizio. Per l’accusa, dietro all’Alta velocità c’è un campionario ricorrente in altre vicende italiane: appalti truccati, mazzette, serate con escort, commistioni di alto livello tra politica e imprenditoria, costi gonfiati.

Ieri il giudice per le indagini preliminari di Genova, Filippo Pisaturo, ha rinviato a giudizio oltre trenta persone. Il nome più noto è Pietro Salini: amministratore delegato di We Build, uomo della ricostruzione del Ponte di Genova e a capo del consorzio che vorrebbe costruire il Ponte sullo Stretto di Messina. Prosciolto per uno dei capi di imputazione perché prescritto, è stato mandato a giudizio per vari episodi di turbativa d’asta sui tunnel del Terzo Valico ferroviario, la nuova linea fra Genova e Milano, arrivati a costare oltre 6 miliardi. Insieme a lui sono indagati, fra gli altri: il grand commis dei lavori pubblici italiani Ercole Incalza; l’ex ragioniere dello Stato Andrea Monorchio e il figlio Gian Domenico (quest’ultimo indagato anche per corruzione); Michele Longo, ex presidente di Cociv, general contractor del Terzo Valico, partecipato a maggioranza da Impregilo; l’imprenditore Stefano Perotti; Duccio Astaldi, patron di Condotte d’Acqua Spa. Assolto Alberto Rubegni, presidente del Gruppo Gavio.

La busta bianca “Ingegne’, ecco la paghetta”

Il rischio concreto, però, è che la montagna partorisca il proverbiale topolino. L’operazione Amalgama, una delle indagini più dirompenti sulla pubblica amministrazione degli ultimi anni, si sviluppa fra il 2014 e il 2016. Ci lavorano tre Procure: Firenze indaga sui rapporti degli imprenditori impegnati nell’Alta velocità in Toscana con i palazzi romani; Roma su corruzione e il sospetto di infiltrazioni di uomini considerati vicini ai clan; Genova sul filone del Terzo Valico. La parte toscana viene spezzettata e in parte archiviata. Il procedimento romano è da tre anni in un limbo di competenza territoriale: se lo sono passati il tribunale della capitale, Terni, Bolzano e Alessandria. L’unico filone che va a dibattimento è quello ligure. Ma andrà poco lontano: sempre che non arrivino assoluzioni nel merito, le turbative si prescrivono fra la metà 2021 e l’inizio del 2022.

Nella loro richiesta, i pm Paola Calleri e Francesco Cardona Albini descrivono così il sistema Terzo Valico: “Le gare venivano aggiudicate non applicando o comunque distorcendo le norme del codice degli appalti per favorire una determinata impresa a discapito di altre, per ragioni a volte correlate a patti corruttivi, oppure per motivi di interesse aziendale inerenti i rapporti con i due azionisti di riferimento del Cociv, Salini Impregilo Spa e Condotte d’Acqua”. Alcune tangenti vengono filmate in diretta dalla Guardia di finanza. È il 16 dicembre 2014. L’imprenditore campano Antonio Giugliano entra nell’ufficio dell’ex direttore generale Cociv Pietro Marcheselli. Ha una busta bianca in mano. In silenzio fa il segno del numero dieci con la mano: “Ingegnè, ecco la paghetta”. Di paghette, per gli investigatori, ne giravano parecchie. A volte erano definite “mozzarelle”. Per quei fatti hanno patteggiato in quattro, tutte pene sotto a i due anni: Marcheselli, il suo collega Maurizio Dionisi, Giugliano e il suo collaboratore. Un altro funzionario del consorzio, Giulio Frulloni, accusato di essere stato corrotto con escort, è deceduto a inchiesta in corso.

Le liti familiari “Questi si sono presi a bottigliate”

Le gare erano costantemente truccate, per la Procura, anche dove non sono state trovate tracce di corruzione. Alle imprese amiche venivano svelate le offerte in anticipo, escamotage che consentiva di offrire anche “50 euro in meno”. “I vertici del Cociv – scrivo i pm – facevano riferimento a Pietro Salini, per ogni decisione di rilievo attinente a Cociv”. Nell’inchiesta va in scena anche una sorta di dinasty familiare. A Pietro Salini (assistito dall’avvocato Grazia Volo) viene contestata l’esclusione del cugino Claudio (poi morto in un incidente stradale), e della sua azienda, la Salc. “Si sono presi a bottigliate, lui non lo vuole vedere”, commentano alcuni funzionari Cociv. “Mi raccomando in tutti i modi di evitare che possa avere qualcosa”, dice lo stesso Salini a Longo, in una delle intercettazioni. “Non ci sono state turbative d’asta, tuttalpiù si trattava di scelte sull’affidabilità – commenta l’avvocato Giuseppe Zanalda, che assiste molti degli indagati col figlio Emanuele – siamo soddisfatti dell’assoluzione dell’ingegnere Rubegni (difeso con Fabio Fossati), il giudice ha sconfessato i pm”.

Il filone romano rimbalzato tra pm

L’inchiesta di Genova ha acquisito in parte anche degli altri fascicoli. Quello romano, da cui emerge la figura di Domenico Gallo, imprenditore calabrese nei cui confronti la Procura di Reggio Calabria ha eseguito un sequestro antimafia da 200 milioni di euro. Sarebbe stato socio occulto di un funzionario, Giampiero De Michelis, anche lui indagato: “Abbiamo creato un mostro”, dicono di lui i funzionari di Cociv. C’è infine la vicenda che coinvolte Giampiero Monorchio, figlio di Andrea, ex ragioniere dello Stato.

In una delle telefonate registrate è l’ex potentissimo capo dei Consiglio dei lavori pubblici Angelo Balducci a chiedere a Ercole Incalza di “dare una mano al figlio di Monorchio”. Monorchio junior e l’imprenditore Stefano Perotti sono accusati di aver corrotto con “due oggetti di valore” l’ex presidente di Cociv Michele Longo.

Ed è Gallo ad aver battezzato l’indagine. Intercettato dai carabinieri del Ros spiega: “Tra la stazione appaltante e chi fa i lavori deve crearsi l’amalgama, sennò non si va avanti”.

L’Italia rossa tra strade deserte e controlli

Città semivuote, posti di controllo delle forze dell’ordine, poca gente per le strade, serrande dei negozi chiusi, nelle case impazzano Dad e smart working. Il primo giorno dell’Italia bicolore (Sardegna bianca a parte) sembra un flashback del lockdown di un anno fa. Mentre alcune Regioni hanno optato per misure ancora più restrittive di quelle nazionali, spinte dalla crescita dei contagi, con un tasso di positività che ieri è salito all’8,5%.

L’indicazione del Viminale ai prefetti è quella di un monitoraggio mirato verso le aree più a rischio assembramento in queste settimane di stretta che accompagnerà il Paese almeno fino al giorno di Pasquetta, secondo quanto deciso dal decreto legge firmato dal premier Mario Draghi. Le regioni rosse sono Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Molise, provincia di Trento, Piemonte, Puglia e Veneto. Circa 48 milioni di persone.

In Campania un’ordinanza firmata dal governatore Vincenzo De Luca, ha vietato a partire da giovedì e fino al 5 aprile gli spostamenti verso le seconde case, permessi invece dalla normativa nazionale anche in zona rossa, “salvo che per comprovati motivi di necessità o urgenza e comunque per il tempo strettamente indispensabile”. Disposto anche il limite del 50% a bordo dei mezzi pubblici. In Sicilia, regione arancione, il governatore Nello Musumeci ha istituito quattro nuove zone rosse da domani fino al 30 marzo: sono i comuni di Caltanissetta, Palma di Montechiaro (Ag), Caltavuturo (Pa) e Scicli (Ragusa): la causa è il repentino aumento dei contagi registrati negli ultimi giorni. La Basilicata passerà oggi dal rosso all’arancione, ma il governatore Vito Bardi ha ordinato la Dad per tutte le scuole fino al 24 marzo. Aperti solo gli asili nido. E 4 comuni (Francavilla in Sinni, Latronico, Senise e Montescaglioso) sono da oggi in zona rossa fino al 21 marzo. Invidiata dal resto del Paese, la “bianca” Sardegna vuole difendere il suo status di isola felice dall’assalto alle seconde case. L’allarme lo ha lanciato Roberto Ragnadda, sindaco di Arzachena, in Costa Smeralda. Ci sono, ha spiegato, oltre duemila case sparse nel territorio comunale e “in questo momento delicato la rete dei controlli agli ingressi dai maggiori scali dell’isola deve essere infallibile, perché il rischio è altissimo”.

In controtendenza la Provincia di Trento che, in zona rossa, ha deciso di lasciare aperti nidi e scuole materne per i figli degli operatori sanitari in servizio in strutture pubbliche e private e nelle Rsa.

Ema: vaccini ok per varianti. Uno studio però è ignorato

Ieri in commissione sanità al Parlamento europeo, Marco Cavaleri, responsabile vaccini dell’Agenzia europea del farmaco (Ema),ha spiegato come secondo gli studi che via via vengono pubblicati, i vaccini fin qui approvati (e anche Novovax, non ancora approvato) sarebbero tutti efficaci contro le varianti emergenti del SarsCov2, tranne che nel caso del vaccino di Astrazeneca. Secondo uno studio su 2 mila volontari, infatti, quest’ultimo non proteggerebbe contro la variante sudafricana. Riguardo i vaccini a Rna messaggero di Pfizer e Moderna, Cavaleri cita i dati da poco pubblicati su New England Medical Journal, che indicano una risposta anticorpale ottima anche contro la variante inglese. Meno (ridotta di 6 volte) contro quella sudafricana, ma sempre efficace.

Cavaleri non cita però uno studio apparso due giorni fa sulla prestigiosa rivista Cell, secondo cui Pfizer e Moderna possono essere fino a 40 volte meno efficaci contro la sudafricana, e fino a 6 contro quella brasiliana. Si riscontra “una neutralizzazione significativamente diminuita anche in individui completamente vaccinati” si legge.

Lo studio non si limita alle varianti, ma mette in guardia su aspetti più generali di cui tener conto per l’immediato futuro: “Stanno emergendo varianti che a vari livelli riescono a sfuggire alla protezione dei vaccini” e che “un numero relativamente piccolo di mutazioni può generare una fuga dalla risposta anticorpale indotta da un vaccino”. “Secondo Cell solo una parte degli anticorpi riesce a bloccare le varianti brasiliana e sudafricana – spiega Duccio Cavalieri, professore di Genetica evolutiva all’Università di Firenze – Il che non significa che questi due vaccini non funzionino per niente contro le due varianti in questione, ma che la frazione di anticorpi in grado di neutralizzarle, specie nel caso di quella sudafricana, è molto più bassa del 100%”.

Cosa impedisce di risolvere il problema? “L’aggancio tra la ricerca pubblica e l’industria, che dovrebbero agire insieme, e non separate come finora” spiega. Per ridisegnare i vaccini in tempo bisogna anticipare l’evoluzione del virus, “potenziando il sequenziamento per scoprire in tempo nuove mutazioni e agganciare le informazioni al lavoro dell’industria che deve riprogrammare i vaccini”.

Per ridisegnarli, l’industria ha bisogno dei dati che vengono dalla ricerca pubblica, come lo studio di Cell. O l’enorme lavoro dei consorzi pubblici per il sequenziamento necessario per scoprire le nuove varianti (un consorzio che in Italia, nonostante gli annunci, ancora non c’è). “Tutti i dati di cui ha bisogno Big Pharma per ridisegnare velocemente i vaccini vengono dalla ricerca pubblica” dice Cavalieri. “Questo impone di discutere sulla proprietà dei brevetti dei futuri vaccini contro le varianti. È evidente che non può essere solo di Big Pharma.”

Hanno tolto le sanzioni sui cibi adulterati

Dal 26 marzo sarà possibile preparare e distribuire per il consumo alimenti in cattivo stato di conservazione, insudiciati o invasi da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocivi, con additivi chimici non autorizzati, e con residui di pesticidi tossici per l’uomo; così come scomparirà il divieto di importare alimenti non conformi alle nostre leggi.

Verranno abrogate cioè tutte le disposizioni della legge alimenti del 1962 che fino a oggi tutelavano, con sanzioni penali (arresto e ammenda), con la chiusura dello stabilimento per frodi tossiche e con la revoca della licenza o dell’autorizzazione per tutti gli altri casi, la nostra salute, in via preventiva, al fine di “assicurare una protezione immediata all’interesse del consumatore a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura” (Cassazione n. 19686/2018).

Lo ha disposto, zitto zitto, il governo con decreto legislativo 2 febbraio 2021 n. 27, appena pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’11 marzo, il quale avrebbe, invece, dovuto limitarsi, secondo la legge delega, a dare esecuzione ad alcune disposizioni regolamentari della Ue che si occupano solo di disciplinare i controlli ufficiali lungo la filiera agroalimentare e non hanno niente a che vedere con le disposizioni abrogate.

Come si sia arrivati non è chiaro. Secondo un tweet della senatrice Loredana De Petris si tratterebbe di un’aggiunta, da eliminare al più presto, voluta dalla Conferenza Stato-Regioni. Di certo, comunque, essa non era contenuta nella bozza di decreto trasmesso dal governo Conte al Parlamento per il parere prima dell’approvazione definitiva. Probabilmente non ne sapeva niente neppure il nuovo ministro per le Politiche agricole, alimentari e forestali, Stefano Patuanelli, il quale, due giorni prima della pubblicazione del decreto, il 9 marzo, illustrando alla commissione Agricoltura del Senato, le linee programmatiche del governo Draghi, si è impegnato, tra l’altro, per “la difesa delle produzioni agroalimentari, la tutela della qualità e della salubrità degli alimenti e il contrasto alle pratiche sleali” nonché a intensificare i controlli antifrode concludendo che “per migliorare l’attività di contrasto (…) vi è la necessità di una revisione del quadro di regole sulle sanzioni in modo da renderle più efficaci, maggiormente proporzionate agli illeciti nonché più organiche a livello settoriale. Infatti, occorre riformare il quadro penale dei reati agroalimentari, oggi fermo alle norme del codice del 1930 ed alla legge sull’igiene degli alimenti del 1962”. Auspicando, quindi, con chiarezza, una sollecita approvazione della proposta Caselli per una incisiva e moderna riforma complessiva del settore agroalimentare.

Ci sarà tempo per capire meglio che cosa è successo e chi è responsabile di questa abrogazione. Ma intanto appare indispensabile rimediare prima che il paese ne paghi le conseguenze. Lo si può fare con un decreto legge correttivo; da emanare, però, subito, prima che il 26 marzo, 15 giorni dopo la pubblicazione, il provvedimento di abrogazione diverrà operativo. Basterà scrivere che si è trattato di un eccesso da parte del governo, poiché non aveva ricevuto affatto questa delega da parte del Parlamento; e, quindi, con chiarissima violazione del dettato costituzionale.

Non bastava la pandemia…!

Concorsi “truccati”, robot e quei 13 candidati spariti

Cattedre pilotate, candidati spariti nel nulla e robot per operazioni chirurgiche annunciati da Regione Lombardia come una novità quando è da anni che vengono utilizzati. L’inchiesta sui concorsi universitari che vede coinvolti professori dell’Università di Firenze e dell’Ospedale Careggi, di cui il Fatto ha scritto nei giorni scorsi, è arrivata a Milano. Indagato principale è il professor Marco Carini, ordinario di urologia a Firenze. Sotto accusa concorsi per due posizioni di professore ordinario in Urologia, banditi entrambi dall’Università Statale di Milano. Indagati per corruzione al momento sono Stefano Centanni, professore ordinario in Statale, e Francesco Montorsi, ordinario dell’Università Vita e Salute e direttore del reparto di urologia all’Ospedale San Raffaele. Scrive la Procura di Firenze: “L’intento di Montorsi sarebbe stato quello di far rinunciare il vincitore determinando di fatto l’annullamento del concorso”. Intercettato, Carini spiega: “Chicco (Montorsi, ndr) andrà al San Paolo… Noi non possiamo perdere una cattedra… Ci saranno due cattedre a Milano”. L’accusa riguarda le anomalie che hanno caratterizzato le due procedure di nomina, che si sommano però ad alcune decisioni della Regione Lombardia per collocare robot chirurgici negli ospedali pubblici.

La vicenda parte nel luglio 2020, quando la Statale pubblica un primo bando per professore Ordinario in Urologia, su richiesta del dipartimento diretto dal professor Centanni e con fondi “speciali” a disposizione del rettore Elio Franzini. A fine ottobre, viene designata la commissione di concorso composta da tre membri. Il primo è Marco Carini che intercettato spiega: “La cosa si ritarda mentre si accelera quella del San Donato in maniera tale che si possano fare contemporaneamente”. Per questo, secondo i pm fiorentini, a Milano è stato “raggiunto un vero e proprio accordo corruttivo… tra Carini, Montorsi e Centanni per la spartizione dei posti di professore ordinario presso gli ospedali San Paolo e San Donato… Montorsi ha svolto il ruolo di corruttore accordandosi con Centanni”. E Montorsi “si è impegnato a far ritardare la domanda a coloro che l’avevano presentata” per il Policlinico S. Paolo. Il verbale della commissione è del 21 gennaio. Poi succede una cosa strana: 13 su 14 candidati si ritirano o non si presentano: “Le tensioni tra i due gruppi di urologi facenti capo a Montorsi e Carini – scrivono i pm – … sono state risolte con l’accordo che dovrebbe portare in cattedra Carmignani e altro professore che si identifica in Bernardo Maria Cesare Rocco”. Quest’ultimo il 16 febbraio è dichiarato vincitore. Per Luca Carmignani, primario di urologia al Policlinico San Donato, si apparecchia un altro bando per ordinario di Urologia, finanziato dal gruppo San Donato. Viene pubblicato il 26 gennaio 2021. La commissione, come prevede il regolamento interno, è la stessa del primo concorso. Degli accordi corruttivi, intanto, nessuno sembra accorgersi. Non il rettore Franzini, non il preside di Medicina Gian Vincenzo Zuccotti (pediatra della figlia di Matteo Salvini e autocandidato all’assessorato al Welfare di Regione Lombardia). Non il direttore generale dell’Ospedale San Paolo, Matteo Stocco. E neppure la professoressa Marilisa D’Amico, costituzionalista e prorettrice alla legalità, alla trasparenza e parità di diritti dell’Ateneo. Prima dell’inchiesta giudiziaria c’è un prologo tutto milanese. Un comunicato dell’Università Statale e dell’Ospedale San Paolo, pubblicato l’8 settembre 2020, comunica l’apertura della Scuola di Chirurgia robotica dell’Università Statale, con foto di gruppo: sorridenti, il rettore Franzini, il preside Zuccotti, il professor Centanni, il direttore Stocco e l’allora vicepresidente di Regione Lombardia nonché assessore alla Ricerca e all’Università, Fabrizio Sala. Eppure da anni la Statale ha la disponibilità di robot chirurgici in ben tre strutture convenzionate: Policlinico di Milano, Ieo e San Donato. Strano anche che il robot al San Paolo sia finanziato dall’assessorato alla Ricerca e non, come avviene normalmente, da quello del Welfare, allora diretto da Giulio Gallera. Anomalie sulle quali ora indaga la magistratura.

Il Consiglio di Stato sui diamanti in banca: “Multe a Unicredit e Bpm ridotte del 30%”

Arriva la sentenza del Consiglio di Stato per le sanzioni dell’Antitrust ai protagonisti dello scandalo dei diamanti venduti in banca, costati almeno due miliardi a decine di migliaia di risparmiatori e venduti a prezzi ben più elevati di quelli reali. L’11 marzo la sesta sezione dell’organo di appello della giustizia amministrativa ha stabilito che le multe inflitte nel 2017 a Unicredit e Banco Bpm per le pratiche commerciali scorrette sui diamanti vanno ridotte del 30% perché superiori a quelle inflitte ai due broker, Intermarket Diamond Business e Diamond Private Investment. Per il Consiglio di Stato le multe alle banche non possono essere superiori a quelle comminate alle società venditrici perché il loro ruolo “assume una valenza meno marcata rispetto a quello delle società di vendita, essendosi risolto nell’agevolare la vendita dei preziosi”. “Il contributo, illecito ma comunque secondario, della banca – si legge – non pare giustificare l’applicazione di una sanzione prossima al massimo e quasi doppia di quelle inflitte alla società di vendita, che è l’autrice principale dell’illecito”. Delle altre due banche multate, Intesa Sanpaolo non aveva presentato ricorso al Tar del Lazio e, dopo la decisione del Tar nel 2018, Mps non aveva fatto ricorso al Consiglio di Stato. I magistrati amministrativi hanno confermato le sanzioni dell’Antitrust a Idb (due milioni), dichiarata fallita nel 2019, e a Dpi (1 milione). Nell’autunno 2017 l’Autorità aveva sanzionato le pratiche commerciali scorrette per oltre 15 milioni, sanzionando per 4 milioni Unicredit e 3,35 Banco Bpm, per 2 Mps e 3 Intesa Sanpaolo. L’Antitrust accertò che i listini delle pietre erano presentati ai clienti come quotazioni, mentre invece erano slegati dai prezzi di mercato e fissati in autonomia dai due broker che li aumentavano progressivamente anno dopo anno per dare l’impressione di rendimenti in costante crescita. Secondo l’avvocato Luca Cesareo di Assoutenti, “per i risparmiatori è positivo il fatto che il Consiglio di Stato riafferma la corresponsabilità delle banche e smentisce che le banche erano mere segnalatrici dei clienti ai broker. I risparmiatori hanno dunque diritto al risarcimento dalle banche. È negativo invece il fatto che il Consiglio di Stato considera l’investimento in diamanti come una semplice compravendita di cose. Se le altre banche stanno già ripagando il 100% del denaro investito, ora anche Banco Bpm dovrà rivedere al rialzo i rimborsi ai clienti, sinora limitati a un massimo del 60%”, conclude Cesareo.

“Raggi demente”. E ora Minzolini va a processo

Augusto Minzolini sarà processato per diffamazione aggravata dopo aver definito “incapace”, “ignorante” e “demente” la sindaca di Roma, Virginia Raggi. L’ex direttore del Tg1 ed ex senatore di Forza Italia si è visto rigettare dal Tribunale di Roma la richiesta di archiviazione formulata dalla Procura, dopo la querela per diffamazione presentata dall’avvocato Alessandro Mancori (che si era opposto anche all’archiviazione). Il giudice ha così disposto l’imputazione coatta. Il post su Twitter del giornalista risale al 5 agosto 2017. In quell’occasione Minzolini scriveva: “Percorro strade dissestate di Roma e mi domando perché un’incapace, ignorante, demente abbia voluto fare il sindaco. È disonestà intellettuale”. Nel provvedimento, il giudice spiega che “in ordine al carattere diffamatorio delle espressioni utilizzate dall’indagato”, deve ritenersi “come le stesse non possano ritenersi automaticamente scriminate dalla loro pubblicazione sulla rete web” o comunque “dal preteso esercizio di un diritto di critica”.

Certosa di Trisulti, “Fuori i sovranisti di Steve Bannon”

Colpo di scena. Il Consiglio di Stato sfratta i sovranisti di Steve Bannon dall’Abazia di Trisulti. Ribaltando la sentenza del tar che l’anno scorso aveva invece confermato l’assegnazione dell’ex convento di Collepardo, in provincia di Frosinone, alla associazione ultra cattolica Dignitatis Humanae Institute (Dhi) per via dell’annullamento ritenuto tardivo della concessione deciso nel frattempo dal Ministero dei Beni culturali. Solo dopo la firma della convenzione si era infatti scoperto che l’associazione in questione era priva dei requisiti richiesti per la concessione degli spazi: ne erano seguite anche due ispezioni ordinate dal Mibact dopo le quali era stata contestata a Dhi anche la mancata manutenzione dell’abazia. Ma l’ordine di sfratto era stato bloccato dal tar. Il Consiglio di Stato ha invece stabilito la decadenza dal beneficio concesso all’associazione priva dei requisiti per accedervi e di cui per altro “non era possibile verificare quale fosse la reale attività assegnata”.